sabato 31 maggio 2014

Magnificat. Festa della Visitazione: " Fate anche voi come faceva la Madonna; fate tutte le cose con perfezione esteriore ed interiore, perché questo vale più che far miracoli, più che le austerità corporali! ".


Festa della Visitazione

Oggi la Chiesa celebra la festa della Visitazione di Maria SS. a santa Elisabetta.. Francesco di Sales, pur facendo rinnovare i voti delle sue Suore nella festa della Presentazione, volle che la Congregazione fosse intitolata a questo Mistero. Perché? Il primo motivo è che, da principio, egli intendeva fondare una Congregazione di Suore attive, dedite alla visita e alla cura dei bisognosi; quindi diede loro per Protettrice la Madonna nella sua visita a S. Elisabetta dove Ella esercitò in particolare l'umiltà e la carità. Inoltre S. Francesco di Sales, anche quando la Congregazione fu di clausura, con il conservarle questo titolo, volle significare che le Suore della Visitazione dovevano imitare la Madonna nel condurre una vita ordinaria, cioè senza asprezze di penitenze esteriori, ma impreziosita da tutte le virtù interiori.

In quei tre mesi, infatti, la Madonna condusse una vita esternamente ordinaria, ma non in modo ordinario. Faceva ciò che fanno le buone donne quando vanno ad assistere le vicine in simili circostanze: tutti i servizi di casa. S. Francesco di Sales volle dunque dire alle sue Suore: " Fate anche voi come faceva la Madonna; fate tutte le cose con perfezione esteriore ed interiore, perché questo vale più che far miracoli, più che le austerità corporali! ".

Anche voi dovete santificarvi per questa via: far tutte le cose bene ed unicamente per amor di Dio. Se uno stesse tre mesi in Comunità facendo così, si farebbe da tutti amare e avanzerebbe nella perfezione assai più che facendo cose straordinarie. È tanto difficile che noi facciamo bene tutte le cose, con retta intenzione!... No, non è il far molto che importa, ma il far tutto bene. Penso che, quando sarete in Missione dovrete aver pena di non aver fatto bene tutte le cose.

Secondo il Ven. Da Ponte (991) questo Mistero ci dà ancora due importanti insegnamenti. Il primo è che Maria SS. è il canale di tutte le grazie. Iddio avrebbe potuto santificare direttamente Giovanni Battista; no, volle farlo per mezzo di Maria. Fu infatti al suono della voce di Lei, che salutava S. Elisabetta, che Giovanni restò santificato. Vedete la potenza di Maria SS.!

Quando dunque avete qualche tentazione, ricorrete alla Madonna e ditele: "O Maria, voi avete fatto un lungo viaggio per recarvi a purificare Giovanni Battista dal peccato originale, veni te pure da me, in mio aiuto!". Ricorriamo a Lei con fiducia, tanto più che queste sono proprio le grazie ch'Ella desidera maggiormente di fare.

Il secondo ammaestramento è sul come noi, ad imitazione di Maria SS., dobbiamo combattere le tentazioni di vanagloria. Proclamata da Elisabetta " la benedetta fra le donne ", Ella non negò i doni ricevuti, le grandi cose che Iddio aveva operato in Lei, ma di tutto diede onore e gloria a Dio.

Ciò Ella fece col canto del Magnificat, sul quale voglio pure fermare brevemente la vostra attenzione. Tutti i giorni lo si recita, sovente lo si canta, ma forse non lo si considera abbastanza. 
Il P. Didon scrive: " Il Magnificat sorpassa ogni umana capacità...; è il più splendido grido di letizia che sia uscito da cuore umano. Maria SS. non pensa che alla propria bassezza e non si esalta che in Dio. Predice la sua gloria, ma in ciò non vede che il trionfo di Dio " (992). 
Adolfo Cellini (Scuola Cattolica, 1 nov. 1916) scrive: " Il concetto principale dell'Inno consiste nella sovranità assoluta di Dio e nella nullità ed essenziale dipendenza di ogni essere creato da Lui ". Ciò è il fondamento di tutta la morale del Vangelo: Dio è tutto, l'uomo niente; ma questo niente può divenire qualcosa inabissandosi nella sua nullità, bramoso unicamente e sommamente di glorificare Dio in tutto e sempre.

Il Magnificat consta di dieci versetti. Cornelio A Lapide (993) divide l'Inno in tre parti. 
La prima va dal v. 46 al 49: in essi Maria esalta i benefici conferiti da Dio a Lei sola, specialmente la Divina Maternità: L'anima mia magnifica il Signore... Perché?... Perché ha rivolto il suo sguardo sulla sua ancella... Il Signore guardò alla bassezza, alla nullità della sua serva, la esaltò, fece cose meravigliose in lei, sì che tutte le generazioni, piene di ammirazione, la grideranno beata!

La seconda parte va dal v. 50 al 53. In essi Maria esalta i benefici elargiti da Dio agli uomini lungo tutti i secoli: Et misericordia eius a progenie in progenies...; prima al popolo eletto, poi ai gentili e a tutti quelli che temono il Signore. Il Signore fece opere potenti col suo braccio. E quali opere? Quella di umiliare i superbi e di esaltare gli umili; quella di saziare tutti coloro che sono affamati di giustizia e di verità. Esurientes implevit bonis. Qui c'è il passato per il presente e per il futuro; è una forma ebraica. Vuol dire: il Signore è sempre pronto a ricolmare di beni quelli che lo desiderano.

La terza parte consta degli ultimi due versetti (54lss). In essi Maria torna al beneficio sovrano della Redenzione incominciata in se stessa con il concepimento di Gesù, ed estesa a tutte le generazioni future, conforme a ciò che il Signore aveva promesso ad Abramo: che in lui tutte le generazioni sarebbero state benedette, perché dalla sua progenie sarebbe nato il Redentore.


Procuriamo di meditare sovente questa magnifica preghiera, che serve ad eccitare in noi la divozione alla Madonna; recitare o cantare il Magnificat con lo spirito e con l'entusiasmo con cui Ella lo disse, rivestendoci dei suoi stessi sentimenti. Sono parole della S. Scrittura; queste poi sono del Signore, ispirate direttamente alla Madonna. Ogni parola si può dire un sacramentale: luce, verità e vita!

Beato Giuseppe Allamano: La Vita Spirituale


AVE MARIA PURISSIMA!

Leggiamo la Bibbia insieme a sant'Antonio

9. Venne dunque il Figlio per farsi una veste con la lana della pecorella, cioè dalla Vergine, chiamata pecorella per la sua innocenza. È lei la nostra Rachele, nome che significa appunto “pecora”, che il vero Giacobbe trovò presso il pozzo dell’umiltà, come è scritto nella Genesi (cf. Gn 29,10). La pecora può raffigurare anche Adamo, di cui è detto: “Andai errando come pecora smarrita” (Sal 118,176).

Leggiamo nella Storia Naturale che se si confeziona una veste con la lana di una pecora sbranata dal lupo, in quella veste si sviluppano i vermi, le tarme. Così dalla lana della nostra carne, che abbiamo preso dalla pecora, cioè dal nostro progenitore, sbranato da quel lupo che è il diavolo, scaturiscono i vermi degli istinti naturali, ed essa va in putrefazione. 


Ma Cristo, per purificarci dalla contaminazione della carne e dell’anima, assunse una lana incontaminata, come l’aveva la pecora (Adamo) prima di essere sbranata dal lupo. Del Cristo dice infatti Isaia: “Egli mangerà panna e miele” (Is 7,15). Osserva che la pecora produce due alimenti: la panna e il formaggio. La panna è dolce e morbida, il formaggio è asciutto e solido. La panna raffigura l’innocenza della natura, come fu prima del peccato; il formaggio sta a significare la colpe­volezza e le privazioni che subì dopo il peccato. “Maledet­ta – è detto – la terra, cioè la carne, per la tua opera, cioè a causa del tuo peccato; spine e cardi, cioè dolori grandi e piccoli, produrrà per te (cf. Gn 3,17-18). Cristo invece non mangiò formaggio ma panna, perché assunse la nostra natura come l’aveva Adamo prima del peccato, non come l’ebbe dopo il peccato: assunse infatti non tanto l’involucro, quanto la sostanza dell’involucro, non il peccato, ma la pena del peccato.


Cristo fu anche l’ape che si ferma sul fiore, cioè sulla beata Vergine, a Nazaret, nome che significa “fiore”. Di quest’ape è detto nell’Ecclesiastico: “L’ape è piccola tra gli esseri alati, ma il suo prodotto ha il primato tra i dolci sapori” (Eccli 11,3)
Infatti Cristo nella sua prima venuta ebbe il miele della misericordia; invece nella seconda colpirà con il pungiglione della giustizia. “Misericordia e giustizia ti voglio cantare, o Signore!” (Sal 100,1), esclama il profeta.

Adesso vedi chiaramente in quale modo Cristo discese con delicatezza, come la pioggia sull’erba.

venerdì 30 maggio 2014

Ascoltiamo Sant'Antonio che ci parla dell'ASCENSIONE DEL SIGNORE


1. In quel tempo: “Mentre gli Undici stavano a mensa, apparve loro Gesù” (Mc 16,14). In questo brano del vangelo si devono considerare tre fatti:
- l’ultima apparizione di Cristo,
- l’invio degli apostoli alla predicazione,
- l’ascensione di Cristo al cielo.

I. l’ultima apparizione di cristo

2. “Mentre gli Undici stavano a mensa”. Nota che Gesù, dopo la sua risurrezione, apparve ai suoi discepoli dieci volte. Apparve cinque volte nel giorno stesso della risurrezione, come vedremo nel sermone sulla Risurrezione del Signore: “Fiorirà il mandorlo”. La sesta volta apparve a Tommaso, insieme agli altri discepoli, otto giorni dopo essere risorto. La settima volta al mare di Tiberiade. L’ottava volta sul monte, al quale li aveva mandati. La nona e la decima volta in questo giorno dell’Ascensione.
In questo giorno andò da loro a Gerusalemme e disse: “Restate in città, finché non sarete rivestiti della potenza dall’alto” (Lc 24,49). E poiché mangiò con loro, se ne deduce che era passata l’ora sesta, cioè il mezzogiorno: e questa fu la nona apparizione.
Poi li condusse fuori, al monte degli Ulivi, verso Betania. Alzate le mani, li benedisse. E sotto i loro occhi si innalzò verso il cielo, avvolto in una nube splendente che sembrava sollevarlo: e questa fu la decima apparizione.
“Mentre dunque gli undici discepoli erano a mensa, apparve loro Gesù”. In lat. è detto recumbentibus, cioè mentre erano distesi (adagiati) a mensa, secondo l’uso del tempo. Osserva che Gesù appare solo a chi è disteso nella quiete, nella pace e nell’umil­tà. Dice infatti Isaia: “A chi volgerò il mio sguardo, se non al poverello, al contrito di spirito e a colui che teme le mie parole?” (Is 66,2). Nell’acqua torbida e agitata non vede il suo volto chi vi si specchia. Se vuoi che appaia in te il volto di Cristo che ti guarda, distenditi e riposa. “Fermatevi in città – disse – fino a che non siate rivesti­ti della potenza dall’alto”. Restare in città significa raccogliersi nella propria coscienza e tenersi lontano dal chiasso esteriore. Si legge infatti nel secondo libro dei Re che Davide si stabilì nella sua casa di cedro e il Signore gli diede tregua da tutti i suoi nemici all’intorno (cf. 2Re 7,1-2).
Si legge nella Storia Naturale che il cedro è un albero molto alto, di gradevole profumo e di vita lunga; con il suo profumo mette in fuga i serpenti e ha la particolarità di fare frutto di continuo, in inverno e in estate.
La casa di cedro è la coscienza del giusto: è alta per l’amore di Dio, di gradevole profumo per la sua onesta condotta, ha vita lunga per la perseveranza; con il profumo della sua onestà o della sua preghiera devota mette in fuga i serpenti, vale a dire gli impulsi carnali o i demoni, e sia nell’inverno dell’av­ver­sità che nell’estate della prosperità produce frutti di eterna salvezza. Chi dimora in tale casa sta al sicuro da tutti i nemici all’intorno, cioè dal diavolo, dal mondo e dalla carne, e gode della pace, perché si riveste di potenza dall’alto, e non dal basso, cioè dal mondo. Chi si riveste della potenza del mondo, viene facilmente sconfitto nella guerra; chi invece si riveste della potenza dall’alto, cioè della potenza dello Spirito Santo, distrugge i nemici e compie le opere di virtù.

3. “Li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato” (Mc 16,14). O infelici coloro che non credono a Pietro, al quale Cristo apparve, e che lo vide risuscitato dai morti!
Dice Pietro: “Avete ucciso l’autore della vita, che Dio ha risuscitato dai morti, e di questo noi siamo testimoni” (At 3,15), “noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui, dopo che fu risuscitato da morte” (At 10,41): e in questo è prefigurata la reale risurrezione della carne. Non credono che Cristo sia risuscitato dai morti coloro che negano la finale risurrezione dei corpi. Perciò leggia­mo nella prima lettera ai Corinzi: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dai morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscita­to; e se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,12-14). Nella finale risurrezione dei corpi, Dio ripudierà e condannerà gli increduli e i duri di cuore, i quali ora non credono che essa avverrà.

II. l’invio degli apostoli alla predicazione

4. Gli apostoli vengono mandati a predicare dove è detto: “Andate in tutto il mondo” (Mc 16,15). C’è un comando simile anche in Isaia: “Andate, veloci messaggeri, ad un popolo disperso e straziato, ad un popolo tremebondo come nessun altro, ad un popolo in attesa e oppresso” (Is 18,2).
Il genere umano era stato disperso, scacciato dalla felicità del paradiso terrestre, era straziato dalla perse­cuzione diabolica, pieno di terrore per le pene dell’inferno minacciate all’anima, e oppresso nei riguardi del corpo per la prospettiva della corruzione: e tuttavia aspettava il Salvatore del mondo. A questo popolo il Salva­tore mandò i veloci messaggeri, cioè gli apostoli obbedien­ti, dicendo: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a tutte le creature” (Mc 16,15), cioè a tutto il genere umano, che ha qualcosa in comune con ogni creatura, con gli angeli, con gli animali, con le piante, con le pietre, con il fuoco e con l’acqua, con il caldo e con il freddo, con l’umido e con il secco, perché l’uomo è un microcosmo, cioè un piccolo mondo.
“Chi crederà”, ossia chi professerà la fede per se stesso o per mezzo di un altro, “e sarà battezzato”, cioè persevererà nella grazia ricevuta con il battesimo, “sarà salvo; chi invece non crederà, sarà condannato. E questi saranno i miracoli che accompagneranno coloro che credono: nel mio nome scacceranno i demoni”, ecc. (Mc 16,16-17).
In quel tempo avvenivano i miracoli a favore degli infedeli chiamati alla conversione; adesso invece, poiché la fede è adulta, il miracolo è cessato. Anche noi infatti, quando impiantiamo delle pianticelle, le innaffiamo fino a che mettono le radici in terra e s’irrobustiscono.

5. Senso morale. Il mondo è così chiamato perché è sempre in movimento (lat. mundus, motus). Ai suoi elementi non è concesso riposo. Il mondo ha quattro parti: l’orien­te, l’occidente, il meridione e il settentrione. Come il mondo consta di queste quattro parti, così anche l’uomo, che è un piccolo mondo, consta – a detta degli antichi – di quattro fluidi (indoli) commisti, in giusta proporzione, in un unico temperamento. Il misero uomo dall’inizio alla fine della sua vita è sempre in movimento, e mai riposa finché non arriva al suo “luogo”, cioè a Dio. Dice infatti Agostino: “Inquieto è il nostro cuore, o Signore, finché non riposerà in te”. “E nella pace è il suo luogo”(Sal 75,3). Il luogo dell’uomo è Dio: non ci sarà mai pace se non in lui, e quindi a lui si deve tornare.
I momenti principali della vita dell’uomo sono: l’oriente della nascita, l’occidente della morte, il meridione della prosperità e il settentrione delle avversità. In questo mondo dobbiamo andare: “Andate in tutto il mondo”, per meditare come eravate al momento della vostra nascita, come sarete al momento della morte; come siete quando vi sorride la prosperità e come vi comportate quando si abbatte su di voi l’avversità: osservate se quella vi esalta e questa vi deprime. Da questa quadruplice meditazione scaturisce un quadruplice profitto: la diffidenza di sé, il disprezzo del mondo, l’equilibrio per non esaltarsi, la pazienza per non deprimersi e scoraggiarsi.
È bene quindi andare in tutto il mondo e predicare il vangelo a tutte le creature. Dice l’Apostolo: “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura: le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17). E il salmo: “Il popolo che sarà creato [nuovo] darà lode al Signore” (Sal 101,19); e Isaia: “Ecco, io creo Gerusalemme, città di esultanza e il suo popolo, popolo di gaudio. E io esulterò di Gerusalemme e godrò del mio popolo” (Is 65,18-19).
Creare significa fare qualcosa dal nulla. L’uomo, quando è in peccato mortale, è nulla, perché Dio, che veramente è, non è in lui con la grazia. “L’uomo – dice Agostino – quando pecca diventa un nulla”; ma quando, per mezzo della grazia di Dio si converte e fa penitenza, viene creata in lui una nuova creatura, cioè una nuova e pura coscienza. E questa è Gerusalemme, cioè la città della pace, che esulta per la misericordia di Dio che le è stata elargita. Viene creato anche “un popolo” di molti e buoni pensieri e sentimenti, in cui c’è il gaudio e la lode a Dio, provenienti dalla sua dolcezza che esso pregusta. E allora le cose vecchie, vale a dire le opere e l’incallito comportamento dei cinque sensi, passano, si allontanano, e ne nascono di nuove in Cristo, affinché l’uomo non viva più per se stesso, ma per Cristo che è morto per lui (cf. 2Cor 5,15).
Queste dunque sono “tutte le creature”: l’uomo esteriore e interiore e il rinnovamento prodotto dalla grazia. A questa creatura dobbiamo predicare il vangelo del Regno, cioè annunziare il bene: la parola greca “evangelo” signi­fica appunto “buon annunzio”. Annuncia il bene ad ogni creatura colui che si orna di virtù internamente e esternamente. Predica il vangelo del Regno colui che, nel segreto del suo cuore, considera quanto grande sarà la gloria di contemplare, insieme con gli spiriti beati, il volto del creatore, lodarlo senza fine insieme con essi, vivere sempre con lui che è la vita, e godere perennemente di una felicità inesprimibile.
Da questa predicazione provengono due risultati: “Chi crederà e sarà battezzato”. Credere vuol dire “dare il cuore” (lat. credocor do). Figlio mio, dice Gesù, dàmmi il tuo cuore! (cf. Pro 23,26). Chi dà il cuore, dà tutto. Perciò crede colui che con la devozione del suo cuore si sottomette totalmente a Dio; viene battezzato, quando si inonda di lacrime o per la dolcezza della contemplazione divina, o per il ricordo della sua iniquità, oppure per la compassione che prova di fronte alle necessità dei fratelli. “Invece chi non crede”, non dà il cuore a Dio, e se non lo dà a Dio, necessariamente lo darà al diavolo, o alla carne, o al mondo. E chi avrà fatto questo, “sarà condanna­to”.

6. “E questi sono i miracoli che accompagneranno quelli che credono”. Il miracolo è chiamato in latino signum, segno. I segni accompagneranno coloro che hanno dato il cuore a Dio, perché già sul loro cuore c’è il segno di cui parla il Cantico dei Cantici: “Méttimi come un segno sopra il tuo cuore” (Ct 8,6).
Quando vogliamo difendere dai ladri una nostra proprietà, la nostra casa o i nostri beni, siamo soliti apporvi un segno, un marchio, come la bandiera del re o di qualche potente, perché vedendolo, i ladri non osino penetrarvi. Così se vogliamo difendere il nostro cuore dai demoni, mettiamo su di esso, come segno, Gesù, che è la salvezza: dove c’è salvezza c’è incolumità.
Ed ecco i segni, i miracoli: “Nel mio nome scacceranno i demoni” (Mc 16,17). “Demoni” è un termine preso dalla lingua greca. In greco dàimon significa “esperto”, “perito”, che conosce le cose. I demoni raffigurano la sapienza della carne e l’astuzia del mondo, le quali, a guisa di demoni, tormentano l’uomo, lo spirito dell’uomo e con insistenza affliggono il suo corpo.
La sapienza della carne simboleggia il demonio notturno, l’astuzia del mondo il demonio meridiano. La sapienza della carne è cieca, per quanto essa sia convinta di vederci molto bene: solo nella notte ha la vista acuta, come il gatto. L’astuzia del mondo, poiché arde del calore della malizia, è come il sole a mezzogiorno. Chi ha dato il cuore a Dio, scaccia via da sé questi demoni e farà anche tutti gli altri segni di cui parla il vangelo.
“Parleranno lingue nuove” (Mc 16,17). La lingua del mondo è una lingua vecchia, perché dice cose vecchie dell’uomo vecchio. Coloro che sono tormentati dai demoni sopraddetti, parlano questa lingua; ma quando li scacciano via da sé, parlano lingue nuove nella novità della loro vita. Dice infatti Isaia: “In quel giorno ci saranno cinque città nella terra d’Egitto che parleranno la lingua di Canaan e giureranno per il Signore degli eserciti: la prima si chiamerà “Città del Sole” (Is 19,18).
La terra d’Egitto, nome che significa “tenebre”, raffigura il corpo dell’uomo, coperto dalle tenebre della colpa e dei castighi: in esso ci sono cinque città, cioè i cinque sensi del corpo, il primo dei quali, cioè la vista, è chiamato “Città del Sole”, perché, come il sole illumina tutto il mondo, così la vista illumina tutto il corpo. Queste città parlano la lingua di Canaan, che significa “cambiata”: per il cambiamento operato dalla destra dell’Altissimo (cf. Sal 76,11), si spogliano dell’uomo vecchio con le sue azioni e indossano l’uomo nuovo, vivendo nella giustizia e nella verità (cf. Ef 4,24; Col 3,9).
Come parlando si porta all’esterno la parola che è nascosta nel cuore, così i cinque sensi dell’uomo, ormai cambiati e convertiti a Dio, parlano di lui all’esterno come lo hanno all’interno, e in questo appunto consiste il giurare: affermare la verità. Infatti la verità della coscienza si afferma e si conferma con la testimonianza della vita santa, a lode del Signore degli eserciti, cioè del Signore degli angeli.
E ancora: “Prenderanno i serpenti” (Mc 16,18), nei quali sono simboleggiate l’adu­lazione e la detrazione, che avanzano serpeggiando di nascosto e inòculano il veleno. L’adulatore avanza serpeggiando e il detrattore inòcula il veleno. Coloro che parlano lingue nuove, scacciano da sé questi serpenti: “Siano lontane dalla vostra bocca le cose vec­chie” (1Re 2,3). La saliva dell’uomo digiuno uccide il serpente; la lingua digiuna, cioè mortificata, è come una lingua nuova, il cui contravveleno annulla il veleno.
Ma l’antico serpente adulava, per così dire, Eva quando diceva: “Non morirete affatto!”, e quasi calunniava Dio dicendo: “Dio sa che nel giorno in cui mangerete dell’al­bero proibito, si apriranno i vostri occhi e sarete come dèi, conoscendo il bene e il male” (Gn 3,4­5). Come dicesse: Dio vi ha proibito questo perché è invidioso, e non vuole che voi diventiate simili a lui nella scienza. Ecco come l’adula­zione avanza serpeggiando, e la detrazione inòcula il veleno. Chi invece ha la lingua digiuna, sputi in bocca al serpente e lo uccida, e così lo scacci da sé.

7. Ancora: “Se berranno qualche veleno, non recherà loro danno” (Mc 16,18). Dice la Glossa: Quando sentono le pestifere sugge­stioni diaboliche, è come se bevessero qualcosa di micidia­le, che però non reca loro danno, perché non le portano ad esecuzione. E dice Isaia: “Non berranno più vino cantando: ogni bevan­da sarà amara per i bevitori” (Is 24,9), e quindi non recherà loro danno. Non beve, cantando, il vino della suggestione diabolica, colui che non vi acconsente, anzi la respinge, ne soffre e piange; e quindi la bevanda stessa, cioè la suggestione del diavolo, è amara per coloro che la bevono, cioè per quelli che l’avvertono e sono costretti a subirla. Al contrario Gioele dice: “Alzatevi, ubriachi, e piangete e mandate lamenti voi tutti che bevete il vino con piacere, perché sarà tolto dalla vostra bocca” (Gl 1,5). E così avviene proprio alla lettera, perché il piacere del vino sparisce immediatamente dalla bocca, non appena scende per la gola. Quanti mali cagiona un brevissimo piacere a colui che, con il consenso della mente e delle opere, beve il vino della suggestione diabolica! Agli ubriachi di questo vino è detto: “Alzatevi!” nel ricordo del vostro peccato, “piange­te” nella contrizione del cuore, “mandate lamenti” nella confessione.
Chi avrà realizzato in sé i quattro segni di cui abbiamo parlato, potrà certamente operare anche il quinto a favore del prossimo: “Imporranno le mani ai malati, e questi guariranno” (Mc 16,18). Ammalato si dice in lat. æger, che suona come egens, bisognoso, perché ha bisogno di un rimedio, di una medici­na. L’ammalato è il peccatore che ha veramente bisogno della medicina, cioè dell’esempio delle buone opere. E impone le mani su di lui perché si senta meglio, cioè perché ritorni alla penitenza, colui che non solo lo incoraggia con la parola della predicazione, ma anche lo sostiene con l’esempio della vita santa. Amen.

III. l’ascensione di gesù al cielo

8. “E il Signore Gesù”, che era disceso dal cielo, “dopo aver parlato loro, fu assunto in cielo” (Mc 16,19). Troviamo la concordanza nei Proverbi di Salomone: “Chi è salito al cielo e ne è disceso? Chi racchiuse lo spirito (vento) nelle sue mani? Chi raccolse le acque nel suo manto? Chi innalzò tutti i confini della terra? Qual è il suo nome, o qual è il nome del suo figlio, se lo sai?” (Pro 30,4).
Fa’ attenzione alle tre parole: racchiuse, raccolse, innalzò. Il Figlio di Dio Padre, Gesù Cristo, discese dal cielo e assunse la nostra carne mortale, e salì quindi al cielo proprio con essa, divenuta immortale: di lassù mandò lo Spirito della grazia settiforme, che egli racchiude nelle mani della sua potenza. Ed è così, perché lo dà a chi vuole e quando vuole, e lo chiude quando vuole. Dice infatti Giobbe: “Nasconde nelle mani la luce e le ordina di apparire di nuovo. Annunzia a chi gli è amico che essa è sua proprietà e che ad essa può avvicinarsi” (Gb 36,32-33). A chi è amico di Dio viene manifestata talvolta una certa luce nella coscienza, una luce di interiore letizia, come un lume che, rinchiuso tra le mani, si vede e si occulta ad arbitrio di colui che lo tiene: e questo perché l’animo s’infiammi per giungere al possesso della luce eterna e all’eredità della piena visione di Dio.
Parimenti, il Figlio di Dio raccoglie, cioè frena le acque, vale a dire la concupiscenza carnale, nel manto, cioè nel corpo, del quale l’anima è ricoperta come di una veste. Dice Giobbe: “Io mi consumerò e andrò in putrefazione, come una veste che viene consumata dalla tignola” (Gb 13,28). La tignola nasce dalla veste e poi la corrode: la corruzio­ne nasce dal corpo e poi lo distrugge. Il Figlio di Dio racchiude in questa veste gli istinti dei sensi con il legame dell’amore e la fune del timore, affinché non ne escano le acque della concupiscenza carnale, e così risveglia alla penitenza e alla gloria eterna tutti i confini della terra, cioè coloro nei quali ormai la condizione terrena è conclusa.
Perciò “fu assunto in cielo”, per sollevare con sé la terra e farla cielo; infatti il Padre per bocca di Isaia gli dice: “Ho posto le mie parole nella tua bocca e ti ho custodito all’ombra delle mie mani, perché tu impianti i cieli e fondi la terra e dica a Sion: Tu sei mio popolo” (Is 51,16). E il Figlio stesso dice: “Colui che mi ha mandato è veritiero, ed io dico al mondo le cose che ho udito da lui” (Gv 8,26). Nell’ora della passione il Padre lo protesse all’ombra della mano della sua potenza, perché gli prestò conforto nel momento in cui più infieriva la crudeltà dei giudei. Dice il salmo: “Stendesti la tua ombra sopra il mio capo nel giorno della battaglia” (Sal 139,8), nella quale con le mani inchiodate sulla croce distrusse le potenze dell’aria. Egli impiantò i cieli, cioè la divinità, sulla terra della nostra umanità e fondò la terra della nostra umanità nel cielo, cioè ve la stabilì per sempre.
Quindi conclude: “E sedette alla destra di Dio” (Mc 16,19). E nel salmo: “Disse il Signore”, il Padre, “al mio Signore”, cioè al Figlio suo: “Siedi alla mia destra” (Sal 109,1): vale a dire: Ripòsati e regna con me sui beni più preziosi.
Lo stesso Gesù, partecipe della nostra natura, renda anche noi partecipi di questi beni, lui che è benedetto nei secoli. Amen.

IV. sermone allegorico

9. “Ho attraversato questo Giordano portando solo il mio bastone, ed ora ritorno con due schiere” (Gn 32,10). Queste parole disse Giacobbe quando dalla Mesopotamia ritornava alla sua terra natale. Possono benissimo essere attribuite a Cristo che da questa terra fa ritorno al Padre, e il cui bastone fu la croce.
Leggiamo nel primo libro dei Re: “Il filisteo disse a Davide: Sono io forse un cane, perché tu mi venga contro con un bastone?” (1Re 17,43). Il filisteo, nome che s’in­ter­pre­ta “cade per aver bevuto”, o anche “doppia rovina”, raffigura il diavolo che, ubriaco di superbia, cadde dal cielo, e fece poi cadere l’uomo nella duplice rovina del­l’ani­ma e del corpo. È chiamato cane perché con le sue suggestioni abbaia contro gli innocenti e non riconosce il padrone, cioè il suo Creatore; il nostro Davide, Cristo, per combattere per noi contro di lui, lo affrontò con il bastone della croce. Ecco perché nello stesso libro dei Re è detto poco sopra: “Davide prese il suo bastone, che sempre aveva per mano; si scelse quindi dal torrente cinque ciottoli ben levigati e li pose nella sacca da pastore, che portava con sé; prese in mano la fionda e mosse contro il filisteo” (1Re 17,40).
Ecco le armi con le quali Gesù Cristo uccise il nostro nemico. Cristo ebbe sempre nelle sue mani il bastone della croce: prima della passione lo ebbe nelle opere, nella passione fu inchiodato ad essa per le mani, dopo la passione ne conservò nelle mani le ferite, per mostrarle per noi al Padre. Dice infatti Isaia: “Ecco che io ti ho scritto nelle mie mani” (Is 49,16).
Osserva che per scrivere qualche cosa sono necessari almeno tre strumenti: la carta, la penna e l’inchiostro. La carta fu la mano di Cristo, la penna il chiodo e l’inchio­stro il suo sangue. La sua scrittura fornisce la prova della nostra liberazione, cònfuta il nemico e ci riconcilia con Dio Padre.
I cinque ciottoli ben levigati raffigurano le cinque piaghe di Gesù Cristo, che egli prese dal torrente della nostra umanità. La sacca da pastore raffigura l’amore, con il quale ci ha amati sino alla fine: “Il buon pastore – ha detto – dà la sua vita per le sue pecore” (Gv 10,11). Mise in questa sacca i cinque ciottoli ben levigati, perché per l’amore che nutriva per noi, ricevette su di sé le cinque piaghe, le quali ci resero ben levigati, cioè puri e luminosi. La fionda, che ha due strisce di cuoio di pari lunghez­za, raffigura l’imparzialità della giustizia, per la quale condannò il diavolo e strappò dalle sue mani il genere umano. Fu giusto infatti e legittimo che il diavolo perdesse il potere che aveva sul genere umano, sul quale presumeva di avere qualche diritto, lui che osò stendere la mano su Cristo, sul quale diritti certamente non ne aveva. “Viene il principe di questo mondo, ma su di me non ha alcun potere” (Gv 14,30), perché “tra i morti io sono libero” (Sal 87,6): tuttavia Cristo è passato attraverso la morte, per liberare i morti. Dice infatti: “Con il mio bastone ho attraversato questo Giordano”. “Nel suo viaggio bevve al torrente: per questo sollevò in alto il capo” (Sal 109,7). Sul “bastone” della croce, solo, povero e nudo, passò dalla riva della nostra mortalità, della nostra condizione mortale, a quella della sua immortalità, attra­verso il fiume del giudizio – questo significa il nome Giordano –, vale a dire attraverso lo spargimento del suo sangue con il quale giudicò il diavolo, cioè lo condannò e ne distrusse il potere.

10. E quanto grande vantaggio sia venuto a noi da questo suo passaggio, si comprende quando aggiunge: “E adesso”, cioè oggi, “ritorno con due schiere”. La sua partenza dal Padre, il suo ritorno al Padre, la sua discesa agli inferi e la sua ascensione fino al trono di Dio: ecco il “cerchio (l’anello) posto nelle narici di beemot(ippopotamo) (cf. Gb 40,10.21) e di Sennacherib” (2Mac 15,22), al quale il Signore dice: “Metterò un anello alle tue narici e un morso alle tue labbra e ti rimanderò per la strada per la quale sei venuto” (Is 37,29). Cristo, sapienza del Padre, che, come il cerchio, non ha principio né fine, uscendo dal Padre e al Padre ritornando, riunendo in se stesso tutte le cose e racchiudendole nel suo cuore, smascherò la perfidia del diavolo, raffigurata nelle narici. Infatti, come per mezzo delle narici percepiamo le cose a distanza, così il diavolo, con l’acu­tezza della sua astuzia (perfidia) capisce a quale vizio un uomo è maggiormente incline, e quindi si sforza di catturarlo con quello.
Nel morso ci sono due elementi: il ferro e la briglia; il ferro si mette nella bocca del cavallo, con la briglia lo si frena e lo si guida. Cristo, nella sua passione, con i chiodi e con la bri­glia della sua umanità fabbricò un morso con cui domare e frenare il diavolo, perché non corresse a suo piacimento, ma ritornasse indietro per la via per la quale era venuto. Era venuto per mezzo di Eva, di Adamo e del frutto dell’albero proibito: ma dovette ritornare indietro, e ciò che aveva rapito con l’astuzia, lo perdette per opera di Maria, per opera di Cristo e per mezzo del legno della croce; con questo legno passò il nostro Giacobbe che sconfisse il diavolo e oggi è ritornato in cielo con due squadre.
Giacobbe divise in due squadre tutta la gente che era con lui (cf. Gn 32,7): le schiave e i loro figli erano nella prima squadra; nella seconda le donne libere, ossia Lia e Rachele e i loro figli. Queste due squadre simboleggiano la chiesa, formata da due popoli: dal popolo dei pagani, indicato nelle schiave, e dal popolo giudaico, indicato nelle persone libere, per aver dato al mondo la conoscenza di Dio e la sua legge.
Questa chiesa Cristo la conquistò con molte sofferenze, in Mesopotamia, cioè nel mondo, e l’ha portata con sé oggi ritornando al cielo, poiché ha portato con sé la sua fede e la sua devozione, affinché il suo cuore e la sua vita non fossero più in terra ma nel cielo (cf. Fil 3,20). E al cielo faccia giungere anche noi, colui che è benedetto nei secoli. Amen.

V. sermone morale

11. “Con il mio bastone”. Vedremo il significato morale di queste quattro cose: del bastone, del Giordano e delle due squadre.
Nel bastone è simboleggiata la pratica della penitenza, della quale si parla nella Genesi, quando Giuda [figlio di Giacobbe] dice a Tamar: “Cosa vuoi avere per caparra? Rispose Tamar: Il tuo anello, il tuo bracciale e il bastone che hai in mano” (Gn 38,18). Giuda è Cristo che, secondo l’Apostolo, appartiene appunto alla tribù di Giuda. Tamar, nome che s’inter­preta “mutata”, o “amara”, o anche “palma”, è l’anima che ha cambiato ed è passata dal male al bene; amara a motivo della penitenza che pratica per essere un giorno palma nella gloria. Si legge infatti in Giobbe: “Morirò nel mio piccolo nido”, cioè nell’umiltà e nella tranquillità della coscienza, “e moltiplicherò i miei giorni come la palma” (Gb 29,18). Però in questa triplice interpretazione può anche essere raffigurato il triplice stato degli incipienti, dei proficienti e dei perfetti.
Cristo dunque dice all’anima: “Che cosa vuoi avere per caparra?”. Caparra in lat. si dice àrrabo, che suona come arra bona, buon pegno: il pegno è ciò che si dà come caparra. L’anima, per essere sicura delle promesse, domanda un buon pegno, cioè l’anello, il bracciale e il bastone.
Nell’anello è simboleggiata la fede formata [la fede unita alla grazia e alla carità]. Leggiamo in Luca: “Mettetegli l’anel­lo nella mano” (Lc 15,22). La Glossa: L’anello è il segno della fede, con il quale sono segnate le promesse nel cuore dei fedeli. “Dàteglielo nella mano”, cioè nelle opere, affinché la fede si manifesti nelle opere, e le opere testimonino la fede.
Nel bracciale – in latino armilla, da armus, òmero, la parte superiore del braccio –, che è rotondo e si porta al polso, è indicata l’opera di carità che fa stendere il braccio per portare il peso del fratello in necessità, e lo fa metter sotto l’òmero, o la spalla, per sorreggerlo (cf. Gn 49,15).
Nel bastone, con il quale uno si difende dal cane, e sul quale si appoggia per non cadere, è indicata, come già detto, la pratica della penitenza, con la quale l’anima si difende dagli appetiti della carne e si sostiene per non cadere nel peccato mortale.
In queste tre cose è compresa tutta la giustizia, che consiste nel rendere a ciascuno il suo, cioè l’anello della fede a Dio, il bracciale della carità al prossimo e la pratica della disciplina a se stessi.

12. È detto del bastone: “Ho attraversato questo Giordano con il mio bastone”. Giordano s’interpreta “discesa” o anche “appropriazione delle cose”, cioè delle cose transi­torie di questo mondo. Chi vuole appropriarsene è costretto ad abbassarsi, cioè a discendere dal suo stato di giustizia, dalla quiete della coscienza e dalla dolcezza della contemplazione. Perché, come dice Gregorio, chi si appoggia ad uno che scivola giù, necessariamente scivola giù con lui. Beato invece chi può dire: Con la pratica della penitenza sono passato dalla riva della vanità del mondo alla riva della familiarità celeste; ho attraversato questo Giordano, ho scavalcato cioè tutto ciò che è transitorio e caduco.
Dice la Genesi: “Giacobbe attraversò il guado di Iabbok; trasportate tutte le cose che gli appartenevano, restò solo” (Gn 32,22-24). Iabbok s’interpreta “torrente di polvere”, e raffigura le cose temporali che, come il torrente, abbondano nell’inverno della miseria di questa vita, ma inaridiscono d’estate, vale a dire quando giungerà la vampa della morte o dell’ultimo giudizio. Le cose temporali, come la polvere, accecano i loro amatori. La polvere è detta in lat. pulvis, perché viene spazzata via (pulsa) dalla forza del vento. Così queste cose tempo­rali vengono spazzate via dal vento dell’avversità e rapite dalla morte. Ma Giacobbe, cioè il giusto, vincitore del mondo, passa al di là delle cose temporali, per non passare con esse, perché nulla vi rimanga delle sue cose, ma trasferi­sce al di là tutto ciò che gli appartiene. E che cosa appartiene al giusto, se non l’umiltà, la carità, la castità e le altre virtù? Chi trasferisce queste cose con sé, resta solo, cioè estraneo al chiasso del mondo, lontano dal tumulto dei pensieri e dagli assalti dei demoni. Beato colui che passa così, perché nell’ora della morte potrà dire: “E adesso io ritorno con due squadre”.
Infatti ciò si accorda con quanto è scritto nel Cantico dei Cantici: “Tutte hanno parti gemellari e nessuna di esse è sterile” (Ct 4,2). E di nuovo: “Le tue due mammelle sono come due cerbiatti gemelli di una capriola, che pascolano tra i gigli, fino a che spiri la brezza del giorno che finisce e le ombre si allunghino” (Ct 4,5-6).
La capriola – detta in lat. caprea, perché prende le cose difficili (ardua capiens) –, ha la vista acuta, sceglie le erbe da mangiare e si spinge sulle alture. La capriola raffigura l’anima del giusto che, con il desiderio del cielo, raggiunge le cose difficili, e perciò si innalza fino ad esse; ha molto acuto lo sguardo della fede, si sceglie le erbe dei pascoli eterni con le quali si ristora; le sue due mammelle sono il duplice sentimento suscitato dalla carità, con il cui latte e la cui dolcezza nutre se stessa e il prossimo.
Questi sono i due parti gemellari, i due cerbiatti o i due caprioli, che pascolano tra i gigli: il sentimento della carità divina pascola tra i gigli, cioè nella castità della mente e del corpo, ossia nella letizia della contemplazione; il sentimento della carità fraterna pascola tra i gigli, vale a dire nella luce della buona riputazione.
E per quanto tempo pascoleranno così? Finché spunterà il giorno dell’eterno splendore e tramonteranno le ombre della cecità presente. Dica dunque il giusto: “E ora”, cioè alla fine della mia vita, “con due squadre”, vale a dire con i meriti della vita attiva e di quella contemplativa, “ritornerò” alla patria celeste.
A questa patria faccia giungere anche noi, colui che è benedetto nei secoli. Amen.

Sant'Antonio di Padova

La spiritualità di sant'Antonio di Padova


«Come Pietro per la Chiesa, così Francesco d’Assisi per l’Ordine serafico fu fondatore, direttore e pastore; come Paolo per la Chiesa, così Antonio di Padova per l’Ordine fu predicatore, dottore ed erudito». (Vita prima)
Questa frase scolpisce mirabilmente la figura di sant'Antonio quale fu presentata dal papa Gregorio IX il 30 maggio 1232, quando lo dichiarò santo e confermò la sua sapienza invocandolo con le parole riservate ai dottori della Chiesa: “O Doctor optime”. Benché nella tradizione abbiano prevalso i popolari e devozionali appellativi di “taumaturgo” e “Santo dei miracoli”, sarebbe troppo riduttivo considerare sant'Antonio come un semplice distributore automatico di miracoli e nulla più.

Il contemplativo
La liturgia ama presentare l’aspetto contemplativo della vita di sant'Antonio con la visione del Signore che il Santo ebbe prima della sua morte e con l’immagine di lui che sorregge fra le braccia il Bambino Gesù. La spiritualità di Luca Giordano, LA MADONNA E SAN GIUSEPPE CON SANT'ANTONIO, 1653, Brera, Milanofrate Antonio si consolida a contatto con l’atmosfera mistica francescana, permeata di sola vita vissuta e di religioso entusiasmo, ricco di confidenza, di semplicità e di affetto nei rapporti con Dio e con il mondo soprannaturale. Come Francesco d’Assisi, definito l’alter Christus, fu un incomparabile imitatore delle virtù evangeliche, così pure Antonio di Padova fu un uomo che, sulle orme del padre san Francesco, si unì a Dio in maniera concreta, viva, personale: a Dio per mezzo del suo Figlio unigenito, Cristo. Il Santo di Padova scrive che la vita contemplativa è la più preziosa di tutte le opere. Egli manifesta la grandezza e la ricchezza della sua anima non tanto nella sua suggestiva predicazione, né nella sua fama di taumaturgo, quanto nella sua continua, intima unione con Dio.
Frate Antonio, il quale scelse Dio come unico amore della sua vita, pose tutte le sue energie, tutte le sue qualità personali, il suo tempo, la sua vita nelle mani di Cristo, in una tale fusione con lui da avverare le parole paoline: “Vivo io ma non più io, è Cristo che vive in me; la mia vita è Cristo”. Il Santo comprese appieno il linguaggio di Cristo e, unito a lui nella preghiera, nella carità fraterna e nella donazione continua al prossimo, portò frutti di santità. In Cristo lo vediamo inserito come tralcio vivo e fruttifero nella vite, nella volontà di imitare la sua passione. Sant'Antonio digiuna, prega, rinnega se stesso. Così diventa come un giardino ben irrigato e come un inesauribile sorgente d’acqua viva.

L’uomo di Dio
Il caratteristico e fondamentale atteggiamento di Antonio fin dal momento del suo ingresso nella vita religiosa è quello biblico della povertà. Più le facoltà dell’uomo sono svMiguel Jacinto Melendez, SANT'ANTONIO DI PADOVA, 1732, Museo Bellas Artes de Asturias, Oviedouotate dal desiderio e dall’attaccamento alle cose di quaggiù, più esse si raccolgono nella pace e nel silenzio interiore e raggiungono Dio. Per Antonio si tratta di sostituire alle prospettive di una brillante carriera mondana, facilitata dalla consistente posizione sociale della famiglia, l’ardua via della mortificazione e della croce. Distaccato dal mondo e aperto ai valori dello Spirito, Antonio è pronto ad accogliere la parola di Dio che gli giunge in modo nuovo e originale, prima attraverso il carisma dell’Ordine dei canonici regolari di sant'Agostino e poi attraverso quello dell’Ordine Serafico. Non avendo ancora raggiunto la vera povertà interiore quando riceve l’abito di san Francesco, frate Antonio chiede di essere mandato missionario nel Marocco e aspira alla gloria del martirio. Il suo io non si era ancora annullato nell’obbedienza come invece accadrà un anno più tardi, ad Assisi, nel capitolo delle stuoie. Sconosciuto e trascurato, egli è incaricato di celebrare la messa per i frati dell’eremo di Montepaolo. Il suo desiderio è ormai fare la volontà di Dio che gli è espressa dalla voce dei superiori. La disponibilità alla volontà divina, il riconoscimento della pochezza e della miseria umana, il disprezzo di sé sono le condizioni essenziali per l’elevazione spirituale che si traduce in Antonio nell’appassionata ricerca di Dio in Cristo, l’unico suo bene.

L’uomo di preghiera
Anche per sant’Antonio valgono le stesse parole di uno dei primi biografi di san Francesco: “Il suo porto più sicuro era la preghiera, non di pochi minuti, né vuota, né presuntuosa, ma di lunga durata, serena ed umile”. Per Antonio la preghiera è anzitutto un rapporto di amore che crea un’intima unione con la persona amata (cioè tra l’uomo e Dio) e spinge poi a colloquiare dolcemente con lei, provando una gioia ineffabile. Il Santo attua il precetto evangelico di pregare sempre attraverso la cosiddetta “orazione del cuore”: orientare all’amato ogni azione, ogni gesto, ogni pensiero. La liturgia della Chiesa mette in rilievo un altro modo di pregare incessantemente di frate Antonio: la fedeltà al proprio dovere con la forza dell’amore e della silenziosa immolazione. In ogni sua azione egli glorificava Dio.
Dai primi biografi si sa che, dopo il capitolo generale delle stuoie, Antonio ottenne da frate Graziano, ministro provinciale della Romagna, il permesso di ritirarsi nell’eremo di Montepaolo. Il Santo sente la necessità della solitudine fisica, del silenzio esteriore, per condurre una più intensa vita di preghiera e di contemplazione. La solitudine non è però per lui separazione, perché essa l’avvicina spiritualmente agli altri, permettendogli di comprendere la gente che vive nell’inquieta e rumorosa società. Come il padre san Francesco, sant’Antonio alternava la vita apostolica della predicazione itinerante con periodi più o meno lunghi di ritiro nella solitudine, per dedicarsi alla meditazione, alla preghiera, alla mortificazione e alla contemplazione. Nella preghiera Antonio ascolta la voce di Dio: si nasconde, si umilia e trova pace e gioia nell’abbandono alla volontà del Signore.

Nell’adolescenza il Santo si avvicinò alla cultura profana, dedicandosi allo studio delle arti liberali. La successiva formazione scientifica che il giovane Antonio ricevette in Portogallo tra gli agostiniani, nei disegni di Dio, non doveva essere che uno stupendo preludio ad una più stupenda azione che il Santo avrebbe svolta tra i confratelli dell’Ordine serafico. I primi francescani erano giudicati uomini che ignoravano le lettere ma che ne insegnavano il valore con il comportamento. All’ecMarcantonio Bassetti, SANT'ANTONIO CHE LEGGE, 1620, Museo di Castelvecchio, Veronacezionale intuito di san Francesco non poteva sfuggire il pericolo che i suoi frati potessero essere risucchiati dalla suggestione dei movimenti ereticali dell’epoca. All’inizio bastava mostrare con il linguaggio dell’esempio la rettifica cattolica dell’eresia. Ma con l’andar del tempo san Francesco si convinse che era necessario dare ai suoi frati una sostanziosa formazione culturale, poiché i loro interventi apostolici li ponevano sovente in diretto confronto con gli eretici, i quali li mettevano in serie difficoltà. Nessuna meraviglia, quindi, se notiamo, dapprima nell’Italia settentrionale, roccaforte dell’eresia, lo sforzo di dare ai frati una cultura adeguata alla situazione. Non appena fu rivelato il grande talento di frate Antonio, il superiore gli affidò l’incarico della predicazione. In realtà da diverse parti si era fatta pressione su Antonio affinché si prestasse ad istruire anche gli altri frati. San Francesco non esitò a mostrarsi favorevole, a patto, però, che lo studio non intaccasse l’autentico spirito dell’Ordine.
Il saggio è, secondo l’Antico Testamento, colui che riconosce che la sapienza proviene da Dio e consiste nell’accettare serenamente il suo piano e la sua logica. Sant’Antonio predilesse e ricercò fin dalla giovinezza questa sapienza, che non fa parte del corredo naturale dell’uomo ma è qualcosa di soprannaturale. Consapevole della propria debolezza e della propria ignoranza, il Santo meritò di ottenere la sapienza, perché egli fu fedele alla Parola del Signore. Sant’Antonio non appartiene alla categoria di coloro i quali si reputano sapienti e scaltri perché seguono criteri umani di valutazione, ma a quella dei semplici, di quelli che il Vangelo definisce i piccoli. Egli è l’uomo prudens, la cui vita si svolge tutta nella disponibilità e nella docilità necessarie per accogliere una sapienza irraggiungibile con le sole forze umane.

L’intercessore
Nel giorno della solennità dFilippino Lippi, SANT'ANTONIO INTERCEDE PER UN FRATE PRESSO LA MADONNA, 1480, Museo di Belle Arti, Budapestel Beato Confessore Antonio l’assemblea liturgica esulta. L’orazione ne presenta il motivo: Dio non può ricusare la supplica di sant’Antonio che gode della sua amicizia. Tra i beati della chiesa trionfante sant’Antonio non dimentica le necessità della Chiesa militante, la quale gioisce per la sua beatitudine e fa affidamento sulla sua intercessione. Il Santo di Padova, poiché non distolse mai la sua anima dalla contemplazione di Dio, interviene presso di lui a sollecitare la salvezza delle anime. L’intercessione del Santo si esercita anzitutto nell’ordine spirituale, per il conseguimento della vita eterna. Lo stesso Santo ammonisce nei suoi scritti di non rovesciare i valori dell’essere e della vita, riducendo la preghiera a una semplice richiesta di cose terrene. Chiedere Dio a Dio: nella scala antoniana dei valori spirituali questa è la prima richiesta che dovrebbe stare alla base di ogni preghiera. Questo, naturalmente, non esclude che si chiedano al Signore anche grazie d’ordine materiale per intercessione del Santo di Padova. Nell’opinione comune pochi santi sono riusciti a meritarsi il titolo di taumaturgo così come sant’Antonio. La santità è riconosciuta dalla sua efficacia. La guarigione può venire solo da Dio e serve per dimostrare che colui, per la cui intercessione essa è stata ottenuta, appartiene alla corte celeste, è amico di Dio.

L’apostolo
L’azione apostolica di sant’Antonio non si spiegherebbe senza il mistico sostegno dell’unione con Dio. Per lui la sorgente dell’apostolato è un intensissimo amor di Dio. La sua vita si svolge tra azione e contemplazione, fra solitudine e apostolato. Il santo di Padova svolge il lavoro faticoso della predicazione evangelica in ambiente difficile. I contrasti politico-religiosi fornivano alimento alla miscredenza e all’errore; le eresie, specialmente quella càtara, pullulavano e turbavano la cristianità. La corruzione morale in ogni ceto sBonifacio Veronese, SANT'ANTONIO SUL NOCE, 1540, Santuario del Noce, Camposampieroociale, non escluso quello ecclesiastico, gli errori dottrinali e l’ignoranza delle masse in materia di fede erano tali che il clero secolare spesso risultava insufficiente e inadatto alla cura delle anime. In mezzo alle tenebre dell’eresia Antonio è il messaggero di Dio, il docile strumento dello Spirito Santo nella Chiesa. Per mezzo di lui Dio parla al suo popolo, rivelandogli la sua volontà. Il frate non si limita a combattere le eresie e a migliorare la condotta morale dei laici e del clero. Rientra nel quadro del suo apostolato – come in quello dei santi in genere e soprattutto di quelli francescani – l’essere amico dei poveri e dei sofferenti. La predicazione di questo umile frate minore era vita vissuta. Alla disonestà, all’impurità, alla falsità e irreligiosità, egli contrapponeva il suo comportamento coerente con il Vangelo. Il suo zelo per le anime era tenace e inesauribile. Spesso digiunava fino al tramonto del sole per insegnare, predicare, amministrare il sacramento della riconciliazione. Frate Antonio fu posto da Dio a illuminare le genti. Mediante le sottili ed estenuanti dispute dottrinali con gli eretici, nelle quali porta la conoscenza profonda e luminosa della sacra scrittura e la finezza della mente addestrata al ragionamento, il dubbio si dissipa e l’ansia scompare. Muovere i cuori dei peccatori alla penitenza e alla conversione è la grande manifestazione della potenza divina in Sant’Antonio di Padova. Pur collocato in posti di responsabilità e di prestigio dai suoi superiori, il Santo non cercò mai l’ammirazione altrui. Il fine del suo ministero apostolico consisteva nel ricordare Dio agli uomini e nell’invitarli alla conversione e alla gioiosa riconoscenza verso il Padre celeste.
I santi non hanno una natura diversa dalla nostra, ma un modo personalissimo d’orientare verso Dio la loro vita. Per questo essi sono ammirevoli. Antonio di Padova impostò tutta la sua vita con assoluta fedeltà al Vangelo e divenne il Santo per eccellenza. La Chiesa cattolica lo venera solennemente come uomo di Dio, vero apostolo, sapiente dottore evangelico e potente intercessore, raccomandandone l’imitazione.
(Liberamente tratto da LITURGIA E SPIRITUALITÀ ANTONIANA, Antonio Giuseppe Nocilli, Edizioni Messaggero Padova, 1980)

“Perché vuoi diventare papa? Di papa ce n'è uno solo nella cristianità.”


pesce rombo e pescatore


Fiabe Classiche - Grimm: Il pescatore e la moglie

"Kinder und Hausmärchen" (n.19)

gif animata
C'era una volta un pescatore e sua moglie; abitavano in un lurido tugurio presso il mare, e il pescatore andava tutti i giorni a pescare con la lenza, e così fece per molto tempo. Una volta se ne stava seduto vicino alla lenza a guardare nell'acqua liscia come l'olio. Se ne stava così quando la lenza andò a fondo, giù giù, e quand'egli la sollevò c'era attaccato un grosso rombo. E il rombo gli disse: “Ti prego, lasciami vivere; io non sono un vero rombo, sono un principe stregato. Ributtami in acqua e lasciami andare!”. “Eh”, disse l'uomo, “non hai bisogno di fare tanti discorsi: un rombo che parla, l'avrei certo lasciato libero.” Lo rimise in acqua e il rombo si tuffò e lasciò dietro di sé una lunga striscia di sangue. L'uomo tornò allora a casa da sua moglie, nella lurida catapecchia, e le raccontò che aveva preso un rombo che aveva sostenuto di essere un principe stregato; poi lo aveva lasciato andare. “E non gli hai chiesto niente?”, disse la donna. “No”, disse l'uomo, “cosa avrei dovuto chiedere?” “Ah”, disse la donna, “è pur brutto abitare sempre in questo buco! Puzza ed è così sporco! Vai e domandagli una piccola capanna.” L'uomo non voleva, tuttavia andò sulla riva del mare e, quando giunse, il mare era tutto verde e giallo. Egli andò fino all'acqua, si fermò e disse:
“Piccolo rombo, ticchete tacchete, stammi a sentire, zicchete zacchete, mia moglie parlar troppo suole, e ciò ch'io voglio lei non vuole!”
Allora il rombo giunse nuotando e disse: “Bè, che vuole dunque?” “Ah”, disse l'uomo, “io ti avevo pur preso, invece ti ho lasciato andare; ora mia moglie mi ha detto che avrei dovuto chiederti qualcosa. Non vuole più abitare in un buco, vorrebbe una capanna.” “Và a casa”, rispose il rombo “ce l'ha già.” Allora l'uomo andò a casa e sua moglie era sulla porta di una capanna e gli disse: “Vieni dentro, guarda, adesso è molto meglio”. E dentro alla capanna c'era una stanza, una camera da letto e una cucina. E dietro c'era anche un giardinetto con verdura e alberi da frutta e un cortile con polli e anitre. “Ah”, disse l'uomo, “ora vivremo felici.” “Sì”, disse la donna, “ci proveremo.” Dopo un paio di settimane, la donna disse: “Marito mio, la capanna è troppo stretta e il cortile e il giardino sono così piccoli! Vorrei abitare in un gran castello di pietra; và dal rombo, che ce lo regali”. “Ah, moglie”, disse l'uomo, “il rombo ci ha già dato la capanna: non posso tornare, se ne potrebbe avere a male.” “Macché‚” disse la donna, “può benissimo farlo e lo farà volentieri!” Allora l'uomo andò con il cuore grosso, ma quando giunse al mare, l'acqua era tutta violetta azzurro cupa e grigia; però era ancora calma. Egli si fermò e disse:
“Piccolo rombo, ticchete tacchete, stammi a sentire, zicchete zacchete, mia moglie parlar troppo suole, e ciò ch'io voglio lei non vuole!”
“Bhè cosa vuole?” rispose il rombo. “Ah”, disse l'uomo tutto turbato, “mia moglie vuole abitare in un castello di pietra.” “Và, è già davanti alla porta” rispose il rombo. Allora l'uomo andò a casa e sua moglie stava davanti a un gran palazzo. “Guarda, marito mio” ella disse, “com'è bello!” Entrarono insieme e dentro c'erano tanti servi, le pareti risplendevano è nelle stanze c'erano sedie e tavole tutte d'oro. E dietro il castello c'erano un giardino e un parco che si estendeva per un mezzo miglio, dov'erano cervi, caprioli e lepri; e un cortile con stalla e scuderia. “Ah” disse l'uomo, “in questo bel castello si può essere contenti!” “Vedremo” disse la donna, “intanto dormiamoci su.” E andarono a letto. Il mattino dopo la donna si svegliò allo spuntar del giorno, diede una gomitata nel fianco dell'uomo e disse: “Alzati, marito, potremmo diventare re di tutto il paese”. “Ah, moglie” disse l'uomo, “perché mai dovremmo diventare re; io non voglio!” “Bene, allora voglio esserlo io.” “Ah, moglie” disse l'uomo, “perché vuoi essere re? Al rombo non piacerà.” “Marito” disse la donna, “vacci difilato, io devo essere re.” Allora l'uomo andò ed era tutto turbato che sua moglie volesse diventare re. E quando arrivò al mare, il mare era tutto plumbeo e nero e l'acqua ribolliva dal profondo. Egli si fermò e disse:
“Piccolo rombo, ticchete tacchete, stammi a sentire, zicchete zacchete, mia moglie parlar troppo suole, e ciò ch'io voglio lei non vuole!”
“Bè, che cosa vuole?”disse il rombo. “Ah” disse l'uomo, “mia moglie vuole diventare re.” “Và pure, che lo è già” disse il rombo. Allora l'uomo tornò a casa e quando arrivò al palazzo c'erano tanti soldati, trombe e timpani. Sua moglie sedeva su di un alto trono d'oro e diamanti e aveva una grande corona d'oro in testa; e al suo fianco stavano in fila sei damigelle, dalla più alta alla più piccola, così da formare una scala. “Ah” disse l'uomo, “adesso sei re?” “Sì” rispose la donna, “adesso sono re.” Dopo averla guardata per un pò, egli disse: “Ah, moglie, che bellezza che tu sia re! non c'è più niente da desiderare”. “No, marito” disse la donna “mi viene in uggia, non posso più resistere: sono re, ora voglio diventare imperatore!” “Ah, moglie” disse l'uomo, “perché vuoi diventare imperatore?” “Marito” diss'ella, “và dal rombo: voglio essere imperatore.” “Ah moglie”, disse l'uomo “egli non può fare imperatori, non posso dir questo al rombo.” “Io sono re” disse la donna, “e tu sei mio marito, vacci subito!” Allora l'uomo andò e mentre camminava pensava: "Non va, non va, imperatore è troppo sfacciato; alla fine il rombo si stancherà". Così arrivò al mare, l'acqua era tutta nera e gonfia e ci soffiava sopra un gran vento che la sconvolgeva. L'uomo si fermò e disse:
“Piccolo rombo, ticchete tacchete, stammi a sentire, zicchete zacchete, mia moglie parlar troppo suole, e ciò ch'io voglio lei non vuole!”
“Bè, che vuole?” disse il rombo. “Ah” disse egli, “mia moglie vuole diventare imperatore.” “Và pure” disse il rombo, “lo è già.” L'uomo se ne andò e, quando arrivò a casa, sua moglie sedeva su di un trono altissimo fatto di un solo pezzo d'oro, e aveva in testa una gran corona alta tre braccia; al suo fianco stavano gli alabardieri, l'uno più piccolo dell'altro, dall'enorme gigante al piccolissimo nano, grosso come il mio mignolo. E davanti a lei c'erano tanti principi e conti. L'uomo passò in mezzo a loro e disse: “Moglie, sei imperatore adesso?”. “Sì” diss'ella, “sono imperatore.” “Ah”,disse l'uomo contemplandola, “che bellezza che tu sia imperatore!” “Marito” disse la donna, “non incantarti! Ora sono imperatore, ma voglio anche diventare papa.” “Ah, moglie” disse l'uomo, “perché vuoi diventare papa? Di papa ce n'è uno solo nella cristianità.” “Marito” diss'ella, “voglio diventare papa oggi stesso.” “No, moglie” disse l'uomo, “il rombo non può far papi, questo non va.” “Chiacchiere, se può fare imperatori può fare anche papi. Vacci subito!” Allora l'uomo andò, ma era tutto fiacco, le gambe e le ginocchia gli vacillavano, e soffiava un gran vento e l'acqua sembrava che bollisse. Le navi, in pericolo, invocavano soccorso, danzavano e saltavano sulle onde. Tuttavia il cielo era ancora un pò azzurro al centro, ma ai lati saliva un color rosso, come durante un gran temporale. Allora egli si fermò, sconfortato, e disse:
“Piccolo rombo, ticchete tacchete, stammi a sentire, zicchete zacchete, mia moglie parlar troppo suole, e ciò ch'io voglio lei non vuole!”
“Bè, cosa vuole?” disse il rombo. “Ah” disse l'uomo, “mia moglie vuole diventare papa.” “Và pure” disse il rombo, “lo è già.” Egli se ne andò e quando arrivò a casa sua moglie sedeva su di un trono alto tre miglia e aveva tre grandi corone in testa, intorno a lei c'erano tanti preti, e ai suoi lati c'erano due file di lumi, dal più alto, spesso e grosso come un'enorme torre, fino alla più piccola candela da cucina. “Moglie” disse l'uomo guardandola, “sei papa adesso?” “Sì” diss'ella, “sono papa.” “Ah moglie” disse l'uomo, “che bella cosa che tu sia papa! Moglie, ora sarai contenta: sei papa, non puoi diventare niente di più.” “Ci penserò” disse la donna. E andarono a letto, ma ella non era contenta e la cupidigia non la lasciava dormire: pensava sempre che cosa potesse ancora diventare. Quand'ella vide dalla finestra il sole che sorgeva, pensò: "Ah, non potrei forse far sorgere anche il sole?". Piena di rabbia, diede una gomitata al marito e disse: “Marito, vai dal rombo, voglio diventare come il buon Dio!”. L'uomo era ancora addormentato, ma si spaventò tanto che cadde dal letto. “Ah, moglie” diss'egli, “rientra in te e contentati di essere papa.” “No”,gridò la moglie e si strappò la camiciola di dosso, “non sono tranquilla e non posso resistere quando vedo sorgere il sole e la luna e non posso farli sorgere io stessa. Voglio diventare come il buon Dio.” “Ah, moglie, il rombo questo non lo può fare. Può fare imperatori e papi, ma questo non lo può fare!” “Marito” diss'ella, e gli rivolse uno sguardo terribile, “voglio diventare come il buon Dio, và subito dal rombo.” Allora l'uomo andò pieno di paura; fuori infuriava la tempesta che sconvolgeva i campi e sradicava gli alberi, il cielo era tutto nero, lampeggiava e tuonava; il mare si gonfiava in onde nere, alte come montagne e tutte avevano una bianca corona di spuma. Egli gridò:
“Piccolo rombo, ticchete tacchete, stammi a sentire, zicchete zacchete, mia moglie parlar troppo suole, e ciò ch'io voglio lei non vuole!”
“Bè, cosa vuole?” disse il rombo. “Ah” rispose l'uomo, “vuole diventare come il buon Dio.” “Và pure, che è tornata nel suo lurido tugurio.” E ci stanno ancora.