mercoledì 8 maggio 2019

Gli amici uomini.

AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 5


Gli amici uomini.

   Figlia unica come ero, non avevo nessuno con cui giocare in famiglia e mamma non permise mai che andassi presso altre famiglie a giocare. Crebbi perciò senza amicizie della mia età. Le mie compagne restavano solo compagne di scuola. Passata la porta dell'Istituto io le perdevo fino al giorno di poi.

   Ma avevo degli amici «grandi», dicevo io, per dire adulti. Ed erano gli amici di papà, quasi tutti scapoli, che frequentavano la nostra casa per trovare in essa un riflesso di famiglia intorno alla loro solitudine di celibi.

   Tutti militari, naturalmente. Erano molto buoni e mi volevano molto bene ed io a loro benché, quando ero a spasso con papà e li incontravo, mi dolessi in fondo al cuore per la passeggiata sciupata. Perché per me era sciupata, dato che dovevo camminare gravemente in mezzo a loro, facendo bene attenzione a non inciampare nelle lunghe sciabole di cavalleria o di non graffiarmi le gambette contro i loro speroni, e dovevo ascoltare i loro discorsi seri di armi, tattiche, decreti ministeriali, l'ultima seduta alla Camera, i preparativi per la visita al Sovrano di… mettiamo per caso: del Presidente della Repubblica di Andorra. Tutte cose per me noiose come la nebbia. Ma però volevo loro bene perché sentivo che me ne volevano e ne volevano tanto al mio babbo adorato. Ora io amavo più di me stessa quelli che volevano bene a papà. Poi vi erano i superiori di papà. I capitani, i maggiori, i colonnelli.

   Il Reggimento di babbo, il 19° Cavalleggeri Guide, era, come tutti i Reggimenti di cavalleria, pieno di titolati e di ricchi i quali, per esser ricchi o titolati o tutte e due le cose insieme, avevano bellissimi cavalli di razza, cani pure di razza, caprette, perfino una scimmia eritrea. Una vera arca di Noè nella quale io mi trovavo molto a mio agio perché fra me e le bestie, tutte le bestie meno i gatti che mi saltano agli occhi appena mi vedono, vi è sempre stata una grande comprensiva amicizia.

   Orbene, quando alla domenica mattina papà mi portava con sé alla Messa — dopo la morte di nonna ci pensava lui — e dopo in caserma per il rapporto, io ero felice e tutti quegli omoni gallonati erano dei papà per me. Chi mi faceva portare da un soldato l'ultima cucciolata da carezzare, chi mi conduceva a vedere il puledrino nato nella notte e che cercava, dando zuccate maldestre, con avidità il capezzolo materno, chi fischiava ai suoi magnifici veltri spagnoli che accorrevano a balzi e mi si sdraiavano ai piedi perché potessi carezzarne il pelo di seta, chi mi issava sul dorso del ciuchino minuscolo come un cane danese, chi mi metteva in mano lo zucchero per darlo al proprio cavallo preferito; e poi c'erano due caprette del Tibet tutte bianche, dal vello fino a terra, intelligentissime, che appena mi vedevano o sentivano correvano belando a mettermi il musetto roseo nella mano in cerca di sale. Erano la mia passione.

   Perfino quel campione di originalità del tenente colonnello — un piemontese tutto d'un pezzo, della più antica nobiltà cisalpina, il quale pretendeva imporre il piemontese, e che fosse capito a volo anche, pure ai napoletani, uno di quegli esseri messi al mondo per santificazione o per dannazione del loro prossimo, uno di quegli ufficiali ai quali è destinata la prima pallottola dei loro gregari non appena una guerra giustifichi la morte per arma da fuoco — mi voleva bene. Bellissimo uomo e ricchissimo, non si era sposato per legge di maggiorasco. E aveva, di tutti gli scapoli per forza, tutti i difetti. Pure con me era buono e di una riservatezza di modi da prefetto di un seminario. Per me subito pronti i wafer di Talmone: unico dolce da darsi ai bambini, diceva lui, e si doveva ubbidire e mangiare i sigari, le noci, le tartine di cioccolato squisito avvolte nel cialdone croccante. Per me subito pronto il suo grammofono, uno dei primi, allora, e coi dischi più belli. Anzi, quando ero malatina, me lo mandava a casa. Per me subito aperta la sua splendida scuderia coi tre cavalli frementi, un capitale vivo, e la vecchia Gina, un'araba tutta di neve, la sua prediletta in gioventù, ormai cieca e che egli aveva pensionata e si tirava dietro per l'Italia col suo box imbottito perché non s'avesse a far male urtando contro il legno nudo. Sì, perché quest'uomo, che tormentava gli uomini suoi pari, era pietosissimo verso le bestie… Aveva anche una volpe zoppa, catturata da lui nell'Agro Romano, durante una caccia. Una bestiaccia selvaggia, mordace, che non amava altro che il suo padrone e un pochino me.

   Il colonnello, poi, era un santo. Pure egli piemontese e nobile, molto nobile, era l'opposto del tenente colonnello. Uno era la burrasca, l'altro il sereno. Uno il padre dei suoi soldati e l'altro il domatore. Ma con me erano buoni ugualmente tutti e due.
   Poi vi erano i soldati. Ecco: certuni, a sentire dire soldati, pensano che siano tutti dei mezzo delinquenti e dei viziosi senza altro. E non riflettono che l'esercito è fatto dei figli degli italiani. Io non discuto sulle virtù dei militari e specie su certe virtù. Ma devo, per la verità, dire che in tanti anni che ebbi contatto con essi non udii mai dalle loro labbra parole o discorsi sconci né vidi atti triviali. Molto più ho da rammaricarmi delle donne. Ma dirò di esse più qua.

   I soldati erano con me dei grandi e buoni ragazzoni, tutti felici di portarmi a vedere il loro cavallo, di mostrarmi la… orripilante cartolina illustrata, ricevuta al mattino dalla loro bella lontana, e chiedermi che io la leggessi e rispondessi. Capirà che confidenza e che onore per me! Io ero «il genio, l'aiuto»!…

   Come erano contenti quando potevano offrirmi un frutto venuto dal loro lontano paese! Come si studiavano per fabbricarmi giocattoli semplici, ingegnosi, statuine per il presepio, piccole seggioline e un tavolinetto, che è ora a fianco del mio letto e che mi è caro perché mi ricorda uno fra i miei prediletti soldatoni. Ogni tanto venivano col passerotto caduto dal nido. Sapevano che ci tenevo agli uccellini. Poi in dicembre mi portavano il fieno più bello, fino come capelli di donna e profumato, per l'asino di S. Lucia. Mi assicuravano che era il fieno del Colonnello… e sulla loro parola mi mettevo quieta pensando che il ciuchino di una santa poteva mangiare il fieno della scuderia del Colonnello, del nostro Colonnello, perché il nostro era per me un colonnello speciale, dato che comandava il Reggimento dai colori di Maria Ss.: bianco e celeste.

   Certo mi divertivo più fra i soldati che non nelle noiose visite di società in cui le signore parlano di nascite, di malanni, ecc. ecc., non pensando che i bimbi hanno sempre le orecchie ben aperte, anche se non sembra, e che sarebbe doveroso risparmiare all'innocenza certe precoci rivelazioni. Come sarebbe utile risparmiare al cuore e alla mente in formazione certe… scuole di mormorazioni e di vacuità che pure informano di sé le conversazioni dei salotti nelle ore delle «visite».

   Come le ho sempre odiate! Divenuta col crescere timidissima, era per me un supplizio esser portata qua e là e messa in mostra come una bambola, sotto gli occhi severi di mamma che si inquietava perché io parevo una scema e non capiva che il filtro magico di quella mia scemenza era nel suo sguardo che mi impauriva.
   Anche le corse per i negozi con mamma non mi andavano a genio. Mi annoiavo a morte a correre da una sartoria a un negozio di cappellini, con lunghe stazioni (non precisamente sacre) davanti a vetrine di stoffe ecc. ecc. Preferivo le passeggiate al Parco, al Giardino Pubblico, meglio ancora ad Affori (allora campagna assoluta). Ma mamma non ci veniva quasi mai. Aveva sempre qualche malanno… molto più che ella ai suoi «bibi» ci fa, ci ha fatto sempre una immensa attenzione.

   E così uscivo io e papà. Ma che belle passeggiate! Nei giorni di sole all'aperto. Nei mesi d'inverno nei musei. Quante cose sapeva il mio babbo! E poi c'erano i viaggi premio: sui laghi, a Cremona, Mantova, Verona, Venezia durante le feste di primavera, e in Toscana nei mesi estivi. Allora veniva anche mamma. Ero felice fra loro due… Ma erano rare oasi… Dirò più avanti.

   Altri amici non ne avevo da piccina, fuorché una vecchietta abitante nello stesso palazzo. Si chiamava Pace e suo marito Romeo. La loro casa era una vera pace. Come si amavano! Al terreno avevano un negozio di cartoleria, ormai gestito dal nipote perché non avevano mai avuto figli: la loro unica croce. Le più belle decalcomanie erano per me, e così le più belle immagini e le più lucide copertine per i libri di scuola.

   Quando vi fu l'Esposizione a Milano la signora Pace, che non usciva mai perché diceva che il movimento le dava le vertigini — «mi fa balorda», diceva — spinse il suo affetto per me a uscire per condurmi all'Esposizione, e là era quel minuscolo sapiente che ero io che erudiva la buona, semplice vecchietta. Cara anima che assomigliavi a quella di mia nonna, ti amo ancora.

   Ho detto: non avevo altri amici. Ma ho sbagliato. Avevo una povera vecchierella che abitava nelle soffitte e che fra un… interregno ancillare e l'altro veniva a fare un mezzo servizio. Mia madre la aiutava molto, la curò quando fu malata gravemente, perché mi è dolce dire che anche mia mamma ha dei lati buoni. Povera Santina! Il marito era un vecchio ubriacone… la figlia, unica rimastale e ormai sposata e con diversi figli, si consumava facendo la stiratrice nella casa di fronte. Voleva bene alla mamma ma era povera lei pure. Io andavo spesso nella misera ma pulitissima soffitta di Santa. Di giorno l'ubriacone non c'era mai. E là mi sentivo felice perché quella linda vecchierella mi pareva la mia nonna. Le andavo in braccio… Poi giocavo con la sua nipotina.

   Se avevo la superbia di non chiedere scusa ero, viceversa, molto portata verso gli umili. Non ho mai sprezzato il povero, il popolano, l'ignorante. Se mai mi hanno dato sempre noia i miei pari o i miei superiori per censo e condizione, se sono dei «muf­foni e dei posatori».

   Volevo bene alla povera Santa e alla sua nipotina e ero contenta se le potevo portare delle buone cosine. Si giocava alla bambola coi miei giocattoli e Santina-nipote voleva sempre fare la cucina, certa che poi… i pasti luculliani a base di frutta fresche e secche, dolci, cioccolato, li mangiava lei. Io avrei preferito giocare alle mamme. Ho sempre avuto l'istinto della maternità e il desiderio dei figli… Oppure ai feriti. Ho anche sempre avuto la vocazione dell'infermiera. Il dottore di famiglia rideva ammirato davanti alle perfette fasciature di teste, gambe, occhi che io applicavo alle mie numerose pupe che erano «tutti feriti di guerra perché la guerra era venuta», dicevo. Triste e vero presagio del cuore! Ma cedevo al desiderio di Santa-bimba e facevo la cucina.

   Poi volevo bene alle donne di servizio. Col mio carattere affettuoso sempre mendicante carezze, più necessarie a me del cibo stesso e — devo dirlo perché Lei si è raccomandato che io dica di me il male ma anche il bene — e col mio temperamento quieto, senza capricci, umile, ero molto amata dal personale di servizio e lo amavo molto.

   Veramente mamma, che per sé stessa mi teneva abbassata come un filo d'erba sotto il piede di un uomo, avrebbe voluto che io, per quanto fossi un cosino alto da terra ben pochi centimetri, mi dessi delle arie di padronanza e, naturalmente, di alterigia. Ma io non potevo fare questo, sia per natura e sia perché, osservatrice come ero, avevo notato che mentre con la mamma i dipendenti filavano, è vero — e sfido a poter fare diverso — ma anche, appena potevano, se la svignavano alla prima occasione, con papà, sempre paziente, gioviale, senza boria, un vero padre degli umili, le cose andavano ben diverse, e il mio buon papà doveva destreggiarsi per liberarsi dai troppi soldati che volevano tutti essere alle sue dipendenze e che, finito il loro tempo militare, si riaffermavano per non perdere il loro superiore. Io notavo gli sguardi di affetto e gli atti di affetto spontanei che sgorgavano da quei cuori semplici che si sentivano amati e ubbidivano ai desideri, non ai comandi perché papà era così buono che non comandava mai, ma era anche così amato che il suo minimo desiderio era non solo subito tradotto in opera appena lo esprimeva ma anche indovinato con quella prescienza che dà l'amore. Io volevo essere come papà. Per spirito imitativo di figlia, per cui pare tutto bello quanto fa il prediletto fra i genitori, e perché mi era facile essere come papà, avendo il suo stesso cuore, mentre… non avrei assolutamente potuto divenire come mamma.

   Ero perciò buona e affettuosa con la domestica, coll'attendente, con tutti. Mi rifugiavo presso loro per avere carezze e giuochi… Spesso mamma andava fuori per le odiose visite di società alle quali spesso non mi portava, con mia immensa gioia, perché le ho già detto quale supplizio fossero per me. Io restavo a casa con la donna e col soldato. Che belle ore serene! Ho avuto delle care ragazze che, pur nella loro semplicità campagnola, hanno avuto per me tesori di affetto. Le belle storie delle fate, le leggende dei loro paesi, i giuochetti che rallegravano i loro fratellini al paese venivano tutti messi in moto per rallegrare anche me.

   I soldati poi erano i miei… chirurghi preziosi per tutti i balocchi rotti, erano i costruttori di nuovi balocchi, erano i raccoglitori di frasche e di borraccina per il presepio, erano gli allevatori delle mie bestioline.
  Ma, come ho detto sopra, se dei soldati non ho nulla a dire fuorché del bene, circa le domestiche devo dire che, nella lunga teoria che ne vidi sfilare, qualcuna lasciò a ridire e avrebbe potuto nuocermi molto se Gesù lo avesse permesso.

   Una mi insegnò a rubare. Proprio. Aspettava che mamma uscisse e poi mi diceva: «Prendi questo, prendi quello e dammelo. Ma non lo dire». Non era cosa di valore perché mamma teneva e tiene tutto sotto chiave: qualche matassina di filo, dei dolci, delle frutta secche, dei liquori. Cosa ne facesse non so. Il certo è che mi insegnava a rubare.
   Un'altra, per pura ignoranza, mi teneva discorsi di cose non adatte a me e che solo la mia assoluta innocenza mi impedì di capire a fondo. Li capii più tardi, fatta ormai donna e ricordando quei discorsi.

   Ho detto «assoluta innocenza». Sì, ero una innocente pur non essendo un'oca. Avevo uno spirito d'osservazione acutissimo fin da piccola, una memoria tenace. Perciò può ben pensare che notavo tutto, catalogavo tutto, mi rendevo conto di tutto.
   Molto avanti a scuola rispetto all'età — pensi che a tredici anni e pochi mesi finii le complementari e le tecniche insieme, le dirò poi il perché — non potevo fare a meno di avere familiarità col Dizionario… e le assicuro che non lo lasciai in pace e che questo e la «Divina Commedia» mi servirono di scuola sul vero animale della vita. Ma però, e Dio ne sia benedetto, non ne ebbi nessun turbamento. La natura della nostra animalità spiegò tutti i suoi lati davanti a me senza che io ne venissi scossa. Scoprire il perché di una legge fisica o di un organo mi lasciava nella stessa calma che veder sbocciare un fiore.

   Ho letto di recente nella Vita di Maria Ss.1, che Lei mi ha dato da leggere, come l'Eterno compì sempre verso la Vergine il miracolo di velarle quanto avrebbe potuto urtare la sua verecondia verginale. Con me pure la bontà di Colui, che «per avermi amata di un amore eterno» veglia continuamente su me, ha operato il miracolo di stendere sulle parti oscure della nostra esistenza d'uomini un velo di splendore, che le rese pure anche se impure, gradevoli anche se sgradevoli, accettabili senza scosse anche se, per la loro rivelazione brutale, avrebbero potuto scuotere la mia casta ignoranza di bimba cresciuta senza fratellini, senza piccoli amici, sola in una famiglia dove l'innocenza mia era molto tutelata.
   Mi ricordo un episodio. Avvenuto quando ero in collegio e già dodicenne. Quell'anno, nel mio quieto collegio per poco avvenne una… mezza rivoluzione e causata proprio dal turbamento di una ormai di diciassette anni e sorella maggiore di una vera tribù di fratellini.

   Leggevamo i «Promessi Sposi» ed eravamo una ventina di allieve in quel corso. A nessuna accadde nulla. Ma a quella poverina, per me un po' tocca di cervello, il capitolo della monaca di Monza fu un fiammifero gettato in una polveriera. Pareva una spiritata! Chiedeva a tutte se poteva esser vero che i bimbi nascano da noi donne e come poteva avvenire. Delle mie compagne non so cosa risposero. Io, interrogata come l'oracolo della classe, risposi testualmente: «Ma certo! Non lo dice anche l'Ave Maria? Cosa c'è di speciale? Se Gesù è nato da Maria è segno che noi si nasce dalla mamma!…». E buona notte.

   Altro non pensavo. Consideri che ho dovuto aver passato di molto l'epoca degli studi per poter dire di aver conosciuto certi particolari e anzi solo mi divennero noti durante questa malattia. Merito mio? No. Grazia data gratis dal buon Dio e di cui non ho a vantarmi ma solo a ringraziarlo.

   Però, per tornare al capitolo delle domestiche, ho sempre pensato che io mamma mi sarei tenuta più vicino mia figlia, vicina con amore,per impedire che essa cercasse conversazioni e scuole presso povere creature che non sempre sono quali dovrebbero essere di prudenza, di moralità, per avvicinare una vita in formazione.
   Quanto tatto ci vuole coi piccoli! E come sarebbe bene ricordare sempre «che i loro angeli vedono Dio»2! Invece ho notato negli adulti poco riguardo, specie fra le donne. Conversazioni, giornali e libri lasciati a portata di mano dei piccoli, mentre sarebbe bene non lo fossero; spettacoli, mode, poco riguardo nel vestirsi in presenza dei bimbi. I quali vedono, odono, riflettono meglio degli adulti! Lo torno a dire.

   Io, pensando a come ero attenta io, ho sempre avuto una scrupolosa cura della innocenza dei piccini che il caso ha messo vicino a me. Anche recentemente ebbi a impormi al medico che, in presenza del suo bimbo di tre anni, mi voleva visitare. «Ma tanto non capisce niente», disse il medico alludendo al suo piccolo che giocava con delle figurine. «Ma io non voglio lo stesso», ho risposto.
   No. Molte cose potrà rimproverarmi Iddio ma, scrutandomi bene, mi pare proprio che non potrà chiedermi conto del perché ho fatto questo o quello a danno di un innocente. E questa certezza di non avere leso nessun candore è pur dolce e riposante al mio cuore. No. Ora che credo d'esser prossima a giungere nel porto eterno o in cima alla vetta della mia vita, guardando il cammino compiuto mi pare proprio di poter dire: «Non sono stata causa di corruzione a nessuno». Se del male ne ho fatto, a me sola l'ho fatto, e in modo che di esso neppur l'ombra ne apparisse, e questo non per ansia di stima umana ma per rispetto della altrui anima che, di adulto o di bimbo, di giusto o di peccatore, ho sempre rispettata come opera di Dio, pensando che come nessun mortale è completamente santo — la santità assoluta è sola di Dio — così nessun mortale è completamente peccatore. Perciò ho sempre curato di non portare altre briciole di malvagità nei cuori o di gettare in essi la prima briciola, se erano cuori innocenti.

   Io fui urtata, ferita, infangata dall'imprudenza altrui e dovetti rialzarmi, guarirmi, mondarmi da me sola. Sì, da me sola perché aiuto umano non ne ho avuto e, come vedrà da sé, l'opera di Dio in me fu opera di assecondamento più che di imposizione. Opera lentissima, penetrazione più impercettibile di quella del microbo in un corpo. E non progredì altro perché io risposi al primo appello.
   Penso alla valanga che non si forma se il primo fiocco di neve non inizia il moto vorticoso e se tutto il fianco montano non vi si presta. Io e Dio abbiamo formato la valanga. Egli il  primo fiocco al quale io ho dato la prima spinta… e poi, sempre più grande e veloce, si formò la valanga, l'unione, la discesa che è ascesa nel­l'abisso della Divinità, attraverso l'annichilimento della creatura che si riforma, nascendo a Dio per la vita eterna con l'amore e col dolore.


   Vita di Maria Ss.: potrebbe trattarsi del volumetto "Maria di Nazareth" di Igino Giordani, Firenze 1942, Casa 
Editrice Adriano Salani.
   2 i loro angeli vedono Dio è citazione da: Matteo 18, 10.
MV a 4 anni
Padre con colleghi 1°dex

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