venerdì 10 maggio 2019

Julien Green

Per spiegare ai preti la vocazione, Ratzinger parlava loro della conversione di Julien Green 

L’Osservatore Romano pubblica una giovanile riflessione del papa Benedetto XVI. «Andai a casa: non ero un altro, no, ero finalmente ridiventato me stesso»

Oggi sull’Osservatore Romano è stato pubblicato un articolo a firma Joseph Ratzinger e intitolato “E Julien Green ridiventò se stesso”. Il testo è tratto dal XII volume dell’opera omnia del papa emerito, in libreria in questi giorni con il titolo Annunciatori della Parola e Servitori della vostra gioia. teologia e spiritualità del Sacramento dell’Ordine (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013, pagine 982, euro 55). L’opera, curata dall’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, raccoglie studi scientifici, meditazioni e omelie – dal 1954 al 2002 – sul servizio episcopale, sacerdotale e diaconale. L’Osservatore Romano ha anticipato i brani di due omelie: una tenuta nel 1978 nella celebrazione per il settantesimo compleanno del vescovo Ernst Tewes, e l’altra pronunciata nel 1955 in occasione della prima messa di un sacerdote suo amico.
Julien Green (1900 – 1998), scrittore e drammaturgo statunitense omosessuale, si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo nel 1916.
Casualmente in questi giorni ho letto il racconto che il grande scrittore francese Julien Green fa della sua conversione. Scrive che nel periodo tra le due guerre egli viveva proprio come vive un uomo di oggi: si permetteva tutto quello che voleva, era incatenato ai piaceri contrari a Dio così che, da un lato, ne aveva bisogno per rendersi la vita sopportabile, ma, dall’altro, trovava insopportabile proprio quella stessa vita. Cerca vie d’uscita, allaccia rapporti. Va dal grande teologo Henri Bremond, ma la conversazione resta sul piano accademico, sottigliezze teoriche che non lo aiutano.
Instaura un rapporto con i due grandi filosofi, i coniugi Jacques e Raîssa Maritain. Raîssa Maritain gli indica un domenicano polacco. Lui lo incontra e gli descrive ancora questa sua vita lacerata. Il sacerdote gli dice: «E Lei, è d’accordo a vivere così?». «No, naturalmente no!», risponde. «Dunque vuole vivere in modo diverso; è pentito?». «Sì!» fa Green. E poi accade qualcosa di inaspettato. Il sacerdote gli dice: «Si inginocchi! Ego te absolvo a peccatis tuis — ti assolvo». Scrive Julien Green: «Allora mi accorsi che in fondo avevo sempre atteso questo momento, avevo sempre atteso qualcuno che mi dicesse: inginocchiati, ti assolvo. Andai a casa: non ero un altro, no, ero finalmente ridiventato me stesso».
Se siamo onesti, se riflettiamo su questa vicenda in profondità, vediamo che in ultima analisi questa attesa è in ognuno di noi, che il nostro intimo grida che vi sia qualcuno che dica: «Inginocchiati! Ego te absolvo!».
Un famoso teologo protestante qualche tempo fa ha detto: oggi bisognerebbe raccontare la parabola del figliol prodigo in modo nuovo, come parabola del padre perduto. E in effetti, lo smarrimento di questo figlio consiste proprio nel fatto che ha smarrito il padre, che non lo vuole più vedere. Ma questo figliol prodigo siamo noi. La sua difficoltà è la difficoltà del nostro tempo che si vanta di essere una società senza padre. Seguendo Freud, abbiamo creduto che il padre fosse l’incubo del “Super Io”, colui che limita la nostra libertà, e che ce ne dobbiamo liberare. E ora che questo è accaduto riconosciamo che, facendo così, ci siamo emancipati dall’amore e abbiamo amputato da noi stessi quello che ci fa vivere.
Ma allo stesso tempo emerge così di nuovo quello che vi è di più profondo nel ministero episcopale e sacerdotale: poter rappresentare il Padre, il vero Padre di noi tutti, del quale abbiamo bisogno per poter vivere come uomini. Il sacerdote può renderlo presente dando la sua pace, la sua grazia, la parola trasformatrice dell’assoluzione.
Un secondo compito del ministero sacerdotale, con questo strettamente intrecciato, viene in luce quando Paolo nel versetto successivo dice: «Siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza». Prendiamolo come esame di coscienza. Certo, siamo molto ricchi di parola e di conoscenza. Ma siamo veramente ricchi della Parola che è conoscenza e che ci guida in mezzo a tanti discorsi inutili? Oppure è proprio di questa che siamo divenuti estremamente poveri?
Torniamo ancora una volta a Julien Green. Egli racconta come, sin dalla fanciullezza, sua madre, anglicana, lo avesse letteralmente immerso nella Sacra Scrittura. Era ovvio per lui sapere a memoria tutti e centocinquanta i Salmi. La Scrittura era l’atmosfera della sua vita. E dice: «Mia madre mi insegnò a comprenderla come libro d’amore. E mi permeò profondamente dell’idea che, da un capo all’altro della Scrittura, fosse unicamente l’amore a parlare. E tutto il mio essere non voleva nient’altro che amare». Ecco, alla fine non può perdersi un uomo che ha ricevuto delle basi così.
E noi? Non dobbiamo forse iniziare in modo del tutto nuovo a dare spazio a questa Parola, nella quale da un capo all’altro ci avvolge l’amore, farne l’atmosfera delle nostre case e della nostra vita quotidiana? Non è assolutamente una garanzia che nella vita tutto andrà a gonfie vele. Ma è un’ultima forza portante che sempre di nuovo ci ricondurrà a casa, che ci renderà ricchi di vera conoscenza.
Infine un terzo punto. Paolo dice di essere grato per il fatto che «nessun dono di grazia più vi manca». Sentendo queste parole è quasi come se vedessi davanti a me il volto di san Paolo che sorride con una sottile, lieve ironia. Infatti, alcune pagine dopo, punta l’indice contro i Corinzi perché sono addirittura assetati di carismi. Egli non ritira quella frase, non è adulazione. No, non manca loro alcun carisma, alcun dono di grazia. E tuttavia essi rischiano di essere scriteriati, perché importa loro solo il particolare, perché ognuno vuole sopraffare l’altro e perché così non è più evidente che tutti i carismi, tutti i doni hanno un unico fine: introdurci all’amore ed edificare così l’organismo vivo di Gesù Cristo.
Ma mi viene in mente anche san Filippo Neri (…), quel santo che con il suo inesauribile umorismo e con la sua fede smisurata fece della Roma della seconda metà del XVI secolo una città nella quale la luce di Gesù Cristo era di nuovo posta sul candelabro e poteva di nuovo essere criterio per i cristiani.
Egli raccoglieva dei giovani che con lui leggevano la Scrittura, si immergevano nei tesori della storia della Chiesa e per i quali era ovvio che chi si abbeverava di questa parola, dopo la dovesse distribuire andando fra i malati nel vicino ospedale di Santo Spirito, dai sofferenti e dai poveri di Roma.
A questa scuola dei carismi sono cresciuti uomini eccellenti come Cesare Baronio — il grande storico della Chiesa — e tanti altri uomini nei quali furono risvegliati dei doni e nei quali, senza alcun ministero o chiamata particolare, divenne viva la forza della Parola di Dio. Questa Parola prese quegli uomini al proprio servizio e tutto venne a raccogliersi, sempre e comunque, attorno a quel centro che si chiama amore, fede, speranza.

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