3. Esychia e il “ritorno in sé stessi”
Questa comprensione più interiorizzata di “esychia” É perfettamente espressa nella definizione classica dell'esicasta come la ritroviamo in S. Giovanni Climaco ( + ca. 649): “L'esicasta É uno che cerca di confinare il suo essere incorporeo nella sua casa corporea, per quanto ciò possa parere paradossale. L'esicasta, nel vero senso del termine, non É qualcuno che ha viaggiato all'esterno verso il deserto, qualcuno che si separa fisicamente dagli altri, chiudendo la porta della sua cella, ma uno che “ritorna in s‚ stesso” chiudendo la porta della sua mente. “Ritornò in sé” É detto del figliuol prodigo e questo É ciò che anche l'esicasta fa. Egli risponde alle parole di Cristo “Il Regno di Dio É dentro di voi” e cerca di “guardare il cuore con tutta l'attenzione” (Pr. 4,23).
Reinterpretando la nostra definizione originale dell'esicasta come di un solitario che vive nel deserto, possiamo dire che la solitudine É uno stato dell'anima, non un fatto di collocazione geografica, il deserto reale si trova dentro, nel cuore.
Il “ritorno in sé” É descritto con precisione da S. Basilio il Grande (+ 379) e da S. Isacco di Siria (VII sec.). “Quando la mente non É più dispersa nelle cose esterne”, scrive Basilio, “né sperduta nel mondo a causa dei sensi, allora essa ritorna in s‚, e per mezzo di s‚ stessa ascende al pensiero di Dio”.
“Siate in pace con la vostra anima” intima Isacco, “e allora cielo e terra saranno in pace con voi. Entrate prontamente nel tesoro che É dentro di voi, e così vedrete le cose che sono in cielo; perch‚ una sola É l'entrata che conduce ad entrambi. La scala che porta al Regno É nascosta nella vostra anima. Sfuggite il peccato, immergetevi in voi stessi, e nella vostra anima scoprirete la scala su cui ascendere”.
A questo punto sarà utile fare una breve pausa e distinguere con maggior precisione tra i significati interiore ed esteriore della parola “esychia”.
In un famoso detto di abba Arsenio si indicano tre livelli. Quando era ancora tutore dei figli dell'imperatore nel palazzo, Arsenio pregò Dio: “Mostrami come posso essere salvato”. E una voce rispose: “Arsenio, sfuggi dagli uomini e sarai salvato”. Egli si ritirò nel deserto e divenne un solitario; e poi pregò ancora, con le stesse parole. Questa volta la voce rispose: “Arsenio, sta' lontano, sta' in silenzio, sta' in quiete, perch‚ queste sono le radici della libertà del peccato”. Fuggire gli uomini, restare in silenzio, rimanere in quiete: tali sono i tre gradi dell'esychia. Il primo É spaziale, il “fuggire gli uomini”, esternamente, fisicamente. Il secondo É ancora esterno, il “rimanere in silenzio”, il desistere dal parlare. Nessuna di queste cose può trasformare un uomo in un reale esicasta; perch‚ anche se vive in una solitudine esteriore e tiene la bocca chiusa, può essere interiormente pieno di irrequietezza e agitazione. Per conseguire la vera quiete É necessario passare dal secondo livello al terzo, dall'esychia esterna a quella interiore, dalla mera privazione di parlare a quella che S. Ambrogio di Milano chiama “Negotiosum silentium”, il silenzio attivo e creativo.
S. Giovanni Climaco distingue gli stessi tre livelli: “Chiudi la porta della tua cella materialmente, la porta della lingua al parlare, e la porta interiore ai cattivi spiriti”. Questa distinzione tra i livelli di esychia, ha importanti implicazioni per i rapporti dell'esicasta con la società.
Uno può fuggire nel deserto visibilmente e geograficamente, e pure nel cuore rimanere ancora nel mezzo della città; inversamente un uomo può continuare a restare fisicamente nella città ed essere esicasta vero nel cuore.
Per un cristiano ciò che importa non É la posizione spaziale, ma il suo stato spirituale. Ô vero che alcuni scrittori dell'oriente cristiano, e in particolare S. Isacco di Siria, sono giunti molto vicino all'affermazione che non ci può essere esychia interiore senza solitudine esteriore. Ma questo non É certo opinione comune. Ci sono storie nei “Detti”, in cui laici, completamente impegnati in una vita di servizio attivo nel mondo, sono paragonati ad eremiti e solitari; un dottore d'Alessandria É considerato, per esempio, spiritualmente pari a S. Antonio il grande stesso. S. Gregorio il Sinaita rifiutò la tonsura ad un suo discepolo chiamato Isidoro, e lo rimandò da Monte Athos a Tessalonica, per essere di esempio e guida ad un gruppo di laici. Ben difficilmente Gregorio avrebbe potuto fare questo, se avesse considerato la vocazione di esicasta urbano come una contraddizione. S. Gregorio Palamas insiste, nella maniera più chiara, che il comando di S. Paolo “pregate incessantemente” si applica a tutti i cristiani senza eccezioni. A questo proposito si dovrebbe ricordare che, quando scrittori ascetici greci, come Evagrio o Massimo il confessore, usano i termini “vita attiva” e “vita contemplativa” per essi “vita attiva” non significa la vita di servizio diretto al mondo, come la predicazione, l'insegnamento, il lavoro sociale ecc..., ma la battaglia interiore per sottomettere le passioni ed acquistare le virtù. Usando il termine in questa accezione, si può dire che molti eremiti e molti religiosi viventi in stretta clausura, sono ancora coinvolti nella “vita attiva”.
E così ci sono uomini e donne completamente impegnati nella vita di servizio al mondo che pure posseggono la preghiera del cuore; e di essi si può dire che vivono la “vita contemplativa”. S. Simeone il nuovo teologo ( + 1022) affermava che la pienezza della visione di Dio É possibile “nel mezzo delle città” come “nelle montagne e nelle celle”. Egli credeva che persone sposate, con lavori secolari e bambini, e gravati delle ansietà di condurre una grande famiglia, potessero nondimeno ascendere le vette della contemplazione; S. Pietro aveva obblighi familiari eppure il Signore lo chiamò a salire il Tabor e ad assistere alla gloria della trasfigurazione. Il criterio non sta nella situazione esterna, ma nella realtà interna. E così come É possibile vivere nella città ed essere esicasta, ci sono analogamente alcuni il cui dovere É di parlare sempre e che tuttavia sono interiormente in silenzio. Secondo le parole di abba Poen, “un uomo appare rimanere silenzioso e pure condanna gli altri in cuore: una tal persona sta parlando tutto il tempo. Un altro parla da mattina a sera eppure resta in silenzio; cioÉ, egli non dice nulla all'infuori di ciò che É utile agli altri”.
Ciò concorda esattamente con la posizione degli startsi come S. Serafino di Sarov e i padri spirituali di Optimo della Russia del XIX secolo: costretti dalla loro vocazione a ricevere un flusso interminabile di visitatori - dozzine e anche centinaia in un sol giorno - non perciò tralasciavano la loro esychia Interiore. Invero, era proprio a causa di questa esychia interiore che potevano agire da guida agli altri. Le parole che dicevano a ciascun visitatore erano cariche di potere, perch‚ erano parole che provenivano dal silenzio. In una delle sue risposte, Giovanni di Gaza fece una chiara distinzione tra silenzio interiore ed esteriore. Un fratello vivente in una comunità che trovava nei suoi doveri di lavoro come falegname una causa di disturbo e distrazione chiese, se non avesse dovuto divenire eremita e “praticare il silenzio di cui i padri parlano”. Giovanni non fu d'accordo “come i più” rispose “tu non capisci cosa s'intende col silenzio di cui parlano i padri. Silenzio non consiste nel tenere la bocca chiusa. Un uomo può dire diecimila parole utili, e ciò vale come silenzio; un altro dice una sola parola non necessaria, ed É rompere il comandamento del Signore: Nel giorno del giudizio renderete conto di ogni parola oziosa che esce dalla vostra bocca”.
Nessun commento:
Posta un commento