sabato 26 ottobre 2019

Un saggio di Marco Vignolo Gargini. La grandezza di Paul Valery

“All’inizio era la favola”, il mito negli scritti di Paul Valery e Edgar Allan Poe

conchiglia
Marco Vignolo Gargini

“All’inizio era la favola”,

il mito negli scritti di Paul Valery e Edgar Allan Poe

   I saggi di Paul Valery (1871-1945), che sono stati riuniti sotto il titolo All’inizio era la favola [1], hanno tutti come denominatore comune l’idea del Mito, dell’origine che si pone all’inizio di un processo, forse della nostra stessa storia, dell’origine che non ha basi razionali, dell’arché prototipo fantastico.
   Il Mito è un fondamento su cui è lecito domandarsi se sia vero o falso, una costruzione, un artificio destinato a colmare le lacune e, nello stesso tempo, il rischio di una ricerca vana delle radici del nostro essere.
   Il culto dell’origine da sempre ha prodotto effetti contrastanti: tentando una spiegazione di ciò che ci ha preceduti si è giunti, per curiosità intellettuale, a ridiscutere il nostro ambito, ma pure ci siamo allontanati troppo dal punto di partenza, brancolando nel buio e perdendo le tracce di noi stessi.
   Il rischio è fortissimo, ognuno è libero di scegliere, senza dimenticare che gli inconvenienti sono davvero numerosi, soprattutto là dove la pretesa principale sia quella di rinvenire la Verità.
   Paul Valery nella sua indagine sul Mito ricorda i versi di Charles Baudelaire (1821-1867), “Enfer ou Ciel, qu’importe?/ Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!”, e ancora, “Mais le vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent/ pour partir[2]: non importa dove si vada a parare, il nostro viaggio ha per meta l’Ignoto, la novità di ciò che ci è recondito, in fondo gli infiniti scarti che ci separano dalla nostra origine e pertanto un viaggio senza ritorno.
   In un saggio di Walter Benjamin (1892-1940) su Paul Valery [3] v’è l’immagine del mare unita alle matematiche, di una carta nautica su cui Valery ha seguito la rotta della propria costruzione poetica in mezzo ai flutti, per approdare a un porto, alla riva. L’immagine è quanto di più calzante ci possa essere, infatti, Benjamin lo ricorda all’inizio del saggio, Valery voleva diventare ufficiale di marina, prima di avventurarsi nella poesia.
   M’è sembrato opportuno citare Baudelaire e poi Benjamin proprio per cogliere l’aspetto fondamentale di Valery: il viaggio, la ricerca che si sposta da un punto verso un altro, lo studio scientifico, razionale di un ambito irrazionale: il Mito è questo viaggio di cui non si conosce l’esatta direzione, ma dispone di mezzi matematici, di metri, di misurazioni.
   Da qui in avanti cercherò di mostrare come il Mito sia in Valery il tentativo filosofico par excellence di portare l’al di là, l’Essere, la Verità nell’al di qua, con la conseguente sconfitta.
   In Così parlò Zarathustra Friedrich Nietzsche (1844-1900) fa dire al suo protagonista:
  “ In verità ogni ‘essere’ è difficile da dimostrare e con difficoltà lo si può indurre a parlare. Ditemi, fratelli, forse che la più stravagante delle cose non è anche la meglio dimostrata? ” [4]
   Ebbene, che cos’è l’Essere se non l’incubo di tutta la nostra civiltà, l’affanno nel dover dimostrare che esiste un Ur cui tutta la realtà fa riferimento?
   Paul Valery, nel primo saggio della raccolta suddetta [5], inizia con il ricordo dei suoi vent’anni, quando la filosofia lo irritava perché mancava di fornirgli le risposte ai suoi dubbi, lasciandolo con la sensazione che non vi fossero verifiche.
   Si sa che a vent’anni queste pretese “sistematiche” sono frequenti, che la sete di conoscere viene spesso delusa dalle vane chiacchiere di un Parmenide o di un Hegel, ma se, passata l’adolescenza, si continua a cercare questo “punto fermo” allora viene il sospetto che Paul Valery abbia cresciuto la buccia del proprio frutto e non la polpa.
   Il saggio è dedicato ad un altro saggio, per la precisione Eureka – A prose Poem di Edgar Allan Poe (1809-1849).
   La fantasia del giovane Valery venne colpita nella lettura di Eureka dalla “coerenza” o, per usare il termine di Poe, dalla consistency, ossia una catena di implicazioni non ben definite legate fra loro per mezzo di
   “un’adesione immediata a un’intuizione tale che possa rendere presente, e come sensibile allo spirito, la dipendenza reciproca delle parti e delle proprietà del sistema considerato.” [6].
   L’entusiasmo non più giovanile di Valery arriva a definire la consistency un disegno formidabile, e per disegno intende l’universo, un universo simmetrico che alberga nel nostro spirito, un universo che il poeta sa istintivamente dipanare conducendoci “ciecamente alla verità” [7]. Ma quale verità?
   Nella prefazione a Eureka Edgar Allan Poe offre questo suo libro “pieno di verità non perché espone verità, ma per la bellezza che abbonda nella sua verità, e che lo rende vero”, e prosegue affermando che ciò che viene esposto nel suo poema “è vero, e dunque non può morire”[8].
   Evidentemente ancora non sappiamo bene cosa sia questa verità, tutto Eureka abbonda di termini che non hanno una spiegazione sufficientemente chiara, Valery stesso avverte delle zone d’ombra e dei vuoti, passaggi poco chiari, in cui la forza del linguaggio riposa sull’evocazione mistica, su fantasmi metafisici che farebbero inorridire qualsiasi scienziato mal disposto ad accettare una prosa che mischia leggi di fisica a considerazioni puramente letterarie.
   Da tutto questo si può ricavare un insieme di riflessioni non sempre ordinate, dove ha maggior spazio la fantasmagoria rispetto alla disposizione logica. Poe prende in esame tre grandi scoperte scientifiche che assumono i toni di una invenzione colossale destinata a mutare definitivamente la concezione dell’universo: l’attrazione universale di Isaac Newton, le leggi di Johannes Kepler sul moto dei pianeti e l’ipotesi nebulare di Pierre-Simon de Laplace.
   In Eureka le tre scoperte scientifiche formano insieme il punto di partenza per raggiungere, in un secondo tempo, quella che, a tutta prima, può apparire come una cosmogonia dell’universo, una forma di spiegazione mista, tra mito e scienza, tra favola e verità.
   Il tentativo è affascinante, soprattutto perché siamo in presenza di uno scrittore che si occupa di fisica, con i mezzi che solitamente usa nella creazione delle sue opere letterarie; di questo Valery tiene conto nella propria recensione, si serve del “poema” di Poe per affrontare il tema della mitologia, l’Universo come mito, come concezione di un’unità totalizzante che possiamo rappresentarci, ma difficilmente definire, in un caos talvolta ostile per la nostra conoscenza tesa a dirigere i movimenti del pensiero verso un punto fermo.
   In sintesi, la cosmogonia di Poe prende l’avvio da un’idea generale, l’unità originaria che si è frammentata dando l’inizio a tutti gli enti, enti che recano in sé una sorta di nostalgia, un desiderio di tornare ad essere uno. Nello stesso tempo all’interno dell’unità originaria di questo ente primo, che ha dato inizio al mondo, risiede il germe dell’annichilimento.
   La cosmogonia di Poe non fornisce spiegazioni esaurienti, l’arché è vista ancora una volta come una specie di misterioso e lontanissimo punto primigenio, possiamo fingerci che sia stato reale e in questa finzione fondare tutta una catena di esiti, più o meno probabili.
   “All’inizio era la favola”: l’universo non è solo un’espressione mitologica che sfugge all’intuizione e trascende la logica, ma pure l’avvertire, lo sfioramento per contatto fortuito di una dimensione in cui l’infinità è tensione.
   Le nostre attuali conoscenze non dispongono di elementi atti a spiegarci che cos’è e dov’è l’origine, accettiamo l’ipotesi che l’universo sia in continua espansione o, al massimo, in contrazione, seguendo di conseguenza la teoria della relatività di Albert Einstein (1879-1955) esposta nel 1916; come Poe, ammiriamo l’ipotesi di Laplace, limitata al sistema solare, e ne amplifichiamo il significato: G. Gamow nel 1940 ha calcolato che, in via teorica, che la materia costituente l’universo sia di 10¹² gradi e, una volta espansasi, si sia raffreddata fino alla temperatura di circa 5 gradi sopra lo zero assoluto; A. Penzias e R. Wilson nel 1965 sono giunti quasi alla stessa conclusione, determinando sperimentalmente che lo spazio cosmico sia pervaso in maniera omogenea da una radiazione termica di 3 gradi di temperatura, scala Kelvin; gli stessi Penzias e Wilson hanno rilevato l’eco del probabile Big Bang, sotto forma di rumore di fondo della microonda della radiazione cosmica.
   Dopo questa parentesi, tornando al nostro, in Eureka Edgar Allan Poe fa della nascita dell’Universo un mito, una serie di supposizioni che derivano da calcoli geometrici, da ipotesi scaturite mediante il calcolo delle probabilità, da esattezze che sono il frutto di un intreccio la cui soluzione può essere vagheggiata, mai decisa sotto la categoria fissa di causa.
   Fondamentalmente la cosmogonia di Poe è un’opera già compiuta, una Schicksal cui niente può sfuggire, una serie di ombre spirituali eppure materiali, un disegno incontrovertibile che tende ad un nuovo Caos. Ogni mito di necessità ne sostituisce un altro, e il vecchio modello tolemaico viene cancellato dal nuovo copernicano del De revolutionibus orbium coelestium del 1543, così come Keplero andrà oltre Copernico: ogni sistema causa la cessazione dell’antico e il principio di uno successivo, le cosmogonie si susseguiranno, ma nessuna di esse sarà perfetta, ma soltanto una tendere verso, un viaggio “pour trouver du nouveau”!
   Ricordo Fulgenzio, il monacello della Vita di Galileo di Bertolt Brecht (1898-1956), che in un dialogo accorato con lo scienziato pisano parla dei propri genitori, contadini che lavorano la terra “al centro di tutte le cose”[9] sotto gli occhi di Dio e convinti della verità delle Sacre Scritture:
   “Come la prenderebbero ora, se andassi a dirgli che vivono su un frammento di roccia che rotola ininterrottamente attraverso lo spazio vuoto e gira intorno a un astro, uno fra i tanti, e neppure molto importante?[10]
   Ebbene, l’angoscia di Fulgenzio di fronte alle nuove scoperte di Galileo fa da contraltare all’atteggiamento entusiastico di Poe: l’uno pecca di nostalgia, l’altro pecca di ottimismo, come ammette Giulio Giorello nell’introduzione di Eureka [11]; Poe concentra la sua attenzione non sull’esattezza delle teorie ma sulla bellezza che esse sanno suscitare.
   Sia che si citi una legge fisica, un’ipotesi scientifica, con dovizia di calcoli matematici, sia che si ricorra al mito dell’origine di tutte le cose, il pericolo che corriamo è di mescolare il tutto con il nulla. A ciò si aggiunga che da quando la scienza è frammista al mito disturba quello e se stessa: l’idea che l’origine sia intuibile attraverso un atto entusiastico e non razionale è presente in numerosissimi poeti, la poesia medesima è definita da alcuni l’arte della parola e il linguaggio “la casa dell’essere”[12], sebbene questo linguaggio non attesti sempre il Dasein, come Martin Heidegger (1889-1976) espose, ma solo alcune sue manifestazioni.
   Se il Mito è tutto ciò che esiste avendo per causa la parola, l’uomo, che possiede il linguaggio, è esso stesso creatore di Mito, di Essere, e non fruitore di qualcosa che si dà, che esiste indipendentemente dalla parola: Valery a questo punto avrebbe dovuto parlarci del Mito dei Miti, l’origine della parola, se avesse voluto rovinare in un terreno pericolosissimo.
   Il poeta francese nel suo saggio su Eureka ammette che l’Universo è mera espressione mitologica, quindi un prodotto del linguaggio, non solo, un soggetto cui tutti gli attributi gli si addicono, una rappresentazione dai contorni non ben delineati, una totalità che esiste esclusivamente quando non la si specifica, non la si mette a confronto con qualcosa che non sia universale. Così Valery carica d’essere il suo Universo, un essere che sia unico, tutto, finito, come l’Essere di Parmenide, la cui matrice è favola, mito, eternità, sospensione del tempo.
   La consapevolezza di non poter fare a meno del Mito è attestata da Valery, sempre nello stesso saggio, quando s’accorge che il primo nucleo della forma dell’universo è fornito dalla capacità di vedere ciò che ci circonda, e la varietà della vista reca con sé non solo la possibilità di scorgere quello che effettivamente osserviamo, ma pure il contrario, la limitatezza della nostra sfera visiva, la comunicazione di un modello, “il germe dell’universo totale che credo esista intorno alla mia sensazione, da essa mascherato e rivelato” [13], l’idea (non per niente idea ha la radice id del verbo greco ὁράω, quasi a indicare la nostra possibilità di conoscere per mezzo della vista, o figuratamente imitando l’atto visivo).
   In definitiva, la favola, il mito sono degli anelli mancanti, i primi che ci vengono a mancare, e sui quali vagheggiamo e intessiamo una trama per percorrere la strada che giunge a noi, quindi non un’arché qualsiasi, bensì l’arché che ci ha causati, prodotti, l’Io nelle sue tappe che discese per dare sostanza a tutta la nostra storia, la millantata verità della certezza di sé.
   La cognizione che il nostro tendere verso l’infinito sia costellato da entusiasmi e frustrazioni non distrugge l’ambizione: Valery non rinuncia a questi voli di Icaro, è poeta e come tale attinge da diverse fonti per creare un metodo, è il signor Teste che cerca di definire le leggi che governano lo spirito.
   Dunque mi sembra inevitabile parlare della Piccola lettera sui miti, che Valery scrive intorno al 1928, in cui, sotto forma di epistola, lo scrittore tenta di dare una definizione del mito ad una signora sconosciuta e, direi, a se stesso.
   “Mito è il nome di tutto quel che esiste e sussiste avendo solo la parola per causa” [14], così si esprime ad un certo punto della lettera Valery, però la parola non attesta la verità, è uno strumento neutro che affabula, che compone sogni tanto più mitici quanto più lontani e crea artificiosamente la menzogna come il vero.
   L’origine è la favola, la immaginifica descrizione di un tempo perduto che non possiamo registrare compiutamente, un atto disturbato dai millenni che sono trascorsi: “Ogni antichità, ogni principio delle cose è solo un’invenzione favolosa che obbedisce a leggi semplici” [15], e l’invenzione è quel vuoto colmato, la lacuna rimossa che ci fa dormire sonni tranquilli, il falso che sia di sostegno al vero e il vero che acquisisce il falso come antenato, causa, autore, origine e fine senza rimedio.
   In questo guazzabuglio, tra verità e menzogna, tra invenzione e realtà, torno a parlare di Nietzsche e del passo di Così parlò Zarathustra citato all’inizio, di come il filosofo di Röcken sia stato una vera rottura con la tradizione precedente, sapendo scovare nell’essere tutta la sua indicibilità, l’assenza di dimostrazione, “la più stravagante delle cose” meglio dimostrata.
   Fin qui siamo discesi da un’origine falsa, da una cosmogonia che è opera del nostro sogno e un “agire solo in direzione di fantasmi” [16], una fantasmagoria che possiede “una precisione, una consistenza e perfino un rigore” [17] artefatti!
   All’interno di un’altra opera di Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, v’è un capitolo intitolato “Come il « mondo vero » finì per diventare una favola” in cui si fa la genealogia di questo errore, ossia il « mondo vero »:
   “Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo. (…)
   Il mondo vero – inattingibile. Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante (…)
  Il mondo vero – un’idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante – un’idea divenuta inutile e superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola! ” [18]
   Sappiamo che il filosofo tedesco non ha mai provato molta simpatia per i miti confezionati ad uso e consumo di quel che necessita la circostanza: dietro il mito riposa spesso la mistificazione, l’assenza di sincerità, quindi il pericolo per chi mitizza.
   Nel Crepuscolo degli idoli Nietzsche fa piazza pulita delle false causalità, dimostrando come il perché non dia la causa per se stessa, quanto una causa acquietante, liberatrice, consolatoria, fantastica. L’aspetto più interessante, a mio avviso, è la critica del linguaggio, della parola che è prodotto della ragione e, in ultimo, la critica della stessa ragione come prodotto dell’essere.
   Anche in Valery, nella Piccola lettera sui miti, c’è coscienza che Mito sia tutto quello che creiamo, un fantasma, un’invenzione, un non essere:
   “Che cosa saremmo dunque senza il soccorso di ciò che non esiste? Ben poca cosa, e le nostre menti, senza occupazione, languirebbero se le favole, gli equivoci, le astrazioni, le credenze, i mostri, le ipotesi e i presunti problemi della metafisica non popolassero di esseri e di immagini senza oggetto le nostre profondità e le nostre tenebre naturali. ”[19]
   Mito come legge assoluta che governa i nostri rapporti, una legge che non ammette altro che la fede in essa, una cieca obbedienza, la cui peculiarità consiste nel non voler accettare l’indagine, la precisazione pena il decesso dello stesso Mito.
   Ma qual è il punto di vista filosofico sul Mito?
   La parola μύθος viene usata da Aristotele (384-322 a.C.) nella Poetica l’accezione di favola (5. 1449 b 8; 9. 1451 b 24), cioè di un fatto che potrebbe accadere, seguendo le leggi della verosimiglianza e della necessità, contrapposta alla ἀληθέια come registrazione di ciò che effettivamente è accaduto. Il μύθος attesta in Aristotele una approssimazione della verità, là dove il pensiero razionale non possa inoltrarsi nell’esplorazione, un prodotto secondario, inferiore o distorto dell’intelletto.
   Platone (427-347 a.C.) ha lo stesso punto di vista, il μύθος si contrappone all’ἀληθέια e possiede un valore di ricerca del verosimile: molti dialoghi platonici fanno ricorso al Mito, spesso in punti topici (Mito della caverna, Mito di Er Armenio, Mito di Eros etc.), quando le virtù dianoetiche non riescono ad esplicare discorsivamente, partendo da premesse, la consistenza di un assunto.
  Nell’antichità il Mito aveva una funzione secondaria rispetto alla conoscenza razionale, una funzione religiosa tuttalpiù, sebbene vi siano esempi di autori di cosmogonie e teogonie che vedevano nella forma mitica una criptica verità: Ferecide di Siro (584/1-499/7 a.C.) forse viene influenzato da Talete (ca. 640 a.C.) e la sua opera Eptàmychos Pentemychos ne è una prova; Acusilao, Epimenide, Museo, Omomacrito sono tutti autori di genealogie, teogonie in cui il mito è verità rivelata. Non parlo di Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) perché sarebbe pleonastico, cito invece dalla sua Teogonia le parole che le Muse Olimpie rivolsero al poeta, a conferma di un rapporto stretto tra mito e verità, tra il falso che “sia di sostegno al vero e il vero si dia il falso per antenato” [20], come dice Valery, tra verosimiglianza e verità:
“ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα,
ἴδμεν δ᾽, εὖτ᾽ ἐθέλωμεν, ἀληθέα γηρύσασθαι”
[21].
   David Hume (1711-1776) in Storia naturale della religione (1757), al capitolo primo, osserva la stessa differenza tra le opinioni speculative, basate su prove chiare e ovvie, e i fatti storici in cui il meraviglioso presiede al passato e la storia si trasforma in miti o favole; il mito nasce per rimpiazzare la debolezza della memoria umana, è pure l’indice della tendenza antropologica verso il fantastico, e l’esagerazione e una deformazione nei confronti degli eventi storici. Il Mito, secondo Hume, è tipico presso i popoli primitivi, che nel politeismo forgiarono la loro prima forma di religione.
   A questa interpretazione del mito, quale forza inferiore del pensiero razionale, se ne aggiunge un’altra, dove il mito ha tutta una sua validità: Giambattista Vico (1668-1744) nella Scienza Nuova sottolinea invece:
   “Che le favole che nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde la favola, fu diffinita vera narratio) le quali nacquero dapprima perloppiù sconce, e perciò poi si resero improprie, quindi alterate, seguentemente inverosimili, appresso oscure, di là scandalose, ed alla fine incredibili; che sono sette fonti della difficoltà delle favole. ” [22]
   A differenza di Hume, Vico considera il mito, la favola una forma autentica di verità, una verità estranea al pensiero razionale, dove la tradizione orale assume un’importanza decisiva, tanto che “i poeti dovetter esser i primi storici delle nazioni” [23].
   Il concetto vichiano ebbe successo presso i romantici, seppur impregnate di risonanze irrazionalistiche: Friedrich Schelling (1775-1854) nella Filosofia della Mitologia considera il Mito, nuovamente con la emme maiuscola, una Offenbarung dell’Assoluto, una manifestazione sovrannaturale di Dio quale coscienza della natura.
   In Filosofia delle forme simboliche (1925) Ernst Cassirer (1874-1945) indica nel mito l’imperfetta distinzione tra il simbolo e il suo oggetto:
   “Il Mito sorge spiritualmente al disopra del mondo delle cose ma nelle figure e nelle immagini con le quali esso sostituisce questo mondo, esso non vede che un’altra forma di materialità e di legame con le cose.[24]
   In seguito lo stesso Cassirer, e più precisamente in Saggio sull’uomo (1944), vede nel Mito un sostrato di sentimento e la coerenza che c’è tra religione e Mito nasce da un legame sentimentale più che logico.
   Sembra quindi che il filosofo neokantiano torni alle concezioni humiane sull’origine della religione presso i primitivi, come formazione prelogica, la stessa concezione che troviamo in Emile Durckheim (1858-1917), Le forme elementari della vita religiosa (1912), in cui le caratteristiche fondamentali sono riflesse attraverso la mitologia.
   Lucien Levy-Bruhl (1857-1939) in La mentalità primitiva (1922) e L’anima primitiva (1927) insiste sulla prelogicità del pensiero primitivo creatore di miti, dove la natura è concepita come un intreccio di partecipazioni ed esclusioni “mistiche”, inconciliabile con le leggi della logica.
   Gli autori che abbiamo citato ultimamente, Cassirer, Levj-Bruhl, oggi sembrano non avere più seguito: il Mito è un fenomeno troppo complesso per essere succintamente catalogato come primitivo o prelogico, d’altra parte la moderna sociologia ha un approccio diverso sulla questione suddetta, lo stesso vocabolo “primitivo” non è più usato con un significato di disprezzo, giustamente, e il Mito assume un valore universale, quasi una tavola di valori in cui una società intera si rispecchia.
   Un’opera importante l’ha svolta Bronislaw Malinowski (1884-1942) attraverso i suoi studi sulle società primordiali: secondo le sue tesi, il Mito verrebbe a staccarsi dal semplice racconto orale, così come da una prima rudimentale forma di scienza, dall’arte, dalla storia, è un trait d’union per la tradizione di un popolo, il coibente per la tenuta culturale di una società, qualsiasi società, non solo quella primitiva:
   “Ogni mutamento storico crea la sua mitologia, che è tuttavia solo indirettamente relativa al fatto storico. Il Mito è un costante accompagnamento della fede vivente che ha bisogno di miracoli, dello status sociologico che domanda precedenti, della norma morale che esige sanzione. ”[25]
   C’è quindi un’indagine antropologica delle origini del Mito che cerca di comporre una dettagliata analisi sulle forme, sulle rappresentazioni umane, sebbene Malinowski da un canto critichi il concetto di Mito, considerato in quanto parte di una mentalità “selvaggia”, da un altro tenda a rivalutare la mitologia, come espressione di una cultura, di una tradizione.
   In questo caso la parola, che Valery ritiene causa primaria d’ogni Mito, non è solo la creatrice di un mondo artificiale supposto vissuto prima di noi, ma pure la garante di un contesto sociale, l’acquietatrice di un sistema che non può vivere unicamente in ambiti razionali.
   Aggiungo che non riconosco nell’analisi di Paul Valery in Piccola lettera sui miti un intento di spiegazione sociologica o antropologica del Mito, e forse questo costituisce un limite, tale quale l’assoluta pretesa d’aver dipanato l’Universo che rinveniamo in Eureka di Edgar Allan Poe, quantunque a parziale giustificazione occorra sottolineare che i punti di vista non possono che non essere divergenti: Valery e Poe hanno un occhio poetico, gli altri scientifico.
   Il punto di vista di Edgar Allan Poe sull’Universo vuole sostituire la dogmaticità degli scienziati, ma inserisce il Mito su di un cammino che non accetta solitamente intrusioni favolistiche: che il lavoro sperimentale dei fisici, dei matematici, degli astronomi sia stato spesso costellato dalla pretesa dell’insindacabilità è vero, però nonostante tutto bisogna cautelarsi qualora si pretenda di introdurre considerazioni sulla base del sentimento, o ammettere come causa prima la volontà divina, e di conseguenza parlare di principi. Poe fa questo, tenta di spiegare ciò che non è stato dimostrato con un’operazione la più semplice possibile. L’intervento di Dio, l’agente primo, l’atto puro generatore del mondo. La cosmogonia dello scrittore americano è quanto di più mitologico possa essere stato rappresentato, e, seppure si faccia scudo delle scoperte scientifiche, mira ad ottenere un risultato sconfinante nel misticismo, asserendo cioè che Dio creerebbe la materia a partire dalla propria immaterialità e lo spazio dalla sua assenza.
   Il tentativo, o se vogliamo, l’ossessione di Poe nel saper individuare l’origine, di rivoluzionare il mondo delle scienze fisiche è un antico refrain, tanto più se la volontà di far storia si scontra con i fantasmi, con i sogni di un tempo che non ha testimoni, oppure li ha ma non sono attendibili o scomparsi addirittura.
   L’uomo quando non può ricordare un avvenimento si mette a inventarlo ed assume un’aria convinta, deciso ad argomentare che le cose sono andate veramente così poiché crede in esse e desidera crederci; non gli interessa il presente, essendo troppo ambiguo, ma fugge al momento in cui esso compare; ama l’archeologia perché gli comunica l’idea di un passato reale, causa della sua esistenza: ebbene, se quest’uomo perdesse il senso dell’origine andrebbe a tentoni, si sentirebbe privo di paternità, orfano di una storia che possiede dei principi.
   Poe, rintracciando il cadavere dell’origine di tutte le cose, è alla disperata ricerca del nouveau, si mette sullo stesso piano di un Baudelaire che, con un coup de foudre indotto, si autoprocura uno choc pur di assistere alle vicende recondite della nostra anima.
   Concordo in pieno con Theodor W. Adorno (1903-1969):
   “Il nuovo, cercato per se stesso, prodotto – per così dire – in laboratorio, irrigidito a schema concettuale, si trasforma – nella sua brusca apparizione – nel ritorno ossessivo dell’antico, analogamente a quel che accade nelle nevrosi traumatiche.[26]
   Il pericolo di una creazione artificiale è l’illusione d’aver plasmato una novità, quando si tratta solamente di una ripetizione di forme distorta; Paul Valery, sempre nella Piccola lettera sui miti, comprende la lezione, vede nello spirito umano un ritrarsi in sé nell’emissione dello straordinario:
   “… fa scaturire dai minimi eventi creazioni sovrannaturali. In questo stato, si vale di tutto quel che è, un quiproquo, un malinteso, un gioco di parole lo fecondano. Chiama scienza e arti la potenza che possiede di dare alle sue fantasmagorie una precisione, una durata, una consistenza, e perfino un rigore di cui è lui stesso stupito, sfinito talvolta!” [27]
   Sempre nella stessa raccolta, All’inizio era la favola, abbiamo un altro saggio di Valery, L’uomo e la conchiglia, in cui s’esprime ancora lo stupore che nasce dalla visione di una creazione inaccessibile alle domande, misteriosa da decifrare. La conchiglia è un oggetto che si lascia cogliere dalla vista in tutta la sua bellezza, compiutezza, perfezione, ma sfugge alla nostra sfera riflessiva, ci impedisce di spiegare il movente, l’azione, l’intenzione di chi l’ha prodotto.
   La composizione apparentemente geometrica della conchiglia svanisce di fronte alle innumerevoli variazioni, le spirali, l’ellissi si sviluppano seguendo le nostre costruzioni e poi improvvisamente assumono una forma del tutto diversa, incomprensibile secondo i principi della geometria.
   La domanda di Valery è : « Chi ha fatto questa conchiglia? Se questa cosa che ho trovato sulla sabbia possiede una coerenza nelle sue parti, un accordo nella forma, vuol dire che v’è stato un agente che l’ha concepita, ideata e poi finalmente realizzata! Chi è dunque questo agente? »
   Rompendo la conchiglia essa non è più tale, non è più il tutto, e allora l’altro quesito del poeta francese riguarda il materiale che compone l’oggetto e lo scopo, il fine che l’ha causata.
   Nell’impossibilità di una risposta c’è la constatazione che i nostri dubbi nascono dall’operato umano e ogni oggetto viene analizzato seguendo le leggi dell’agire dell’uomo, andando spesso a sbattere il naso contro una circostanza che non sappiamo analizzare perché esterna alla nostra azione.
   Allora l’uomo si confronta con la Natura e per spiegarsele usa motivazioni teleologiche a lei estranee, rapporta le sue leggi con quelle supposte del mondo naturale, alla fine termina il suo lungo cammino fondando una serie di valori a sua immagine e somiglianza.
   Valery dunque intuisce l’opera d’arte come tentativo di riproduzione di significati e forme che la Natura nasconde:
   “I nostri artisti non traggono certo dalla loro sostanza la materia delle loro opere e serbano la forma che perseguono solo attraverso una particolare applicazione del loro spirito, separabile dal tutto del loro essere. Forse, quel che chiamiamo la perfezione nell’arte ( e che non è ricercata da tutti, e che più d’uno disdegna) non è che il sentimento di desiderare o di trovare, in un’opera dell’uomo, questa certezza di esecuzione, questa necessità d’origine interna e questo legame indissolubile e reciproco della figura con la materia che la più piccola conchiglia mi mostra? ”[28]
   Lo scritto che analizzo, del 1937, lascia tutto in sospeso riguardo all’origine delle cose non prodotte dall’uomo, è ancora una volta proteso a riconoscere la validità del Mito, come unica spiegazione, fantastica, artificiosa di un ambito che non possiamo cogliere con i mezzi del pensiero razionale.
   Valery qui propone la sua tesi sulla produzione artistica, la poesia come “festa dell’intelletto”, metodo critico all’interno della finzione, dove il linguaggio ha un’importanza sovrana, sibillina nel saper guidare il lettore attraverso l’ermetismo dei simboli fino a giungere alla “riva”. Per questo Valery s’inscrive nella tradizione simbolista, dove tutti i simboli fuoriescono dalla Nature temple nel mistero,
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté
.
[29]
   L’operazione di Valery ha pretese altissime, abbiamo già accennato all’inizio di un “punto fermo”, ovvero di un luogo dove la scepsi possa trovare l’ubi consistam, il posto adatto a in cui l’esistenza umana s’assesta; pure si è nominato in parte il titolo di un’altra opera fondamentale del poeta francese, Serata con il signor Teste (1896), che ha come protagonista un personaggio che impersona l’astrattezza dell’intelletto, soprattutto per il fine che si propone, la ricerca delle “leggi dello spirito”.
   Non v’è dubbio alcuno sugli intenti elitari di Paul Valery e di Edgar Allan Poe, tutti e due ricercano una dimensione perduta, forse perché non è mai esistita, e si sforzano di centrare l’obiettivo avventurandosi nei meandri del linguaggio, accettano e poi tutto ad un tratto sembrano rifiutare i sussidi della ragione, in un caos dove il mistero, lo stupore e la meraviglia la fanno da legislatori.
   Il mito ha come causa la parola, ma una parola influenzata, segregata, deliberatamente schiava di se stessa, e l’esperimento di portare l’al di là qui fra di noi non può avere successo, perciò le domande rimangono ancora domande.
   Comunque voglio ammettere che Valery ha presente i limiti oltre i quali non c’è concesso andare, come il suo Angelo [30] che si vede uomo e non sa spiegarsi il perché delle cose, non smette di conoscere e di non comprendere.
   Di qui la nostra sofferenza che deriva non tanto dal pensiero della nostra origine, ma dalla necessità di pensarci, dal condizionamento che riceviamo continuamente giorno dopo giorno: senza miti siamo romiti, ridotti a mendicare una causa che ha dato inizio a tutto, ossessionati dall’idea che se ci siamo v’è un motivo. Forse non lo sapremo mai.

[1] Paul Valery, All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988.
[2] Charles Baudelaire, « Le Voyage », in I fiori del male, Feltrinelli, Milano 1983, pag. 280.
[3] Walter Benjamin, « Paul Valery. Per il suo sessantesimo compleanno », in Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1979, p. 42.
[4] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte I, Di coloro che abitano un mondo dietro il mondo, Adelphi, Milano 1976, p. 31.
[5] Paul Valery, « Su « Eureka » », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 33.
[6] Paul Valery, « Su « Eureka » », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 36.
[7] Ibidem
[8] Edgar Allan Poe, Eureka – Saggio sull’universo spirituale e materiale, Theoria, Roma 1982, p. 29.
[9] Bertolt Brecht, Vita di Galileo, Scena VIII, Einaudi, Torino 1980, p. 72.
[10] Op. cit. p. 71.
[11] Edgar Allan Poe, Eureka, Theoria, Roma 1982, p. 20.
[12] Martin Heidegger, Über den Humanismus, 1946.
[13] Paul Valery, All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 45.
[14] Paul Valery, « Piccola lettera sui miti », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Roma 1988, p. 52.
[15] Op. cit. p. 55.
[16] Ibidem
[17] Op. cit. p. 56.
[18] Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, in Il caso Wagner, Crepuscolo degli idoli, L’Anticristo, Mondadori, Milano 1981, pp. 63, 64.
[19] Paul Valery, « Piccola lettera sui miti », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Roma 1988, p. 55.
[20] Op. cit. p. 55.
[21] Esiodo, Teogonia, in Scrittori di Grecia 1, Sansoni, Firenze 1979, p. 182.
[22] Giambattista Vico, Scienza Nuova, II, Pruove filosofiche per la discoverta del vero Omero, IV.
[23] Op. cit., X.
[24] Ernst Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, II, 1925; trad. ingl., 1955, p. 24.
[25] Bronislaw Malinowski, « Myth in Primitive Psychology », 1926, in Science and religion, 1955, p. 146.
[26] Theodor W. Adorno, Minima moralia, Parte terza, 150, Einaudi, Torino 1979, p. 288.
[27] Paul Valery, « Piccola lettera sui miti », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988, p. 56.
[28] Paul Valery, « L’uomo e la conchiglia », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, Milano 1988, pp. 76,77.
[29] Charles Baudelaire, « Correspondances », in I fiori del male, Feltrinelli, Milano 1983, p. 16-18.
[30] Paul Valery, « L’Angelo », in All’inizio era la favola, Guerini e Associati, milano 1988, pp. 101-103.
RICORDIAMO IL MAESTRO:
IO SONO 
LA VIA... LA VERITA'... LA VITA!

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