domenica 9 giugno 2019

IN CALABRIA

AUTOBIOGRAFIA - M. Valtorta
CAPITOLO 14
In Calabria.

   Giungemmo a Reggio Calabria il 10 ottobre 1920. Ci eravamo fermati a Roma, a Napoli, a Caserta per qualche giorno.
   A Reggio, nei vasti alberghi dei miei cugini, trovai tante cose atte a distrarmi dal dolore cocente che avevo in cuore. Abitavamo all'albergo-villa. Un vastissimo baraccamento (la città cominciava appena a risorgere dal terremoto del 1908) sparso in una tenuta vastissima. Vi era agrumeto, mandorleto, frutteto, campi di fave, carciofi, finocchi, piselli, ecc. ecc., e giardini, giardini, giardini. Poi, più bella di tutti, una passeggiata che lungo l'aranceto conduceva ad un chiosco, messo sullo sperone di una collina che scoscendeva a valle, fra un accavallarsi di fichi d'India. Era un posto stupendo. Si dominava tutto lo Stretto e i monti di Calabria. La città si stendeva ai nostri piedi.
   Era il mio posto prediletto. Andavo là col mio cane e un libro, fingendo di leggere. Ma non facevo che guardare il mare, sul quale passavano sovente navi da guerra, oltre ai piroscafi mercantili, e pensavo a Mario. Forse era su quelle navi e non sapeva che da quell'altura la sua amata lo invocava con tutto il suo cuore.

   Quando mi era stato strappato, cosa aveva fatto? Cosa aveva pensato? Si era immaginato che era tutta una macchinazione di mamma e che io ero stata messa nell'impossibilità di parlare, di agire come fossi imbavagliata e legata da dei malandrini, oppure mi giudicava una pazza, una malvagia, una senza parola? Questi «perché» mi trivellavano cuore e mente, giorno e notte, come tanti tarli trivellano un legno fino a farlo cadere in briciole.
   Lei forse si chiederà: «Ma costei non poteva neppure ora scrivere? In un albergo si possono fare tante cose con maggior libertà che in una casa».

   Sì, avrei potuto scrivere. Tante cose avrei potuto fare! Anche ribellarmi dicendo: «Sono maggiorenne e faccio quel che mi pare e che è lecito fare perché è cosa onesta». Ma — e da questo consideri se sono stata figlia ubbidiente e rispettosa o se non lo sono stata — ma non ho avuto la capacità di disubbidire e offendere mia madre. Ho fatto il mio dovere anche allora. Ho compiuto il mio sacrificio anche allora. Ero così spezzata, fra l'altro, che vegetavo senza nessuna energia. Vivevo solo, intensamente, la vita intima.

   Nell'interno c'era tutto un lavorìo di ricordi, di pensieri, di rimpianti. Molto diversi però da quelli che erano scoppiati dopo il nefasto 5 gennaio 1914, origine di tutte le spine venute dopo. Perché, se mia mamma non avesse conculcato allora il nostro legittimo desiderio, io sarei stata da tempo sposata; Roberto, che non era tenuto al servizio militare (figlio unico di madre vedova) non sarebbe andato volontario, non sarebbe morto; io sarei stata a Bari con lui; Mario non si sarebbe innamorato di me; io non avrei avuto tutti quei dolori morali, non il male di cuore, non la lesione spinale… Ora soffrivo molto, ma era un dolore puro da ogni febbre di senso, un dolore santo, privo di ogni impeto di ribellione.

   Il primo dolore mi aveva staccata da Dio e dalla Legge di Dio gettandomi nella polvere. Il secondo grande, ancor più grande dolore che riapriva tutte le ferite che il tempo aveva rimarginate — e le riapriva per opera della stessa mano materna che, sempre uguale a distanza di anni, mi distruggeva la gioia per la sua comodità — mi riportava completamente a Dio e mi univa a Lui.
   Nessun altro affetto mi restava nel mondo, capace di saziare l'ani­ma mia. Papà… era sempre più un bimbo dominato da mamma. Mamma mi era una nemica. Mario non l'avevo più. Le Suore mi avevano respinta. Altri buoni amici erano stati cacciati di casa. Più nulla, più nessuno.

   Solo Dio mi restava per farmi da padre, da madre, da sposo, da amico, da maestro. Piangevo ai suoi piedi, parlavo con Lui, mi facevo consolare da Lui, gli chiedevo umilmente di prendermi per mano e condurmi sulla via che più gli piaceva, perché ero smarrita e capivo che da me sola non sapevo mai trovare la via destinata a me dalla sua Volontà.
   In poco tempo mia mamma, con la sua maniera autoritaria, si era attirate le antipatie di tutti: personale di servizio, clienti, e parenti stessi. I suoi cugini — perché sono cugini di primo grado con mia mamma — più volte le avevano cantato, a chiare note, che quelli non erano modi di fare né col marito, né colla figlia, né coi dipendenti. Figurarsi! Mia mamma non ha mai voluto osservazioni da nessuno. Chi gliele fa diviene per lei un nemico acerrimo. Perciò vi erano già state delle baruffe e non erano neppure due mesi che eravamo là…

   Alla fine di novembre ce ne fu una più… pepata del solito, e in seguito a questa l'altro cugino mio mi volle con sé all'altro albergo.
   Bisogna sapere che molte delle dispute erano originate dal fatto che i miei cugini: Giuseppe, Amelide, Emma, Normanna, non condividevano il modo di pensare e di agire di mamma a mio riguardo. Allora gli altri cugini: Battista e Clotilde, mi avevano voluta con loro. Meno ore ero con mamma e meno occasioni questa aveva di esercitare la sua sovranità assoluta. Perciò vi era speranza che vi fossero meno dispute in merito.

   Io perciò scendevo alla mattina verso le 8 all'altro albergo verso il mare, e risalivo all'albergo-villa alla sera alle 20 e oltre. Così, fuorché nelle ore notturne, stavo lontana.
   Mi spiaceva per mio papà. Ma lui aveva trovato molti svaghi a Reggio ed era lui pure più contento. Mi spiaceva anche non avere più modo di passeggiare per la tenuta e andare al mio caro chiosco, da cui vedevo tanto cielo e tanto mare e mi trovavo isolata fra piante in fiore e canti di uccelli. Mi spiaceva infine perché non avevo più intorno gli irrequieti e cari cuginetti dai sei ai tre anni, tre frugoli che mi si erano molto affezionati. Ma tutto insieme non si può avere.
   Con Clotilde, quella che m'aveva accompagnata a Monza, io mi ci trovavo benissimo. Veramente io mi ci trovavo con tutti, perché so molto adattarmi alle altrui idee. Abituata a vivere con mamma, trovavo facile il convivere in ogni altro luogo. Furono venti mesi di serenità.

   Mi occupavo di Memmo — un caro ragazzo decenne, unico figlio rimasto — lo aiutavo a studiare… Mi pareva d'essere tornata al 1913 quando mi occupavo degli studi di Mario. Uscivo con Memmo per belle passeggiate in carrozza o a piedi. Facevo compagnia a Clotilde, lavoravo con lei che era bravissima nei ricami e merletti, leggevo. Clotilde aveva una bellissima raccolta di libri. È una donna molto colta e sa scegliere perciò anche nei libri i migliori per stile e per trama.

   Le ho detto che il buon Dio si è servito con me di tutti i mezzi per istruirmi nella sua legge e nel portarmi a Lui. Come per un dono speciale mi ha da bimba preservata da certe curiosità che i discorsi dei grandi potevano acuire in me — gliel'ho detto a suo tempo — ; come più tardi, nell'Ospedale, mi aveva dato un equilibrio così perfetto per cui nei miei feriti io non ho mai visto l'uomo ma sempre dei poveri bimbi malati; come per mezzo di creature e di avvenimenti mi aveva riportata alla bella fede della mia prima giovinezza, dopo la fiera tempesta passata dai 16 ai 20 anni; così ora, servendosi di libri e specie di un libro, finiva di attirarmi a Sé.

   Le ho detto che, purtroppo, non avevo mai potuto trovare un sacerdote che io giudicassi un direttore d'anima. Confessori sì, ma direttori no. Perciò, uscita di collegio, ero rimasta sola a guidarmi. Non più esercizi spirituali, non più prediche, più nulla. Ma Gesù, anche se pareva assente, era presente e mi presentava le occasioni per migliorare il mio animo.  /continua/

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