San Francesco nacque un Umbria ad Assisi nell'ottobre 1182, primo figlio del commerciante di stoffe Pietro di Bernardone e di Giovanna Pica. Visse fino a 25 anni un'esistenza alquanto apparentemente superficiale. E’ probabile che verso i 18 anni abbia partecipato a varie scorrerie militari contro i castelli feudali. Nel 1202 nella guerra tra Assisi e Perugia fu fatto prigioniero, e dopo un anno circa di una dura prigionia però mai disperata per il figlio di Pietro B., grazie al riscatto pagato dal padre, potè ritornare a casa ammalato.
Guarito dalla malattia ma affamato di gloria, si unì ad un nuovo esercito che si recava in Puglia; ma nella vicina Spoleto fu immobilizzato da un'altro -diciamo così- tipo di malattia: da un'idea che divenne ricerca, e così dovette rientrare di nuovo in Assisi dove, una sera, sentì nascere nel cuore una grande compassione per i poveri ed i lebbrosi.
Si recò in pellegrinaggio a Roma e sotto il porticato di S. Pietro cambiò per un momento il suo ricco abbigliamento con quello logoro di un mendicante.
Ritornato ad Assisi si recava spesso in grotte e luoghi solitari, e durante una di quelle escursioni entrò nella chiesetta diroccata di san Damiano e pregando dinanzi al Crocifisso sentì dire: ”Francesco, va' e ripara la mia Chiesa che, come vedi, va in rovina”. Allora Francesco offrì al rettore della Chiesa del denaro per riparare la piccola chiesa. Ma questi non accettò, allora Francesco rimase presso la Chiesetta di san Damiano per ripararla personalmente.
Intanto il papà Pietro di Bernardone non riuscendo a convincere il figlio ad abbandonare San Damiano e tornare a vivere una vita "normale", lo citò/denunziò al Vescovo Guido, per obbligarlo a rinunciare a tutti i suoi averi. Però dinanzi al Vescovo e cittadini, Francesco si tolse tutte le vesti colorate e le restituì al padre con tutti i soldi che aveva dicendo : "Volentieri, carissimo: ti lascio tutto, borsa e vestiti. Oramai potrò avanzare nudo verso il Signore dicendo con tutta sincerità non più: padre mio Pietro Bernardone, ma Padre Nostro che sei nei cieli". Al colmo dell'emozione il Vescovo lo accolse nelle braccia tra le pieghe del suo mantello. Parecchi singhiozzavano.
Rivestito di un rozzo mantello, scarto dell’ortolano del vescovo, Francesco visse la sua regola impostata sulla fraternità universale che si estendeva a tutta la natura, improntata sulla povertà assoluta. Nella mente del “poverello di Assisi” la povertà e la fraternità erano la base affinché tutti coloro che la seguivano dovevano essere e sentirsi dei “minori” cioè religiosi che avevano scelto di mettersi al servizio dei più poveri vedendo in essi Gesù e così collocarsi all’ultimo grado della scala sociale, vivendo in questo mondo come pellegrini e forestieri. Nacquero così i Frati minori detti da Francesco Francescani che percorsero le contrade d’Italia e non solo, infiammando le popolazioni d’amore verso il Cristo, povero, umile e casto.
Le scritti francescani più volte accennano alla devozione di S. Francesco verso gli spiriti angelici. Il suo primo biografo, Fra Tommaso da Celano scrive al riguardo: "Venerava amorosamente gli angeli, i quali combattono con noi, e con noi camminano fra le ombre di morte.
Diceva che essi devono essere venerati dovunque come compagni e non meno invocati come custodi. Insegnava non doversi offendere il loro sguardo e non osare davanti ad essi fare ciò che non si farebbe davanti agli uomini. Poiché nel coro si canta in cospetto degli angeli, voleva che quanti potevano, andassero in coro, e vi salmeggiassero devotamente”.
Nella prima biografia del Santo viene sottolineato il ricordo di S. Maria degli Angeli, la Porziuncola, luogo prediletto di S. Francesco, perché “luogo favorito di grazie più abbondanti e da frequenti visite di spiriti angelici” (1 Celano 106: 503; Spec. 83: 786).
In due anni di vita eremitica Francesco terminò di restaurare ben tre chiese, ma amò in modo speciale la Chiesetta/cappella benedettina di S. Maria degli Angeli, che egli scelse per residenza “a causa della sua venerazione per gli Angeli e del suo speciale amore per la Madre di Cristo”. (Leg. M. 3,8: 1048).
Le fonti francescane definiscono questo luogo “colmo di una grazia più copiosa” perché in esso gli spiriti celesti “irradiano la loro luce” e fanno “risuonare degli inni” durante le notti (Spec. 84: 1782).
Un brano della Regola non bollata, secondo il modello dell’invocazione orante ricorda i tre arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele insieme ai cori angelici: Serafini, Cherubini, Troni, Dominazioni, Principati, e Potestà, Virtù, Angeli e Arcangeli (Rnb 23:67).
Il ricordo degli angeli viene riportato nel “Sacrum Commencuim” sulle labbra della Povertà quando nel suo fervore ai gruppi di frati sotto la guida di Francesco ricorda la promessa riservata ai vergini, di essere un giorno “come angeli di Dio in cielo” e manifesta l’esultanza degli spiriti beati per i minori a cui si deve il rifiorire della purezza in tanti che li seguiranno a restauro delle “rovine della città celeste” (Scom 68:2027).
In questo racconto medioevale vi è l’idea teologica dell’occupazione dei troni celesti, lasciati liberi dagli angeli iniqui o diavoli e riservati ai santi specialmente a quelli che sono vissuti in verginità come gli spiriti celesti.
Nelle biografie del Poverello è ricordata la visione di fra Pacifico che vede il fondatore dell’Ordine in estasi assiso su un trono “più splendido e glorioso” di tutti gli altri troni, mentre la voce soprannaturale dichiara che quel trono è stato riservato a S. Francesco per la sua umiltà, mentre era destinato all’angelo Lucifero che lo perse a causa dell'empietà, iniquità e orgoglio. Per questo S. Francesco venne chiamato dai suoi seguaci ed estimatori il “Serafico Padre”. ( 2 Cel. 122:707, Leg M 6, 6: 111; Leg P 23: 1570; Spec 60:1750).
Sempre nelle biografie francescane è riportato l’episodio del suono melodico di cetra, toccata da un angelo che provocò al Poverello una profonda serenità e gioia (2 Cel 126: 710; Leg P 24: 1571).
Una particolare devozione aveva il nostro mistico per l’arcangelo Michele; il Celano così scrive al riguardo: ”Il beato Michele diceva spesso doversi onorare ancora più, giacché ha l’ufficio di condurre le anime a Dio. Perciò in onore di S. Michele, tra l’Assunzione e la sua festa, digiunava con gran devozione per quaranta giorni. Egli diceva:”Ognuno dovrebbe offrire a Dio una lode o altro special tributo in on ore di si gran Principe”.
A tal riguardo nell’antifona dell’Ufficio della Passione viene esplicitamente menzionato S. Michele Arcangelo "con tutte le virtù dei cieli” (Uff.: 281). Per questa sua particolare devozione a S. Michele, San Francesco si recò in pellegrinaggio sul Monte Gargano alla grotta dell’Arcangelo forse nell’anno 1216 o nel 1222 oppure in entrambi gli anni! Secondo la biografia Francesco essendo molto umile non volle entrare nella sacra grotta perché si sentiva indegno e si fermò a pregare vicino all’ingresso. Prima di andar via, volle incidere sulla parete rocciosa un suo autografo come era di norma fare allora da parte dei pellegrini. Sulla roccia del santuario angelico non scrisse il suo nome, ma il segno del Tau, segno che rappresenta la croce e che il Santo poneva in calce alle sue lettere.
Addirittura, una volta, guarì un uomo che aveva perduto l’uso della gamba, toccandogliela con un bastoncino a forma di Tau. Per Francesco questa lettera dell’alfabeto greco era un segno della salvezza secondo la celebre visione del profeta Ezechiele (9, 3-7) nella quale uno spirito celeste sotto forma di uno scriba vestito di lino risparmia dalla morte soltanto coloro che con essa erano segnati. Indubbiamente la grotta di S. Michele costituisce un luogo sacro per eccellenza dove i fedeli possono avere il perdono di tutti i loro peccati.
Oggi nella Basilica dell’Arcangelo l’antica pietra sulla quale Francesco lasciò il suo segno non c’è più. Nel saccheggio del 1799 i soldati francesi l’asportarono con l’antica porticina d’argento che aveva in rilievo l’effige del Santo, al posto della pietra originaria ve ne è un’altra con la stessa croce come segno di salvezza.
Francesco morì la sera del 3 ottobre 1226, due anni dopo aver ricevuto il grande miracolo delle stimmate proprio quando pregava e digiunava in onore di S. Michele. E’ san Bonaventura che ci parla di tale quaresima in onore del principe delle schiere celesti: ”Due anni prima che rendesse lo spirito a Dio, dopo molte fatiche, la Provvidenza trasse in disparte il beato Francesco e lo condusse sul monte eccelso, chiamato la Verna.
Qui aveva iniziato a digiunare la quaresima in onore di S. Michele Arcangelo”.
Riguardo poi a come sia avvenuta questa straordinaria stimmatizzazione ci rifacciamo sempre a S. Bonaventura che così la descrive: ”Nel settembre del 1224, in un luogo del monte Alvernia, stando Francesco in orazione, si sollevò in Dio coll’ardore serafico dei suoi desideri e si trasformò con gli affetti di una tenera compassione nel Signore crocifisso. Stando così, ei vide un Serafino alato con sei ali risplendenti in forma di crocifisso, che discendendo dalla sublimità del cielo, veniva con rapidissimo volo ad una certa altezza dell’aria a lui vicino.
Comparve allora tra le sue ali, la figura di un uomo crocifisso che aveva le mani e i piedi distesi e confitti in croce. Due ali aveva sopra la testa, due erano spiegate al volo e due coprivano tutto il corpo. Alla vista di un tale oggetto restò Francesco sorpreso da straordinario stupore, e tutta la sua anima era penetrata da gaudio, misto a tristezza e dolore.
Un eccessivo piacere gli recava la presenza di Gesù crocifisso, che a lui si faceva vedere sotto la figura di un Serafino, in maniera sì prodigiosa e familiare. Il doloroso spettacolo però della crocifissione gli riempiva il cuore di compassione e si sentiva l’anima coll’infermità dei patimenti comparsa sotto la figura di un Serafino e non potendo comprendere il mistero di quella visione, il Signore gli dichiarò internamente, che la visione presentata ai suoi occhi gli faceva conoscere, che dovevasi trasformare in una perfetta somiglianza di Gesù crocifisso, non per mezzo di martirio della carne, ma per via d’un incendio amoroso dell’anima. [Insomma un super-martire che soffrì il martirio del cuore per tutta una vita. Ecco il motivo della gloria del più gran Santo, il Serafico per eccellenza, il Santo dei Santi.]
Dopo un secreto colloquio disparve la visione lasciando nell’anima di san Francesco un ardore serafico, e nel suo corpo impressa la figura del Crocifisso.
Incominciarono subito a comparire nelle mani e nei piedi i segni dei chiodi, tali appunto, quali veduti aveva nell’immagine dell’Uomo Crocifisso. Le sue mani e i suoi piedi si videro traforati nel mezzo dai chiodi, le cui teste rotonde e nere apparivano nella palma delle mani e nella parte superiore dei piedi. Le punte alquanto sortivano dalla parte opposta, o rivoltavano e sorpassavano il resto della carne, d’onde uscivano. Aveva ancora nel lato destro una piaga simile alla ferita d’una lancia, la quale sovente gettava sangue, che gli bagnava la tonaca.
La quale stimmatizzazione combattuta acremente, fu ritenuta ed approvata dalla Chiesa, talchè Benedetto XI, nel 1304, isituì la festa della medesima, indi estesa a tutta quanta la Chiesa; festa che Papa Leone XIII indulgenziava generosamente pei Terziari Francescani coll’assoluzione e benedizione generale; e per tutti i Cristiani colla devozione delle Cinque Domeniche.
Or qui non faremo questione chi fosse quel Serafino. Molti poggiati su l’opinione probabile di San Bonaventura espressa nel commento dell’Apocalissi 'fuisse autem Seraphis B. Michaelem Archangelum probabile admodum est', opinano che fosse S. Michele. [Leggendo Maria Valtorta si abbraccia come la certezza che fosse lo stesso Gesù]
Riguardo poi alla notizia della morte essa fu portata dallo stesso Francesco al Vescovo di Assisi che proprio in quel tempo si era recato sul Gargano in pellegrinaggio alla grotta di S. Michele. Al ritorno mentre il Vescovo sostava a Benevento, in sogno Francesco gli apparve nella notte della sua morte e gli disse:”Ecco, Padre, lascio il mondo e vado a Cristo. Al mattino alzatosi il Vescovo narrò ai suoi compagni la visione, e chiamato il notaio fece annotare il giorno dell’apparizione. Divenuto molto triste piangeva, per aver perduto il Padre eccellente. Giunto nella sua diocesi, raccontò l’accaduto e rese al Signore inesauribili grazie per i suoi doni”.
Don Marcello Stanzione
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