SAN PIO V
di Sr. M. Carla Bertaina
Papa Pio V ritratto da El Greco
Il libro di P. Innocenzo Venchi O.P.- “San Pio V”-, a cui si fa riferimento nello stendere queste note, mette subito in luce come la sua elezione a Pontefice non fosse affatto nei pronostici in quel conclave dove molti dei 53 Cardinali elettori era entrato deciso a “farsi mozzare i piedi” piuttosto che eleggere Pontefice il cardinal Ghislieri, giudicato uomo esemplare, ma troppo rigoroso e cocciuto. L’interessato, poi, se ne stava ritirato nella sua camera a pregare perché il Signore mandasse un papa secondo la Sua volontà; non partecipava a chiacchiere o incontri “di corridoio” e per evitare pettegolezzi aveva preso a suo servizio in quel periodo uno spagnolo che non capiva nulla di italiano. Così, quella sera del 7 gennaio 1566, si trovò impreparato davanti alla realtà di una decisione unanime, espressa da ciascuno dei suoi “colleghi” addirittura per acclamazione:”Io eleggo Pontefice il reverendissimo signor Michele, detto cardinale Alessandrino”. Vinse lo smarrimento che subentrò in lui, sentendosi incapace e indegno di tale carica, che in coscienza mai aveva desiderato, col pensiero che sicuramente lo Spirito Santo aveva agito da protagonista in quella scelta e rispose alla silenziosa attesa dei cardinali dicendo candidamente:”Mi contento su”.
Rimasero contenti tutti: il nuovo papa, disse un ambasciatore, “è un teologo, un uomo molto buono, di vita esemplare, di grande zelo nelle cose della religione, il più idoneo ad essere papa secondo le esigenze dei tempi”.
Fra Michele Ghislieri era nato il 17 gennaio 1504 a Bosco, oggi chiamato Bosco Marengo, in provincia di Alessandria, ma all’epoca apparteneva al ducato di Milano e alla diocesi di Tortona. Sebbene non ci sia un documento scritto che lo attesti, sembra quasi certo che sia stato battezzato col nome di Antonio, a ricordo del santo monaco del deserto che si festeggia in tale giorno. I genitori, Paolo Ghislieri e Domenica Augeri, vivevano poveramente e il bambino veniva spesso mandato a custodire le pecore, finché a quattordici anni entrò nel convento domenicano di S. Maria della Pietà a Voghera e prese coll’abito da frate il nome di Michele del Bosco, contento di ricordare in tale maniera il suo paese d’origine.
Aveva scelto quel convento perché in esso si praticava un’osservanza riformata e più austera, essendo suo desiderio trovare il modo maggiormente perfetto per vivere la vita religiosa. Dovette ben presto rinunciare al suo appellativo “del Bosco” perché il priore provinciale, quando gli si presentò, gli disse senza complimenti:”Perché del Bosco? Chiamatevi fra Michele Alessandrino” Ed egli così fece, rendendo onore al suo paese natale più con la virtù dell’ubbidienza, che lo condurrà alle vette della santità, che con l’aggiunta specificativa del nome. Il suo legame affettivo con Bosco fu sempre intenso e, divenuto papa, potè tradurlo in un’opera tangibile per il bene spirituale dei suoi concittadini. Così si espresse egli stesso scrivendo al vescovo di Tortona: “…Desiderando io fare con l’aiuto del Signore Iddio qualche beneficio al Bosco Alessandrino, mia patria, ma in quel che tocca il servizio spirituale, ho designato di fabbricarvi una chiesa ed un convento da tenervi i figli di S. Domenico Osservanti: il che intendo che debba essere con sua buona grazia e licenza, come dispone il Sacro Concilio Tridentino…”
Fra Michele compì il suo noviziato nel convento di Vigevano e nel 1521 emise la professione solenne; continuò in seguito gli studi filosofici e teologici parte a Vigevano e parte a Bologna, acquistando con lo studio amore alla verità e rettitudine di volere, due prerogative da lui mai smentite.
Con il ruolo di professore passò in diversi conventi dell’Italia settentrionale; nel 1540 si trovava nel convento di Casale Monferrato con la qualifica di lettore maggiore. In un documento di quegli anni è impresso il suo sigillo: la santissima croce inscritta in un cerchio. Esso ci rivela la realtà della filosofia da lui vissuta ed insegnata: l’unica, vera, grande sapienza a cui l’apostolo Paolo finalizzava la sua predicazione, cioè «Cristo e questi crocifisso».
Accettò, per ubbidienza, l’incarico di priore in alcuni conventi: questo ufficio lo spaventava particolarmente, perché pensava, secondo il richiamo della Regola di S. Agostino, che l’essere a capo dei fratelli significava render conto a Dio per tutti loro e che quanto più si sta in alto tanto più si è in maggior pericolo. Era comunque un priore “di testa dura” nel far valere i diritti del proprio convento contro le pretese ingiuste dei Signori del luogo: ad un conte che minacciava di «farlo scomparire in un pozzo» rispose imperturbabile :”Sarà quel che Dio vorrà”. Coscienza pura e retta, unita a fortezza d’animo, sono l’antidoto sicuro ad ogni umana paura: il nostro Santo ne diede chiara testimonianza in ogni circostanza della sua esistenza.
Intorno al 1544, mentre si trovava nel convento di Pavia, città nella quale i domenicani tenevano la cattedra universitaria di teologia, ricevette la nomina a vicario del confratello Sante da Padova, Inquisitore pavese. Era stato appena istituito da papa Paolo III nel 1542 questo dicastero pontificio comunemente detto “il Sant’Ufficio”, con lo scopo di fronteggiare l’eresia protestante che dalla Germania si stava irradiando nel resto d’Europa. Era ancora vivo (morirà nel 1545) Martin Lutero, il frate agostiniano tedesco, capo del movimento religioso riformatore che causò una lacerazione tuttora persistente all’unità dei cristiani. Per fra Michele Ghislieri significava diventare tutore e giudice della vera fede, riconosciuto come tale anche dal potere civile, passando dall’insegnamento teologico alla difesa della fede nei tribunali a ciò istituiti. Si sentiva in perfetta sintonia con l’accorato appello dei Capitoli generali dell’Ordine, tenutisi negli anni 1523-1530:” Esortiamo nel Signore i nostri frati e, se desiderano il merito dell’obbedienza, imponiamo loro, specialmente a chi si distingue nella scienza e nella predicazione, di opporsi con tutte le loro forze, con la preghiera e con la parola, alla dottrina virulenta e contagiosa di Martin Lutero, che a poco a poco serpeggiando irrompe rovinosa, causando grande strage nella Chiesa di Dio”.
Nel 1546 veniva nominato Inquisitore capo a Como: andò ad abitare nel convento domenicano appena fuori di quella città e si spostava, come era solito fare per le predicazioni quaresimali, a piedi col sacco in spalla, poche parole col compagno di viaggio e molta conversazione con Dio nella preghiera.
Sapeva benissimo che il suo compito richiedeva di essere preparati a versare il sangue per la fede, come secoli prima, proprio in quelle contrade, era stato chiesto al confratello fra Pietro da Verona, ma non portava armi per difendersi: suo scudo e corazza era soltanto la verità. Per fermare la diffusione -a contrabbando- di libri eretici, rischiò il linciaggio a sassate e si inimicò il vicario capitolare della diocesi di Como e il governatore di Milano, poi dovette finire a Roma per rispondere delle lagnanze che i nemici suoi avevano fatto pervenire ai cardinali romani del Sant’Ufficio. Il risultato fu…che sei mesi dopo il suo arrivo nella città papale, nel giugno del 1551, fra Michele veniva nominato Commissario generale del Sant’Ufficio, proprio per la dirittura d’animo e la forza di volontà dimostrate nell’affare di Como!
Divenuto papa Giampietro Carafa, col nome di Paolo IV, per la stima illimitata e l’affetto paterno che gli portava, prima lo nominò vescovo di Nepi e Sutri, cittadine laziali, poi lo creò cardinale assegnandogli la chiesa di S. Maria sopra Minerva, annessa al convento dei “suoi” Frati Predicatori. Infine nel 1558 lo promosse Inquisitore maggiore, con autorità totale sugli Inquisitori.
Il cardinale Ghislieri esercitò la sua autorità con giustizia e prudenza, senza misure né mezze né false, senza temere alcuna intimidazione, ma assegnando alle cose il giusto posto secondo la loro importanza e mostrando comprensione delle difficoltà altrui. Tutto questo anche quando sapeva di inimicarsi il papa. Paolo IV, infatti, aveva un carattere impulsivo e poco equilibrato, intravedeva eresie dappertutto, e prendeva decisioni poco illuminate. Il cardinale Alessandrino ne pagò le conseguenze: fu pubblicamente rimproverato e chiamato “frate sfratato” e “luterano”, fu definito indegno del cardinalato e minacciato di essere imprigionato in Castel Sant’Angelo. Tali umiliazioni misero maggiormente in luce la saldezza della sua fede e la sua radicata umiltà: mai tradì la sua coscienza né voltò le spalle a Paolo IV. Riconosceva, il cardinal Ghislieri, di avere anch’egli per natura un temperamento focoso e collerico, sapeva quale sforzo occorreva per dominarlo, ma da vero religioso si esercitava nella virtù con l’aiuto della grazia di Dio, e mai lasciò “tramontare il sole sulla sua ira” né mai agì spinto da risentimento, ma sempre fu guidato da amore per la fede e per la croce di Cristo.
Nel Natale del 1559 fu eletto papa Pio IV (lo zio di San Carlo Borromeo da lui creato cardinale nel gennaio successivo), il quale aveva tre sorelle monache domenicane e stimava l’Ordine dei Predicatori. L’arcivescovo domenicano Beato Bartolomeo dei Martiri fu per lui un aiuto prezioso nel condurre a termine la terza ed ultima fase del Concilio di Trento (1563 – 1565) e fu un saggio maestro nella cura pastorale delle anime per il nipote, divenuto vescovo di Milano.
Pio IV confermò il cardinale Alessandrino come Inquisitore maggiore e nel marzo del 1560 lo nominò vescovo di Mondovì, città piemontese non distante dalla sua Bosco, con la facoltà di delegare ad altri il governo diocesano per continuare a dirigere l’Inquisizione. Ma il cardinale domenicano riteneva suo dovere interessarsi di persona della propria diocesi ed appena possibile decise di visitarla; partì a fine giugno del 1561, si fermò durante il viaggio ai bagni di Lucca per una cura termale contro i calcoli alla vescica che lo tormenteranno fino alla morte, e fece il suo ingresso ufficiale a Mondovì il 7 agosto. Si rese ben presto conto che erano necessari seri provvedimenti per tutelare i diritti del vescovado, ma ancor più per tutelare l’integrità della fede in quei luoghi abitati da numerosi cristiani della setta Valdese: chiese l’intervento del duca Emanuele Filiberto di Savoia per la parte che gli competeva, scrivendogli tra l’altro: “…d’amore e di fedeltà non cedo, né voglio cedere ad alcuno nel ricordare a Vostra Altezza le cose necessarie al culto di Dio, all’esaltazione della santa fede cattolica e alla conservazione della pace, la quale si mantiene con la religione e con la giustizia…”. Il duca, però, tergiversava nel prendere decisioni che ostacolavano le sue mire politiche, ed il vescovo Ghislieri se ne partì da Mondovì senza salutare il duca, sconfitto nei suoi tentativi di riportare ordine e giustizia: tornò a Roma il 25 novembre dello stesso anno. Tentò di ritornare nella sua diocesi tre anni dopo, ma ne fu impedito dall’opposizione dei cardinali dell’Inquisizione, dall’acuirsi della sua malattia e dalla scomparsa del suo bagaglio, inviato in antecedenza via mare fino a Genova e rubato dai pirati.
Fu in questi anni che, a causa dei suoi franchi dissensi verso la politica ecclesiastica di Pio IV, perse il favore del Papa: fu privato dell’appartamento che aveva in Vaticano e fu destituito dall’incarico di Inquisitore maggiore.
Eletto suo successore, Michele Ghislieri scelse di portare il suo stesso nome, anche per manifestare che non c’era in lui alcuna amarezza per il trattamento ricevuto; nella prima medaglia fatta coniare per il suo pontificato non raffigurò se stesso, ma fece incidere sul lato principale l’immagine di Gesù Cristo, di cui il papa è semplice vicario, e sul lato posteriore l’effigie del papa Paolo IV, suo grande amico: verità e umiltà sono un tutt’uno!
Tracciò il 12 gennaio 1566, davanti ai cardinali, le linee concrete del suo servizio pastorale: riformare la Chiesa secondo le direttive del Concilio Tridentino, che il suo predecessore aveva solo fatto in tempo a promulgare; mantenere la pace tra gli Stati cristiani sconvolti dalla scissione protestante; debellare l’eresia e allontanare la minaccia dell’invasione turca.
Caterina da Siena avrà esultato in cielo per questo papa domenicano “virile”, santo e riformatore!
La regola di Sant’Agostino da lui professata gli indicava la strada con chiarezza:”Colui che presiede si stimi fortunato non perché può comandare, ma per il fatto che deve servire tutti con carità”. Ai primi adulatori che si fecero avanti per ricavare vantaggi rispose secco:”Dio mi ha chiamato per servire la Chiesa, non perché la Chiesa serva me!”
Ai parenti (Pio V aveva un fratello, due sorelle, con alcuni nipoti e pronipoti) fece capire subito che non dovevano aspettarsi favori o privilegi: a lui premeva l’onore della virtù, a loro doveva bastare l’onore di essere “i parenti del papa”. Secondo l’usanza del tempo, anche Pio V creò un nipote cardinale, ma scelse un nipote sacerdote, e religioso domenicano come lui, e gli impose vita da frate anche in Vaticano: niente abiti di seta, arredamenti di lusso, vasellame d’argento, onorario principesco, ma vita morigerata e pratiche penitenziali come se fosse in convento! Il papa stesso come veste quotidiana continuò ad usare la tonaca bianca da frate e come abiti pontificali utilizzò quelli di Paolo IV finché non furono consumati.
Con queste premesse di coerenza nella vita, Pio V iniziò l’opera di attuazione dei decreti conciliari, partendo dal cuore della Chiesa: la preghiera, che ha il suo centro nell’azione sacrificale della S. Messa. Di fronte alle teorie eretiche dell’epoca, occorreva porre l’attenzione sull’unità nella fede e nel culto.
Il Concilio aveva sollecitato un rinnovamento liturgico e Pio V lo compì.
Ai sacerdoti pose in mano un “breviario” aggiornato secondo le nuove esigenze e per unificare i molteplici riti esistenti fino ad allora per la S. Messa, creò un messale con testi più organici e coordinati; curò la compilazione del “Catechismo del Concilio di Trento per i parroci”, un compendio delle verità rivelate che li aiutasse nella formazione dei fedeli. Come vero figlio di S. Domenico vedeva la salvezza del popolo cristiano nella conoscenza della Parola di Dio, interpretata nel suo senso autentico dalla Chiesa, perché “nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione“ (2Pt 1, 20). In questa linea di idee egli istituì la Congregazione che esaminasse i libri e pubblicasse l’indice di quelli proibiti, e istituì una commissione che preparasse un testo latino ufficiale e corretto della Sacra Scrittura, lavoro che fu terminato sotto papa Clemente VIII. Intanto favorì nuovi metodi per gli studi biblici, pubblicando la “Bibliotheca Sancta” del domenicano Sisto di Siena.
In fedeltà alle decisioni conciliari, inoltre, richiese con fermezza ai vescovi che risiedessero nelle proprie diocesi, ai parroci nelle proprie parrocchie e che i religiosi osservassero la clausura stabilita dalle Regole: la riforma occorreva cominciarla da chi era chiamato a “pascere il gregge di Dio come vero pastore che dà la vita per le sue pecore”. Egli, in quanto vescovo e sovrano di Roma, si preoccupò di incrementare la vita di fede, richiedendo l’istruzione catechistica dei fanciulli, di ascoltare e sovvenire i poveri piuttosto che abbellire le chiese di statue e pitture, di favorire opere di utilità pubblica, come dotare la città del primo lanificio, far giungere l’acqua migliore alle fontane, prosciugare le paludi.
Pio V riportò sulla cattedra di Pietro la santità, senza la quale nessuna riforma era possibile, ma una folta schiera di altri “santi” collaborarono con lui in quell’epoca, traducendo nei fatti lo spirito del Concilio: solo da questa unità e comunione di intenti potè fiorire nel secolo XVI il vero “Rinascimento” della Chiesa cattolica, chiamata anche all’evangelizzazione di nuove terre.
Importante fu la sua opera, pur legata ai metodi storici che oggi risulterebbero inaccettabili, nei suoi rapporti con gli Stati e con i principi cattolici per il suo ruolo di sovrano dello Stato Pontificio, perché suo unico obiettivo era salvare l’integrità della fede per il bene delle anime, mentre in Europa si diffondeva il protestantesimo. Alieno da ogni compromesso, egli non fu certo un politico alla stregua del Macchiavelli: il suo intento nel cercare alleanze, nel sovvenzionare una guerra, nel mandare a morte un eretico dopo lungo processo, nello scomunicare la regina d’Inghilterra - azioni legittime e comprensibili in quel contesto storico – era dirigere tutte le cose alla luce delle verità eterne del Vangelo: del resto nel 1500 il problema politico era inscindibile da quello religioso.
Con la stessa angolazione di vedute va posta la lotta contro i Turchi. Pio V pose in atto una serie di trattative per formare la lega tra S. Sede, Spagna e Repubblica di Venezia allo scopo di fermare l’avanzata dei mussulmani, guidati dal sultano Selim II, nell’occidente cristiano. La strepitosa vittoria della flotta cristiana che concluse la battaglia navale di Lepanto (Grecia) la domenica 7 ottobre 1571, va attribuita non solo al coraggioso valore dei combattenti, ma alla fede con cui il popolo cristiano rispose all’appello del Papa, pregando in processione da una chiesa all’altra di Roma con la recita della corona di Ave a Maria, secondo l’usanza delle Confraternite del santo Rosario nella prima domenica del mese. Pio V amava quella corona e confidava nell’aiuto della Vergine con speranza incrollabile, dettata dal suo amore di figlio, che lo rendeva sicuro del suo Patrocinio sia in quanto domenicano, sia in quanto vicario del suo Gesù.
La sera di quel 7 ottobre, in assenza di comunicazioni…radiotelefoniche, il cielo parlò al suo cuore con una premonizione che gli fece esclamare, rivolto al suo interlocutore nelle stanze vaticane: “Ringraziamo Dio: l’ora della vittoria è suonata!” L’austero papa gioì nel suo cuore e si inginocchiò a ringraziare continuando la corona del Rosario, contemplando forse i misteri gloriosi, poi attese la conferma della notizia ufficiale che giunse da Venezia la notte tra il 21 – 22 ottobre.
Egli stesso aveva sanzionato con una “bolla” del 1569 la struttura classica del Rosario, con le 15 decine di Ave Maria, comprendente anche la seconda parte: «Santa Maria…prega per noi peccatori…», precedute dal «Padre nostro» e dall’annuncio del «mistero» da contemplare: preghiera mentale e vocale in unione con la vita di Gesù e di Maria. Con questa preghiera – aveva scritto – “i cristiani si convertono in uomini migliori, le tenebre dell’eresia si diradano, e si apre la luce della fede cattolica”.
Alcuni mesi dopo la battaglia di Lepanto, poco tempo prima di morire, egli pubblicò una bolla per commemorare la vittoria riportata per i meriti e la pia intercessione della gloriosissima e sempre vergine Maria, madre di Dio, e poi decretò che ogni anno, il 7 ottobre, si celebrasse come ringraziamento la festa di S. Maria della Vittoria e aggiunse un secondo appellativo, carico di speranza ed affettuosità popolare: Maria, aiuto dei cristiani.
Questo suo omaggio alla Madonna suonò come il “nunc dimittis” del servo fedele, che si presentava al Signore in pace perché la salvezza del suo gregge era affidata a Maria, Regina del santo Rosario.
Forte anche nella malattia, quel “mal di pietra” che gli causava dolori lancinanti, egli stringeva il Crocifisso e lo pregava: “Aumenta pure il dolore, ma aumenta anche la pazienza” e baciava con appassionata devozione le piaghe di Gesù. Contro il parere dei medici, per sola forza di volontà, compì un’ultima volta il suo pellegrinaggio più caro, tante volte praticato: la visita a piedi delle sette Chiese, sulle orme dei martiri cristiani.
Passò gli ultimi giorni di aprile del 1572 a letto, tra forti sofferenze: quando sentì avvicinarsi la sua ora, chiese di rivestire l’abito domenicano prima di ricevere l’assoluzione e l’Unzione degli infermi; morì la sera del 1° maggio, dopo aver recitato la strofa dell’inno pasquale: «Ti preghiamo, Autore del mondo, in questa gioia di Pasqua difendi il tuo popolo da ogni dominio di morte».
Si concludevano 6 anni di un pontificato memorabile, valutato nella sua reale grandezza solo col passare del tempo.
Benché fosse sua volontà essere seppellito nella chiesa domenicana di Bosco, non fu esaudito: una volontà autorevole quanto la sua, quella di Papa Sisto V, decise che il suo sepolcro rimanesse a Roma, situato nella cappella del presepio in S. Maria Maggiore, come dire “in casa della Madonna”: il papa del Rosario poteva forse desiderare di meglio? A vigilare sul suo eterno riposo ecco le statue di S. Domenico, suo padre nella vita religiosa, e S. Tommaso, il confratello a cui, con la sua autorità pontificia, aveva riconosciuto il titolo di Dottore della Chiesa.
Pio V fu beatificato a 100 anni esatti dalla morte, il 1° maggio 1672, da papa Clemente X e dichiarato santo da papa Clemente XI il 22 maggio 1712.
AMDG et DVM
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