Lettera spirituale | Copyright © 1996-2015 Abbazia San Giuseppe di Clairval |
[Cette lettre en français] [This letter in English] [Dieser Brief auf deutsch] [Deze brief in het Nederlands] [Esta carta en español] |
Carissimo/a Amico/a,
Il 22 settembre 1774: papa Clemente XIV è morente. Dopo aver soppresso l'ordine dei Gesuiti (impegolati con le banche del tempo), pare non riuscisse a ritrovare la pace del cuore. Dio, nella sua misericordia, gli invia per assisterlo nei suoi ultimi istanti un santo, Alfonso de' Liguori, allora vescovo di Sant'Agata dei Goti. Ora, nel momento in cui egli assiste il Papa a Roma, il santo vescovo è presente nel suo vescovado a 200 km di distanza. Si tratta di un fenomeno di bilocazione, miracolo veramente straordinario, ma chiaramente attestato dai testimoni oculari.
Alfonso Maria de' Liguori nasce a Napoli, il 27 settembre 1696, primogenito di una famiglia che conterà sette figli. Sua madre li istruisce sulle verità della fede fin dalla più tenera età e insegna loro a pregare. Questo ragazzo è dotato di un'intelligenza vivace, di una memoria pronta, di una ragione retta, di un cuore aperto a tutti i nobili sentimenti, di una volontà ferma ed energica. Suo padre vuole fare di lui un avvocato. I suoi progressi sono così rapidi nello studio della giurisprudenza che, all'età di sedici anni, supera con successo l'esame del dottorato in diritto civile ed ecclesiastico. I giudici sono stupiti della saggezza delle sue risposte e della precisione delle sue repliche.
Avvocato, Alfonso riporta un successo dopo l'altro, il che non manca di dargli il gusto della riuscita e della gloria del mondo. Tuttavia, è tentato di abbandonare questa strada: l'inganno e la menzogna troppo spesso snaturano le cause più giuste, e questo spettacolo rivolta la sua natura retta. Assiduo nella preghiera e in varie opere di carità, mantiene pura la sua anima. Una volta all'anno, si reca in una casa religiosa per dedicarsi agli esercizi spirituali. Riconoscerà in seguito che questi ritiri avevano significativamente contribuito a distaccarlo dai beni temporali per orientarlo verso Dio. Durante la Quaresima 1722, in particolare, il predicatore ricorda i motivi che devono portare l'anima a darsi interamente a Dio; ritrae in modo vivido la caducità delle cose di questo mondo, e non teme di mettere sotto gli occhi dei partecipanti al ritiro i tormenti eterni dell'inferno, così come li ha rivelati Gesù. Si fa allora luce nello spirito del giovane Alfonso: le vanità del mondo si dileguano come altrettante nuvole! Egli si consacra senza riserve alla volontà divina e, qualche tempo dopo, decide di rimanere celibe.
Nel 1723, si parla molto a Napoli di un importante processo intentato dal duca Orsini contro il granduca di Toscana. Molti sono gli avvocati che ambiscono a questo caso, ma Orsini affida la sua difesa ad Alfonso che, fino ad allora, non ha perso nessuna causa. Nel giorno previsto, quest'ultimo si presenta in tribunale e sostiene con chiarezza le rivendicazioni del suo cliente. Tutti i presenti sono ammirati. Ma il suo avversario produce allora un documento che Alfonso aveva avuto tra le mani, e che invalida in modo decisivo la sua argomentazione. Questi è sgomento: come ha potuto trascurare questo testo? Perso il processo, Alfonso si sente schiacciato sotto il peso dell'umiliazione. Tuttavia, tre giorni dopo, un'improvvisa chiarezza gli fa scoprire il motivo della sua distrazione: Dio non l'aveva accecato se non per strapparlo alle vanità della terra. Sotto l'impulso della grazia divina, egli ripete ora le parole che, in un accesso di stizza, aveva mormorato uscendo dall'udienza: «Tribunali, non mi vedrete più!» Dopo un periodo di preghiera e di penitenza, avverte che Dio lo chiama allo stato ecclesiastico. Terminata la sua formazione, viene ordinato prete il 21 dicembre 1726.
Illuminato dallo Spirito Santo, Don Alfonso capisce che l'azione deve nascere dalla contemplazione, l'amore del prossimo dall'amore per Dio, lo zelo apostolico dalla vita interiore, e che la più grande tentazione del sacerdote è quella di voler infiammare le anime senza alimentare in se stesso il fuoco divino. Egli si assoggetta quindi, fin dall'inizio della sua vita sacerdotale, agli esercizi quotidiani senza i quali la vita interiore si spegne: orazione, santa Messa, Ufficio divino, lettura, devozione mariana – soprattutto il rosario. Sapendo di aver bisogno di essere guidato, sottomette volentieri la sua vita spirituale ai consigli di un altro.
Il giovane sacerdote predica il Vangelo a tutti, ma più volentieri ai poveri. Pieno dalla sacra scienza, lontano da ogni affettazione, appare sul pulpito con l'autorità di un uomo di Dio che comunica alla gente non la sua propria dottrina, ma quella del Maestro che lo ha inviato. Toccato dalla compassione di fronte all'ignoranza religiosa delle popolazioni rurali, don Alfonso fonda con diversi compagni, nel novembre 1732, un nuovo Istituto religioso che prenderà il nome di «Congregazione del Santissimo Redentore». Pieni di fervore nel contemplare la sovrabbondanza della redenzione acquistata da Cristo sulla Croce, i Redentoristi si dedicano alla predicazione di missioni ai poveri, al fine di istruirli sulle verità fondamentali della fede, e di illuminarli per quanto riguarda il grande «negozio» e l'«affare».
Don Alfonso scriverà in effetti: «Il negozio della nostra eterna salute è il negozio, che importa tutto: importa o la nostra fortuna o la nostra rovina eterna. Egli va a terminare all'eternità, viene a dire a salvarci o a perderci per sempre: ad acquistarci un'eternità di contenti o un'eternità di tormenti: a vivere una vita o sempre felice o sempre infelice» (Via della Salute [VS], 1a Meditazione). La salvezza delle anime è al centro delle preoccupazioni della Chiesa, come lo ha ricordato papa Benedetto XVI rivolgendosi ai vescovi dell'America Latina: «Il nostro Salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità (1Tm 2,4-6). Questa, e non altra, è la finalità della Chiesa: la salvezza delle anime, una ad una» (11 maggio 2007). «Gran cosa! scrive ancora don Alfonso. Ognuno si vergogna d'esser chiamato negligente ne' negozi del mondo; e poi tanti non si vergognano di trascurare il negozio dell'eternità, che importa tutto!« Negozio «importante», negozio «unico», negozio «irreparabile»« Non v'è errore simile all'errore di trascurare la salute eterna. A tutti gli altri errori vi è rimedio: se uno perde una roba, può acquistarla per altra via; se perde un posto, può esservi il rimedio a ricuperarlo; ancorché taluno perdesse la vita, se si salva, è rimediato a tutto. Ma per chi si danna, non vi è più rimedio. Una volta si muore; perduta l'anima una volta, è perduta per sempre« » (Apparecchio alla morte [AM], 12a Considerazione). Non vi è quindi sventura più grande che mancare la propria salvezza.
Dobbiamo quindi prepararci alla morte che può sopraggiungere in qualsiasi momento. «Bisogna persuaderci che il tempo della morte non è proprio per aggiustare i conti, affin di assicurare il gran negozio dell'eterna salute. I prudenti del mondo negli affari di terra prendono a tempo opportuno tutte le misure per ottenere quel guadagno, quel posto, quel matrimonio; per la sanità del corpo non differiscono punto i rimedi necessari. Che diresti di taluno, che dovesse andare a qualche duello o concorso di cattedra, se volesse attendere ad istruirsi, quando è già arrivato il tempo?« Tale appunto è quel cristiano, che si riduce ad aggiustar la coscienza, quando è arrivata la morte» (AM, 10a Considerazione). Commentando queste parole di san Paolo: Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore (Fil 2,12), don Alfonso scriverà ancora: «Per salvarci bisogna che tremiamo di dannarci, e tremiamo non tanto dell'inferno, quanto del peccato, che solo può condurci all'inferno. Chi trema del peccato, fugge le occasioni pericolose, spesso si raccomanda a Dio, piglia i mezzi per conservarsi in grazia. Chi fa così, si salva; e chi non fa così, è moralmente impossibile che si salvi» (VS, 6a Meditazione).
La gente della campagna che beneficia delle missioni riceve con avidità queste sante verità, e si prepara al sacramento della Penitenza. I missionari, fedeli ministri della riconciliazione, trascorrono lunghe ore in confessionale. Qui, da veri medici delle anime, sanno consolare gli afflitti. «Quanto più un'anima è sprofondata nel male, dice don Alfonso, tanto più bisogna accoglierla bene, al fine di strapparla agli artigli del nemico». L'ascolto del penitente con pazienza e dolcezza contribuisce a disporlo all'assoluzione, o immediatamente o dopo un tempo di prova. Come penitenza sacramentale, don Alfonso impone esercizi di pietà molto semplici, ma di natura tale da allontanare dal peccato e ravvivare il fervore. Sollevate dai loro peccati, queste persone ricevono in seguito la santa Comunione, e se ne vanno a raccontare la loro felicità agli abitanti dei borghi più remoti, glorificando così la misericordia di Dio. «Iddio non sa voltar la faccia a chi ritorna a' piedi suoi; no, poiché Egli stesso l'invita e gli promette di riceverlo subito che viene. Revertere ad me, et suscipiam te (Ger 3,1). Convertimini ad me, convertar ad vos, ait Dominus (Zac 1,3). Oh l'amore e la tenerezza con cui abbraccia Dio un peccatore che a Lui ritorna!« Si gloria il Signore di usar pietà e di perdonare i peccatori» (AM, 16a Considerazione).
Di fronte al rigorismo giansenista che faceva di Dio un giudice severo senza misericordia, padre Alfonso, che aveva scelto per motto «Copiosa apud Eum redemptio: grande presso di Lui la redenzione» (Sal 129 [130]), insiste sulla bontà di Gesù e sul suo amore per tutti gli uomini. Nello stesso tempo, egli mette in guardia contro coloro che, allontanando il pensiero della giustizia divina, predicano solo l'amore. L'amore divino, per essere solido e duraturo, deve fondarsi su una fede integrale: Dio è infinitamente buono, ma anche infinitamente giusto. «La misericordia di Dio è infinita, egli scrive, ma gli atti di questa misericordia (che sono le misurazioni) son finiti. Dio è misericordioso ma è ancora giusto« La misericordia sta promessa a chi teme Dio, non già a chi se ne abusa. Et misericordia eius timentibus eum (Lc 1,50), come cantò la divina Madre. Agli ostinati sta minacciata la giustizia; e siccome (dice S. Agostino) Dio non mentisce nelle promesse; così non mentisce ancora nelle minacce: «Qui verus est in promittendo, verus est in minando». Guardati, dice S. Gio. Grisostomo, quando il demonio (ma non Dio) ti promette la divina misericordia, affinché pecchi... » (AM, 17a Considerazione).
Ma come imprimere questa giusta rappresentazione di Dio, nello stesso tempo misericordioso e giusto, nelle anime? Eco fedele della tradizione, Alfonso de' Liguori risponde: con la preghiera quotidiana. Nel suo pensiero, l'arte di amare Dio s'identifica con l'arte di meditare o di fare orazione, perché è nella meditazione che l'anima acquisisce la conoscenza di Dio e s'innamora di Lui. Così, il suo libro più importante, come riconosce egli stesso, è Del gran mezzo della preghiera. In questa opera, Alfonso spiega: l'uomo, a causa delle conseguenze del peccato originale, è attratto verso il male, e non può con i propri mezzi resistervi in ogni momento; in effetti, solo la grazia di Dio rende possibile l'osservanza di tutti i comandamenti, che è necessaria per la salvezza. «Poiché enunciano i doveri fondamentali dell'uomo verso Dio e verso il prossimo, i dieci comandamenti rivelano, nel loro contenuto essenziale, obbligazioni gravi. Sono sostanzialmente immutabili e obbligano sempre e dappertutto. Nessuno potrebbe dispensare da essi« Quanto Dio comanda, lo rende possibile con la sua grazia» (Catechismo della Chiesa Cattolica, [CEC] 2072, 2082). Oppure, come dice sant'Agostino, «Dio vuole donare le sue grazie, ma le dona solo a chi le chiede». Contrariamente a coloro che affermano che l'osservanza dei comandamenti non è possibile in certi casi concreti, lo stesso Dottore risponde: «Che l'uomo che vuole e non può riconosca che non vuole ancora pienamente, e che preghi al fine di avere una volontà abbastanza grande per compiere i comandamenti». Questo è il motivo per cui sant'Alfonso scrive: «Dio non nega ad alcuno la grazia della preghiera, colla quale si ottiene da Dio l'aiuto a vincere ogni concupiscenza, ed ogni tentazione« E dico, e replico, e replicherò sempre sino che ho vita, che tutta la nostra salute sta nel pregare». Di qui il famoso assioma, ripreso dal Catechismo: «Chi prega, certamente si salva; chi non prega certamente si danna » (CEC 2744).
Alcuni autori di quell'epoca [e della nostra no?], sotto l'influenza del protestantesimo e del giansenismo, tendevano a distogliere i fedeli dalla devozione alla Vergine santissima. Don Alfonso pubblica quindi nel 1750 Le Glorie di Maria [GM], che è un commento della Salve Regina; vi enuncia le prerogative della Madre di Dio: tutte le grazie passano attraverso le mani di Maria, e di conseguenza Maria è la nostra mediatrice necessaria (cfr. GM, cap. 5).
In effetti, così come Maria è la Madre di Gesù, Dio vuole che sia la Madre di ogni uomo redento da Gesù. Così come ha portato Gesù nel suo grembo, ella ci porta nel suo cuore finché Cristo sia formato in noi. «Non si dubita che per li meriti di Gesù è stata conceduta tanta autorità a Maria di essere la mediatrice della nostra salute: non già mediatrice di giustizia, ma di grazia e d'intercessione» (ibid.).
Don Alfonso vuole che si predichi sempre, nelle missioni, un sermone sulla Vergine Maria, Madre di Misericordia, e sulla necessità, per chi vuole perseverare e salvarsi, di ricorrere spesso alla sua intercessione. Egli scrive: «Così rivelò la stessa beata Vergine a S. Brigida (Rev. lib. I, cap. 6). «Io sono, le disse, la regina del cielo e la madre della misericordia; io sono l'allegrezza de' giusti e la porta per introdurre i peccatori a Dio. Né vi è nella terra peccatore che viva e sia così maledetto, che sia privato della misericordia mia« niuno, disse, è così discacciato da Dio, che, se m'abbia invocata in suo aiuto, non ritorni a Dio e goda della sua misericordia»« Maria a tal fine è stata fatta regina della misericordia, per salvare colla sua protezione i peccatori più grandi e più perduti che a lei si raccomandano» (GM, cap. 1).
Posto come principio che tutti i cristiani sono chiamati alla santità, che «consiste nell'amare Gesù Cristo nostro Dio, nostro sommo bene, nostro Salvatore», Alfonso pubblica diverse opere che aiutano a contemplare la sua vita: Novena del Santo Natale, Riflessioni sulla Passione«, Visite al Santissimo Sacramento«, e soprattutto Pratica di amar Gesù Cristo. Quest'arte vuole che si distacchi il proprio cuore da ogni creatura per unirlo alla volontà di Gesù, in modo che, così trasformato, ognuno possa esclamare con san Paolo: Vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me (Gal 2,20). Nelle sue opere Modo di conversare continuamente ed alla familiare con Dio e Uniformità alla volontà di Dio, Alfonso dà preziosi consigli per aiutare l'anima a vivere alla presenza del Signore, a parlargli da cuore a cuore e ad accettare dalla sua Mano amorevole tutto ciò che ci accade. Il santo pubblica anche altri scritti al fine di suscitare il desiderio di sacrificare tutto per seguire Gesù più da vicino: la Selva«, sui doveri dell'anima sacerdotale, e La vera sposa«, sui doveri degli uomini e delle donne che fanno professione dei consigli evangelici.
Nella formazione delle giovani vocazioni, sant'Alfonso insiste perché si segua l'insegnamento di san Tommaso d'Aquino.
Di fronte alla diversità delle opinioni, si adopera a rivedere la teologia morale con una saggezza tale che nel 1950 papa Pio XII gli conferirà il titolo di «celeste Patrono di tutti i confessori e moralisti». Di fronte al rigorismo, egli afferma che il sacerdote non deve negare l'assoluzione al penitente ben disposto, cioè veramente contrito e che ha il fermo proposito di non peccare più; di fronte al lassismo, non permette che si ammettano ai sacramenti le anime che non sono decise, con la grazia di Dio, a evitare ogni peccato grave.
Le prove non mancano nella giovane Congregazione dei Redentoristi. Nel 1752, il re delle Due Sicilie, Carlo III, decreta la spoliazione dei beni dell'istituto, facendoli passare nelle mani dei vescovi.
In seguito, lo stesso Alfonso è costretto, dagli intrighi di alcuni dei suoi figli, ad abbandonare il suo posto e ad allontanarsi. Senza turbarsi, predica ai suoi la sottomissione alla volontà divina: «Il Signore, dice, vuol tirare avanti la Congregazione, non con applausi, e protezioni di Principi, e di Monarchi, ma con disprezzi, povertà, miserie, e persecuzioni; quando mai si è veduto, che le opere di Dio si sono cominciate con applauso? S. Ignazio all'ora era contento quando aveva nuove di persecuzioni, e travagli».
Nel 1762, padre Alfonso viene nominato vescovo di Sant'Agata dei Goti, piccola diocesi non lontano da Napoli. Malgrado l'esempio di molti prelati del suo tempo, per cui l'episcopato esige lusso e sfarzo, egli continua a condurre una vita povera e mortificata. Grazie alle sue predicazioni, in breve tempo tutta la città episcopale ha cambiato volto: confessioni e comunioni diventano più frequenti, le chiese si riempiono, la devozione alla Santa Vergine cresce in tutti i cuori.
Preoccupato per il futuro della diocesi, egli esamina con cura i candidati al sacerdozio prima di imporre loro le mani. In un'epoca in cui le cariche ecclesiastiche remunerate attirano molte persone poco adatte a esercitare il ministero, il suo zelo lo porta a respingere i candidati indegni.
Il lassismo più o meno generale dell'epoca ha provocato la rovina del fervore, anche all'altare. Uno dei principali oggetti della sollecitudine di mons. de' Liguori è il ripristino ovunque dell'esatta osservanza dei riti sacri.
Infatti, allora come oggi, la gloria di Dio esige la dignità nel servizio dei divini misteri: «Troppo grande è il Mistero dell'Eucaristia perché qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale« Tutti i fedeli, invece, godono del diritto di avere una liturgia vera e in particolar modo una celebrazione della santa Messa che sia così come la Chiesa ha voluto e stabilito» (Istruzione Redemptionis Sacra–mentum della Congre–gazione per il Culto Divino, 25 marzo 2004, nn. 11 e 12).
A partire dal 1768, mons. de' Liguori viene colpito da una malattia che si estende a tutte le articolazioni del corpo. Ben presto le vertebre del collo si ripiegano su se stesse, costringendo il mento a premere fortemente sul petto, il che provoca una piaga viva e rende difficile la respirazione. Il santo rimarrà immobilizzato durante i diciannove anni che gli restano da vivere. Nonostante questa tortura, non lo si sente mai emettere un lamento. Rivolgendosi al grande crocifisso posto davanti a lui, egli esclama: «Signore vi ringrazio che mi date un saggio de' dolori che soffriste nei nervi quando vi conficcarono sulla croce. Voglio patire, Gesù mio, come, e quanto vuoi tu: dammi solo pazienza. Hic ure, hic feca, hic non parcas ut in æternum parcas (Brucia, taglia, non risparmiarmi quaggiù, ma risparmiami nell'eternità) ». Nel luglio 1775, Pio VI accetta le sue dimissioni dall'episcopato. Gli ultimi anni della sua vita sono occupati a scrivere e a difendere i suoi religiosi. Nel luglio 1787, mons. de' Liguori è prossimo alla morte. Nel momento in cui gli viene portato il santo Viatico, esclama: « Gesù mio, Gesù mio, non lasciarmi!»
Il 1° agosto, tenendo sul cuore il crocifisso e l'immagine di Maria, si addormenta dolcemente nel Signore nel momento in cui la campana del convento suona l'Angelus. È stato dichiarato «Dottore della Chiesa» dal beato Pio IX nel 1871.
In occasione del secondo centenario della sua morte, il 1° agosto 1987, papa Giovanni Paolo II scriveva: «La popolarità del Santo deve il suo fascino alla brevità, alla chiarezza, alla semplicità, all'ottimismo, all'affabilità che arriva fino alla tenerezza. Alla radice di questo suo senso del popolo sta l'ansia della salvezza: salvarsi e salvare. Una salvezza che va fino alla perfezione, alla santità. Il quadro di riferimento della sua azione pastorale non esclude nessuno: egli scrive a tutti, scrive per tutti».
Sant'Alfonso Maria de' Liguori, ottienici la grazia di camminare risolutamente nella via della salvezza eterna e di trascinarvi il maggior numero di anime possibile!
Alfonso Maria de' Liguori nasce a Napoli, il 27 settembre 1696, primogenito di una famiglia che conterà sette figli. Sua madre li istruisce sulle verità della fede fin dalla più tenera età e insegna loro a pregare. Questo ragazzo è dotato di un'intelligenza vivace, di una memoria pronta, di una ragione retta, di un cuore aperto a tutti i nobili sentimenti, di una volontà ferma ed energica. Suo padre vuole fare di lui un avvocato. I suoi progressi sono così rapidi nello studio della giurisprudenza che, all'età di sedici anni, supera con successo l'esame del dottorato in diritto civile ed ecclesiastico. I giudici sono stupiti della saggezza delle sue risposte e della precisione delle sue repliche.
Avvocato, Alfonso riporta un successo dopo l'altro, il che non manca di dargli il gusto della riuscita e della gloria del mondo. Tuttavia, è tentato di abbandonare questa strada: l'inganno e la menzogna troppo spesso snaturano le cause più giuste, e questo spettacolo rivolta la sua natura retta. Assiduo nella preghiera e in varie opere di carità, mantiene pura la sua anima. Una volta all'anno, si reca in una casa religiosa per dedicarsi agli esercizi spirituali. Riconoscerà in seguito che questi ritiri avevano significativamente contribuito a distaccarlo dai beni temporali per orientarlo verso Dio. Durante la Quaresima 1722, in particolare, il predicatore ricorda i motivi che devono portare l'anima a darsi interamente a Dio; ritrae in modo vivido la caducità delle cose di questo mondo, e non teme di mettere sotto gli occhi dei partecipanti al ritiro i tormenti eterni dell'inferno, così come li ha rivelati Gesù. Si fa allora luce nello spirito del giovane Alfonso: le vanità del mondo si dileguano come altrettante nuvole! Egli si consacra senza riserve alla volontà divina e, qualche tempo dopo, decide di rimanere celibe.
Nel 1723, si parla molto a Napoli di un importante processo intentato dal duca Orsini contro il granduca di Toscana. Molti sono gli avvocati che ambiscono a questo caso, ma Orsini affida la sua difesa ad Alfonso che, fino ad allora, non ha perso nessuna causa. Nel giorno previsto, quest'ultimo si presenta in tribunale e sostiene con chiarezza le rivendicazioni del suo cliente. Tutti i presenti sono ammirati. Ma il suo avversario produce allora un documento che Alfonso aveva avuto tra le mani, e che invalida in modo decisivo la sua argomentazione. Questi è sgomento: come ha potuto trascurare questo testo? Perso il processo, Alfonso si sente schiacciato sotto il peso dell'umiliazione. Tuttavia, tre giorni dopo, un'improvvisa chiarezza gli fa scoprire il motivo della sua distrazione: Dio non l'aveva accecato se non per strapparlo alle vanità della terra. Sotto l'impulso della grazia divina, egli ripete ora le parole che, in un accesso di stizza, aveva mormorato uscendo dall'udienza: «Tribunali, non mi vedrete più!» Dopo un periodo di preghiera e di penitenza, avverte che Dio lo chiama allo stato ecclesiastico. Terminata la sua formazione, viene ordinato prete il 21 dicembre 1726.
La tentazione del sacerdote
Illuminato dallo Spirito Santo, Don Alfonso capisce che l'azione deve nascere dalla contemplazione, l'amore del prossimo dall'amore per Dio, lo zelo apostolico dalla vita interiore, e che la più grande tentazione del sacerdote è quella di voler infiammare le anime senza alimentare in se stesso il fuoco divino. Egli si assoggetta quindi, fin dall'inizio della sua vita sacerdotale, agli esercizi quotidiani senza i quali la vita interiore si spegne: orazione, santa Messa, Ufficio divino, lettura, devozione mariana – soprattutto il rosario. Sapendo di aver bisogno di essere guidato, sottomette volentieri la sua vita spirituale ai consigli di un altro.
Il giovane sacerdote predica il Vangelo a tutti, ma più volentieri ai poveri. Pieno dalla sacra scienza, lontano da ogni affettazione, appare sul pulpito con l'autorità di un uomo di Dio che comunica alla gente non la sua propria dottrina, ma quella del Maestro che lo ha inviato. Toccato dalla compassione di fronte all'ignoranza religiosa delle popolazioni rurali, don Alfonso fonda con diversi compagni, nel novembre 1732, un nuovo Istituto religioso che prenderà il nome di «Congregazione del Santissimo Redentore». Pieni di fervore nel contemplare la sovrabbondanza della redenzione acquistata da Cristo sulla Croce, i Redentoristi si dedicano alla predicazione di missioni ai poveri, al fine di istruirli sulle verità fondamentali della fede, e di illuminarli per quanto riguarda il grande «negozio» e l'«affare».
Don Alfonso scriverà in effetti: «Il negozio della nostra eterna salute è il negozio, che importa tutto: importa o la nostra fortuna o la nostra rovina eterna. Egli va a terminare all'eternità, viene a dire a salvarci o a perderci per sempre: ad acquistarci un'eternità di contenti o un'eternità di tormenti: a vivere una vita o sempre felice o sempre infelice» (Via della Salute [VS], 1a Meditazione). La salvezza delle anime è al centro delle preoccupazioni della Chiesa, come lo ha ricordato papa Benedetto XVI rivolgendosi ai vescovi dell'America Latina: «Il nostro Salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità (1Tm 2,4-6). Questa, e non altra, è la finalità della Chiesa: la salvezza delle anime, una ad una» (11 maggio 2007). «Gran cosa! scrive ancora don Alfonso. Ognuno si vergogna d'esser chiamato negligente ne' negozi del mondo; e poi tanti non si vergognano di trascurare il negozio dell'eternità, che importa tutto!« Negozio «importante», negozio «unico», negozio «irreparabile»« Non v'è errore simile all'errore di trascurare la salute eterna. A tutti gli altri errori vi è rimedio: se uno perde una roba, può acquistarla per altra via; se perde un posto, può esservi il rimedio a ricuperarlo; ancorché taluno perdesse la vita, se si salva, è rimediato a tutto. Ma per chi si danna, non vi è più rimedio. Una volta si muore; perduta l'anima una volta, è perduta per sempre« » (Apparecchio alla morte [AM], 12a Considerazione). Non vi è quindi sventura più grande che mancare la propria salvezza.
Senza attendere
Dobbiamo quindi prepararci alla morte che può sopraggiungere in qualsiasi momento. «Bisogna persuaderci che il tempo della morte non è proprio per aggiustare i conti, affin di assicurare il gran negozio dell'eterna salute. I prudenti del mondo negli affari di terra prendono a tempo opportuno tutte le misure per ottenere quel guadagno, quel posto, quel matrimonio; per la sanità del corpo non differiscono punto i rimedi necessari. Che diresti di taluno, che dovesse andare a qualche duello o concorso di cattedra, se volesse attendere ad istruirsi, quando è già arrivato il tempo?« Tale appunto è quel cristiano, che si riduce ad aggiustar la coscienza, quando è arrivata la morte» (AM, 10a Considerazione). Commentando queste parole di san Paolo: Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore (Fil 2,12), don Alfonso scriverà ancora: «Per salvarci bisogna che tremiamo di dannarci, e tremiamo non tanto dell'inferno, quanto del peccato, che solo può condurci all'inferno. Chi trema del peccato, fugge le occasioni pericolose, spesso si raccomanda a Dio, piglia i mezzi per conservarsi in grazia. Chi fa così, si salva; e chi non fa così, è moralmente impossibile che si salvi» (VS, 6a Meditazione).
La gente della campagna che beneficia delle missioni riceve con avidità queste sante verità, e si prepara al sacramento della Penitenza. I missionari, fedeli ministri della riconciliazione, trascorrono lunghe ore in confessionale. Qui, da veri medici delle anime, sanno consolare gli afflitti. «Quanto più un'anima è sprofondata nel male, dice don Alfonso, tanto più bisogna accoglierla bene, al fine di strapparla agli artigli del nemico». L'ascolto del penitente con pazienza e dolcezza contribuisce a disporlo all'assoluzione, o immediatamente o dopo un tempo di prova. Come penitenza sacramentale, don Alfonso impone esercizi di pietà molto semplici, ma di natura tale da allontanare dal peccato e ravvivare il fervore. Sollevate dai loro peccati, queste persone ricevono in seguito la santa Comunione, e se ne vanno a raccontare la loro felicità agli abitanti dei borghi più remoti, glorificando così la misericordia di Dio. «Iddio non sa voltar la faccia a chi ritorna a' piedi suoi; no, poiché Egli stesso l'invita e gli promette di riceverlo subito che viene. Revertere ad me, et suscipiam te (Ger 3,1). Convertimini ad me, convertar ad vos, ait Dominus (Zac 1,3). Oh l'amore e la tenerezza con cui abbraccia Dio un peccatore che a Lui ritorna!« Si gloria il Signore di usar pietà e di perdonare i peccatori» (AM, 16a Considerazione).
L'abbondanza della redenzione
Di fronte al rigorismo giansenista che faceva di Dio un giudice severo senza misericordia, padre Alfonso, che aveva scelto per motto «Copiosa apud Eum redemptio: grande presso di Lui la redenzione» (Sal 129 [130]), insiste sulla bontà di Gesù e sul suo amore per tutti gli uomini. Nello stesso tempo, egli mette in guardia contro coloro che, allontanando il pensiero della giustizia divina, predicano solo l'amore. L'amore divino, per essere solido e duraturo, deve fondarsi su una fede integrale: Dio è infinitamente buono, ma anche infinitamente giusto. «La misericordia di Dio è infinita, egli scrive, ma gli atti di questa misericordia (che sono le misurazioni) son finiti. Dio è misericordioso ma è ancora giusto« La misericordia sta promessa a chi teme Dio, non già a chi se ne abusa. Et misericordia eius timentibus eum (Lc 1,50), come cantò la divina Madre. Agli ostinati sta minacciata la giustizia; e siccome (dice S. Agostino) Dio non mentisce nelle promesse; così non mentisce ancora nelle minacce: «Qui verus est in promittendo, verus est in minando». Guardati, dice S. Gio. Grisostomo, quando il demonio (ma non Dio) ti promette la divina misericordia, affinché pecchi... » (AM, 17a Considerazione).
La cosa più importante
Ma come imprimere questa giusta rappresentazione di Dio, nello stesso tempo misericordioso e giusto, nelle anime? Eco fedele della tradizione, Alfonso de' Liguori risponde: con la preghiera quotidiana. Nel suo pensiero, l'arte di amare Dio s'identifica con l'arte di meditare o di fare orazione, perché è nella meditazione che l'anima acquisisce la conoscenza di Dio e s'innamora di Lui. Così, il suo libro più importante, come riconosce egli stesso, è Del gran mezzo della preghiera. In questa opera, Alfonso spiega: l'uomo, a causa delle conseguenze del peccato originale, è attratto verso il male, e non può con i propri mezzi resistervi in ogni momento; in effetti, solo la grazia di Dio rende possibile l'osservanza di tutti i comandamenti, che è necessaria per la salvezza. «Poiché enunciano i doveri fondamentali dell'uomo verso Dio e verso il prossimo, i dieci comandamenti rivelano, nel loro contenuto essenziale, obbligazioni gravi. Sono sostanzialmente immutabili e obbligano sempre e dappertutto. Nessuno potrebbe dispensare da essi« Quanto Dio comanda, lo rende possibile con la sua grazia» (Catechismo della Chiesa Cattolica, [CEC] 2072, 2082). Oppure, come dice sant'Agostino, «Dio vuole donare le sue grazie, ma le dona solo a chi le chiede». Contrariamente a coloro che affermano che l'osservanza dei comandamenti non è possibile in certi casi concreti, lo stesso Dottore risponde: «Che l'uomo che vuole e non può riconosca che non vuole ancora pienamente, e che preghi al fine di avere una volontà abbastanza grande per compiere i comandamenti». Questo è il motivo per cui sant'Alfonso scrive: «Dio non nega ad alcuno la grazia della preghiera, colla quale si ottiene da Dio l'aiuto a vincere ogni concupiscenza, ed ogni tentazione« E dico, e replico, e replicherò sempre sino che ho vita, che tutta la nostra salute sta nel pregare». Di qui il famoso assioma, ripreso dal Catechismo: «Chi prega, certamente si salva; chi non prega certamente si danna » (CEC 2744).
Alcuni autori di quell'epoca [e della nostra no?], sotto l'influenza del protestantesimo e del giansenismo, tendevano a distogliere i fedeli dalla devozione alla Vergine santissima. Don Alfonso pubblica quindi nel 1750 Le Glorie di Maria [GM], che è un commento della Salve Regina; vi enuncia le prerogative della Madre di Dio: tutte le grazie passano attraverso le mani di Maria, e di conseguenza Maria è la nostra mediatrice necessaria (cfr. GM, cap. 5).
In effetti, così come Maria è la Madre di Gesù, Dio vuole che sia la Madre di ogni uomo redento da Gesù. Così come ha portato Gesù nel suo grembo, ella ci porta nel suo cuore finché Cristo sia formato in noi. «Non si dubita che per li meriti di Gesù è stata conceduta tanta autorità a Maria di essere la mediatrice della nostra salute: non già mediatrice di giustizia, ma di grazia e d'intercessione» (ibid.).
Don Alfonso vuole che si predichi sempre, nelle missioni, un sermone sulla Vergine Maria, Madre di Misericordia, e sulla necessità, per chi vuole perseverare e salvarsi, di ricorrere spesso alla sua intercessione. Egli scrive: «Così rivelò la stessa beata Vergine a S. Brigida (Rev. lib. I, cap. 6). «Io sono, le disse, la regina del cielo e la madre della misericordia; io sono l'allegrezza de' giusti e la porta per introdurre i peccatori a Dio. Né vi è nella terra peccatore che viva e sia così maledetto, che sia privato della misericordia mia« niuno, disse, è così discacciato da Dio, che, se m'abbia invocata in suo aiuto, non ritorni a Dio e goda della sua misericordia»« Maria a tal fine è stata fatta regina della misericordia, per salvare colla sua protezione i peccatori più grandi e più perduti che a lei si raccomandano» (GM, cap. 1).
Vivere con Gesù
Posto come principio che tutti i cristiani sono chiamati alla santità, che «consiste nell'amare Gesù Cristo nostro Dio, nostro sommo bene, nostro Salvatore», Alfonso pubblica diverse opere che aiutano a contemplare la sua vita: Novena del Santo Natale, Riflessioni sulla Passione«, Visite al Santissimo Sacramento«, e soprattutto Pratica di amar Gesù Cristo. Quest'arte vuole che si distacchi il proprio cuore da ogni creatura per unirlo alla volontà di Gesù, in modo che, così trasformato, ognuno possa esclamare con san Paolo: Vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me (Gal 2,20). Nelle sue opere Modo di conversare continuamente ed alla familiare con Dio e Uniformità alla volontà di Dio, Alfonso dà preziosi consigli per aiutare l'anima a vivere alla presenza del Signore, a parlargli da cuore a cuore e ad accettare dalla sua Mano amorevole tutto ciò che ci accade. Il santo pubblica anche altri scritti al fine di suscitare il desiderio di sacrificare tutto per seguire Gesù più da vicino: la Selva«, sui doveri dell'anima sacerdotale, e La vera sposa«, sui doveri degli uomini e delle donne che fanno professione dei consigli evangelici.
Nella formazione delle giovani vocazioni, sant'Alfonso insiste perché si segua l'insegnamento di san Tommaso d'Aquino.
Di fronte alla diversità delle opinioni, si adopera a rivedere la teologia morale con una saggezza tale che nel 1950 papa Pio XII gli conferirà il titolo di «celeste Patrono di tutti i confessori e moralisti». Di fronte al rigorismo, egli afferma che il sacerdote non deve negare l'assoluzione al penitente ben disposto, cioè veramente contrito e che ha il fermo proposito di non peccare più; di fronte al lassismo, non permette che si ammettano ai sacramenti le anime che non sono decise, con la grazia di Dio, a evitare ogni peccato grave.
Le prove non mancano nella giovane Congregazione dei Redentoristi. Nel 1752, il re delle Due Sicilie, Carlo III, decreta la spoliazione dei beni dell'istituto, facendoli passare nelle mani dei vescovi.
In seguito, lo stesso Alfonso è costretto, dagli intrighi di alcuni dei suoi figli, ad abbandonare il suo posto e ad allontanarsi. Senza turbarsi, predica ai suoi la sottomissione alla volontà divina: «Il Signore, dice, vuol tirare avanti la Congregazione, non con applausi, e protezioni di Principi, e di Monarchi, ma con disprezzi, povertà, miserie, e persecuzioni; quando mai si è veduto, che le opere di Dio si sono cominciate con applauso? S. Ignazio all'ora era contento quando aveva nuove di persecuzioni, e travagli».
Nel 1762, padre Alfonso viene nominato vescovo di Sant'Agata dei Goti, piccola diocesi non lontano da Napoli. Malgrado l'esempio di molti prelati del suo tempo, per cui l'episcopato esige lusso e sfarzo, egli continua a condurre una vita povera e mortificata. Grazie alle sue predicazioni, in breve tempo tutta la città episcopale ha cambiato volto: confessioni e comunioni diventano più frequenti, le chiese si riempiono, la devozione alla Santa Vergine cresce in tutti i cuori.
Preoccupato per il futuro della diocesi, egli esamina con cura i candidati al sacerdozio prima di imporre loro le mani. In un'epoca in cui le cariche ecclesiastiche remunerate attirano molte persone poco adatte a esercitare il ministero, il suo zelo lo porta a respingere i candidati indegni.
Il lassismo più o meno generale dell'epoca ha provocato la rovina del fervore, anche all'altare. Uno dei principali oggetti della sollecitudine di mons. de' Liguori è il ripristino ovunque dell'esatta osservanza dei riti sacri.
Infatti, allora come oggi, la gloria di Dio esige la dignità nel servizio dei divini misteri: «Troppo grande è il Mistero dell'Eucaristia perché qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale« Tutti i fedeli, invece, godono del diritto di avere una liturgia vera e in particolar modo una celebrazione della santa Messa che sia così come la Chiesa ha voluto e stabilito» (Istruzione Redemptionis Sacra–mentum della Congre–gazione per il Culto Divino, 25 marzo 2004, nn. 11 e 12).
Immobilizzato per diciannove anni
A partire dal 1768, mons. de' Liguori viene colpito da una malattia che si estende a tutte le articolazioni del corpo. Ben presto le vertebre del collo si ripiegano su se stesse, costringendo il mento a premere fortemente sul petto, il che provoca una piaga viva e rende difficile la respirazione. Il santo rimarrà immobilizzato durante i diciannove anni che gli restano da vivere. Nonostante questa tortura, non lo si sente mai emettere un lamento. Rivolgendosi al grande crocifisso posto davanti a lui, egli esclama: «Signore vi ringrazio che mi date un saggio de' dolori che soffriste nei nervi quando vi conficcarono sulla croce. Voglio patire, Gesù mio, come, e quanto vuoi tu: dammi solo pazienza. Hic ure, hic feca, hic non parcas ut in æternum parcas (Brucia, taglia, non risparmiarmi quaggiù, ma risparmiami nell'eternità) ». Nel luglio 1775, Pio VI accetta le sue dimissioni dall'episcopato. Gli ultimi anni della sua vita sono occupati a scrivere e a difendere i suoi religiosi. Nel luglio 1787, mons. de' Liguori è prossimo alla morte. Nel momento in cui gli viene portato il santo Viatico, esclama: « Gesù mio, Gesù mio, non lasciarmi!»
Il 1° agosto, tenendo sul cuore il crocifisso e l'immagine di Maria, si addormenta dolcemente nel Signore nel momento in cui la campana del convento suona l'Angelus. È stato dichiarato «Dottore della Chiesa» dal beato Pio IX nel 1871.
In occasione del secondo centenario della sua morte, il 1° agosto 1987, papa Giovanni Paolo II scriveva: «La popolarità del Santo deve il suo fascino alla brevità, alla chiarezza, alla semplicità, all'ottimismo, all'affabilità che arriva fino alla tenerezza. Alla radice di questo suo senso del popolo sta l'ansia della salvezza: salvarsi e salvare. Una salvezza che va fino alla perfezione, alla santità. Il quadro di riferimento della sua azione pastorale non esclude nessuno: egli scrive a tutti, scrive per tutti».
Sant'Alfonso Maria de' Liguori, ottienici la grazia di camminare risolutamente nella via della salvezza eterna e di trascinarvi il maggior numero di anime possibile!
Dom Antoine Marie osb
Nessun commento:
Posta un commento