giovedì 30 maggio 2019

Maria Valtorta a Firenze



AUTOBIOGRAFIA 

CAPITOLO 11


Firenze.

Al ricordo del mio passato sono come un uccello al quale si spezzino le ali.
 S. Teresa di Gesù1

   Le preghiere liturgiche di oggi, 18 marzo, portano le seguenti parole all'introito della S. Messa: «È bello dar lode al Signore e cantare inni al tuo nome, Altissimo».

   Si può dar lode al Signore in molti modi perché, come in cielo molte sono le magioni del Padre e diversi, in esse, i gradi di gloria dei beati, altrettanto in terra diverse sono le maniere di servire e lodare Iddio, per quanto uguale ne sia il fine e uguale il premio di vita eterna.
   È bello dar lode al Signore con la purezza e l'ubbidienza di una vita intemerata che non ha mai conosciuto soste nel suo andare verso Dio. Ma è anche bello dargli lode con la riparazione di una vita che, convinta del suo fallo, si umilia fin sotto alla polvere di cui è men degna perché, essendo dotata di ragione, ha più mancato verso Dio che non manchi la materia bruta se disubbidisce, per un attimo, all'ordine voluto dal Divino Fattore.
   È bello perché si testimonia così, per tutto il resto della vita, che noi siamo nulla, e lo prova il nostro cadere miseramente non appena Dio ci lascia a noi soli, e che riconosciamo che nella nostra risurrezione è la voce di Dio che opera, comandando a noi, poveri Lazzari2 morti alla grazia, sepolti nel buio, fetidi di peccato, corrotti nello sfacelo di morte, il suo imperativo di potenza e di compassione: «Lazzaro, vieni fuori».
   Allora noi, poveri Lazzari, si esce dalla prigione della tomba morale e, ancora con le braccia, le gambe, il corpo involto e impedito dai lacci mortali, sozzi dei trasudati delle malattie morali e ancora col volto coperto dal sudario e la lingua intorpidita dalla paralisi di morte, moviamo i primi incerti passi, balbettiamo le prime parole di lode finché Gesù, ancora «fremente in cuor suo» per la constatazione della morte di questa creatura, ricomprata dal suo Sangue e da Lui strappata, col suo Pianto, alla stretta mortale, comandi una seconda volta: «Slegatelo e lasciatelo andare». Allora, liberi totalmente da tutto l'apparato funebre, noi, risorti, cantiamo, insieme a Gesù, Figlio di Dio, il nostro inno al Padre che è nei Cieli: «Padre, io ti ringrazio!».

   Per mio conto sento che se deve esser grato a Dio colui che la bontà di Dio ha sempre preservato dal male, ancor più gli è grato colui che si vede da Dio salvato.
   Dissento in questo da S. Teresa del Bambino Gesù. In un punto della sua «Storia di un'anima» ella dice che il massimo della gratitudine la deve sentire l'anima a cui Dio, come un padre amorosissimo, ha sempre scartato tutti i pericoli.
   Io dico che non è così. Infine Dio ci ha o non ci ha dato l'intelligenza, la capacità quindi di guidarci? Infine Dio ci ha o non ci ha dato un cuore capace di amare? Or dunque, posto che Dio ci ha creati capaci di guidarci moralmente e ci ha dato una Legge perché si sapessecome guidarci, il dovere nostro è di vivere moralmente retti, secondo la sua Legge e secondo anche l'invito dell'amore.
   L'uomo sa che Dio lo ama. E come potrebbe dubitarne se ci ha tanto amati da mandare il Figlio suo a morire per noi? L'uomo sa che le sue ribellioni, le sue cadute, il suo persistere nel male dànno a Dio dolore. Badi che non tengo conto dell'offesa. Mi occupo solo dell'amore. L'offesa presuppone un futuro castigo. È giusto. Ma con questo castigo la partita fra il Giudice e il colpevole, fra la Legge e il trasgressore della legge, è bella e liquidata. Invece non si liquida, in nessun modo, la pena che noi rechiamo al Cuore del nostro Dio col nostro disamore. Cento inferni non basterebbero a distruggere questa pena, nulla la può riparare, nulla che sia castigo. Solo il nostro ritorno all'amore, all'ubbidienza amorosa, solo il nostro amoroso pentimento che si duole, non del castigo meritato, ma dell'avere addolorato Iddio,può riportare il sorriso negli occhi di Chi ci ha creati, amandoci al punto di immolarsi per noi.
   Perciò, quando un'anima si accorge che la longanimità di Dio è stata tanto grande, la sua pazienza tanto somma, la sua paternità tanto amorosa da darle tutto il tempo, tutti i mezzi, per tornare a vivere nella legge, non solo, ma non appena la creatura dal suo fango, nel quale ha bestemmiato Iddio, ha vilipeso sé stessa, creata a immagine e somiglianza di Dio, leva lo sguardo al cielo in un anelito di redenzione, vede scendere Dio a rialzarla, a stringersela al cuore, a confortarla a sperare nella sua guarigione, ad assicurarla che, per suo conto, essa è già perdonata e amata doppiamente, appunto perché è una povera anima ammalata, indebolita dall'infezione subita, come può detta creatura non sentire una gratitudine ancora maggiore di quella di colei che non avendo mai demeritato è giusto che sia amata?

   Si dirà: «Ma quest'ultima deve esser grata a Dio appunto perché Egli l'ha preservata». Ma quanto mai, rispondo io, non gli sarà arcigrata colei che si vede amata di un doppio amore che non solo ama, ma ama al punto di perdonare l'offesa ricevuta?
   Il Maestro l'ha detto3: «Quegli a cui meno si perdona meno ama». Ora, coloro che hanno lievemente, solo lievemente disgustato Dio, più con imperfezioni che con vere colpe, ricevono naturalmente un perdono minore, ma coloro che hanno peccato gravemente, ostinatamente, devono per forza fruire di un perdono molto, ma molto più grande. E perciò hanno un obbligo, soavissimo obbligo di gratitudine sconfinata verso il Perdonatore divino.
   «La tua fede ti ha salvata, vattene in pace», dice il Salvatore all'anima macchiata dal peccato e che si volge a Lui, il solo che la può mondare. Grande la fede in Lui di quest'anima che ha capito dove sta la medicina per la sua lebbra! Grande di conseguenza la pietà del Medico divino che si curva a sanare le sue piaghe. È un flusso e riflusso di generosità fra l'anima e Dio. L'anima si dona incondizionatamente, generosamente, sotto il pungolo del pentimento e della riconoscenza. Dio, il Perfetto in tutte le cose, non può esser da meno della creatura umana, e perciò dona la sua generosità perfetta nel perdono che è la più alta forma dell'amore.
   Ma brava Maria! Guarda dove sei andata a finire! Su un pulpito, tu che non sei neppur degna di stare sotto a un pulpito! Mi perdoni, Padre. L'amore riconoscente è come un vento che trasporta ben lontano e bene in alto…

   Quando lo Spirito Santo — io penso che sia il Paraclito che genera queste forze nei cuori — infonde in noi il suo fiato divino, esso ci investe e ci trascina in un gorgo soprannaturale verso le altezze dove vive Dio e da dove provengono gli splendori che illuminano la povera anima oppressa dall'involucro mortale. Bisogna che l'anima canti, in certi momenti, per non esplodere sotto la pressione e l'incandescenza dell'amore. E se la povera parola umana è sempre insufficiente ad esprimere il divino, è pur sempre sfogo al superardore che ci accende più di una febbre… È infatti una febbre spirituale, non meno struggente di una febbre fisica.
   Finché non raggiungeremo l'età perfetta, nel bel Paradiso, siamo dei piccoli bimbi, intenti a farfugliare le prime parole. E fossimo almeno dei pargoli anche per la vita di fede!… Ma noi sappiamo restare all'infanzia solo nel bene. Nel male invece diventiamo subito adulti, purtroppo, direi perfetti, laureati nel male. E così ci rendiamo indegni di entrare nel regno dei cieli dove entrano solo coloro che sono senza malizia come bimbi innocenti.
   Ma veniamo alla mia storia.
   Arrivammo a Firenze la mattina del 1° marzo 1913. Il 4 marzo prendemmo possesso del nuovo appartamento.
   La casa, molto bella e ariosa, guardava colla facciata sul Parterre di S. Gallo, allora non deturpato da quel brutto palazzo costruitovi molti anni dopo per le Esposizioni dell'Artigianato. Nell'interno guardava su un bel numero di giardini che andavano fino al viale Regina Vittoria. Dico i nomi di allora perché ora, con la fobia per tutto ciò che è inglese, hanno messo altri nomi che non so. Fra questi giardini vi era quello del convento dei Gesuiti con annessa chiesa. Vedevamo i Padri passeggiare là dentro o giocare coi ragazzi del Ricreatorio festivo.

   Dalla parte della via, prossimi come eravamo all'angolo di via Pancani con via Madonna della Tosse, eravamo vicinissimi alla antica chiesa della Madonna della Tosse. Dalle finestre si poteva guardare dentro in chiesa. Ricordo che nel mese di maggio e di giugno io mi mettevo alla finestra e assistevo alla Benedizione eucaristica. Vedevo l'ostensorio alzarsi benedicente, con la sua Ostia santissima, candido sole fra l'oro della raggiera, sulla folla devota, e l'odore dell'incenso e le parole dei cantici venivano fino a me… Anche dalla chiesa dei Gesuiti, dedicata pure a Maria Madre del Buon Consiglio, se non erro, venivano cantici e effluvi di incenso. Io ero su questa linea mistica fra due chiese dedicate a Maria.
   Dalle finestre — abitavamo un terzo piano — vedevo tutte le colline di Fiesole, Vincigliata, il monte Morello da una parte e dall'altra il Casentino sfumava all'orizzonte con le sue curve molli, i suoi dorsi selvosi che cambiavano di colore sotto le diverse fasi della luce solare. Mi dissero che in una certa quale direzione era la Verna. Io, già innamorata del Serafico e della sua dottrina, guardavo sempre là e me ne veniva una grande pace.
   Firenze, a me, spirito artistico e sensibile, piacque subito moltissimo. Le sue chiese, i suoi palazzi, i suoi musei, i suoi giardini, i Colli così — mi si permetta usare questo aggettivo — così spirituali che si snodavano da S. Miniato, bianco nero come un saio domenicano, parlando di Dio e ricordando, con le prossime Porte Sante, che noi siamo polvere, che noi siamo crisalide da cui «l'angelica farfalla» che dovrebbe «volare alla Giustizia senza schermi» deve nascere se noi non l'uccidiamo col peccato, si snodano, giù, giù, fino a Porta Romana, fra i francescani ulivi dai fruscianti colloqui delle chiome verdargento coi venti che portano aroma di selve appenniniche o umide fragranze di boschine lungo il fiume, sempre più largo nel suo corso verso il mare. I Colli che hanno per colonne miliari i pennacchi bronzei dei cipressi, la pianta toscana per eccellenza, la pianta che pare pregare e ascendere, in anelito di preghiera, con la freccia pontuta della chioma raccolta intorno al tronco diritto. I bei Colli dai giardini riboccanti di corolle, dalle pendici piene di zirli, di pispolii, di gorgheggi, dalle belle ville sprofondate fra il verde ed i fiori, e le Cascine che cantano con le loro mille piante secolari ed il fiume dalla voce ora piena, per afflusso d'acque, ed ora appena gorgogliante come rio fra i sassi del greto nei mesi di magra. E Boboli e il Parco dell'allora Museo Stibbert… tante oasi verdi dove amavo andare con papà mio.


   Gli abitanti mi piacevano meno: troppo diversi dai lombardi fra i quali ero vissuta, mi disorientavano col loro modo di fare. Ma con loro avevo tanto poco contatto che era una cosa molto relativa.
   Uscivo molto con mio papà. Erano i bei mesi di primavera, così festosa a Firenze, e ne approfittavamo per andare insieme nei luoghi che più ci piacevano. Io avevo molto bisogno di svagarmi per sentire meno la nostalgia, veramente acuta, del mio Collegio. Papà sentiva il bisogno di svagarsi per sentire meno la pena di essere un pensionato… E così, unendo le nostre due pene, cercavamo di aiutarci a vicenda nell'acclimatazione alla nuova vita.
   Per il resto io continuavo a vivere su per giù come in Collegio. Mi alzavo presto, pregavo, la domenica andavo in chiesa e facevo anche la S. Comunione. Avrei voluta farla più spesso, ma mamma aveva subito iniziato un vero corso teorico-pratico, tutto teso a dimostrare come qualmente non vi è nessuna necessità di confessarsi e di comunicarsi spesso e che chi più di sovente ricorre a queste cose non è altro che un ipocrita, peggio degli altri che non ci vanno, ecc. ecc. ecc. ecc. Quante volte, durante i vent'anni che andarono dal 1913, data del mio ritorno in famiglia, al 1933, data della mia clausura per la presente infermità, non mi sono sentita rintronare nella testa queste gratuite lezioni di indifferenza religiosa!!!

  Se è vero che è segno di amore di Dio il non avere rispetto umano, devo dire che io, allora, fui sempre, anche nei momenti più brutti e nei periodi più desolati, una grande amante di Dio, perché non ho mai ceduto al rispetto umano. Schernita, contesa, offesa perché ero fedele alle mie pratiche di pietà, ho continuato in esse, senza tener conto dei sorrisetti, delle ironie, dei rimproveri che la mia fedeltà mi attiravano. Più tardi, con atto di santa libertà, ho saputo anche andare in chiesa per tutto il mese di maggio, di giugno, per le novene più belle, e comunicarmi tutte le mattine durante questi periodi. Ma in principio ubbidivo, con dolore, e mi comunicavo solo la domenica e il primo venerdì del mese, oltre alle feste principali.
   Il 1° venerdì del mese! Lei vedrà come io ebbi momenti di ribellione e di offuscamento morale. Ma però, neppure nell'acme più acuto di detti periodi, ho tralasciato di onorare il 1° venerdì del mese. Dal 1909, quando entrai in collegio e seppi di questa pia pratica, io non l'ho più interrotta altro che per malattia. Ma doveva essere una malattia ben grave, che mi impedisse proprio di andare fuori di casa… E per impedirlo a me, che giravo imperterrita anche con delle febbri a 39 e 40 e mi occupavo della casa, dell'Ospedale, dell'Associazione di A. C.4, lo stesso come stessi benone, nonostante le alte febbri, bisognava proprio che fosse un male gravissimo…

   Penso che, se nonostante tutto io ho salvato l'anima mia, è stato per questa fedeltà al 1° venerdì del mese. Non lo ha forse detto Gesù a S. Maria Margherita5 che i peccatori troveranno nel suo Cuore l'oceano della misericordia e che il suo amore accorderà la penitenza finale a coloro che saranno stati fedeli a questa pratica riparatrice? Io fui fedele ad essa anche nei periodi di infedeltà su tante cose, e l'infinita misericordia di Gesù mi ha guarita dalle malattie spirituali: mi ha ridato la vista dell'anima per vedere la sua Via, l'udito dell'anima per udire la sua Parola, il moto dell'anima per andare a Lui, mi ha guarita e mondata dalle lebbre, dalle febbri, dalle avvilenti infermità dello spirito, ha comandato al Maligno di lasciarmi in pace. Ho avuto la Vita per mezzo del suo Cuore, e non dovrei ora dargli la mia vita per dire «grazie» al suo Cuore?
    Ma torniamo alla mia giornata…
    Dunque m'alzavo presto, pregavo, riordinavo la mia camera e il salotto da ricevere — era la mia parte di lavoro domestico — aiutavo in cucina, lavoravo, non tanto per allora, studiavo parecchio, suonavo il piano, leggevo molto, andavo a spasso con papà, qualche volta al cinema con lui e anche con mamma, raramente a teatro nei mesi freddi, spesso nell'estate, e mi coricavo piuttosto presto nelle sere che eravamo senza conversazione, perché sovente o noi andavamo o altri venivano a passare la serata in amichevoli conversari.

   A Firenze avevamo trovato amici vecchi e nuovi. Una famiglia, il cui capo era come papà un capo-tecnico dell'Esercito, era composta di marito: un santo nel più vero senso della parola; della moglie: una sventata, una sciagurata che solo quel santo poteva sopportare e perdonare; e di una figlia undicenne. Dopo nacque un bimbo…
   Io, per quanto innocente come un bebé, mi ero accorta che quella donna era un'indegna che sotto gli occhi del marito, della figlia e di noi stessi, non esitava, con la complicità dei camerieri, a scambiare bigliettini amorosi con i suoi… adoratori, mentre eravamo in qualche ritrovo. Ne avvertii mamma dicendo che non me la sentivo di fare da… paravento a certi retroscena. Fui rimproverata acerbamente perché mamma, la quale, come le ho detto già, vede tutto al contrario di quello che è in realtà, giudicava e vedeva la sua amica come uncapolavoro di onestà femminile (!!!).
   La figlia di… questa signora (!) era… una degna allieva della madre sua. Si preparava alla prima comunione con quella scuola e quelle tendenze… Pensi che un giorno la mia cameriera, per quanto ragazza di campagna e perciò senza troppi scrupoli, sentì il bisogno di imporle il silenzio con queste parole: «Taccia e si vergogni. Non permetto che alla mia signorina lei insegni certe cose e tenga certi discorsi!». Io avevo 16 anni e quella… poverina solo 11.

   Mi sentivo menomare, profanare quando ero con quelle due disgraziate. Ma mamma non ammetteva nulla e dovevo andare. Dopo, nel 1915 e anni a venire, quando lo scandalo divenne così palese da esser pubblico, allora mamma dovette ammettere che io avevo ragione… Già! Ma sa Lei, Padre, come mi ha turbata quel contatto? Il male che ci sfiora non ci lascia mai completamente immuni dal suo virus. Qualcosa penetra e se non arriva a impossessarsi di noi completamente, e questo per grazia di Dio prima di tutto e poi per natura nostra, ci disturba sempre, specie quando si è ancora creature giovanette.
   Un'altra famiglia era composta di un tenente colonnello, diviso dalla moglie per incompatibilità di carattere. Col padre colonnello era suo figlio, giovane come me; con la madre tornata a Roma, presso sua madre, era la figlia, più giovane del maschio. D'estate la figlia veniva dal padre e il figlio andava dalla madre. Disgraziata famiglia e disgraziatissimi figli!
   Questo colonnello abitava al primo piano della nostra stessa casa e aveva un vasto giardino tutto suo, mentre un altro giardino più piccolo era degli inquilini del terreno: due vecchi coniugi di cui uno, il marito, era cieco; buoni e sempre afflitti per i molti nipoti discoli o poveri che venivano a rifugiarsi da loro. Al secondo piano stavano un marito e moglie soli e affittavano metà del loro quartiere a ufficiali o a signori che venivano a svernare a Firenze. Le ho fatto questa descrizione perché è necessaria alla mia storia.
   Io scendevo spesso in casa del colonnello per andare nel suo bel giardino e anche perché il colonnello trovava che io ero l'unica che sapesse far studiare suo figlio, intelligente sì, ma svagato come la grande maggioranza dei maschi. Povera creatura al quale era mancata l'assistenza materna! Povero ragazzo sempre in balìa delle donne di servizio le quali, a seconda dei loro nervi femminili, lo viziavano o lo aspreggiavano e anche lo facevano punire dal padre per dei nonnulla!
   Mario, il ragazzo, si era subito molto affezionato a noi, e quando poteva salire al nostro piano e farsi coccolare da mamma era tutto felice. Anche se noi scendevamo da lui era felice. Allora studiava ed era buono. Aveva bisogno di amore, povero Mario che scontava su sé stesso l'egoismo dei suoi!…

   Eh! quanto ci sarebbe da dire in proposito! I figli hanno i loro doveri verso i genitori, sta bene. Ma anche i signori genitori hanno i loro doveri verso i figli… Se si pensasse alle conseguenze di certe «incompatibilità» che altro non sono che egoismo, alle conseguenze le cui vittime sono i figli innocenti, alle separazioni non ci si arriverebbe mai. Ma questo non ha a che fare con la mia storia.
   Ora che le ho presentato i personaggi principali di quel tempo, vado avanti a parlarle del personaggio che più influì su me allora.
   Le ho detto che al secondo piano i due coniugi che vi abitavano affittavano metà appartamento. In quell'anno lo avevano affittato ad un giovane. Era di Bari. Era bello, ricco, colto: un laureato in lettere che però non esercitava perché non ne aveva bisogno e che era venuto a Firenze per ricerche, nelle biblioteche fiorentine, di appunti per una sua opera sui primi scrittori italiani. Era anche molto buono, serio, quieto.
   Uno dei primi giorni che ero in quella casa ci incontrammo sulle scale. Lui tutto bruno nei capelli, nel volto, nell'abito, io tutta rosea e bionda, resa ancor più bimba dal grembiulone che mi copriva tutta.
   Ci guardammo e simpatizzammo subito. Seppi poi che egli si era subito informato su chi ero io. Però la mia timidezza e il mio credermi un orco — perché una delle specialità di mia mamma era quella di suggestionarmi che io ero brutta, poco intelligente, antipatica, con una tale forza che io mi credevo realmente deforme, semicretina e ripugnante — però tutto questo, dicevo, e la mia educazione, tanto familiare come del Collegio, mi impedirono, naturalmente, di far risultare la mia simpatia.
   Nel 1913 le donne, se appena appena erano con un poco di cervello nella testa, sapevano stare al loro posto con quel ritegno che è una delle più belle doti muliebri e che ora… è ridotto allo stato di… ricordo.
   Lui, a sua volta, col rispetto dei meridionali per la donna, rispetto che per certuni di altre regioni pare un resto di barbarismo lasciato dalle dominazioni arabe, ma che è pur tanto bello a rilevarsi, e con la sua eletta educazione, seppe a sua volta ricoprire la sua palese simpatia sotto una vernice di semplice correttezza. Dico «palese simpatia» perché se non furono scambiate parole all'infuori di laconici saluti e frasi di buon vicinato, perché se non vi furono che gli sguardi a sottolineare le più banali parole ed a farle assurgere ad un più alto significato, mentirei se dicessi che non avevo capito.

   Una donna certe cose le capisce sempre. Anche se è un'oca. Si finge di non capirle perché così ci consigliano l'educazione e il pudore, ma si capiscono. Quelle che dicono: «Oh! io non mi sono mai accorta di nulla. Non ho capito che il Tale avesse per me una simpatia», mentono spudoratamente. Un sesto senso proprio di chi si innamora, e tanto più acuto nella donna come essere più sensibile, avverte sempre quando due anime o due corpi sono attirati l'uno verso l'altro.
   Dico: due anime o due corpi, perché negli affetti vi è chi ama unicamente col suo io carnale e chi sa amare anche con la parte spirituale o unicamente con la parte spirituale. E dovrebbero essere questi i più duraturi affetti, perché sentiti e sprigionati dalla parte migliore ed eterna. Nella pratica, invece, avviene tutto il contrario. Essendo difficile trovare l'anima ugualmente elevata che sappia predominare sul senso ed amare essa sola, si finisce che con la nostra affezione, pura da sensualità, si viene a noia e ci si trova abbandonate come creature frigide e incapaci di amare nel modo che i più intendono l'amore. L'ideale sarebbe amare con uguale misura di spirito e di materia. Si amerebbe allora in maniera perfetta. Ma quando mai, noi creature, si è perfette?
   Insomma noi due ci volemmo bene. Un bene muto, paziente, rispettoso. Egli mi vedeva tanto giovane — parevo una bimba — che seppe comprimere il suo sentimento per non turbare la mia giovinezza, riservandosi a miglior tempo di parlare. Io, che avevo capito perfettamente, aspettavo paziente innalzando un altare al mio casto amore.
   Passarono così dei mesi, venne l'estate.
  Noi si doveva venire a Viareggio per le bagnature che duravano sempre tre mesi. Mi piaceva la mia casetta di Via Umberto I° col suo giardino dall'arancio verde, il pesco carico di frutta, il cedro, la pergola… 
   Pochi giorni prima che si partisse noi, partì lui per tornare a Bari dalla sua mamma… Era figlio unico, adorato dalla madre rimasta vedova prestissimo. Non l'ho mai sentito parlare tanto, e tanto ad alta voce, come in quei giorni. La sua bella e cara voce saliva dalla sua finestra aperta alla mia finestra aperta e in tal modo io sapevo che andava per tornare, tanto che riconfermava, fin da allora, l'appartamento per il prossimo autunno. E partì.

   Soffrii molto perché gli volevo bene, realmente bene… «un bene da bambino come a me si conviene», avrei potuto dire con la piccola Ciò-Ciò-san6. Perché infatti il mio bene aveva la purezza e la calma di un affetto di bimba. Ma era però tenace e profondo nella sua purezza…
   Piansi molto, nella mia cameretta, quando lo vidi partire. Mi pareva che tutto si fosse scolorato e che un grande silenzio si fosse fatto sul mondo. Non sentivo più la sua bella voce tonata e virile, la sua perfetta pronuncia, perché, se era di Bari, era però stato educato in collegi della media Italia e perciò parlava un italiano perfetto nella forma e nella pronuncia.
   Forse Lei si stupirà che io mi sia così attaccata ad uno che per me non aveva avuto che saluti rispettosi e sguardi di affetto. Ma pensi cosa era la mia vita. Col papà in quello stato, con mamma così dura, senza fratelli, senza sorelle, con un cuore come il mio, ansioso di affetto… Come potevo non affezionarmi ad uno che mostrava di volermi bene con rispetto e serietà? Nulla in lui poteva disgustare una donna. Non l'origine, non la prestanza fisica, non il censo, non l'educazione, non la coltura. Aveva tutti i requisiti per essere amato.
   Passarono le vacanze. Io, pur fra le distrazioni dei bagni, pensavo a lui. Lui, i fatti me lo confermarono poi, pensava a me.
   Tornammo a Firenze a metà ottobre quell'anno. La signora del secondo piano, che doveva avere intuito qualcosa, mi disse, così senza parere, che egli sarebbe tornato verso la fine di novembre. Aveva rimandato la sua venuta perché la madre di lui era stata molto ammalata di cuore. Egli amava moltissimo sua madre.
   Io continuavo a volergli bene. Nessuno, in casa, aveva però compreso il mio sentimento che io custodivo in fondo al cuore. E nessuno nel palazzo, fuorché la padrona dell'appartamento dove egli abitava. Ma era una donna seria e non fece mai pettegolezzi.
   Passò non solo novembre ma anche dicembre. Io però stavo tranquilla perché sapevo che l'appartamento era sempre tenuto da lui.
   Venne il 5 gennaio 1914. Quel giorno mamma era uscita per delle visite. Io, fortemente raffreddata, ero rimasta a casa, ben felice di restarvi perché la mia antipatia per le «visite» era andata sempre più aumentando con il passare degli anni. Per sentire meno la melanconia della nebbiosa e grigia giornata invernale mi ero messa a suonare il piano. Ero sola perché anche la domestica era uscita per fare delle piccole spese alimentari.
   Suonò il campanello. Andai ad aprire mettendo però la catena, perché da quando a Milano ebbimo la visita di certi teppisti non si apriva più immediatamente la porta, specie se si era sole.

   Egli era lì. Tanto per giustificare la sua suonata al mio uscio chiese se sapevo dove era andata la sua padrona di casa, perché egli non poteva entrare dato che non c'era nessuno.
   Una piccola bugia perché la signora del secondo piano era in casa: la sentivo muoversi di sotto… Ma che poteva dire di diverso per non dirmi a bruciapelo: «Sono venuto subito alla tua porta perché ti amo troppo per attendere un minuto di più»? Disse perciò una piccola bugia, ma il suo viso, i suoi occhi dicevano la verità.
   Risposi che non sapevo dove era la sua padrona di casa ma che mi pareva di sentirla muovere. Allora egli mi chiese come stavo e come stavano i miei. Io chiesi a lui come stava sua mamma, perché lui vedevo che stava benone. E fu tutto.
   Mi salutò, sempre ultrarispettoso, e se ne andò. Io rinchiusi la porta e corsi in camera mia a ringraziare Iddio per la gioia che mi dava.
   Tornò la domestica, che era una brava ragazza affezionata e fedele, ormai da noi da anni, e glielo dissi. Tornò papà e glielo dissi. Tornò mamma e lo dissi a mamma. Noti bene questo mio dire a tutti, ingenuamente, sinceramente, che egli era tornato.
  La domestica non fece commenti e papà neppure. Si limitarono a un: «Ah! sì? Si capisce che la mamma sta meglio». Ma mia madre, che stava svestendosi, aiutata da me, divenne una furia. La stanza da letto di mamma era esattamente sopra la stanza da letto di lui, che era nella medesima, intento a disfare i suoi bagagli. Maleauguratamente un tubo di stufa, collocata nella stanza di lui, saliva nell'angolo della stanza di mia mamma facendo da portavoce… 

  Mia madre, oh! come mi pesa dover riflettere ancora una volta a come mi fu poco mamma in quell'ora, a come mi mostrò di non conoscerela sua creatura… Mi pesa e nello stesso tempo mi dà la misura di come sono cresciuta in Dio. Perché mentre per degli anni, ogni volta che toccavo questo argomento, sentivo sollevarmisi il cuore e un sentimento di rancore unirsi al dolore, rancore verso mia mamma che mi ha così offesa e ferita quel giorno, ora mi accorgo che il rancore è caduto e resta solo il dolore.
   Chi ha operato il miracolo di levarmi dal cuore quel lievito di rancore verso mia madre? Il mio Dio, il mio Padre che è nei cieli, il mio Gesù che mi dice: «Perdona e sarai simile a me», il divino Spirito che mi dà il suo dono di luce e mi fa vedere che tutti i dolori della mia vita, chetutti i crolli delle mie speranze, che tutte le delusioni sui miei affetti, che tutta la solitudine che si è andata facendo sempre più vasta e completa intorno a me, sono stati voluti da un amore speciale del mio Dio che ha, dirò così, potato tutte le mie fronde, segato tutti i miei rami per farmi crescere in altezza, vigorosamente, nel suo giardino. È stata voluta da un amore esclusivo del mio Dio che mi aveva predestinata per Sé e che mi ha levato tutto perché io non avessi più che a cercare conforto in Lui solo.
   Le mie ali che si aprivano ansiose di volo verso le felicità della vita umana sono state tarpate totalitariamente perché non fuggissi qua e là, ma mi abituassi a vivere nell'uccelliera di Dio. Non si fa così anche con gli uccellini, coi colombi catturati adulti, per obbligarli a stare in nostra prigionia, finché il tempo li smemora del dolce nido natìo, dei boschi verdi, dei liberi voli, dei liberi amori fra le fronde pronube e sotto il bel sole di Dio o il palpitare delle stelle? Sì. Si fa così.
   Ma come fa male la mutilazione subita! Ma quanto ci vuole perché rimargini e dolga meno! Ma quanto piangere sul bene perduto! Ma quanto, quanto dibattersi prima di rassegnarsi alle sbarre della uccelliera! Ma quanto, quanto, quanto, quanto scorrer di giorni e riflettere e pregare, dopo aver avuto grida di ribellione e impeti di disperazione, prima di capire quale dono Dio ci ha fatto col levarci tutto e prima di giungere ad amare la nostra povertà umana che è ricchezza soprannaturale, la nostra vedovanza umana che è sponsale col Cristo, la nostra tortura che è futura beatitudine!
   Ora capisco e dico: «Grazie, mio Dio, di avermi voluta per Te!». Ma per i primi anni!… Per quasi un quinquennio ho conosciuto l'inferno delle disperazioni… Basta! Non parliamone più.
   Mia madre divenne una furia. Tutte le accuse, tutte le insolenze partirono a getto continuo verso di lui, verso la domestica nostra, e verso di me. Ah! su di me poi!…
   Lui era un mascalzone, un profittatore, un indegno che coglieva il momento propizio per rovinare la riputazione di una famiglia onesta (?!). La nostra domestica era una… (le risparmio il termine usato) che faceva da paraninfo ai colpevoli amori (?!).
   Io ero una… (altro epiteto che le risparmio, ce li metterà Lei) che in assenza dei genitori accoglieva (?!) in casa i suoi innamorati. Dicessi, dicessi, confessassi, confessassi, posto che mi ero tradita, fino a che punto ero arrivata (?), cosa avevo fatto nel maggio dell'anno avanti mentre lei e papà erano tornati a Voghera per 15 giorni. Dicessi, dicessi fino a che conseguenze si era arrivati col mio accogliere, in segreti convegni, chi mi piaceva, perché era impossibile che io non fossi andata all'estremo dell'onestà e del pudore ecc. ecc. (?)
   Più io giuravo e spergiuravo che nessuna parola, fuorché il saluto che non si nega a nessuno, era stato scambiato fra noi, più io giuravo e spergiuravo che in sua assenza non lui, ma neppure Mario, che era un ragazzo, era salito da me e che io, durante l'assenza dei miei, come d'accordo con lei stessa, ero, si può dire, vissuta nel giardino del colonnello — tutti lo potevano testimoniare — e più lei si incaponiva in una furia offensiva e ingiusta.

   La domestica, accorsa alle sue grida, sentito di cosa mia madre la accusava, si licenziò sui due piedi. Fece bene. Non si sta dove non si è stimati quando si può andare altrove.
   Io, per forza, rimasi. Ero figlia e minorenne. Dove dovevo andare? Avessi potuto, sarei uscita subito da quella casa dove ingiustamente mi si accusava di colpe non vere.
   Non vere. Non vere. Non mi piace giurare perché penso che l'uomo deve essere creduto sulla sua parola e poi perché lo dice Gesù. Ma sono pronta a giurare, a Lei, Padre, che io dico la verità e che i fatti andarono come li dico.
   Mia madre, in uno con l'accusa che mi schiaffeggiò l'anima a sangue e che chiuse completamente il mio cuore alla confidenza in mia madre, mi strappò brutalmente il velo della mia casta innocenza di donna vergine e pura. Seppi così che si può fare del male fra uomo e donna. Fino a quella sera del 5 gennaio non lo sapevo. E questo avermi denudato le vergogne della vita, senza pietà per i miei sedici anni ignari, è stata la cosa che più mi ha colpita e separata per sempre, definitivamente, da colei che mi ha generata.
   Io penso che ci si separa fra madre e figlia quando la figlia non può più pensare di trovare comprensione in sua madre. Resta l'amore, perché quello resta. Ma è un amore istintivo, non dissimile, e forse inferiore, a quello che unisce il cane, il cavallo, il colombo al padrone che lo ospita e cura. La fusione è finita. Si è due individui viventi vicini, ma indipendenti l'uno dall'altro. Qualcosa come quando l'agricoltore, avendo fatto una margotta d'uva, taglia il tralcio, che ormai può vivere a sé, dal tronco principale. Restano vicini, erano una cosa, ma orasono due cose indipendenti l'una dall'altra. Ed è già molto se la pianta più giovane non si vendica sopraffacendo la pianta più vecchia.
   Io non ho sopraffatto mia madre. L'ho continuata a servire per dovere, perché le volevo bene, nonostante tutto. Ma il mio cuore si è chiuso come una valva d'ostrica… Mia madre mi respingeva maledicendomi per una colpa che non avevo commessa. Io mi ritiravo straziata. Ma mi ritiravo per sempre.
   E mio papà? Povero uomo! Mi consolò piangendo… Di più non sapeva fare.
   E lui? Lui, che aveva sentito tutta la scena, in grazia del tubo della stufa e del tono sopracuto di voce di mia madre, comprendendo chenulla, che nessuna ragione avrebbe piegato mia madre alla ragionevolezza, tanto per persuaderla che nulla c'era di vero nel suo modo di giudicare l'avvenuto, così onesto, così lecito, e che lei trovava addirittura essere una macchinazione demoniaca, non trovò altro di partire subito, la stessa sera. Seppi poi dalla sua ex padrona di casa che egli si riprometteva di tornare molti mesi dopo per trovarmi ormai diciottenne e sperando che nel frattempo mia madre si persuadesse… Povero giovane! Come si illudeva! Mia mamma e la persuasione sono due poli contrari.
   Pensi lei, Padre, che giornate passai.

   Scacciata continuamente da mia mamma, nonostante che due giorni dopo l'odiosa scena si fosse fratturato un braccio per via, e perciò avesse ancor più bisogno di aiuto. Aiuto mio perché la domestica era partita immediatamente e perciò eravamo senza donna di servizio.
   Scacciata e insolentita continuamente, avvilita perché, non contenta di quanto aveva fatto in famiglia, mamma aveva aperto un'inchiesta, diciamo pur così; veramente sarebbe più giusto dire che aveva aperto un pettegolezzo, dal quale menomata usciva sua figlia…
  È vero che tutti nel casamento asserivano, e il colonnello più di tutti, che io, durante l'assenza dei miei, o ero stata chiusa in casa o andavo nel giardino del colonnello. Ma era lecito pensare che se mia mamma mi credeva capace di scendere tanto in basso nella scala della serietà femminile, era segno che aveva gli estremi per farlo. Infine io ero lì da pochi mesi. Chissà altrove cosa avevo fatto! Tutti potevano pensare che in altri luoghi io avessi fatto dire di me.
   Mia mamma, accecata dal suo egoismo — in seguito compresi che era egoismo perché, per non perdere la mia assistenza che nessuna cameriera le poteva dare nella misura di affezione e di pazienza che le davo io, mi allontanò sempre tutti i pretendenti — mia mamma, accecata dal suo egoismo, non vedeva neppure che il suo modo di agire intaccava la mia reputazione…
   Io scacciata, insolentita, avvilita, addolorata per la convinzione che il mio sogno era per sempre dissolto nel nulla. Lui lontano e certo mortificato per avermi procurato un tanto dolore in luogo della gioia che si era prefisso di portarmi.
   Non facevo che piangere e meditare, inoltre, su quanto mamma mi aveva brutalmente rivelato facendomi conoscere pagine oscure della vita, che io neppur lontanamente pensavo potessero esistere. Non capivo neppure del tutto quanto fossero sudicie e brutte… Vi fu, naturalmente, chi si prese la briga di farlo, e fu precisamente la governante della casa del colonnello la quale, al corrente di tutto per via dell'inchiesta indelicata di mamma mia, dotata come era di un cuore maligno, godette a soffiare nel fuoco e a erudirmi su quanto avrei potuto fare di male.

   Eppure, mi creda, la bontà di Dio non permise che comprendessi tutta la trivialità di certe cose. Molta parte di esse, quasi per una deficienza mentale, non le capii. Il buon Gesù non volle che la povera anima mia conoscesse tutto il male della carnalità così presto, e non solo il male, ma quelle leggi animali che pure non essendo un male, perché necessarie alla continuazione della razza umana, sono così turbevoli quando ci vengono rese note bruscamente.
   Dio mi occultò molto del male che mia madre e la governante di Mario mi squinternavano sotto al naso, la prima per imprudenza, la seconda per cattiveria. Dio le perdoni, Lui che lo può, derogando per una volta tanto alla sua parola7 che chiaramente annuncia il castigo per coloro che scandalizzano uno dei suoi piccoli che credono in Lui.
   Perché quel poco che capii fu abbastanza per scandalizzarmi e turbarmi. Era come se una mano brutale mi avesse tenuta curva su una mofeta, su una voragine da cui salissero miasmi di febbre. Anche a non voler respirare, qualcosa penetra lo stesso portando nocumento al fisico. E nocumento mi portarono. Non c'è nulla di peggio per una giovane creatura del conoscere a mezzo le cose ed essere portata, dalla mente sempre curiosa, a riflettere, ad arzigogolare su quello che le hanno fatto balenare davanti a metà e per di più nella metà inferiore, in quella che, presentata con malizia, può tanto agitare un giovane cuore.
   Né qui si fermò il male provocato da mia mamma con la sua intransigenza e col suo egoismo. Ma da questo sono partiti tutti gli altri affanni che hanno distrutto la mia vita, e per poco non distruggevano anche la mia anima.
   Ora capisco, ripeto, che quel che per un sette anni mi parve ingiusto accanirsi del destino su me, quel che mi parve per sette anni circa immeritato abbandono da parte di Dio, era invece compiersi su me del desiderio di Dio, anche contro la mia stessa volontà, era non abbandono ma amore geloso di Dio che voleva essere il mio Tutto, il mio Solo, e che perciò doveva agire come agiva per incanalare il mio sentimento, che tendeva ad espandersi sulle creature, unicamente nel canale che sfociava in Lui.
   E se dopo avermi fatto tanto male, se dopo avermi spezzato la via che conduceva alle nozze, mamma fosse stata almeno dolce… Avrei finito a non rimpiangere molto il bene perduto. Mi sarei attaccata a lei e mi sarei rassegnata. Ma col suo modo di fare sempre più intransigente e stravagante, col suo continuo rinfacciarmi quel che non avevo commesso, col suo mostrarmi una disistima che nonmeritavo, e dimostrarmela in mille modi che andavano dal pedinarmi per la via, fin nella chiesa dove andavo per pregare, all'aprirmi tutta la posta, anche quella, ben munita di dicitura sulla busta, che veniva dal mio Collegio e che era guida delle mie buone Suore alla povera Maria lontana e infelice, mi rendeva sempre più triste.

   Qualche volta riuscivo a scrivere alle Suore di nascosto e a imbucare la lettera con un gran batticuore di essere sorpresa, ma dovevo raccomandarmi di non rispondere a tono perché mamma mi apriva tutte le lettere. Altro che censura di guerra! E così le buone Suore si dovevano accontentare di stare sul vago. Mi davano consigli buoni, ma di ordine generale e non quelli che più mi erano necessari nelle mie contingenze speciali.
   La mia salute cominciò ad alterarsi. All'ormai cronico dolore vertebrale cominciò ad unirsi una pesantezza delle membra, un turgore alle carotidi, una fatica nel salire le scale. Ma, secondo al solito, quando cominciai ad accennare a queste noie mi sentii rispondere che erano ubbie, sentimentalismi, troppo buon tempo, ecc. ecc. Tacqui perciò e non ne parlai più. Del resto, l'idea della morte mi sorrideva. Pensavo che era l'unico modo per uscire da una situazione così infelice e che capivo non sarebbe mai cambiata. Perciò mi ascoltavo peggiorare senza averne paura, ma anzi avendone gioia.
   Come vede, Padre, la morte ha avuto per me un volto familiare fin dall'aurora della vita. E se desideravo tanto di finire per trovare pace, una pace umana in fondo, volendo evadere dalla guerra che mi faceva mia madre, vuole che più tardi, quando ho capito che l'immolazione per un fine santo ci apre il Regno della vera pace, io abbia esitato a desiderare l'olocausto completo? E se per amore delle creature che mi erano state levate ho desiderato morire, vuole che non abbia desiderato morire per andare dal mio Gesù che mi ama come Lui solo può amare e che mi ha concesso la grazia di amarlo al disopra di ogni cosa?
   D'ora in poi vedrà che questa idea della morte è il motivo-base della mia sinfonia. Sinfonia che ha pagine di un'umanità molto, completamente anzi, umana e poi conosce un lungo innalzarsi di armonie, sempre più in alto, nel regno del soprannaturale.
   Sì, la povera Maria tutta umana, che fui dai miei 17 ai miei 24 anni, si è pian piano metamorfosata in una creatura nuova che ha sostituito Dio all'uomo, primo suo amore, che alla sua sete di gioia umana ha sostituito la sua sete di immolazione sovrumana, che del Dolore ha fatto la sua Gioia perché «colui che ama desidera essere simile all'amato», e l'Amato di Maria era Gesù il Re del Dolore.

   Durante questo tremendo periodo l'unico molto buono con me, anzi gli unici oltre mio padre che era buono ma incapace di difendermi, erano il colonnello e suo figlio. L'uno mi amava come un padre, l'altro come un fratello. Mi volevano spesso con loro, nelle passeggiate, agli spettacoli. Mamma non condivideva le loro idee… ma mordeva il freno perché il colonnello la sapeva mettere sull'attenti. È stato forse il secondo, dopo la mia nutrice, che ha saputo tener testa a mia mamma.
   Mario poi era pieno di premure per la sua «cara sorellina», diceva lui, la quale lo sapeva far essere buono e studioso e così gli evitava i castighi di suo padre e sapeva anche dire la verità quando la governante lo accusava a torto, per malanimo. Il colonnello aveva in me tutta la stima che non aveva di me mia mamma, e credeva a quel che io gli dicevo e mi dava retta. Io ero così la buona fata di Mario, e come lui da questo traeva conforto ugualmente io traevo conforto dalla sua fraterna amicizia così scevra di secondi fini. Eravamo proprio come due fratelli.
   Ma col settembre 1914 Mario entrò nell'Accademia navale. Persi perciò la sua fraterna compagnia. Ci scrivevamo però per volere del colonnello, che aveva capito quanta benefica influenza io esercitassi su suo figlio.
   Poi, col maggio 1915, scoppiò la nostra guerra e partì anche il colonnello. Restò solo la governante la quale, quando poteva nuocere, era felice e lo faceva con un'arte talmente sopraffina che sapeva ferire in modo da non attirare rimproveri. Quasi quasi bisognava esserle grati del modo come ci trattava!…
   Io divenivo sempre più triste e sofferente, e mamma sempre più prepotente. Uniche oasi di serenità, le vacanze di Mario che veniva allora a casa e perciò tornava ad occuparsi della «sua cara sorellina».
   A mamma Mario non dava ombra. Era tanto giovane: 18 anni, e così ragazzone poi! Anzi le faceva comodo per il suo giuoco che si scoprì più tardi in tutta la sua finezza machiavellica. Mamma me lo teneva vicino come fa il cacciatore con lo specchietto per le allodole. Mi stordiva così, mi distraeva dal vedere altri giovani. Aveva capito, unica cosa che ha capito di me, che quando sono tutta assorbita in una missione non guardo che a questa missione che porto a termine ad ogni costo. E io mi ero prefissa di dare un poco di gioia a Mario, il ragazzo senza mamma che il padre amava, ma di un amore da uomo, e da uomo un po' tanto nervoso, ossia con delle bruscherie, con dei cambiamenti d'umore penosi. Io inoltre volevo far sì che Mario divenisse un bravo ragazzo, un bravo ufficiale.

   Avevo sempre avuto la vocazione di essere una «luce», una «guida», una piccola «Beatrice8» per coloro che amavo. Mi rendevo sempre più buona, più seria, più studiosa per trascinare altri a divenire buoni, seri, studiosi.

   In «Vita nuova» Dante dice, ed è il più bell'omaggio che uomo, e uomo amante, possa dare alla sua donna: «Tosto che ella si mostrava, una fiamma subitanea di carità s'accendeva in me e mi faceva perdonare i torti ricevuti ed amare i nemici miei», e nella «Commedia» Dante fa assurgere questa creatura, che col suo solo apparire gli comunicava il dono dei doni — quello della carità sì altamente esercitata da esser capace di perdonare ed amare i nemici — al ruolo di corredentrice, perché conduce lui ad «amar lo Bene».
   Io, fin da quando avevo studiato e meditato queste parole, m'ero prefissa d'esser per il mio prossimo una «Beatrice». Questo mio proposito mi obbligava a conservarmi buona, a migliorare me stessa per migliorare gli altri, perché ho sempre capito istintivamente che nella scuola della virtù l'unico maestro è l'esempio.
   Non le ho detto in una lettera che Dio si è servito di tutto, con me, per istruirmi al Bene? Anche «Vita Nuova» e la «Commedia» dantesca hanno servito allo scopo. Perché non è cosa da poco prefiggersi, con onestà d'intenti, di portare altri al Bene divenendo per prima cosa noi discepole del Bene. È un fine umano, ma che predispone all'ascesi nel sovrumano. Si comincia ad esser buoni per legge di morale umana e si finisce coll'essere buoni secondo i dettami della legge di morale cristiana.
   Se in me non ci fosse stata questa vocazione, certo messami in cuore da Dio, con tutto quello che passai mi sarei certo smarrita «in una selva oscura» ancor più di quella che avviluppava il Poeta prima che la sua Beatrice intervenisse in suo favore. Invece, nello stesso modo con cui una veste di amianto protegge contro l'azione del fuoco e lo scafandro del palombaro dall'acqua e dai morsi dei pesci, la tendenza ad essere buoni per condurre altri ad esserlo è la più valida trincea contro gli assalti del Male.

   E solo Dio lo sa se ne avevo bisogno di una trincea! Man mano che mi trovavo sola, isolata, col mio ricordo d'amore e col mio ricordo di rancore, sempre pungolata da mamma che man mano che rimaneva senza testimoni in mio favore aumentava il suo rigorismo illogico, io arretravo, arretravo, mi allontanavo da quel codice di bontà e d'amore che era stato la mia norma di vita per degli anni.

   Lei mi dirà: «Ma non mi ha detto che restò sempre fedele ai suoi doveri di cristiana?».
   Sì, ancora credente, ancora osservante. L'amore verso Dio, che era stato il mio motore per tanto tempo, continuava ad agire a mia stessa insaputa e faceva sì che io non sapessi tagliare tutti i ponti che mi univano a Dio. Continuavo ad andare in chiesa, continuavo a fare le mie comunioni del primo venerdì del mese. Certo! E dove avrei pianto se non fossi andata in chiesa? E dove avrei sentito sul mio spasimare scendere un balsamo, come un calmante in una carie, se non mi fossi rifugiata presso il Tabernacolo e se nel mio povero cuore in tempesta non avessi accolto Iddio?
   Ma erano povere preghiere e povere comunioni. Non erano più le confidenti orazioni in cui, sì, si chiede aiuto dal Cielo ma anche contemporaneamente si dice: «Però, Signore, fa' Tu quello che ti pare più giusto di fare». Non erano più le amorose comunioni, fusioni dell'anima col suo Signore, durante le quali si bacia il suo Volto divino, le sue Mani santissime, anche se quel Volto ha appena pronunciato un verdetto di dolore per noi e se quelle Mani hanno infitto una spina, una delle sue spine, nel nostro cuore. Erano interrogatori, erano inquisizioni, erano, non dico dispute perché Gesù non disputa mai, ma atti di accusa miei contro di Lui.
   Non si fa di solito così col buon Dio? Quando, per un motivo che sapremo solo nell'altra vita, il Signore permette che il dolore ci ghermisca, cominciamo degli interminabili discorsi a base di «perché». E finché ci si limita a chiedere «perché» di un dolore, si va ancora passabilmente diritti. Il male è che dopo i «perché» vengono delle vere e proprie requisitorie nelle quali noi mettiamo sul banco degli accusati il buon Dio e ci poniamo noi, in veste di Pubblico Ministero, sul banco dell'accusa dal quale tuoniamo i nostri rimproveri e pronunciamo le nostre arringhe contro Gesù; il quale, come già davanti a Pilato, non risponde ma si limita a guardarci con infinita compassione.

   Sono scivolata così piano piano verso la disperazione. Come un toro nell'arena — il paragone è poco in carattere parlando di una giovane ma rende tanto bene l'idea — come un toro nell'arena, inseguito, sferzato, aizzato, irriso, ferito da mille parti, io scalpitavo, scuotendo la raggera delle «banderillas» che mi si configgevano nella carne, e non riuscivo altro che ad accrescere il tormento. Tormento che dal di fuori veniva a me, tormento che dal mio interno veniva alla superficie.
   Ero in un mare di torture. Quelle esterne, del mio caro prossimo, alla cui testa era mia madre che valeva da sola per dieci, mi portavano alla disperazione in un senso. Quelle interne, che rampollavano dal mio cuore, mi ci portavano per un altro senso. Le prime mi davano tentazioni di suicidio per evadere da quella rete di tormenti giornalieri. Le seconde mi davano tentazioni della carne perché erano originate da quel che le imprudenti parole di mamma avevano, quella sera, seminato, e le maligne spiegazioni della governante della casa del colonnello avevano poi coltivato.
   La disperazione! Quanto avrei da dire in proposito! Quanto su coloro che portano i loro simili alla disperazione, e sono i più cinici degli omicidi perché, senza materialmente colpire e macchiarsi di sangue, uccidono in realtà, in maniera raffinata, sia per il metodo che ottiene lo scopo senza incappare nei rigori della giustizia umana, che per la crudeltà con cui compiono la loro opera! Uccidono, e non solo il corpo ma uccidono l'anima, spingendola al suicidio che è ribellione al comando di Dio.
   E quanto avrei da dire sui disperati! I miseri più miseri fra gli uomini! Che è mai la povertà, che le più orrende mutilazioni, che le più strazianti malattie, che i lutti più desolanti, se la speranza continua a confortare il cuore dell'uomo? Finché questa virtù celeste rimane come luce superna ad illuminare un cuore e a mostrargli il Volto di Dio e il suo prossimo ed eterno bene, povertà, mutilazioni, malattie, lutti, sono dolori che si possono portare. Ma quando la speranza muore e non si spera più, quando la disperazione, questa piovra potente, ci abbranca l'anima suggendoci tutte le energie di bene e paralizzandoci tutti i moti di bene, quando questo mostro ci attira nel gorgo profondo, nel buio spaventoso del non credere più a nulla, allora i dolori non si possono più portare: ci schiacciano e noi ci sentiamo crollare sotto il loro peso e cadiamo maledicendo la vita, e non la vita soltanto…
   Oh! io ho potuto ben capire le sofferenze di mio padre, sofferenze che lo hanno minato fino a fare di lui un povero bambino, confrontandole alle mie!… La disperazione uccide anche se noi non ci uccidiamo. Uccide solo per lo sforzo che le dobbiamo opporre perché non vinca lei, portandoci al suicidio…
   Come bisogna pregare e amare i disperati, questi infelici portati alla pazzia morale qualche volta da eventi che non possiamo stornare, spesso, troppo spesso, dall'opera voluta compiere con piena coscienza dal nostro prossimo a nostro danno!

   Se i mobili della mia stanza potessero parlare, le potrebbero dire certe mie ore di lotta tremenda contro la tentazione della disperazione che mi spingeva al suicidio. Potrebbero anche dirle che irata con me stessa, che non sapevo morire di dolore e non sapevo darmi la morte (perché avevo paura di non darmela bene e di far ridere di me il mondo), mi colpivo ferocemente coi pugni tramutati in mazza fino a cadere stordita al suolo.
   Come vede, non mi uso pietà nel descrivermi quale ero… Ma in queste narrazioni bisogna essere sinceri. Sempre. Nel dire il bene come nel dire il male, se no è inutile scriverle. Non le pare?
   Ero una violenta e una passionale. Non dimentichi da chi avevo succhiato il latte e la teoria di certi scienziati sull'influenza del latte nei futuri caratteri dei poppanti. In quegli anni, sotto il pungolo di forze esterne ed interne, la psiche della mia pazza nutrice saltava fuori. Le forze esterne gliele ho già descritte. Le interne le ho accennato quali fossero.
   Il Maestro dice9: «Dal cuore vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le parole oltraggiose. Queste son le cose che contaminano l'uomo».
   A me, dal fondo del cuore dove con poco rispetto per la mia innocenza era stato gettato un conoscimento, che mi si poteva risparmiare, su certe animalità della nostra natura, sorgevano tentazioni di desiderio.
   Chi non le ha provate non le può capire e perciò non può giudicare. Comodo è tuonare contro chi cade, ma bisognerebbe però che colui che tuona e giudica fosse a sua volta morso dalla tentazione. Allora capirebbe. Ah! Gesù, che parola la tua quando dice: «Non giudicate!». Coloro che la bontà eterna ha preservato da certe lotte dovrebbero limitarsi a lodare e benedire Iddio, fare unicamente questo, invece di consumare lingua e respiro nel condannare i fratelli tentati…
   Ho sofferto moltissimo.
   Fu qui che ebbi un sogno che sento con sicurezza essere stato mandato da Dio per mio bene.
  

   Ieri sera mi sono fermata a questo punto perché ero troppo sofferente per proseguire, e nelle lunghe e penose ore notturne mi è venuto in mente che omettevo un particolare, atto a spiegarle il mio doloroso stato d'animo sopra descritto. Riparo ora all'omissione, dovuta alle continue interruzioni che devo subire da parte dei familiari, dei visitatori e del mio soffrire, interruzioni che mettono a dura prova la mia pazienza.
   Era da un sei mesi scoppiata la guerra italo-austriaca quando mi dissero che Roberto, il mio così rispettoso amatore, era morto in combattimento… La morte poneva fine, e una fine senza scampo, al mio sogno d'amore che la speranza e la costanza avevano continuamente alimentato.
   Soffrii inenarrabilmente e credetti che non si potesse soffrire di più! Anni dopo compresi che si può soffrire più ancora, perché vi sono delle tragiche risoluzioni nel nulla di affetti umani ancor più dolorose a subirsi di quelle provocate dalla morte. Ma allora non le conoscevo e perciò soffersi profondamente e mi dissi: «Più di così non è possibile soffrire».
   Sentii la mia vita spezzarsi, e in verità si spezzò per sempre. Dopo — poiché ero tanto giovane: 18 anni, quando fui così colpita — dopo, negli anni seguenti, tentai di rivivere… ma erano conati vani. Le ali spezzate non potevano più sorreggermi nel cielo della gioia e dell'amore umano. Solo quando avessi rivolto il mio sguardo e il mio desiderio di volo verso le regioni del soprannaturale, le mie povere ali spezzate avrebbero potuto ritrovare la forza di muoversi, sia perché erano aiutate da quelle dell'anima, sia perché l'atmosfera in cui si muovevano era più pura e leggera e già di per sé stessa aiutava al volo, sia, soprattutto, perché la mano del Medico eterno le aveva risarcite carezzandole. Tutto mi si scolorò nel mondo prendendo un colore funebre e grigiastro.

   Non dovevo mai più conoscere l'amore, nel suo significato di letizia. Conobbi poi un'affezione forse, anzi senza forse, più profonda del mio primo amore, un'affezione che dura tuttora dopo tant'anni e che durerà in me fino all'ora estrema. Ma era un'affezione più amichevole che amorosa, più fraterna che amorosa, più materna che amorosa. L'effervescenza dell'amore, il godimento dell'amore, nel senso umano, era per sempre finito per me. Dopo fui un'anima che amava un uomo, e questo probabilmente contribuì ad allontanarmelo, perché l'uomo vuole una donna, una carne più che un'anima… Ma io con la carne non potevo più amare. La mia giovane carne morì, insieme a Roberto, quando avevo 18 anni.
   Lei si stupirà forse che su quel minimo che era stato il mio contatto con lui — sguardi, saluti e poche, poche parole — io avessi potuto far crescere un così vigoroso amore.
   Nelle terre solitarie, là dove un poco di humus si è accumulato nei secoli fra pietre e dirupi di coste sassose o lungo le scogliere strapiombanti a mare, nasce talora l'agave, dal fiore a sette braccia come il candelabro sacro del tempio di Salomone. E tanto più cresce vigoroso quanto più è solitario e il suo crescere è contrastato da povertà di suolo a sua disposizione e da inclemenze atmosferiche. Il ciuffo robusto, direi metallico, delle sue foglie aperte a cespo intorno alla colonna del fiore, drizza le sue lance carnose e spinose di un verde-grigio, il candelabro del fiore si eleva pomposo verso il cielo con le sue sette braccia che all'apice, al posto della fiamma guizzante, hanno le corolle giallo-rosse del bel fiore odoroso, e né per arsione di sole, né per flagellar di venti, né per schiaffi d'onde, né per mitragliare di grandine, esso piega e muore. Neppur l'uomo, coi suoi strumenti di morte, lo può svellere dalla zolla dove esso si è fatto il nido per crescere e fiorire. Solo il fulmine può incenerirlo e distruggere la sua vitalità tenace.
   Il mio amore era l'agave solitaria. Nato per mettere la gioia di una fioritura dove non c'erano che lacrime e solitudine, si era abbarbicato, con tutte le sue radici, a me, ed era divenuto la mia ragione di esistere. I contrasti che lo avevano avversato altro non avevano fatto che obbligarlo a mettere radiche sempre più profonde e a spingere sempre più alto il suo stelo protetto, nel suo fiorire, dal baluardo delle foglie robuste.

   Tutto era stato pronubo al suo nascere. Le mie condizioni familiari così tristi fra un padre menomato e una madre dispotica, senza fratelli, senza parenti, privata di quegli affetti santi del mio Collegio, di cui sentivo così acuta nostalgia. Il mio temperamento desideroso di amore più che di pane, di vesti, di divertimenti, il mio riflettere che per uscire dall'ambiente ostile e oppressore della casa (quale era la mia casa), il mio guardare verso il futuro meditando che alla morte dei miei sarei rimasta sola nel mondo, mi spinsero ad amare l'Amore più che l'uomo in sé.
   Roberto aveva tutto per essere amato: bontà, bellezza, censo, coltura; ma io penso che se anche bellezza e censo non vi fossero stati e solo egli avesse posseduto bontà e coltura io lo avrei ugualmente amato.
   Amare era per me condizione inderogabile per poter vivere.
   Se fin da allora avessi conosciuto «quel che avrebbe giovato alla mia pace», avrei diretto altrove il mio bisogno di amare e non sarei stata delusa. Ma il buon Dio voleva che io lo amassi con esperienza, dirò così. Lo amassi non per grazia data da Lui gratuitamente, ma per convinzione mia, per mia spontanea volontà. Dovevo andare a Lui dopo aver visto quanto caduche sono le affezioni umane, dopo aver gustato quale amarezza si cela sotto la fittizia dolcezza delle gioie umane, dovevo cercare riposo in Lui dopo essermi persuasa che in qualunque altro luogo avessi raccolto il mio volo avrei trovato pungenti spine sotto bugiarde rose, dopo aver constatato che in luogo della cercata compagnia ovunque era vuoto desolante e che solo Lui, Lui solo poteva darmi fedeltà, dolcezza, riposo, calore, compagnia, conforto.
   A rigore di logica umana questa parrebbe una crudeltà. Invece, ora che sono vivente in piani soprannaturali, io la giudico una prova di stima che Dio mi ha concessa e una predilezione tutta speciale.

   Alla scuola dell'esperienza mi ha istruita nella conoscenza del Bene e del Male; mi ha mostrato, facendomela toccare con mano, la differenza fra le gioie labili della vita e le gioie eterne dello spirito. Non ricordo in questo momento chi fu colui10 al quale un serafino mondò, col fuoco preso nel Cielo, il labbro da tutti i sapori umani perché potesse capire perfettamente il cibo della parola di Dio e celebrarne gli splendori. Ma trovo che a me pure Iddio, sostituendosi al serafino, purificò col fuoco del dolore e cuore e labbra per renderli atti a gustare le cose non terrene.
   Ed io ti benedico, o Padre santo, per l'ardore della bruciatura, per la potenza della tua cauterizzazione, per il tuo operare verso di me in veste di Medico che distrugge, per dar vita, le parti invase da mali distruttori. Ti benedico per il tuo Amore che mi ha salvata contro la mia stessa volontà, per la tua Pazienza che mi ha attesa, per la tua indistruttibile Compassione che nessun nostro ripudio e colpa spezza e che ebbe così immensa pietà di me. Ti benedico per avermi evangelizzata nuovamente, per avermi trasfigurata in Te non appena io ti dissi: «Voglio esser tua»!
   La vita in ginocchio, con le braccia alzate in gesto di amore e di benedizione, tutta la mia vita non basta a ringraziarti di quanto mi hai dato; e tutto il mio dolore, che ti ho chiesto e che ti dono, perché nella mia debolezza e miseria non posso darti altro che il mio soffrire, è un obolo, un tributo ben insignificante, una ancor più insignificante restituzione rispetto a tutto quanto Tu hai dato a me.
   Ma, o Signore, ma, o Maestro buono, ma, Compassione che non conosci stanchezza, per questo mio niente che ti do, e che è tutto quel che posseggo di veramente mio, e che non è il superfluo, perché non sono le cose che superano che ti do, ma le cose essenziali per vivere sulla terra, quelle che tutti cercano conservare come il più grande tesoro, perché è la mia salute, la mia vita, il mio sacrificio, il mio patire, ma per tutto questo, Trinità santa, ma per tutto questo, Gesù mio, concedi ad altri, a infiniti altri colpevoli come io un tempo, quanto hai dato a me stessa, per portarli, attraverso al ravvedimento e all'amore, con Te in cielo.
  

   Torniamo ora alla mia storia.
   Dicevo dunque che fu proprio allora, mentre mi dibattevo nel buio più cieco e mi sentivo circondata da mille tentazioni sibilanti come vipere inferocite, che Dio mi mandò un sogno.
   So benissimo che non si deve credere ai sogni come ci credono le donnette superstiziose. Ma so anche che non sempre credere ai sogni è cosa sconsigliabile. Tutto sta nel come ci si crede. Altro è darsi in braccio allo sgomento perché, tanto per dirne una, si è sognato un gatto: tradimento certo, uva bianca: lacrime sicure, e così via secondo la… docenza della cabala e della superstizione, e altro è accettare il sogno per quello che è, come avviso soprannaturale. Nel sonno, che addormenta la materia nostra, l'anima, eternamente insonne, è libera e non distratta, tutta tesa a ricevere le voci che scendono da altri mondi a noi ignoti. La Storia Sacra è piena, nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, di sogni che furono voci dell'Eterno ai suoi figli peregrinanti sulla terra. L'agiografia cristiana è ugualmente piena di questi sogni, dirò così: guida, per condurre i predestinati lungo la via che era quella scelta dal Creatore, per quella data creatura.
   Molti dicono: «Ah! io di simili storie non ne ho mai avute». Può darsi. Ma è più facile che sia la loro pesantezza psichica, la loro leggerezza di riflessione che li ottunde al punto di non afferrare i moniti che ci vengono dai regni del mistero.
   Io invece ne ho avuti, e diversi di simili sogni, che sono premonizioni o norme di vita. Non dico che fossero lì, pronti a scendere nel mio sonno con la stessa facilità con cui si rovescia una minestra nella zuppiera. No, per carità. Sognavo molto; ma fra i mille sogni che erano semplici divagazioni della mente e che mi riportavano bei paesaggi, marine, ore trascorse ecc. ecc., vi erano i Sogni, colla lettera maiuscola. Quando mi svegliavo, un qualche cosa di inesprimibile mi avvertiva di far attenzione a quel sogno. Era come se una mano leggera mi toccasse e una voce mi mormorasse all'orecchio: «Attenta! Rifletti e ricorda!».
   Quella volta fu così.
  Era nella primavera avanzata del 1916 — se, dopo tanti anni, ricordo bene la data — era precisamente la notte fra il 17 e il 18 di giugno. Io ero in un periodo tremendo di disperazione e di desiderio… Credo che di tutte le pratiche pie sopravvivesse unicamente la comunione del primo venerdì del mese. Avevo l'anima attossicata e ribelle. Pensi Lei se potevo avere in mente Dio. No. Non c'è stato certo, da parte mia, il preparamento a quel sogno. Ero anzi sulla sponda opposta e più lontana da Dio.
   Nel sogno mi vidi in una bella campagna. Prati verdi sui quali un vento tepido e leggero ravviava gli steli verdi dell'erba minuta e faceva baciare fra di loro i fioretti multicolori. Qua e là qualche ciuffo d'alberi parevano giganti a colloquio fra loro. Un fiume azzurrino, dalle sponde basse e dalle acque placide, tagliava in due quella bella campagna. Lontano sfumavano dei colli… Sono sicura tuttora, come lo ero allora, che nei miei molti viaggi, su e giù per l'Italia, io non avevo mai visto quel luogo. Io camminavo fra l'erba smeraldina e mi chinavo a cogliere dei fiori.
   Tutto a un tratto mi vidi di fianco un giovane. Bellissimo. Alto, bruno, coi capelli ricciuti, occhi nerissimi, brillanti come stelle, bocca tumida e sorridente. Era vestito di una tunica lunga fino a terra. Mi pareva un orientale, qualcosa fra il beduino e l'antico romano. Mi si accostò sempre più, interessandosi con gentilezza di quel che facevo, e si mise lui pure a cogliermi fiori: i più belli che avessi mai visto perché, non appena lui toccava qualcosa, essa diveniva bellissima. Mi piaceva parlare con lui e averlo vicino. Era così bello e gentile!… Mi seduceva proprio e mi congratulavo di averlo incontrato.
   Ma… ma in fondo, quasi all'orizzonte, al di là del fiume, spuntarono tre personaggi. Erano vestiti essi pure di una lunga veste sciolta e di un manto. Venivano camminando lestamente, e pure con molta maestà, verso di noi. Io li guardavo come affascinata perché qualcosa di arcano si sprigionava da loro e sempre più cresceva, mano mano che essi si avvicinavano.

   Il bel giovane che era presso a me mi disse: «Non guardare, vieni via!», e mi pose una mano sulla spalla per impormi vieppiù la sua volontà. Alzai il capo per guardarlo e rispondergli, perché era molto più alto di me, e restai stupita per l'alterazione dei suoi lineamenti. Un'espressione mista fra la paura e la collera si era distesa sul suo volto e lo imbruttiva. Ne ebbi quasi spavento e risposi, tentando di liberarmi dalla sua stretta: «Lasciami vedere, poi verrò via». Ma il giovane, sempre più inquieto, continuava a ripetere: «Vieni via, vieni via. Quei tre ti sono nemici e ti vogliono fare del male». Ed io: «Non è possibile! Hanno volti troppo buoni».
   Ormai infatti distinguevo i tratti dei tre visi. Uno era un uomo anziano, dal volto rude, piuttosto popolano, una barba più grigia che nera gli ricopriva le guance e il mento, lasciando solo scoperti i pomelli delle guance rubizze che solo qualche lieve ruga solcava; aveva i capelli tagliati piuttosto corti ma non come ora li portano gli uomini, qualcosa a metà fra la zazzera e la tosatura attuale. Gli occhi molto vivi e severi si portavano continuamente da me al suo compagno di mezzo, al quale parlava con animazione. L'altro era un giovane di un venti anni circa, al massimo di venticinque. Mentre il primo aveva una veste bigia e un manto color tabacco scuro, questo vestiva di rosso con un manto di un rosso più scuro. Era piuttosto alto, snello ma non troppo, con un bellissimo volto privo di baffi e di barba, dall'epi­dermide fresca e rosata, occhi dolcissimi e pietosi di un azzurro chiaro, capelli d'un biondo pallido, lunghi fin sul collo, lievemente ondulati. Parlava anche lui a quello di mezzo ma con molta pacatezza e mi guardava con tanta compassione.

   Quello che stava al centro, e che mi attirava più di tutti, era molto alto, di modo che sopravanzava con tutto il collo e il capo sugli altri due. Era vestito di un manto bianco e sotto aveva una veste d'un rosso tenue, quasi un rosato. Una grande maestà si sprigionava da lui, dal suo incedere, dal suo gestire, dal suo modo di rivolgersi ai due compagni, dai suoi sguardi che erano di una dolcezza sovrumana. Aveva un viso molto pallido senza essere terreo, occhi azzurro cupo, una bellissima fronte alta e liscia, ovale lungo e affilato che la barba, biondo-rossa, che gli ombrava solo il mento, rendeva anche più lungo. Portava i capelli lunghi fino alle spalle e questi ricadevano dal sommo del capo, ripartiti dalla riga a destra e a sinistra, in molli ciocche, più rosse che bionde, quel che i pittori chiamano biondo Tiziano, le quali ciocche terminavano in cannoli leggeri. Aveva mani lunghe, bianche, bellissime. Il suo corpo era snello, tendente al magro. Il suo sguardo era un poema di bontà, un poco triste sebbene venato di sorriso, uno sguardo che pregava: «Amami». Io guardavo sempre più affascinata e mi sentivo attirata verso di Lui.
   Il mio compagno mi prese con ambe le mani per trascinarmi via. Era furente, brutto ormai, con un volto feroce, bieco, stravolto. Lo vedevo imbruttire sempre più di minuto in minuto. Tremava e digrignava i denti. Ma io gli resistevo. Combattevo ormai contro di lui graffiandolo, mordendolo.
   Mentre lottavo così, mi accorsi che i tre avevano valicato il fiume, senza ponte, non so in che maniera ed erano ormai vicinissimi. Compresi chi fossero: Gesù, San Pietro e San Giovanni apostolo. Con un ultimo sforzo mi divincolai dal mio compagno che ora mi appariva mio nemico e corsi a gettarmi ai piedi di Cristo. «Signore, salvami!», gridai afferrando l'orlo della sua veste.
   Il nemico — potrei scrivere il Nemico perché ormai capivo chiaramente chi era, il suo volto essendo divenuto un vero volto di demonio — mi corse vicino di nuovo, talmente inferocito da superare anche il ribrezzo che gli suscitava la vista di Gesù, e mi afferrò brutalmente una spalla. Sentivo la sua mano, divenuta artiglio, conficcarsi nella mia carne.
   Ripetei piangendo: «Signore, salvami!».

   Gesù taceva. Mi guardava e taceva. Una grande pietà era nel suo sguardo, ma il suo labbro era chiuso e le sue mani pendevano inerti lungo la veste bianca.
  San Pietro… eh! san Pietro era tutt'altro che benigno e diceva a Gesù che non meritavo pietà. San Giovanni, invece, con voce accorata e sguardo mesto, perorava la mia causa. «Maestro, abbi pietà di questa povera creatura. Liberala, Tu che puoi! In fondo ti ha sempre rispettato, un tempo ti amò, ora è travolta da un inganno… Aiutala, Maestro!».
   Il Nemico urlava: «No, è mia. Non la lascio. Me la sono presa e me la tengo!».
   E Gesù taceva.
   Allora io levai la testa e le braccia e gli afferrai le mani coprendole di baci e dissi: «O Signore, Signore! Come puoi non aiutarmi? Infine io ti ho voluto bene! Non te lo ricordi più? Il male vero e proprio non l'ho compiuto. Perché allora non mi liberi da costui che mi vuole trascinare con sé?».
   Allora Gesù parlò… E chi potrà più dimenticare quella Voce? E chi potrà più rifarmi udire quel tono, quella cadenza che ancora vibra in me, esattamente, e credo risuonerà fino al beato momento in cui la riudrò in cielo? Allora Gesù parlò e disse: «Maria, sappi che il male non basta non farlo; bisogna anche non desiderare di farlo».
   Mentre quasi Pietro mi respingeva staccandomi da Gesù, mentre Giovanni mi carezzava supplicando in mio favore, mentre il Nemico con bestemmie e sghignazzate orrende stringeva più forte la mia spalla destra nel suo artiglio, udii per altre due volte Gesù ripetere quelle parole, e poi la sua mano si posò sulla mia testa con gesto di assoluzione e di benedizione. Sento ancora il tocco delicato di quelle lunghe dita fra i miei capelli…
   Compresi d'esser perdonata e redenta, e con un impeto di riconoscenza mi gettai contro il suo petto piangendo lacrime di riconoscenza, di pentimento, di gioia: un lavacro che mi purificava tutta, mentre il Nemico fuggiva con un urlo disperato ed io venivo abbracciata da Gesù.

   Mi svegliai con l'anima illuminata da qualcosa di non terreno.
   Sono passati ventisei anni e nove mesi da quella notte, ma quel sogno è ancora in me, vivo come al momento che mi svegliai. Lo vedo esattamente in tutti i più lievi particolari, e se fossi pittrice potrei dipingere quei volti e quelle fasi del sogno. Non ho alterato una parola, non ho messo frange e arzigogoli. Le ho narrato fedelmente ciò che sognai.
   Ho cercato in tutti i negozi d'arte e d'oggetti sacri un volto di Gesù come quello visto da me. Ma non l'ho mai trovato. In uno vi era l'ovale e non lo sguardo. In un altro lo sguardo ma non la bocca. In altro ancora la bocca ma non le guance. Mi sono persuasa che mano umana non può rifare quel Volto… Ho sognato molte volte Gesù, dopo quel sogno, e sempre aveva quel Volto, quella statura, quelle Mani. Da qualche tempo ho qualcosa più di un sogno… e vedo Gesù sempre con quel Volto, quella statura, quelle Mani. Quando Lei, Padre, mi ha dato quel libro sulla S. Sindone, io ne ho ricevuto una scossa perché ho visto, per quanto alterato dalle sofferenze subite, quel Volto, quella statura, quelle Mani…
   Il più brutto della mia tentazione era passato. Non dico che non provai più ore nere di ribellione. No. Ne ebbi ancora molte. Ma quando il demone della ribellione, del senso e della disperazione mi assaliva per darmi pensieri funesti, le parole di Gesù facevano sì che io sapessi respingere il desiderio di fare il male.
  

   Stamane 23 marzo Lei mi ha portato la S. Comunione che è, fra tutte le cose della terra e del cielo, quella che desidero di più. E insieme mi ha portato una sua lettera.
   Apro una parentesi nella mia storia per rispondere a detta lettera. Nella mia assoluta indigenza di forze fisiche devo calcolare anche gli spiccioli, i centesimi che mi restano e amministrarli con molta economia. Perciò le rispondo qui addirittura per non avere a scrivere qui e in una lettera la mia risposta.
   Credo di averle già detto a voce e per scritto cosa reputo io essere il vero perdono, le condizioni per me essenziali perché il perdono sia realmente il Perdono e non una imitazione mal riuscita del medesimo, macchiata da un poco di ipocrisia, e della peggiore ipocrisia perché vuole ingannare noi stessi, non dico Dio perché Dio non si inganna, dico noi stessi, presentandoci al nostro io come creature di misericordia, di religione… Misere arti che seducono solo il nostro umano orgoglio e che la voce della coscienza accusa come arti bugiarde!
   Per me uno perdona proprio quando sente che quel dato fatto, che un giorno gli suonò offesa, non duole più.
   Quando un organo della nostra macchina umana non duole o cessa di dolere noi ci dimentichiamo di esso. Uno che è sano non si accorge neppure di avere i polmoni, il cuore, le reni, il fegato, il cervello ecc. ecc. Ma se uno di questi benedetti organi, che ci fanno così perfetti e così complicati, si ammala e incomincia perciò a dolere, oh! come ci si accorge di esso e della sua esatta ubicazione!

   Lo stesso è di un'offesa ricevuta, o di qualche altro nocumento che il nostro prossimo ci arreca. Possiamo dire di averla proprio perdonata quando non duole più come una bruciatura o una coltellata. Subentra allora l'indifferenza la quale, come è la fine dell'amore, è anche la fine del rancore… e allora, anche senza pensarci più, si perdona completamente. Ma è un perdono… di un merito relativo.
   Ora io posso aver raggiunto per me stessa l'indifferenza, l'insensibilità su un dato dolore che fu offesa per me… Forse questo dipende dal fatto che altri dolori più grandi sono succeduti a quel dolore e hanno distratto da esso, forse dipende dal fatto che un più grande, eletto amore mi ha compensata di tutte le meschinità umane con doni sovrumani. Non so. So che io ho, per me stessa, raggiunto l'insensibilità su antiche ferite. Ma non posso, non voglio, non riesco a raggiungere l'insensibilità per i dolori che soffrì mio padre.
   Non giudico nessuno. Ricordo e medito e basta. Ricordo e racconto, perché è necessario anche questo mucchio di tessere nere per comporre il mosaico della mia vita. E basta. Non giudico. O, se giudico, giudico con pietà. Perché è doloroso vedere che un essere preferisce far soffrire in luogo di dare conforto e amore, vedere che un essere non è buono quando potrebbe e dovrebbe esser buono.
   Ricchi, belli, intelligenti non si può diventare col nostro solo volere. La ricchezza è dipendente da molte altre concomitanze che si uniscono al nostro lavoro per darci guadagno. La bellezza poi e l'intelligenza, eh! non c'è bene! Se si nasce deformi o scemi niente ci può rendere degli Apolli e delle aquile di intelligenza. Ma buoni si può diventare, se si vuole. Un poco per giorno, un briciolo per ora, si riesce a migliorare le nostre tendenze morali.
   Non giudico o se giudico, ripeto, lo faccio con pietà. Non sono cieca e non sono ebete. Vedo perciò e valuto le azioni altrui. Ma sia che ormai sia tanto filosofa, o meglio tanto cristiana, da non essere più messa in subbuglio per certi fatti, li vedo e mi dico: «Sono frutti del nostro albero umano corrotto alle radici dal peccato dei progenitori». E, col mio Divino Maestro, ripeto, su chi fa soffrire e agisce male, la preghiera di misericordia che mosse, nelle ore estreme, le labbra santissime e riarse di Gesù mio: «Padre, perdona perché non sa quello che si fa!».
   Sì. Perché sono convinta che chi agisce male, dando dolore ai suoi simili e, peggio di tutto, addolorando Iddio, sia uno che non sa quello che fa. Una specie di deficiente nel bene. Ora, anche la legge umana non condanna i deficienti, gli irresponsabili, i pazzi. Al massimo li rinchiude in appositi istituti. Se uno fosse in perfetto equilibrio mentale, non si avvilirebbe in certe cattiverie inutili, che non gli dànno gioia e che lo abbassano davanti alla stima di tanti e di sé stesso.
   Non la pensa come me, Padre? Sì. Lei non me lo dirà, ma pensa anche Lei che certe tendenze di sadismo morale sono frutto di alterazione psichica. Perciò non le condanno. Ma le ricordo.

   E se è inevitabile che i buoni soffrano per causa dei meno buoni, come soffrì mio padre, guai però a chi fa soffrire senza motivo! Fin da questa terra ha il suo castigo che, se non si esplica in altra forma ancora più pesante, è rappresentato dal malcontento interno che non dà pace…
   Io, per mio conto, Padre, se ne rassicuri per bene, non odio nessuno e tanto meno colei che fu ragione di pianto per me e papà. La mia vita è tutta una testimonianza di questo che le dico. Io pure, con Gesù, posso esclamare11: «E chi di voi mi può convincere di peccato?».
    Fedele al mio proposito, sempre fedele anche nei momenti più agitati della mia esistenza, ho sempre praticato verso mia madre, mio padre, i miei parenti, amici, conoscenti e estranei, il Sacrificio e il Dovere in ogni ora e in ogni circostanza della mia vita. Sapevo che, per conto di mia mamma, ciò non modificava nulla. Ma, idealista come tutti i poeti, ho sempre sperato di vincerla col mio amore, direi quasi che ho sempre sperato di infonderle l'amore sprigionando onde di amore intorno a lei. Offesa non offendevo, sacrificata non sacrificavo, trascurata non trascuravo. L'ho servita più di quel che non faccia uno schiavo fedele. Tanto che l'ho viziata al punto che nessuno più la accontenta. Sfido io! E dove può trovare una pazienza pari alla mia, una assistenza pari alla mia, una rinuncia pari alla mia? Lo devo riconoscere e proclamare per non mancare di verità e di carità verso la stessa anima mia, che ha rispettato il quarto comandamento come ben poche anime di altri figli facciano.
   Non posso dirle tutto, Padre. Ma le dico che fino la mia libertà delle ore notturne, nel segreto della mia camera nella quale potevo pregare senza attirare scherni, meditare senza esser disturbata, piangere e soffrire, le ho sacrificato per assisterla di più, io malata realmente, nei suoi malannucci molto all'acqua di rose. Dal 1924 io ho dormito con lei e l'ho fatto fino al 1° agosto 1934: dieci anni. Dopo, ridotta come sono attualmente, mi vidi lasciare da mia mamma, che preferì passare in altra camera a dormire lasciandomi in consegna ad altri. Crede che ciò non sia stata per me sofferenza?
   In una mia poesia scritta la notte del 19 marzo 1935, una notte di spasimo, io dico, parlando della mia notte di malata:
  

   …Veglia con me tremula una fiamma
   meco ragiona, ha guizzi di parole…
   Penso nostalgica ai baci della mamma…
   Perché non m'è vicina come suole
   trepida come una fiamma
   consolante qual sole?
   Vien timida l'alba a bussare ai vetri:
   una luce bianca tutta purezza.
   Si dileguan al suo venire i sogni tetri.
   Mi porta di mia madre la carezza
   l'alba che bussa ai vetri
   ornata di freschezza.
  

    E continuo così. Non sarà un capolavoro di poesia ma è un grido d'anima, scritto per me sola, e perciò sincero come una confessione. Non si scrivono certe cose se non si sentono.
    Con tutto l'amore che avevo ed ho per mio padre, non ho trovato una rima per lui. Ma la fame dell'amore di mia mamma, la mia insaziata fame, ha scosso il mio animo facendo sgorgare da esso la poesia per la quale esplode il massimo del sentimento che la più bella prosa non può esprimere con la pienezza che si vorrebbe.
    Malata come ero, e solo Dio e i medici possono aver valutato cosa fossero per me le salite e le discese dalle scale, io facevo decine di volte al giorno la scala per servire la mamma, che era sana, ed evitarle di dover fare le scale per certe necessità umane… Questo per la parte materiale.
    Moralmente, poi, non mi sono accorata e non mi accoro di vederla così incontentabile, così autoritaria al punto di essere sfuggita da tutti? E perché mi accoro? Perché penso che alla mia morte ella rimarrà sola. Vecchia e sola. Ora io faccio da cemento coesivo e tengo unite a lei tante persone. Ma scomparsa io, tutti si ritireranno. Crede Lei che questo non sia per me un tormento? Ma è l'unica cosa che mi fa guardare, non dico con paura, ma con ansia, la fine. Per lei, non per me.
    Per la parte spirituale sappia, Padre, che io ho sempre pregato per mio padre e per mia madre perché Dio li aiutasse in tutte le necessità loro, in tutte: materiali, finanziarie, morali, spirituali. Nel mio atto di offerta di vittima a Dio, fra le diverse intenzioni per cui chiedo di essere consumata, vi è questa: che dal mio sacrifizio tutto il bene possibile, in questa terra e oltre, venisse ai miei genitori. E siccome il mio buon senso mi diceva che dei due quella che aveva maggior bisogno di superno aiuto era mia madre, naturalmente pregavo più per lei che per quel giusto di mio padre.
   Lei mi dice che talora i mali trattamenti ricevuti fanno sì che in chi ne è vittima nasce un'avversione invincibile verso colui che è il nostro oppressore, così come è per la pecora che ha avversione invincibile per il lupo che, per istinto, è portato a sbranare le pecore. Vero. Ma in parte.

   Per mio conto, sarà che sono più imbecille di molti altri, ho tremato e tremo ancora davanti a mia madre e vivo sempre col terrore che ella mi procuri altro male. Ma non ho mai sentito avversione per lei, tanto è vero che, pur avendo avuto molte occasioni di lasciare la mia casa,pregata insistentemente da molti, parenti e non parenti, di andare a vivere con loro per dare loro la mia attività e intelligenza non comuni,ho sempre rifiutato, pur sentendo che mi danneggiavo nella tranquillità e nell'interesse, per non lasciare lei sola con papà che ormai non valeva più nulla.
   Credo che tutto questo dimostri che io, pur ricordando tutto il soffrire che ingiustamente mi ha procurato mia mamma, non ho per lei dell'odio, dell'astio, dell'avversione e neppure dell'indifferenza. Ma ho un grande amore, perché solo un grande, un perfetto amore è capace di continuare ad amare senza avere ricambio d'amore.
   Lei, Padre, dice molto bene dicendo: «I segni parlano e chi ascolta comprende». È proprio così, se però chi ascolta non ha per cuore un pezzo di selce e per cervello un pezzo di pomice. Chi è dotato di buon cuore, di buon senso e di ragionevolezza, come Lei dice, comprende molto dei dolori dei suoi simili. Mi accorgo perciò che è stata proprio la bontà del Signore che mi ha fatta mettere in comunicazione con Lei, e gliene do lode.
   La sua lettera, sul fondo, mi ha rallegrato con la descrizione della sua attività di allevatore. Io pure sono una brava allevatrice di bipedi domestici e io pure, dando ad essi cure e affetto, non mi rammollivo però al punto da cadere in quello stupido sentimentalismo da damine isteriche che impedisce loro di sopprimere e mangiare un pollo o un colombo allevato da loro. Non li uccidevo, perché non sono capace. Ma li facevo uccidere, se erano inutili, e li mangiavo senza scrupoli. È la loro sorte, del resto, e se si pensa che ugualmente avviene, meno la mangiatura, di tanti uomini in questi tempi di guerre feroci…
   Mi spiace sopprimere una vita, anche quella di un fiore mi è sacra perché fatta da Dio, ma quando necessità e buon senso lo vogliono non esito a provvedere come si conviene, eliminando, senza svenimenti e senza gemiti nevrotici, quella vita che non è utile ma anzi che è elemento di disordine per altre vite. Quando ero bimba no. Allora mi mettevo a piangere se un amico pollo veniva mandato a morte. Ma si sa…
   E la parentesi è finita. Ora riprendo al punto interrotto.
  

   Dicevo dunque che dopo quel sogno, se anche mi assalivano desideri di suicidio e di sensualità, io li sapevo respingere.
   È già molto questo. È il primo passo sulla via della redenzione. Anzi non è neppure un passo. È semplicemente il raddrizzarsi, dopo esser caduti e giaciuti nella mota, il raddrizzarsi in piedi lavorando per levarsi di dosso il moticcio che impegola.
   Avevo ancora ore nere in cui ero fortemente tentata ma, soprattutto per quanto erano tentazioni del senso, io non desideravo più di fare il male. Il demonio mi cantava la sua canzone stregata, evocatrice di delizie sconosciute e che avrebbero potuto esser mie se avessi voluto. Ma ormai io sapevo respingere anche il desiderio di conoscerle. Alle sue macchinazioni suscitatrici di larve di sogno l'anima non consentiva, la volontà non consentiva. Quando la mia povera anima, ancora stanca e debole per la grande malattia morale subita, si sentiva portata ad abbandonarsi, le parole di Gesù, che mi suonavano in cuore, mi fortificavano come un cordiale.
   Più forti a vincersi erano le tentazioni di suicidio, perché continuamente vi ero portata dallo stillicidio corrosivo di tutti i momenti del giorno… Come desideravo morire! Come vedevo con gioia aumentare in me l'affanno e la palpitazione! Credevo che presto il male che sentivo affermarsi in me mi avrebbe portata alla tomba. Povero giudizio umano, come sei facile a prendere dei granchi! Il male di cuore è venuto, sì, sempre più forte; ad esso si sono aggiunte altre malattie, ma io, dopo un quarto di secolo di sofferenze, sono ancora qua.

   Ora direi che la mèta è vicina. Odo un murmure di cantico farsi sempre più distinto ed è un invito dolcissimo. Lo stesso che Lei ieri mi accennava… Surge12, propera, amica mea, columba mea, formosa mea, et veni. Jam enim hiems transiit… vox turturis audita est in terra nostra… Surge, amica mea, speciosa mea, et veni
   Ma quando verrà l'ora della liberazione? Quando il dolce Gesù, che oggi vedo così bene…
   Non gliel'ho detto stamane, perché se gliel'avessi detto mi sarei messa a piangere di gioia e non volevo, per non dare ombra alla mia ombrosissima madre, ma è da stamane che ho la vista di Gesù. È in piedi e mi tende le mani sorridendomi. Mi rincuora a soffrire col suo sorriso…
   Ma quando farà un passo ancora e mi prenderà l'anima, con un bacio, per portarla con Sé? Ma questo forse è egoismo, è ansia di scendere dalla croce.
   No, Maria. Così non devi fare. Vi è ancora tanto da pregare per chi non prega, per chi è negli affanni, vi è ancora tanto da soffrire prima che la coppa sia colma…Gesù ha sete e bisogna dargli da bere… Le anime hanno sete e bisogna dar loro da bere. E l'unico liquido, atto a levare la sete a Cristo, è l'amore; e l'unico liquido atto a levare la sete alle anime, la sete dei loro bisogni, è il dolore. Ama e soffri, anima mia, per empire il calice e levare al Cristo la sua divina sete e alle anime la loro umana sete e dare loro la forza di salire, verso l'alto, verso Dio, il che è ancor più necessario delle grazie atte ai bisogni di ogni giorno per cui tutti si arrabattano…
   Del resto, del mio lottare interno nessuno ne aveva il minimo sentore.
   E con chi avrei parlato? Con papà era inutile. Con mamma era pericoloso oltre che inutile. Con le amiche di Collegio e le Suore anche inutile. Per lettera certe cose si dicono male e poi… c'era la censura per le risposte. Amiche a Firenze non ne avevo. Persone anziane e buone che potessero capire e guidare neppure, e poi… non avrei parlato. Sono gelosissima dei miei sentimenti, anche se buoni; figurarsi poi di quelli non buoni.
   Mario era lontano, e poi con lui, ormai giovanotto di quasi vent'anni, non potevo certo parlare di simili cose. Egli aveva capito che ero molto triste e che inclinavo alla morte, e cercava di rallegrarmi col suo sincero affetto. Ma era lontano e non sapeva a che punto soffriva la sua buona e fraterna amica, la quale, con lui, cercava sempre di mostrarsi pia, calma, ubbidiente ecc. ecc., per essergli di esempio.

   Un sacerdote come mi occorreva nel mio caso non l'avevo trovato… Ho dovuto arrivare quasi alla morte per trovarlo!
   Perciò lottavo, soffrivo, tutta sola, stringendo i denti, faticando il doppio, con un povero sorriso crocifisso sul volto che avrebbe voluto solo piangere.
   Ma per piangere avevo la notte…
 

    S. Teresa di Gesù è Teresa d'Avila (1515-1582), grande mistica spagnola, riformatrice dell'Ordine carmelitano, 
scrittrice, santa. Nel 1970 il papa Paolo VI l'ha proclamata dottore della Chiesa insieme con Caterina da Siena (1347-
1380), religiosa dell'Ordine domenicano, mistica, santa, anch'ella più volte citata da Maria Valtorta.


   2 poveri Lazzari è detto con riferimento all'episodio di: Giovanni 11, 1-44.
   3 l'ha detto in: Luca 7, 47. Per l'applicazione che segue, tener presente l'intero episodio di Luca 7, 36-50.
   4 di A. C., cioè di Azione Cattolica, come si vedrà in seguito.
   5 S. Maria Margherita è Margherita Maria Alacoque (1647-1690), suora della Visitazione di Paray-le-Monial 
(Francia), santa, famosa per le visioni che la indussero a promuovere la devozione al Sacro Cuore di Gesù (cui si 
collega 
la pratica dei primi venerdì del mese), poi approvata e introdotta nella Chiesa.

   6 Ciò-Ciò-san è il nome della protagonista di "Madama Butterfly", famosa opera lirica di Giacomo Puccini.
   7 alla sua parola che è in: Matteo 18, 6; Marco 9, 42; Luca 17, 2.
   8 Beatrice è il noto personaggio dantesco, che il Poeta celebra come donna angelicata nella "Vita nuova" e trasfigura 
come salvatrice nella "Divina Commedia". Maria Valtorta, ogni tanto, cita versi del poema di Dante.
 9dice in: Matteo 15, 17-20; Marco 7, 20-23.
   10 colui fu il profeta Isaia, come si narra in: Isaia 6, 1-7.
   11 posso esclamare, come Gesù ai farisei, in: Giovanni 8, 46.
   12 Surge…: Alzati, affrettati, amica mia, mia colomba, mia bella, e vieni. Perché già l'inverno è passato… la voce
 della tortora si è sentita nella nostra campagna… Alzati, amica mia, mia bella, e vieni… (Cantico dei cantici 2, 10-13).


 Firenze veduta Chiostro

AMDG et DVM

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