I. La preparazione della cena e gli inviti
3. “Un uomo fece una grande cena”. Considera che c’è una
duplice cena: la cena della penitenza e la cena della gloria. E poiché senza la
prima non si arriva alla seconda, prepariamo la prima e vediamo quali siano gli
alimenti necessari.
Qui abbiamo la concordanza con il primo libro dei Re, dove
si racconta che Anna “allattò il figlio (Samuele) fino al tempo dello
svezzamento. Dopo averlo svezzato, lo condusse con sé portando tre vitelli, tre
misure di farina e un’anfora di vino; e lo condusse alla casa del Signore a
Silo” (1Re 1,23-24).
Anna, che s’interpreta “grazia”, è figura della grazia dello
Spirito Santo, la quale con le due mammelle della grazia preveniente e della
grazia “susseguente” (cooperante), allatta il penitente finché lo svezza
totalmente dal latte della concupiscenza della carne e della vanità del mondo.
E osserva che come la madre che vuole svezzare il figlio si
bagna le mammelle di liquido amaro, affinché il bambino che cerca il dolce
trovi invece l’amaro e quindi venga distolto dal dolce, così la grazia dello
Spirito Santo cosparge le mammelle dei beni temporali con il liquido amaro
della tribolazione, affinché l’uomo rifugga da questa dolcezza cosparsa di
amarezze, e ricerchi la dolcezza vera.
“E dopo averlo svezzato lo prese con sé, insieme con tre
vitelli”. Ecco i cibi che si devono preparare per la cena della penitenza. La
grazia porta con sé il penitente insieme con tre vitelli, nei quali è indicata
la triplice offerta.
Il vitello di un cuore contrito e afflitto, come
dice il Salmo: “Allora porranno vitelli sopra il tuo altare” (Sal
50,21). Sopra l’altare, cioè nella contrizione del cuore, i penitenti
pongono i vitelli, vale a dire bruciano i piaceri e i pensieri immondi.
Il vitello della confessione. Dice Osea: “Prendete
con voi le parole, convertitevi al Signore e dite: Togli ogni iniquità e
accetta il bene, e ti offriremo i vitelli delle nostre labbra” (Os
14,3). Prende con sé le parole colui che si sforza di praticare ciò che
ascolta, e così si converte al Signore. E al Signore dice anche: “Togli ogni
iniquità”, che io ho commesso, “e accetta il bene” che tu stesso hai dato. “Non
a me, Signore, non a me, ma al tuo nome dà gloria” (Sal 113B,1). E
così io ti renderò “i vitelli delle mie labbra”, farò cioè la confessione del
mio crimine e a te innalzerò la lode.
Il vitello del corpo, castigato con la penitenza.
“Vitello e vitella sono così chiamati per la loro “verde” età. Vitello e
vitella sono figura della nostra carne, la quale nella verde età della
giovinezza si sbizzarrisce spensieratamente per i prati di una colpevole
sfrenatezza. Di essa dice Sansone: “Se non aveste arato con la mia giovenca,
non avreste decifrato il mio enigma” (Gdc 14,18). Sansone è figura
dello spirito; la giovenca rappresenta la nostra carne: se ariamo su di essa,
facendola soffrire con la penitenza, decifreremo l’enigma, che è questo: “Che
cos’è più dolce del miele? Che cos’è più forte del leone” della tribù di Giuda? (Gdc
14,18). Che cosa c’è di più dolce del miele, cioè della contemplazione? Che
cosa c’è di più forte del leone, cioè del predicatore, al cui ruggito tutti gli
animali devono fermare il passo? Che cos’è più dolce del miele della
mansuetudine? Che cos’è più forte delle leone della severità? Giustamente
quindi è detto: “E lo portò con sé, insieme con tre vitelli”.
“E con tre misure di farina”. Il grano si macina e si riduce
in farina. La farina, impastata con l’acqua, si solidifica in pane, il quale
sostiene il cuore dell’uomo (cf. Sal 103,15). Allo stesso modo il
grano delle nostre opere dev’essere macinato per mezzo di una severa critica,
triturato con un attento esame, per risultare purificato come la farina.
Questo esame poi dev’essere triplice, come è indicato dalle
tre misure. Si deve esaminare la natura dell’opera che compiamo, la sua origine
e la sua finalità. Quindi l’opera dev’essere mescolata con l’acqua delle
lacrime, per implorare l’irrigazione inferiore e l’irrigazione superiore (cf.
Gdc 1,15): e l’opera dev’essere offerta o per il riscatto delle opere
cattive del passato, o per il desiderio dell’eterna felicità; e questo era
prefigurato nelle due tortore che si offrivano sotto la Legge, una delle quali
veniva offerta per il peccato, e l’altra veniva bruciata in olocausto (cf.
Lv 12,8).
Quindi con la farina e con l’acqua si impasta il pane, che
sostenta il cuore dell’uomo, perché con le opere buone mescolate alle lacrime
si nutre e si arricchisce la coscienza dell’uomo.
“E un’anfora di vino”, la quale ha tre misure (Glossa).
Nel vino è raffigurata la letizia della mente, che consiste in tre cose: nel
testimonio della buona coscienza, nell’edificazione del prossimo e nella
speranza della felicità eterna.
Con tutte queste cose la madre Anna, vale a dire la grazia
dello Spirito Santo, conduce il suo figlio, il giusto, alla casa del Signore a
Silo, che significa “trasferita”, lo guida cioè fino alla vita eterna, alla
quale i santi vengono trasferiti dal pellegrinaggio di questo mondo, e alla cui
cena di gloria banchettano insieme con gli spiriti beati.
3. “Un uomo fece una grande cena”. Considera che c’è una
duplice cena: la cena della penitenza e la cena della gloria. E poiché senza la
prima non si arriva alla seconda, prepariamo la prima e vediamo quali siano gli
alimenti necessari.
Qui abbiamo la concordanza con il primo libro dei Re, dove
si racconta che Anna “allattò il figlio (Samuele) fino al tempo dello
svezzamento. Dopo averlo svezzato, lo condusse con sé portando tre vitelli, tre
misure di farina e un’anfora di vino; e lo condusse alla casa del Signore a
Silo” (1Re 1,23-24).
Anna, che s’interpreta “grazia”, è figura della grazia dello
Spirito Santo, la quale con le due mammelle della grazia preveniente e della
grazia “susseguente” (cooperante), allatta il penitente finché lo svezza
totalmente dal latte della concupiscenza della carne e della vanità del mondo.
E osserva che come la madre che vuole svezzare il figlio si
bagna le mammelle di liquido amaro, affinché il bambino che cerca il dolce
trovi invece l’amaro e quindi venga distolto dal dolce, così la grazia dello
Spirito Santo cosparge le mammelle dei beni temporali con il liquido amaro
della tribolazione, affinché l’uomo rifugga da questa dolcezza cosparsa di
amarezze, e ricerchi la dolcezza vera.
“E dopo averlo svezzato lo prese con sé, insieme con tre
vitelli”. Ecco i cibi che si devono preparare per la cena della penitenza. La
grazia porta con sé il penitente insieme con tre vitelli, nei quali è indicata
la triplice offerta.
Il vitello di un cuore contrito e afflitto, come
dice il Salmo: “Allora porranno vitelli sopra il tuo altare” (Sal
50,21). Sopra l’altare, cioè nella contrizione del cuore, i penitenti
pongono i vitelli, vale a dire bruciano i piaceri e i pensieri immondi.
Il vitello della confessione. Dice Osea: “Prendete
con voi le parole, convertitevi al Signore e dite: Togli ogni iniquità e
accetta il bene, e ti offriremo i vitelli delle nostre labbra” (Os
14,3). Prende con sé le parole colui che si sforza di praticare ciò che
ascolta, e così si converte al Signore. E al Signore dice anche: “Togli ogni
iniquità”, che io ho commesso, “e accetta il bene” che tu stesso hai dato. “Non
a me, Signore, non a me, ma al tuo nome dà gloria” (Sal 113B,1). E
così io ti renderò “i vitelli delle mie labbra”, farò cioè la confessione del
mio crimine e a te innalzerò la lode.
Il vitello del corpo, castigato con la penitenza.
“Vitello e vitella sono così chiamati per la loro “verde” età. Vitello e
vitella sono figura della nostra carne, la quale nella verde età della
giovinezza si sbizzarrisce spensieratamente per i prati di una colpevole
sfrenatezza. Di essa dice Sansone: “Se non aveste arato con la mia giovenca,
non avreste decifrato il mio enigma” (Gdc 14,18). Sansone è figura
dello spirito; la giovenca rappresenta la nostra carne: se ariamo su di essa,
facendola soffrire con la penitenza, decifreremo l’enigma, che è questo: “Che
cos’è più dolce del miele? Che cos’è più forte del leone” della tribù di Giuda? (Gdc
14,18). Che cosa c’è di più dolce del miele, cioè della contemplazione? Che
cosa c’è di più forte del leone, cioè del predicatore, al cui ruggito tutti gli
animali devono fermare il passo? Che cos’è più dolce del miele della
mansuetudine? Che cos’è più forte delle leone della severità? Giustamente
quindi è detto: “E lo portò con sé, insieme con tre vitelli”.
“E con tre misure di farina”. Il grano si macina e si riduce
in farina. La farina, impastata con l’acqua, si solidifica in pane, il quale
sostiene il cuore dell’uomo (cf. Sal 103,15). Allo stesso modo il
grano delle nostre opere dev’essere macinato per mezzo di una severa critica,
triturato con un attento esame, per risultare purificato come la farina.
Questo esame poi dev’essere triplice, come è indicato dalle
tre misure. Si deve esaminare la natura dell’opera che compiamo, la sua origine
e la sua finalità. Quindi l’opera dev’essere mescolata con l’acqua delle
lacrime, per implorare l’irrigazione inferiore e l’irrigazione superiore (cf.
Gdc 1,15): e l’opera dev’essere offerta o per il riscatto delle opere
cattive del passato, o per il desiderio dell’eterna felicità; e questo era
prefigurato nelle due tortore che si offrivano sotto la Legge, una delle quali
veniva offerta per il peccato, e l’altra veniva bruciata in olocausto (cf.
Lv 12,8).
Quindi con la farina e con l’acqua si impasta il pane, che
sostenta il cuore dell’uomo, perché con le opere buone mescolate alle lacrime
si nutre e si arricchisce la coscienza dell’uomo.
“E un’anfora di vino”, la quale ha tre misure (Glossa).
Nel vino è raffigurata la letizia della mente, che consiste in tre cose: nel
testimonio della buona coscienza, nell’edificazione del prossimo e nella
speranza della felicità eterna.
Con tutte queste cose la madre Anna, vale a dire la grazia
dello Spirito Santo, conduce il suo figlio, il giusto, alla casa del Signore a
Silo, che significa “trasferita”, lo guida cioè fino alla vita eterna, alla
quale i santi vengono trasferiti dal pellegrinaggio di questo mondo, e alla cui
cena di gloria banchettano insieme con gli spiriti beati.
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