venerdì 28 ottobre 2022

FILOCALIA


 

SULLE QUATTRO VIRTÙ DELL’ANIMA

Le forme della sapienza sono quattro. Prudenza, cioè conoscenza delle cose

che vanno fatte e di quelle che non vanno fatte, e stato di veglia

dell’intelletto. Temperanza, cioè avere un sentire integro, in modo da poter

mantenere se stessi estranei a ogni opera, pensiero e parola non graditi a

Dio. Fortezza, cioè forza e costanza nelle fatiche e nelle prove secondo Dio.

Giustizia, cioè distribuzione che assegna a tutto ciò in eguale misura.

Queste quattro virtù capitali provengono così dalle tre potenze

dell’anima: dal pensiero - cioè dall’intelletto - due, prudenza e giustizia,

cioè discernimento; dalla potenza concupiscibile la temperanza, e da quella

irascibile la fortezza. Ciascuna di esse sta in mezzo tra due passioni contro

natura. 

La prudenza sta al di sopra dell’alterigia e al di sotto della stoltezza.

La temperanza, al di sopra della stupidità e al di sotto della sfrenatezza. 

La fortezza, al di sopra della temerarietà e al di sotto della paura. 

La giustizia, al di sopra dell’insufficienza e al di sotto della sovrabbondanza. 

Le quattro

virtù sono un’immagine dell’uomo celeste, e le otto passioni un’immagine

dell’uomo terrestre. Dio conosce con esattezza tutte queste cose, come

conosce le cose passate, presenti e future, e in parte le conosce chi,

conforme alla grazia, impara da Dio le opere sue ed ottiene di essere a

immagine e somiglianza di lui. 

Chi infatti dice di conoscerle come si deve,

soltanto per averne udito parlare, mente. Poiché l’intelletto dell’uomo non

può mai ascendere al cielo senza Colui che ve lo conduce per mano e

neppure, se non è asceso e non ha contemplato, può dire ciò che non ha

visto. Ma se uno ha ascoltato qualcosa dalla Scrittura, deve dire soltanto

quello che gli viene dall’aver udito, con riconoscenza, e deve confessare il

Padre del Verbo, come disse il grande Basilio. Senza presumere di avere la

conoscenza, deve restare al di sotto di ciò che non conosce. Il presumere,

infatti, non concede di divenire ciò che si presume, dice san Massimo.

Esiste una ignoranza lodevole, come dice il Crisostomo, che è quella di

sapere che non si sa. E c’è un’ignoranza che supera ogni ignoranza, che è

quella di non sapere che si ignora. C’è anche una falsa conoscenza che

consiste nel credere di sapere, mentre non si sa nulla, come dice l’Apostolo.


SULLA CONOSCENZA PRATICA

Vi è una conoscenza verace e un’ignoranza assoluta: ma il meglio è la

conoscenza pratica. Poiché che cosa giova all’uomo avere anche tutta la

conoscenza, e anzi riceverla per grazia da parte di Dio, come Salomone - ed

è impossibile che vi sia mai un altro come lui - se poi se ne va al castigo

eterno? Che gli giova, se con le opere e una fede salda non riceve piena

certezza mediante la testimonianza della coscienza di essere liberato dal

castigo futuro, perché non ha da condannare se stesso per aver trascurato

qualcosa che, per quanto gli era possibile, doveva fare, come dice san

Giovanni il Teologo: Se il cuore non ci condanna, abbiamo franchezza nei

confronti di Dio? Ma in realtà, come dice san Nilo, non ci condanna perché

la coscienza stessa è stata ingannata, resa fiacca per l’oscuramento delle

passioni, come dice anche il Climaco. Infatti, soltanto la malvagità oscura

l’intelletto - dice il grande Basilio - e la presunzione lo rende cieco e non gli

concede di diventare ciò che presume. Ma che diremo allora di quelli che,

schiavi delle passioni, credono di avere una coscienza pura? Tanto più se

guardiamo l’apostolo Paolo, che aveva in sé il Cristo, e che dice a fatti e a

parole: Non ho coscienza di nulla - di una colpa, cioè - ma non per questo

sono giustificato.

Poiché, per grande insensibilità, siamo in molti a credere di essere

qualcosa mentre non siamo nulla. Ma, dice l’Apostolo, quando dicono:

«Pace», allora viene su di loro la rovina: perché non avevano pace, ma

parlavano credendo di aver pace, dice il Crisostomo, per la loro grande

insensibilità. San Giacomo, il fratello di Dio, dice, di questi tali, che sono

divenuti immemori del loro peccato, e così un gran numero di superbi non

si accorgono di essere tali, dice il Climaco, presumendo di possedere

l’impassibilità.

Anch’io dunque, tremando per la paura di essere ancora dominato dai

tre giganti del diavolo di cui ha scritto san Marco l’Asceta - cioè la

noncuranza, l’oblio e l’ignoranza - e nel timore che, ignorando la mia

misura, io mi ritrovi fuori dalla retta via - come dice sant’Isacco - ho scritto

la presente raccolta. Poiché se uno odia il rimprovero manifesta in modo

evidente la passione della superbia, dice il Climaco mentre chi ad esso

aderisce, è sciolto dai lacci. Anche Salomone dice: Se uno stolto ricerca la

sapienza, ciò gli sarà computato come sapienza. Ho perciò messo in

principio anche i nomi dei libri e dei santi per non dire ad ogni parola di chi

è e così allungare il discorso. I santi padri hanno spesso scritto le parole

delle sacre Scritture così come stanno. Questo ha fatto Gregorio il Teologo

con le parole di Salomone, e molti altri allo stesso modo. Anche il

Logotèta, Simeone Metafraste, ha detto a proposito del Crisostomo: «Non

è giusto lasciare le sue parole per dire le mie». Eppure lo avrebbe potuto,

perché tutti i padri hanno ricevuto dallo stesso Spirito santo. Invece per

certe parole gli stessi padri indicano l’autore quasi adornandosi di queste

citazioni per amore dell’umiltà, preferendo le parole delle Scritture; altre le

lasciano anonime perché essendo tante, il discorso si prolungherebbe

troppo.

AMDG et DVM

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