domenica 8 marzo 2020

UN PO' DI STORIA -amara- D'AMERICA LATINA

L'opera Evangelizzatrice dei missionari nel Nuovo Mondo



 Giovambat tista Tiepolo: Allegoria dell’America.
Residenza di Wurzburg in Baviera. 1751-53. Affresco.
Conoscere nel dettaglio i costumi e le condizioni di vita degl’indiani d’America, le loro credenze religiose e la loro moralità prima del cristianesimo, è assai importante, perché permette di misurare l’enormità dello sforzo fatto dai primi missionari cattolici per portare alla Fede queste popolazioni pagane. 
Ricardo Levene, docente all’Università di Buenos Aires, e anche Presidente dell’Accademia Nazionale di Storia Argentina, nella sua opera "Storia delle Americhe" scrive a proposito degli Scibscià, una tribù indiana stanziata nella parte più settentrionale del Sudamerica, in un territorio compreso fra gli odierni Colombia, Venezuela e Brasile : "I grandi capi indiani praticavano la poligamia; avevano dalle duecento alle trecento concubine; la favorita fra queste aveva giurisdizione sulle altre, le quali, in realtà, non erano che delle schiave di lei. L’adulterio era assolutamente permesso in questa società di primitivi. I tributi dovuti alle altre tribù venivano pagati in donne. La donna era oggetto di mercato. Un parto gemellare era considerato la prova dell’avvenuto adulterio". 
Ho già detto negli articoli precedenti che l’adulterio era cosa perfettamente normale, tuttavia il marito
tradito sentiva egualmente l’infedeltà della donna come un’offesa e quindi il gemello secondogenito veniva ammazzato o per annegamento o in un’altra maniera.
"I gemelli venivano appesi ad un albero per mezzo di un filo: il più debole moriva per primo; l’altro, se sopravvissuto a questa prova, era lasciato vivere".
Alcune tribù, fra cui questa degli Scibscià, consentivano il matrimonio anche tra fratello e sorella, mentre nelle tribù del Brasile il padre abusava anche delle figlie. C’era la pena di morte, che si eseguiva in questo modo: il condannato veniva posto in una camera sotterranea, dov’era lasciato morire di fame e di punture d’insetti e rettili velenosi. Anche la tortura era pratica ordinaria nelle prigioni indiane.
Tutti gli autori raccontano dei sacrifici umani perpetrati dagl’indios. Qui non citerò che uno studioso, Humboldt (l’avrete forse sentito nominare) celebre in America Latina, soprattutto per le sue ricerche in Amazzonia.
Nella regione del Sogamosso (dice Humboldt) situata nella parte settentrionale dell’America del Sud, i bambini erano allevati fino a dieci anni nel tempio del sole; giunti all’età di quindici, venivano condotti processionalmente fino ad una colonna, dov’erano immolati da sacerdoti acconciati come ragni e da un altro sacerdote, che portava il nome di Ata, spesso abbigliato con gl’indumenti di un mostruoso Formagata. Formagata era un mostro, lo spirito del male: il sacerdote che lo impersonava, munito di una lunga coda, portava sul volto una maschera feroce con un solo occhio e quattro orecchie. Le piccole vittime venivano trafitte con frecce e il loro cuore era offerto al dio Bocìca.
Alla fine di ogni anno fra i Tungia e gli Iraca si svolgeva una processione rituale:
gl’indios sorbivano in abbondanza una bevanda ottenuta dal mais fermentato. La cerimonia
terminava con un’ubriacatura generale, intervallata da sacrifici umani.
Il rituale funebre riservato ai cacichi, cioè ai capi indiani, imponeva che questi fossero inumati in un luogo segreto, assieme ad alcune delle rispettive concubine: il cacico era deposto nella tomba ad un certo livello; le sue concubine vi venivano seppellite vive, sotto il suo cadavere, mentre, ad un livello più basso, sotto la salma e sotto i corpi delle concubine, erano costretti gli schiavi più fedeli del cacico, essi pure sotterrati vivi. Le schiave e le concubine venivano narcotizzate, per resistere alla prossimità della morte.
Quetzalcoatl: la più importante divinità 
azteca. 
Il Padre gesuita Josè Julio Martinez, in un articolo da lui scritto nella rivista Integridad Mexicana , afferma che gl’idoli messicani, sul cui volto stavano scolpite le sembianze di démoni, presenziavano, presiedevano anzi fisicamente ai sacrifici umani. Questa testimonianza del Padre Martinez è confermata da altri sacerdoti, soprattutto brasiliani, che sostengono che gl’idoli adorati nel corso di queste raccapriccianti cerimonie, altri non erano se non démoni, secondo quanto c’insegna la Sacra
Scrittura ("omnes dii gentium daemonia") e, in particolare, l’Apostolo San Paolo. 
Sulla maschera diabolica di questi idoli (che ciascuno può ancor oggi vedere, perché ci sono stati conservati e sono fruibili a tutti) si possono leggere i tratti di una crudeltà e di un odio omicida senza eguali. Sono figure che ripugnano alla sensibilità di un uomo civile. Scrive il Padre Martinez che i cerimoniali presieduti da questi idoli rendevano gl’indiani più brutali degli stessi animali e che la loro crudeltà, nell’atto di perpetrare i sacrifici umani, raggiungeva un grado di malvagità ignota perfino alle fiere. 
L’ultimo giorno di ogni mese e gli ultimi cinque giorni dell’anno erano destinati ai sacrifici umani. Alle vittime, schiavi oppure prigionieri di guerra, i sacerdoti squarciavano il petto, per strappare il cuore palpitante da offrire al dio. (Anche in questo caso, naturalmente, coloro che dovevano patire il sacrificio rituale erano prima drogati o costretti a bere una pozione fortemente alcolica, per vincere il terrore che sentivano all’approssimarsi della morte). Le teste, recise, venivano infisse ciascuna su di un palo e così lasciate tutt’attorno al tempio. I corpi decapitati erano donati dai sacerdoti ai loro prediletti, perché fossero mangiati: il cannibalismo era infatti assai diffuso.
Particolarmente straziante era l’omicidio rituale dei bambini, i quali, non potendo avere, a ragione dell’età, un grande controllo su di sé e sul dolore dei propri sensi, venivano sacrificati tra grida altissime e molti pianti. 
Hernán Cortés e i conquistadores sbarcano in Messico.
Quando Cortés arrivò nel Messico (rammenta Padre Martinez) e vide questa enorme barbarie, disse a Moctezuma: "Abbandona gl’idoli maledetti, prendi questa Croce e quest’immagine della Madonna", ch’egli e i suoi soldati portavano sempre con sé. "Noi siamo qui, inviati dal nostro Imperatore, perché non sacrifichiate più altri vostri fratelli indiani. Fate a pezzi, distruggete gl’idoli maledetti".
Da quanto siamo venuti dicendo si può misurare quale immenso sforzo missionario sia stato richiesto agli spagnoli dalla Provvidenza (e non soltanto ai religiosi, ma anche ai coloni e ai commercianti sbarcati nel Nuovo Mondo) per riuscire ad instaurare un rapporto pacifico con e tra gl’indiani: si trattò di un’impresa assai ardua, proprio perché gl’indigeni non concepivano altro stile di vita da quello basato sulla violenza e sui sacrifici umani.  Parecchi missionari, coloni e commercianti furono chiamati al martirio.
Sacrificio umano azteco. 
Le ecatombi indigene in America, a causa dei sacrifici umani, ammontano, nel momento in cui Cristoforo Colombo pianta la Croce sul suolo di San Salvador, fino a centomila vittime l’anno. Altre fonti danno una cifra a questa assai prossima. 
Ma, alla fine, le fatiche apostoliche dei cattolici vennero premiate: nel Messico gl’indios iniziarono a convertirsi, soprattutto a partire dal 1540 (altrove già da prima) e accorrevano in gran numero dai religiosi missionari.
Tehuacan è oggi una regione del Messico, molto cattolica. Particolare devozione alla religione si riscontra in una sua provincia, il Trascalan: qui, al tempo della Conquista, i sacerdoti convinsero gl’indios a liberare ventimila schiavi, ricordando loro che la legge di Dio non permette la schiavitù.

Sempre a partire dal 1540 sorsero i primi ospedali, fondati dai missionari: i nativi, che non conoscevano la carità e non sapevano nemmeno cosa volesse dire curare i vecchi o gli ammalati o usare verso di loro buone maniere e modi civili, appresero tutto questo, cominciando a lavorare negli ospedali cattolici. 
Un’altra preziosa testimonianza su questi temi ci viene offerta da uno studio (del settembre 1980) del monaco benedettino Fra’ Bruno Bonnet-Eymard , studio dedicato alle apparizioni di Nostra Signora di Guadalupe, avvenute fra il 1531 e il 1532. L’autore, citando il libro La pensée cosmologique des anciens Mexicains, che un noto studioso francese, Jacques Soustelle, ha consacrato al pensiero cosmologico degli antichi messicani, afferma ch’è impossibile intendere la religione degl’indios, se non si considera che per essi i sacrifici umani erano indispensabili alla marcia dell’universo e che il sole stesso aveva necessità di sangue umano.


A Chalchiuatl, in Messico, il sangue umano era ritenuto l’acqua preziosa , che deve scorrere per soddisfare la divinità. Nel 1487, pochi anni prima che gli europei approdassero in America, l’imperatore Auitzol aveva fatto sacrificare oltre ventimila guerrieri, per inaugurare il nuovo grande tempio Teocalli in Tenochtitlan . 
È ancora Fra’ Bruno Bonnet-Eymard a raccontarci che, “nella valle del Cuernavaca, i bambini e le bambine fra i nove e i dieci anni, venivano abbandonati ubriachi nelle festività, in giro, per le vie della città, per essere esposti a pratiche erotiche, per di più pubbliche, di ogni genere”. 

Juan Diego, l’indio azteco da poco battezzato,
raffigurato al momento dell’apparizione sul monte Tepeyac.
 
Questo è il quadro spaventoso che i religiosi e i coloni spagnoli videro e si trovarono ad affrontare. Immaginate il travaglio dei missionari , immaginate le loro fatiche, per riuscire a cambiare la mentalità e ad elevare moralmente indigeni, dediti a vizi così abietti. 
Il Cielo stesso si mosse per il successo della loro opera, con quell’evento straordinario, soprannaturale, che furono le apparizioni della Madonna a Guadalupe, foriere, fra i nativi, di numerosissime conversioni.


Il carattere spiccatamente demonico di questa società (indios) risulta evidente nella cerimonia del teteoinam, nel corso della quale ad una donna veniva tagliato e strappato da una gamba un largo brano di pelle, di maniera che servisse come una maschera con cui velare l’idolo del dio, onorato in quella festa.
E potrei proseguire ancora, riportando molte altre testimonianze su queste e altre atrocità, praticate dagl’indiani per tutto l’arco dell’anno; ma non voglio dilungarmi. Preferisco invece riportare il dato conclusivo, fornito dal Soustelle, a proposito dei sacrifici umani: l’ecatombe, egli afferma, era tanto grande, che lo stesso equilibrio demografico indio era ormai irrimediabilmente alterato. Se non fossero sopraggiunti gli europei, dice Soustelle, gl’indiani avrebbero dovuto sospendere queste stragi, pena lo scomparire.
Si sa d’altronde che il popolo e la religione dei Maya, diffusi nel Messico orientale, si erano già presso che estinti, nel momento in cui Cortés metteva piede sul continente americano, proprio a causa di questa barbarie dei sacrifici umani di massa, da essi praticata.
Nonostante gli stregoni e i loro capi religiosi, spinti dal demonio, abbiano fatto di tutto per impedirlo, gl’indigeni abbracciarono a legioni e con entusiasmo la Fede cattolica, assimilando anche la cultura ispanica dei colonizzatori. La casta sacerdotale invece, preda del Maligno e timorosa di perdere i propri privilegi, fu la più ostile al cattolicesimo, sempre facendo lega contro i missionari: per stornare gl’indios dalla conversione, aizzò i soldati alla guerra e all’odio contro gli europei. A causa di ciò si ebbero scontri, combattimenti e morti.


Gl’indiani del Brasile, per esempio,  erano mossi da due sentimenti fondamentali: la lussuria e la vendetta. Erano queste le loro pulsioni psicologiche dominanti e in materia di lussuria e di vendetta non v’era tipo di peccato, compresi quelli più orribili e ripugnanti, cui non si abbandonassero.
Le osservazioni dei primi missionari cattolici trovano puntuale conferma nei documenti lasciatici da alcuni calvinisti francesi, sbarcati in Brasile per cercare di stabilirvi una colonia protestante, come pure nelle testimonianze, rese per iscritto, dai due riformati olandesi, Pierre Moreau, di origine francese, e Roulox Baro. 
Scrive il francese Cardin (molto noto in Brasile, per essere l’autore di un libro onesto, veritiero circa la situazione degl’indios a quel tempo): "ö gente incolta; tutti sono governati dagli appetiti dei sensi e dalla vendetta e sempre propensi a fare il male. Questa gente non ha nessuna conoscenza di Dio, in quanto Creatore, né delle cose del Cielo".
Tutto ciò è verissimo: c’era ad esempio una tribù in Brasile, i Tupinambas, perfettamente atea. Costoro non adoravano nessun dio; temevano però quello che essi chiamavano lo spirito del male. Di più: in tutto l’immenso territorio del Brasile, lo Stato più esteso, geograficamente parlando, dell’America Meridionale, non esistevano templi indigeni, né altri edifici destinati al culto e neppure ci sono state tramandate preghiere, pubbliche o private, degl’indios brasiliani.
Questi credevano soltanto ad uno spirito superiore, il quale poteva esercitare un certo influsso su di loro, ma non avevano neppure l’idea di un Dio Creatore. Ciò fa vedere quanto fosse rozzo e assolutamente elementare il credo di questi aborigeni. Il reverendo Padre Thevet aveva ben ragione d’esclamare: "Questa povera gente vive realmente senza religione e senza legge". 
Accecati dal desiderio di vendetta, gl’indios erano sempre in guerra fra di loro e dominati da odii viscerali. La loro regola maestra, ci dicono le fonti, consisteva nell’ammazzare e divorare quanti più nemici possibile.
"Grande è il potere dello stregone, che regge la tribù nella paura", così scrive un grande apostolo del Brasile, il Padre Nobrega s.J. e Gabriel Soares gli fa eco, aggiungendo che "Tutti i membri della tribù possono parlare con i diavoli", tanto da soffrire a volte le bastonate che gli spiriti malvagi infliggono loro. 
Spesso, durante certe cerimonie, il diavolo appariva  sensibilmente a questi selvaggi, "che mantengono con lui contatti di varia natura: in determinati riti magici il Maligno s’impossessa degli stregoni e, tramite i loro corpi invasati, parla e si manifesta agli altri componenti della tribù, incitandoli alla guerra, ad uccidere e a catturare prigionieri. Mentre succede tutto questo, le donne presenti paiono indemoniate ed emettono schiuma dalla bocca". Così riferisce il Padre Nobrega. Tutti gli ordini di questi sacerdoti indigeni sono immediatamente eseguiti.
E il Beato Padre de Anchieta dice, sempre a proposito degli stregoni: "Si può credere che, specialmente in mezzo a loro, operi il demonio". 
Questi giudizi, pur se così severi, sono ribaditi nell’opera di un ricercatore tedesco, Karl F. P. von Martius, che ha per titolo Lo Stato di diritto fra gli autoctoni del Brasile, edito dall’Università di San Paolo nel 1982.
Ancora qualche cosa però importa dire a proposito degl’indios del Brasile e della barbarie (di cui anch’essi si macchiarono) dei sacrifici umani: moltissimi furono gli esseri umani sacrificati dai primitivi abitanti del Brasile, i quali però, a differenza degli autoctoni di altre regioni del continente americano, li scannavano per offrirli non a una divinità (della quale non avevano neppure l’idea) bensì a qualche spirito.
I missionari osservarono però che il motivo principale di questi massacri era soprattutto un altro: l’appetito. Questi aborigeni brasiliani, infatti, amavano cibarsi di carne umana.


Non avevano né l’idea, né alcuna forma di proprietà privata: conoscevano soltanto un vago concetto di proprietà comune, costituita dalle terre su cui vivevano. Praticavano invece la poligamia e la schiavitù; il più forte tiranneggiava sul più debole, fino ad ammazzarlo e a prendere per sé le sue donne.
La più grande promiscuità si accompagnava alla mancanza assoluta d’igiene: era il regno delle malattie, che mietevano moltissime vite. Nelle tribù indigene del Brasile le persone non disponevano, per lo più, di alloggi individuali, ma coabitavano tutte assieme entro una grande capanna comune, dove ciascuno, in una sporcizia totale e praticamente in pubblico, espletava ogni sorta di atti.
Un quadro spaventoso si presentò agli occhi dei primi europei giunti fra questi bruti: sotto il medesimo tetto stavano, gomito a gomito, un bambino che nasceva e adulti che divoravano cadaveri.
Il Padre Nobrega e gli altri spagnoli che spesero le loro fatiche apostoliche fra queste terre (rette, amministrativamente, dalla Corona portoghese) soffrirono moltissimo, a causa di questa situazione, davvero spaventosa, in cui versavano i nativi. Gli europei non potevano immaginare, non potevano concepire che al mondo degli esseri umani potessero vivere a questo modo.


C’era allora, in Brasile, una sorta di AIDS, denominato piàn, una parola composta da due termini, pi (che vuol dire tumore) e an (che significa sollevamento della pelle). Era una malattia sessuale.
Non posso farne adesso la descrizione da un punto di vista clinico, comunque la prima rappresentazione scientifica delle sue principali caratteristiche, si deve ancora una volta ai resoconti dei religiosi.
Tutti gl’indigeni ne erano infetti, tanto da contagiarne anche alcuni europei, che la portarono poi nel vecchio continente, dopo la scoperta.
La morte era orribile: questa malattia era una sorta di lebbra, che, a partire dagli organi sessuali, scarnificava tutte le membra del corpo, fino a consumare a poco a poco tutta la persona fra dolori atroci. Si è fatto giustamente notare a quale eroico grado di sacrificio siano giunti i missionari del tempo, soltanto per riuscire a sopportare l’odore prodotto da questa malattia.
L’omosessualità era incoraggiata e, ovviamente, dilagava: il Beato Padre de Anchieta rimase sconvolto, nel vedere fino a qual punto di perversione questo vizio fosse giunto fra gl’indiani. Vi erano perfino degl’invertiti che vivevano per conto proprio, a disposizione di quelli che volessero unirsi con loro per commettere questo peccato orribile.

Francisco de Orellana
Quanto alle lesbiche, non volendo occuparsi delle faccende domestiche, si davano alla guerra, per catturare altre donne e coltivare così il loro vizio contro natura. Erano forse queste le Amazzoni che, nel 1540, vide Orellana, conquistador e commilitone di Pizarro e dalle quali trasse il nome il Rio delle Amazzoni. 


Quanto è diverso questo quadro, il quadro reale che si trovarono di fronte i missionari e i colonizzatori europei, da quello idilliaco e falso del buon selvaggio, che ci viene ordinariamente presentato al giorno d’oggi, non è vero? Perché di un quadro falso si tratta.
La favola che ci è stata raccontata descrive l’America, prima di Colombo, come una sorta di paradiso terrestre, dove si aggirano pacifici indios, evidentemente esenti (a differenza di noi, poveri uomini civili) dal peccato originale e perciò mai inclinati al male, ma al bene soltanto. Questi angelici selvaggi vivono felici dei frutti dispensati dalla natura, provvida madre.
La favola prosegue quindi rapidamente verso il suo orrido finale, narrando come in questo Eden arrivano un giorno gli europei, i quali, animati dall’odio e assetati di ricchezze, introducono anche in queste plaghe la proprietà privata, pervertendo così i nativi e distruggendo ogni cosa.
Badate: difficilmente si trova un brasiliano che non abbia sangue indio nelle sue vene. Ora ci si rende  ben conto di quanto fosse spaventosa la condizione originaria degli indigeni, all'arrivo dei cristiani. Ma, dopo la loro conversione, gl’indios divennero dei cattolici eccellenti e tali sono rimasti fino ad oggi. 
Ben sessanta almeno furono i Santi e i Beati che, nell’arco di quattro secoli, cristianizzarono l’America Ispano-Portoghese (la quale diede però i natali a quattro soltanto fra i primi e a diversi Beati). A questi sono da aggiungere le sette religiose fondatrici dell’Ordine delle Concezioniste, i cui corpi si conservano incorrotti e a cui spetta il titolo di Serve di Dio.
Tutti cooperarono attivamente all’espansione missionaria e coloniale europea, tanto da essere considerati, a giusto titolo, i primi sociologi del continente, coloro che per primi compresero la mentalità degl’indigeni, giungendo (per facilitarne la conversione) a comporre un particolare genere di musica o di lavori teatrali o a officiare determinate cerimonie, che fossero le più vicine e appropriate per la loro sensibilità.
San Martino de Porres
C’è quel famoso episodio, capitato a San Martino de Porres, il quale, dopo aver predicato a lungo ma invano agl’indios, scoprì che il solo modo per tenerli calmi e farsi ascoltare da loro (che sembravano più delle fiere che uomini in carne ed ossa, a causa della vita di peccato che avevano condotto) era quello di suonare il violino.
Se veramente gli spagnoli o i portoghesi fossero stati animati nella Conquista da interessi esclusivamente venali, mai questi Santi avrebbero dato il loro contributo ed il loro incoraggiamento ad una causa da essi invece reputata santa.
Fin dall’inizio, per far apprendere agl’indios la dottrina cattolica, furono stampati diversi libri. Uno fra questi è Considerazioni sulla carità. Grazie ad esso ed allo spirito di sacrificio testimoniato dagli europei, quegli aborigeni, che erano soliti abbandonare a se stessi i loro malati e che (come  già detto) non sapevano nemmeno cosa fosse la carità, impararono dai cristiani a praticare quest’altissima virtù.
Considerazioni sulla carità risulta però interessante, ai nostri occhi, anche sotto un profilo iconografico, perché contiene diverse illustrazioni, che risalgono all’epoca della Conquista.
Vi sono raffigurati, ad esempio: l’imperatore Inca, nell’atto di conferire con Cortés, che gli presenta la Croce; il matrimonio di una coppia india, dove, al termine della cerimonia, i coniugi sono rappresentati raccolti in preghiera, nell’atto di domandare a Nostro Signore la benedizione sul nuovo focolare che si è appena costituito; un inca che, per avvicinare gli altri indios e per convincerli a partecipare ad un incontro, dove un sacerdote possa predicare, impara a suonare certi strumenti.
I predicatori percorsero distanze enormi, passarono per foreste popolate da animali feroci o brulicanti d’insetti mostruosi e dal morso letale; guadarono fiumi; scalarono la Cordigliera delle Ande; soffrirono i disagi di un clima insano (ed io ne sono testimone, per averlo provato) tutto affrontarono pur di predicare, nei luoghi più remoti e più impensati, la salvezza cristiana, per toccare le anime di questi indigeni e portarle nel seno della Chiesa.
Per darVi un’idea di questo sforzo apostolico prodigioso, dirò che, dal Messico al Cile meridionale, si contavano allora più di duecento diverse parlate indigene e che i missionari dovettero impararle tutte, per poter predicare ai nativi nella loro lingua madre.
Ma, assieme a loro, si assoggettarono a tutte queste fatiche, non dimentichiamolo, anche molti laici sudditi della Corona di Spagna, per obbedienza ai voleri e alle disposizioni della Regina Isabella e, più tardi, del Re e degl’Imperatori, che non tralasciarono sforzi, anche a prezzo di grandi sacrifici, per la conversione degli autoctoni alla vera Fede.
Le Maestà Cattoliche vennero del resto continuamente sollecitate a tutelare gl’interessi degli amerindi e i loro beni dai Consultori Ecclesiastici che sedevano nel Consiglio della Corona, i quali miravano (come dichiararono loro stessi) ad elevare gl’indiani ad un tenore di vita paragonabile a quello di un castigliano o di un aragonese, fino ad equiparare gli uni agli altri.
Garcilaso de la Vega


Nel suo libro Cronaca della Conquista , scritto nel 1570, l’Inca convertito Garcilaso de la Vega,  si dice stupito del fatto che gli scrittori a lui coevi parlino così poco o per niente addirittura dei miracoli che glorificarono la storia della Conquista. "Tuttavia", egli dice, "io conosco le persone che assistettero a questi miracoli". E nella sua opera in effetti ne parla molto. Non posso ricordare qui tutti i miracoli operati dalla Divina Provvidenza per convertire gl’indios; ma uno esemplare fu quello verificatosi alle porte di  Cuzco, quando Pizarro e i suoi tredici commilitoni giunsero sotto le
mura della città, popolata da molta gente, e Pedro de Candia procedette nobilmente, a passi imponenti, come se fosse il signore di quelle contrade, con un portamento magnifico, recando la Croce che ammansì due pantere liberateli contro dagli indigeni. 


La maggioranza degl’indios (eccettuati gli stregoni, come già detto) non oppose resistenza alla conversione: i primi ad abbracciare la Fede furono gli schiavi, vittime sacrificali già designate dal sistema; poi le donne, che in tutta l’America precolombiana erano umiliate al rango di schiave e la cui vita era così deprezzata, che potevano essere ripudiate per semplice volontà del marito; quindi l’aristocrazia Inca.
Vedete, per spiegare da un punto di vista puramente naturale un’adesione così massiccia al cattolicesimo da parte degli aborigeni, può essere utile questa parabola, tratta da uno scrittore cattolico: s’immagini un’isola, popolata soltanto di lebbrosi, che non conobbero se non esseri umani che non soffrissero della medesima infermità. Il giorno in cui vedessero arrivare sull’isola una persona sana, come grazie al Ciclo è ciascuno di noi, guardandola, capirebbero immediatamente di non essere persone normali, ma malate.
Vi è infatti in ciascuno di noi una disposizione interiore al bello e alla verità, iscritta da Dio stesso nell’umana natura, che ci permette di apprezzare questi valori, non appena li abbiamo conosciuti.
Ebbene qualcosa di analogo, si può ipotizzare, avvenne per gl’indios: sentendo predicare per la prima volta, dai missionari, non un dio di morte, che esige il sacrificio di vite umane, ma, al contrario, un Dio che è morto in croce per noi, per salvarci, l’adesione degl’indios alla nuova religione, alla verità, non poté che essere, come fu, immediata.
Adesione entusiastica, che, in un certo senso, perdura anche oggi. Ma la conversione di questi selvaggi fu soprattutto un effetto della Grazia.
Il miracolo più strepitoso, operato nelle Americhe dalla Divina Provvidenza, furono le apparizioni della Santa Vergine all’indio convertito Juan Diego, che riscattarono dall’idolatria le masse indigene, guidandole alla vera Fede. 


Molti di questi indios si convertirono dopo aver assistito essi stessi ad un nuovo prodigio della Madonna di Guadalupe, la cui effige era improvvisamente apparsa dipinta sui loro abiti: e quest’immagine operava guarigioni, resurrezioni di persone defunte, grazie di ogni genere, costituendo per ciò stesso un pressante, celeste appello ad abbracciare il cattolicesimo.
Anche la conversione dei feroci indios Coromoto, in Venezuela, ebbe del miracoloso e fu propiziata, ancora una volta, dalla materna intercessione di Maria.
Questa tribù di selvaggi aveva sempre rigettato con la violenza la Fede, uccidendo i missionari ch’erano andati ad evangelizzarla. Un giorno la Madonna apparve a un indio Coromoto. Egli, per mostrarLe tutto il suo odio, raccolse allora una pietra e la scagliò contro di Lei; ma il sasso rimbalzò indietro, fino al punto da dove era stato tirato. Nuovamente l’indio fece per afferrare la pietra; ma, nel raccoglierla, si avvide che su di essa la Madonna aveva lasciato impressa la sua dolce immagine.
In omaggio all’evento soprannaturale che ho appena ricordato, il Venezuela proclamò la Madonna apparsa all’indio Coromoto, quale propria Patrona e la pietra sulla quale s’impressero le sembianze della Vergine benedetta si conserva ancor oggi, esposta alla venerazione del popolo fedele.
L’intervento divino fu pegno, naturalmente, di grazie copiose e di altrettante conversioni: dove i missionari non poterono arrivare, giunse a soccorrerli la Madonna. E questo soccorso celeste divenne per tutti, per gli spagnoli come per gli amerindi, la prova dell’amore della Provvidenza per loro.
In Colombia (dove si venera la Madonna de las Lajas), in Brasile, in tutta l’America, fu un moltiplicarsi e fiorire di grazie e di miracoli.
I passaggi degli aborigeni al cattolicesimo furono ovunque fulminei e massicci.

Missionari battezzano gli indios 
Spesso gl’indiani affrontarono un lungo cammino per incontrare i missionari, cui domandarono, in numero immenso, la Grazia del Battesimo. Ma i religiosi "non amministrarono mai il battesimo, senza istruirli preliminarmente". "Riguardo a ciò si deve respingere nella maniera la più assoluta", commenta Dumont, "l’opinione secondo la quale il battesimo agli indigeni fosse amministrato comunitariamente, con l’aspersorio. Gl’indiani furono sempre (salvo eccezioni rarissime) battezzati uno ad uno e ciascuno di loro era stato prima esaminato, per saggiarne il grado di conoscenza delle verità essenziali della Fede".

S.M.C. Filippo II di Spagna 
Nel 1558 il francescano fiammingo Pietro da Gand, così scriveva a Filippo II: "Alle otto i giovani nativi si esercitano nella predicazione, per vedere chi sia tra loro il più capace di andare a predicare nei villaggi indigeni [...]; i più capaci e i più illuminati nelle cose di Dio studiano durante tutta la settimana ciò che dovranno predicare e insegnare alla domenica o nelle altre feste di precetto". Essi "esprimono la loro riprovazione per gli errori e i riti idolatrici che i loro avi avevano abbracciato", prima dell’arrivo degli europei; "manifestano la loro fede nell’unico Dio e mostrano agli altri indiani di aver vissuto ingannati e accecati da errori mostruosi, a causa dei quali avevano scambiato per delle divinità, démoni nemici del genere umano". 


Quando, con la Conquista, gli amerindi ricevettero il Santo Battesimo dall’Europa cristiana nacque, da questa felice fusione, una nuova civiltà, che lo studioso statunitense Arnold Toynbee, un protestante, chiama "civiltà indio-cattolica". Questa bella espressione la si trova nel suo libro, La religione vista da uno storico.
Bartolomé de Las Casas.


Vi sono testi (tutti assolutamente seri e circostanziati) di almeno cinque o sei autori, i quali, senza mezzi termini, licenziano come frutto di fantasia, quando non di veri e propri vaneggiamenti, le teorie del domenicano Bartolomé de Las Casas.
E molti storici contemporanei concordano, in effetti, nel giudicare ben poco fededegni i suoi scritti, così zeppi di errori e di contraddizioni, e nel denunziare come false le sue accuse ai Conquistadores.
Padre Juan Terrada Soler, dei Cooperatori Parrocchiali di Cristo Re, autore di un’opera assai pregevole, che raccoglie tutti i pronunciamenti pontifici a proposito della Conquista  dice, del Las Casas, che "le sue teorie personali circa la colonizzazione sono improntate ad una bontà cieca. L’ignoranza, le abiezioni in cui erano sprofondate le razze indigene che popolavano l’America, non sono da lui neppure considerate.
Vagheggiò una conquista liberale della barbarie. Volle separare la spada dalla Croce e negò l’assoluzione alla spedizione dei Conquistadores, ritardando cosi la civilizzazione della costiera atlantica del Nicaragua, dove ancora per diverse decine d’anni gli aborigeni vagarono nella più tremenda barbarie". 
II Padre Soler ha perfettamente ragione a sottolineare che la difesa armata della
Fede era per gli spagnoli una necessità vitale; si trattava infatti di tutelare laici e missionari
europei dagli attacchi e dalle violenze incessanti di nativi che, abbrutiti dalla perenne
bellicosità e dall’efferatezze dei sacrifici umani, erano delle furie, indurite da ogni malvagità.
Se gli europei non si fossero dotati di una protezione militare efficace, avrebbero dovuto
soccombere alla brutalità di questi selvaggi e sarebbero stati tutti massacrati o ributtati in
mare.
La conferma ci viene da quanto accadde in quelle regioni asiatiche, ove si esercitò
la predicazione di San Francesco Saverio, l’Apostolo delle Indie Orientali. Nonostante
l’immenso numero di conversioni operate da questo grande Santo (si dice che nella sua vita
abbia battezzato, da solo, oltre un milione d’infedeli) cosa rimane oggi delle sue immense
fatiche apostoliche? Ben poco. E questo proprio perché mancò a lui e ai neofiti il sostegno di
una milizia d’interdizione, che facesse da scudo contro gli assalti del nemici del nome
cristiano.
Tutti i tentativi di evangelizzazione lascasiana, ispirata cioè alle sue erronee teorie
(supponenti la pacifica e immacolata innocenza di questi primitivi, evidentemente immuni da
ogni colpa originale) abortirono o sparsero sangue cristiano.
Un esempio per tutti: in Florida "otto gesuiti, privi di ogni protezione militare, recatisi a evangelizzare gl’indios dell’interno, furono tutti massacrati dagli aborigeni fra il 4 e l’8 febbraio 1571, senza averne convertito uno solo. Sei mesi prima di questa strage, San Francesco Borgia, Superiore Generale dei gesuiti, aveva dovuto constatare che non vi era, con questi metodi, «speranza alcuna di guadagnare i selvaggi della Florida alla Fede»".
Ma Las Casas, sempre così disposto ad accusare gl’iberici (esagerando o inventando addirittura) della bellicosità degli amerindi non fa parola. Spesso le sue fonti sono le meno dirette: non li vede aggredire; non li vede uccidere e massacrare; non ne vede la spaventosa ferocia, indotta dal demonio. La loro alta mortalità non può dipendere per lui che dalle esigue spade degli europei.
Ma i massacri che Las Casas imputa agli spagnoli sono un falso! Assolutamente un falso!


Spesso nei suoi scritti il Las Casas cade in vistose contraddizioni: così in un punto della sua opera egli riferisce di un massacro che avrebbe fatto addirittura trecentomila vittime fra gl’indios, mentre in un altro punto, e a proposito dello stesso evento, i morti scendono a centocinquantamila. E non la si creda un’eccezione: tutti i suoi scritti, infatti, sono infarciti di elementi in contrasto fra loro. Sono una continua contraddizione. Per non dire delle cifre incredibili, quando non addirittura false, da lui fabbricate. Vi basti questa: "Nella sua Storia Apologetica Las Casas pretende che i templi indiani distrutti dagli spagnoli fossero «più di due milioni»!". 
L’autore della Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie, per citare qui il suo titolo più famoso, omette abitualmente d’indicare le date e i nomi dei luoghi e delle persone, cui si riferiscono gli eventi che racconta. Il che spiega perché a questa, come alle altre sue opere, sia impossibile attribuire un reale valore storico.
Menendes de Pelayo così descrive, nel suo Studio di critica storica (1892) il Padre Las Casas: "Irascibile, collerico, di un fanatismo intrattabile, rude, intemperante nel linguaggio”. Tutte le fonti ci confermano questo ritratto. "Era un misto di pedantismo scolastico e d’ingiurie brutali. Si considerava un Santo, un illuminato che doveva portare a compimento la sua missione. La stessa parola carità prendeva un sapore amaro fra le sue labbra. Tale era il feroce protestatario, che gli uomini del secolo scorso vollero convertire in un filantropo sensibile!". 
Il gesuita Padre Constantino Bayle (nel suo libro La Spagna nelle Indie ) e, assieme a lui, diversi altri autori a noi contemporanei o del secolo sedicesimo, rintuzzarono una per una le assurde accuse del Las Casas.
In un articolo, apparso nel febbraio 1991 sulla rivista spagnola Iglesia Mundo , si dice che l’esaltazione acritica degl’indios da parte del Padre Las Casas si accompagnava ed era anzi preceduta da una forte svalutazione della Civiltà Ispanica, cui, nelle pagine della sua opera, egli non riconosce alcun merito.
Carlos Gijon, l’articolista, non esita a scrivere che Las Casas attribuiva alla cultura indigena (che tanto decantava) valori puramente immaginari.
Ed ecco un altro libro di straordinario interesse, pubblicato nel 1983, che ribatte colpo su colpo alle affermazioni del Las Casas, confutandone gli errori in modo decisivo. Le leggende e il Padre Las Casas, questo il titolo dell’opera, ha ricevuto il premio Ramiro de Maestu e si fregia della prefazione di un cattedratico dell’ispanica Accademia Reale di Storia.
Rodolfo Jimeno , l’autore, ha esperito un’indagine storica accurata sulla leggenda nera antispagnola ed ha analizzato gli scritti del domenicano Las Casas, mettendo capo ad uno studio davvero esauriente.
Jimeno dimostra l’esistenza, in Las Casas, di una vera e propria ispanofobia, che finì per dotare di uno strumento polemico utilissimo i protestanti, specie del Nordamerica, i quali sfruttarono immediatamente le opere del domenicano, per farne il loro cavallo di battaglia contro la Chiesa e la Spagna Cattolica.
Rodolfo Jimeno inoltre riferisce che alcuni medici psichiatri, esaminando a fondo le contraddizioni, le omissioni e le invenzioni contenute nell’opera lascasiana, hanno ravvisato nell’autore i tratti di una personalità delirante, che si credeva in possesso di un potere soprannaturale e che si considerava sempre l’esclusiva depositaria della ragione.
I sanitari sono così pervenuti ad una diagnosi che non lascia dubbi: paranoia .
Jimeno identifica ed enumera le caratteristiche di questa patologia della mente e, a poco a poco, una per una, le riscontra nel Las Casas, attraverso frasi ed espressioni tratte dai suoi libri. Se ne ricava un quadro di perfetta, inquietante identità fra quella condizione psicologica, clinicamente nota come paranoia, e la personalità del domenicano.

Mai le luminose figure di Santi, che parteciparono alla Conquista e che la benedirono, avrebbero consentito che gl’indiani divenissero oggetto di una carneficina sistematica. I Papi, trattando dell’espansione missionaria e coloniale europea nel Nuovo Mondo, non ebbero per questa una sola parola di biasimo e anzi la elogiarono incondizionatamente e l’approvarono.
Mai i Santi, i Pontefici, i religiosi missionari e coloro che li accompagnarono, mai avrebbero potuto astenersi dal denunziare, se davvero da parte iberica ce ne fossero state, azioni criminose di questo genere; mai le avrebbero lasciate correre sotto silenzio, senza pronunziare una sola parola di condanna. È irragionevole, è impossibile pensarlo.
Erano questi poi i tempi dell’Inquisizione (che la Spagna, nel frattempo, aveva introdotto anche nelle colonie) e che impedì, sia detto tra parentesi, che il protestantesimo si contagiasse all’America Centro-Meridionale, evitandole così un castigo che si abbatté invece sul Nord america: sarebbe stato facile denunziare al Tribunale dell’Inquisizione atrocità diffuse commesse contro gl’indios. Ma nei registri inquisitoriali, pur così accurati e prudenti, non se ne rinviene traccia, e non dico di processi, ma neppure d’imputazioni di questa natura. 


Qualche cenno merita anche un altro volume, Processo alla leggenda nera, che si deve alla penna del Professor Luciano Pereñez Vincente , il quale, oltre agli scritti del Las Casas, ha considerato e pubblicato in questo suo lavoro anche i testi dei religiosi che contestarono le tesi del domenicano, quand’egli era ancora in vita.

Il frate francescano
Toribio de Motolinia.
Il primo è il frate francescano Toribio de Motolinia, che, si noti la circostanza, non ebbe timore di riprovare gli errori del Las Casas davanti allo stesso Imperatore Carlo V . 
Seguono quindi altri religiosi, che avversarono il lucido delirio lascasiano: Alonso Vera Cruz e Thomàs Lope Medel, che appartennero a quei Visitatori della Corona, che i Sovrani erano soliti inviare nelle Americhe, per accertarsi dell’effettiva situazione dei loro sudditi. Questi emissari del Re studiarono da vicino la vita degl’indios, documentando soprattutto i sacrifici umani cui erano dediti e sui quali il Las Casas sorvola tranquillamente.
In base alle loro osservazioni, non vi è alcun fondamento concreto nelle critiche del domenicano.
Viene infine riportata la testimonianza di un giureconsulto del tempo, Juan de Maqueso, il quale dimostra come le condizioni di vita degl’indiani fossero ben peggiori prima della colonizzazione ispanica, che non dopo, e conclude che il Padre Las Casas non adduce nessuna valida ragione nel denigrare l’evangelizzazione. 



Ed ecco quello che per ogni buon cattolico dovrebbe essere il dettame decisivo, per formarsi un convincimento secondo verità circa la Conquista: la voce autorevole, solenne del Supremo Magistero della Chiesa, a proposito dell’espansione missionaria e coloniale cattolica nel Nuovo Mondo.
A questo riguardo risulta prezioso quel lavoro del Padre Juan Terrada Soler, Un’epopea missionaria: la conquista e la colonizzazione dell’America viste da Roma (cui prima avevo accennato, senza indicarne il titolo).
Quest’opera ha il pregio di raccogliere i documenti pontifici prodotti sulla cristianizzazione del Nuovo Mondo: ebbene la Cattedra di Verità, il Magistero rigetta, nella maniera la più assoluta, ogni ipotesi di leggenda nera, a proposito della Conquista, illuminando questa meravigliosa pagina di storia, tanto ingiustamente denigrata.
Papa Alessandro VI 
"La conquista e la colonizzazione Ispanica delle Americhe", scrive il Padre Soler, "costituiscono forse il capitolo della storia della Cristianità, a proposito del quale la Chiesa cattolica ha scritto di più". Si comincia con la bolla Inter cetera, del 1493, con cui Alessandro VI faceva dono alle Corone, rispettivamente di Spagna e Portogallo, delle terre appena scoperte e si prosegue, quindi, con gli atti dei Papi Giulio II, Leone X, Adriano VI, Clemente VIII, Paolo III, Urbano VIII (del quale è riportata nel testo una lettera al Re di Spagna Filippo IV) Leone XIII e di parecchi altri Pontefici, fino a Pio XII.
Ma è soprattutto il Papa Pio XII ad aver trattato frequentemente questo tema. Nel radiomessaggio del 5 dicembre 1954 egli ricorda che "la Conquista fu principalmente pacifica"e che, grazie ad essa ed alla fusione in un sol popolo di europei e di amerindi, la Spagna poté realizzare, con una virtù materna, la missione affidatale dalla Divina Provvidenza.
Un’"epopea missionaria", era stata da lui definita in precedenza la colonizzazione cristiana dell’America. E, ancora prima, il 18 novembre 1945, aveva magnificato "l’epopea di giganti con la quale la Spagna, spezzati i vincoli del Vecchio Mondo conosciuto, scoprì un nuovo continente e lo evangelizzò in nome di Cristo".
Nel 1943, non dissimilmente si era espresso Monsignor Amleto Cicognani, all’epoca Delegato Apostolico negli Stati Uniti e futuro Cardinale Segretario di Stato con Giovanni XXIII, che aveva esaltato "l’epopea spagnola nel continente americano".
Ma l’argomento più importante che Pio XII porta a sostegno della Conquista, è forse questo: "L’Ispano-America costituisce un formidabile blocco cattolico"; essa è un continente cattolico grazie alla Madre Hispanidad. 
«Roma locuta, causa finita»: questa meravigliosa massima di Sant’Agostino ben sintetizza lo spirito di obbedienza che si richiede a dei cattolici, una volta che il Magistero ha deciso, con l’assistenza dello Spirito Santo, una determinata questione. Il Magistero perenne, l’insegnamento di verità della Chiesa e dei Papi, per ogni cattolico di buona coscienza, non è difatti semplicemente facoltativo, ma cogente.
Roma si è pronunciata? Dunque non v’è più materia di contesa. All’Europa, alla Spagna Cattolica, Pio XII non ha appunti (e meno che meno rimproveri) da rivolgere, ma soltanto elogi .
Soprattutto si guarda bene, il Papa, dal dare credito alla sinistra favola con cui i nemici della Chiesa hanno cercato di bruttare la Conquista, grazie alla quale l’America Latina è diventata il più grande schieramento cattolico del mondo, accendendo di nuove speranze il futuro della Cristianità, secondo gli adorabili intendimenti della Provvidenza.

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