giovedì 31 maggio 2012

Card. Leo Raymond Burke: "La cultura secolare ha intaccato anche la liturgia latina, la sua sacralità, la sua dimensione cattolica"




Omelia pronunciata dal card. Raymond Leo Burke durante la S. Messa celebrata nel Santuario di Santa Maria de finibus terrae a Leuca il 1° maggio 2012.

<<Dopo la statio liturgica presso queste coste luminose – donde il significato di Leuca in greco – dove l'apostolo Pietro approdò, secondo la tradizione, siamo saliti in pellegrinaggio qui dove la Santa Madre di Dio gode di una plurisecolare venerazione.

Tra il carisma petrino, presente nel Papa, successore dell'Apostolo, e il carisma mariano c'è piena corrispondenza. Infatti, siamo venuti sulle orme di Benedetto XVI, il Papa che il Signore ha scelto per questo inizio del terzo millennio cristiano. La nostra fede, trasmessaci attraverso l’ufficio petrino, per la Tradizione, è guardata con gratitudine ed è illuminata tramite la devozione più antica del pellegrinaggio. Siamo rinnovati e cresciamo fino alla misura di Gesù Cristo che, nell'immagine venerata sull'altare, la Vergine Maria ci mostra, ma, anche nella quale il suo Figlio Divino ci indica la Madre come via sicura per arrivare a Lui.

Siamo venuti qui nel giorno che la Chiesa dedica a San Giuseppe, sposo della Beata Vergine Maria e artigiano. San Giuseppe era un costruttore – nell’originale greco del Vangelo che è stato appena proclamato,tèkton1 – termine che significa non un semplice artigiano o falegname, ma un lavoratore dell'edilizia, in grado di lavorare anche la pietra. San Giuseppe fu perciò costruttore di edifici, cioè preparato e capace nelle attività specializzate necessarie per costruire una casa.




Nella liturgia odierna, all'antifona d'introito abbiamo pregato con le parole del Salmista: “Se il Signore non edifica la casa, invano si affaticano quelli che la costruiscono”2. La parola ispirata del Salmo 126 ci fa ricordare la verità che oggi frequentemente dimentichiamo, cioè che Dio ha stabilito la legge umana del lavoro – come pure ricorda la preghiera colletta3 – pertanto, il nostro lavoro può essere espressione dell'amore, se ogni giorno per Cristo, con Cristo e in Cristo è offerto a Dio Padre con umiltà. Proprio così ha fatto San Giuseppe. 

Nella Lettera ai Colossesi di San Paolo, troviamo la descrizione della dignità e del fine del nostro lavoro umano, che vediamo manifestato in modo eroico nella vita di San Giuseppe: “Qualunque sia il vostro lavoro, agite di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete in ricompensa l'eredità4.

Fu il Venerabile Papa Pio XII, ad istituire la Festa di San Giuseppe Lavoratore, affinché nel giorno che il mondo secolare dedicava alla festa del lavoro, fosse dalla Chiesa richiamata la verità sul lavoro umano e cioè il suo nesso essenziale con Dio Padre e Creatore. Oggi, seguendo l’ispirazione del Venerabile Pontefice, ci accorgiamo che un'economia – che dalla sua radice greca significa “legge per il mondo abitato” – non basata sulla dignità degli uomini che abitano la terra e la corrispondente dignità del lavoro umano, ma sulla speculazione finanziaria, entra in grave crisi. La dignità dell'uomo che lavora, come ha testimoniato il Beato Giovanni Paolo II, non può essere rettamente riconosciuta se, prima di tutto, Dio non è riconosciuto.

La fede, che costituisce la vera conoscenza che noi abbiamo di noi stessi, la nostra vera autocoscienza, ci fa comprendere che apparteniamo a Dio. Ne scaturisce un percorso che porta a guardare a Gesù Cristo non come un devoto ricordo, ma come vita della nostra vita che nessun errore e nessun potere può strappare. È il percorso dei cuori attratti al Sacro Cuore di Gesù sempre aperto a riceverci, a purificarci e a rafforzarci con l’amore inesauribile che scaturisce in abbondanza dal Suo Cuore glorioso trafitto. Ciò riguarda tutti, vecchi e giovani, e spalanca un orizzonte e una direzione sicura, specie in questo tempo segnato da relativismo, materialismo e individualismo.

Eusebio, vescovo di Cesarea di Palestina, primo storico della Chiesa, vissuto al tempo dell'imperatore Costantino, a proposito di Giuseppe, figlio del patriarca Giacobbe, scrive: "In lui v'era un esimio pudore, una modestia e una prudenza somma; eccellente nella pietà verso Dio, splendeva di una meravigliosa bellezza anche nel sembiante"5. Queste parole, San Giovanni Bosco, nella sua Vita di San Giuseppe, le attribuisce allo Sposo di Maria e padre putativo di Gesù. Abbiamo bisogno di ricorrere al suo esempio e alla sua protezione perché il Signore ci conceda di vivere così la nostra vita, in unione con il Cuore Divino, specialmente in ogni aspetto del nostro lavoro.

San Paolo ci ha esortato nell'Epistola di oggi: “Servite a Cristo Signore6. Riflettendo sulla verità del nostro lavoro, come non pensare al primato del nostro più perfetto lavoro, la Sacra Liturgia che giustamente si chiama opus Dei, ”opera di Dio”, a cui non anteporre null'altro, come dice San Benedetto7? Come non riscoprire la verità e la bellezza della liturgia come servizio di Dio, servizio all'altare? Sebbene i termini ministro e ministrante stiano ad attestarlo, nella cultura relativista, materialista e individualista di oggi, facilmente si dimentica che la liturgia va servita e non ci si deve servire di essa per mettere al centro noi stessi.

Gesù, come ci ricorda il vangelo odierno e l'antifona di comunione8, era conosciuto come figlio del falegname: San Giuseppe è stato per Gesù l'immagine vivente dell'operosità del Padre, il Quale, come dice Gesù, opera sempre9. Se la liturgia è l'opera di Dio in quanto richiede la fede – la fede è l'opera di Dio – noi dobbiamo fare della liturgia la nostra opera più importante, sia per servire il Signore in terra, sia per essere trasformati da Lui e trovare in Lui il vero senso del nostro lavoro quotidiano. L'antifona d'offertorio10 inneggia al Signore che porta a buon fine il nostro lavoro: egli lo fa dal suo tempio santo, quel tempio ove presentiamo le offerte del pane e del vino, frutto del lavoro delle nostre mani. Infatti, sono i santi Misteri che riceviamo – ricorda la preghiera dopo la Comunione – che perfezionano il nostro operato e ci assicurano il loro premio11. Così, ci prepariamo alla liturgia celeste ove opereremo per sempre a lode e gloria della Trinità Santissima.
*
Siamo venuti qui, sulle orme di Papa Benedetto XVI che sta incoraggiando e sostenendo un nuovo movimento verso la liturgia e la sua corretta celebrazione, esteriore ed interiore12. Nell’Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis il Santo Padre ci ricorda che il rinnovamento liturgico voluto dal Concilio contiene ricchezze non pienamente esplorate13. L’esplorazione si è interrotta o è rimasta in superficie, perché la cultura secolare fortemente marcata dal relativismo, materialismo e individualismo, ha intaccato anche la liturgia latina specialmente la sua sacralità e la sua dimensione cattolica.

Così si è sviluppato un conflitto tra innovatori e conservatori, in gran parte emotivo: per superarlo razionalmente bisognerebbe quasi riprendere in mano la Memoria sulla riforma liturgica14, redatta nel 1949 sotto il Venerabile Papa Pio XII, che già prima del Concilio Ecumenico Vaticano II promuoveva il restauro della liturgia. 

In quella Memoria sono enunciati le necessità, i principi fondamentali, il programma organico e l'attuazione pratica. Vi si trovano anche le ragioni - all’epoca - della riforma liturgica: lo stato della liturgia, della scienza liturgica, del movimento liturgico mondiale, la situazione del clero, le promesse e iniziative della Santa Sede per la riforma liturgica definitiva. 
Alla luce di tali presupposti, si può rileggere la Costituzione Sacrosanctum Concilium nei suoi punti fondamentali: la natura della liturgia e la sua importanza nella Chiesa, l’educazione liturgica del clero - a partire dalla formazione nei seminari - e dei fedeli, la riforma liturgica e spirituale, e i suoi criteri.

Per distinguere la riforma dalle “deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile15, per adoperare la loro descrizione da parte di Papa Benedetto XVI, basterebbe verificare se siano state osservate due condizioni irrinunciabili: “probe servata eorum [rituum] substantia” e “restituantur vero ad pristinam sanctorum Patrum normam16, “conservata fedelmente la loro [dei riti] sostanza” e “siano riportati alla primitiva tradizione dei Padri”. Si deve tenere in conto anche quanto abbia pesato nell'impostazione e, di conseguenza, nell'applicazione della riforma, per esempio, lo spirito di critica e di insofferenza verso la Santa Sede, un certo razionalismo nella liturgia senza nessuna preoccupazione per la vera pietà, il fatto che i liturgisti non sempre fossero teologi, malgrado nella liturgia, ogni gesto e parola esprima una realtà teologica. Poiché tutta la teologia già da allora era in discussione, le teorie correnti cadevano sulla formula e sul rito, con una gravissima conseguenza: mentre la discussione teologica rimane nell’ambito degli specialisti, la formula e il rito si diffondono nel popolo. Se ne riscontra una eco nella Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II Vicesimus Quintus Annus del 1988 ove si parla apertamente di “[a]pplicazioni errate17.

Un altro tema importante è la desacralizzazione della liturgia già intravista da Paolo VI in alcune tendenze e sperimentazioni18: la legge liturgica che fino al Concilio era una cosa sacra, per molti dopo il Concilio non esisteva e non esiste più. Non vi è alcun amore per ciò che è stato tramandato; ciascuno si ritiene autorizzato a fare quello che vuole.

In occasione della pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum si è sostenuta l’incompatibilità dei due Messali Romani, quasi supponessero due ecclesiologie. L’intervento pontificio va letto, invece, come continuazione della riforma liturgica in linea con la Costituzione Sacrosanctum Concilium. Giova ricordare le parole di Papa Benedetto XVI sulla riforma liturgica: Si tratta in concreto di leggere i cambiamenti voluti dal Concilio all’interno dell’unità che caratterizza lo sviluppo storico del rito stesso, senza introdurre artificiose rotture19. Basandosi sulla realtà dell’unità organica della Sacra Liturgia, specialmente dopo la pubblicazione dell’Istruzione Universae Ecclesiae dello scorso anno, dobbiamo tutti, specialmente negli Istituti e nelle cattedre di Sacra Liturgia nei Seminari e Facoltà, favorire una discussione onesta e perseverante, affinché vi sia l’arricchimento vicendevole tra la forma ordinaria e quella straordinaria del Rito della Messa, per il quale il Santo Padre insistentemente lavora. Soprattutto tutte le nostre chiese e cappelle devono essere luoghi dove la sacra liturgia è celebrata in modo esemplare come l’opera di Dio, affidata a noi e perciò la più alta e perfetta espressione della Sua santa Chiesa.

Preghiamo Santa Maria di Leuca e San Giuseppe, suo sposo, “fidelis servus ac prudens, super Familiam tuam ... constitutus20 – “servo fedele e prudente messo a capo della Santa Famiglia” – affinché protegga il Santo Padre Benedetto XVI, ottenga la riconciliazione della Fraternità San Pio X con la Chiesa universale di cui tutti siamo parte, sostenga il lavoro che la Scuola Ecclesia Mater compie per la promozione della Sacra Liturgia, della musica, arte ed architettura sacre, e ispiri in tutti noi l’obbedienza alla disciplina della Sacra Liturgia, opera di Dio affidata a noi per la salvezza del mondo.

Cuore di Gesù, fonte di vita e di santità, abbi pietà di noi.
Santa Maria di Leuca, prega per noi.
San Giuseppe, il Lavoratore, Sposo di Maria e Fedele Custode della Santa Famiglia, prega per noi.>>
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1 Mt 13, 55; cf. Mc 6, 3.
2 Sal 127 [126]: 1.
3 Cf. “Rerum conditor Deus, qui legem laboris humano generi statuisti:…” Missale Romanum ex decreto Ss. Concilii Tridentini restitutum Summorum Pontificum cura recognitum, Editio Typica 1962 [Missale Romanum 1962], ed. Manlio Sodi e Alessandro Toniolo, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2007, p. 600, “Oratio”.
4 Col 17, 23-24.
5 Eusebio, Praeparatio Evangelica, libro VII, 32-34.
6 Col 17, 24.
7 Benedicti Regula, Cap. XLIII, 7.
8 Cf. Mt 13: 55; “Nonne hic est fabri filius”? Missale Romanum 1962, p. 601, “Ant. ad Communionem”.
9 Cf. Gv 5: 17.
10 Cf. “Bonitas Domini Dei nostri sit super nos, et opus manuum nostrarum secunda nobis, et opus manuum nostrarum secunda”. Missale Romanum 1962, p. 601, “Ant. ad Offertorium”.
11 Cf. “Haec sancta quae sumpsimus, Domine: per intercessionem beati Ioseph; et operationem nostram compleant, et praemia confirment”. Missale Romanum 1962, p. 601, “Postcommunio”.
12 Cf. Joseph Ratzinger, Teologia della liturgia. La fondazione sacramentale dell’esistenza cristiana [Opera omnia, Vol. XI], Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 201, p. 26.
13 Cf. n. 3.
14 Cf. Carlo Braga, C.M., ed., La riforma liturgica di Pio XII: Documenti, I. La «Memoria sulla riforma liturgica», Roma: Centro Liturgico Vincenziano, 2003.
15 Benedictus PP. XVI, Epistula “Ad Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani”, die 7 Iulii 2007, Acta Apostolicae Sedis [AAS] 99 (2007), p. 796.
16 Sacrosanctum Concilium Oecumenicum Vaticanum II, Constitutio Sacrosanctum Concilium, “De Sacra Liturgia”, AAS 56 (1964), p. 114, n. 50. Versione italiana: Enchiridion Vaticanum, Vol. 1, p. 51, n. 87.
17 “[u]sus vitiosi”. Ioannes Paulus PP. II, Litterae apostolicae Vicesimus quintus annus, “Quinto iam lustro expleto conciliari ab promulgata de Sacra Liturgia Constitutione Sacrosanctum Concilium”, 4 Novembris 1988, AAS 81 (1989), p. 910, c, n. 13. Versione italiana: Enchiridion Vaticanum, Vol. 11, p. 999, n. 1586.
18 Cf. “Resistite fortes in fide”, 29 giugno 1972, Insegnamenti di Paolo VI, Vol. 10 (1972), Città del Vaticano: Tipografia Poliglotta Vaticana, 1973, pp. 705-708.
19 “Agitur reapse de immutationibus percipiendis, quas intra unitatem voluit Concilium, quae historicum ipsius ritus progressum, absque inductis facticiis fractionibus, designat”. Benedictus PP. XVI, Adhortatio Apostolica Post-Synodalis Sacramentum caritatis, “De Eucharistia vitae missionisque Ecclesiae fonte et culmine”, die 22 Februarii 2007, AAS 99 (2007), p. 107, n. 3. Versione italiana: Enchiridion Vaticanum, Vol. 24, p. 91, n. 107.
20 Missale Romanum 1962, p. 1071, “Praefatio de S. Ioseph, Sponso B.M.V.”.
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AMDG et BVM

MARIA! Non recedat a corde, non recedat a mente.

immagine della madonnina che ho comperato dans Maria Vergine MaurGen1
Mater Boni Consilii ora pro nobis

Ven Espíritu Santo, ven por medio de la poderosa intercesión del Corazón Inmaculado de María, tu amadísima Esposa




Oggi si chiude il mese di maggio, ma non si chiude il nostro cuore. La Mamma celeste è una fonte copiosissima che emana sempre acque di pietà e di misericordia. E’ una fonte salutare che è pronta per tutti e a disposizione per tutti, essendo la Vergine tutta clemenza e pietà nell’aiutare i miseri.

Per attrarre  su di noi l’attenzione d’una persona non c’è mezzo più efficace che chiamarla col proprio nome. Ci guarderà e chiederà perché la chiamiamo.  Altrettanto avverrà con Maria SS.ma. Se vogliamo attrarre su di noi  gli occhi suoi misericordiosi e partecipare all’abbondanza delle sue grazie non desistiamo dall’invocarLa  col proprio magnifico nome di Maria.

Questo adorabile nome di MARIA è efficacissimo – specie per i giusti - per  impetrare ogni grazia. Esso non è un qualsiasi nudo nome, bensì un compendio di tutte le grandezze materne, adorabile segno e monogramma di tutta la sua gloria, scrigno di bellissimi titoli che la spingono e persuadono ad essere nostra benefica Madre:  come quelli di “Stella del mare”, e “Speranza di tutti”. Perciò il nome  Santissimo di Maria è un mezzo efficacissimo per ottenere ogni grazia e Divina benedizione.

Riccardo da san Lorenzo sintetizza tutto ciò asserendo  che dopo il nome adorabile di Gesù non vi è altro nome così salutare per ciascuno di noi quanto il nome Santissimo di Maria. Non est aliud nomen datum hominibus post nomen Jesu, ex quo tanta salus refundatur hominibus, sicut nomen Mariae: de Laud. Virg. Cap. 2.



Quest’adorabile nome sia sempre scolpito nel cuore, sempre presente nelle mente per invocarlo così in ogni necessità: Non recedat a corde, non recedat a mente (S. Bernardo). Sia esso pascolo del nostro spirito, centro dei nostri affetti se vogliamo partecipare  dell’abbondanza delle sue grazie. Ave Maria!



Ven Espíritu Santo, ven por medio de la poderosa intercesión del Corazón Inmaculado de María, tu amadísima Esposa


NOS CUM PROLE PIA
BENEDICAT VIRGO MARIA



Misericordia e Giustizia



<<LA GIUSTIZIA SENZA MISERICORDIA
DIVENTA CRUDELTA’
E
LA MISERICORDIA SENZA GIUSTIZIA
DIVENTA CAUSA DI OGNI DISORDINE
PERCIO’
E’ BENE CHE SIANO SEMPRE COLLEGATE>>
San T.


DEUS MEUS ET OMNIA



!!!!! LEGGETE e MEDITATE, ANIME BELLE. Per una formazione autenticamente cattolica. Non per altro.


Estratto da V. Messori, Rapporto sulla Fede. Vittorio Messori a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Ed. San Paolo, 1985, p. 123 ss.

« Pertanto – esortava il professor Ratzinger – ci si deve opporre, più decisamente di quanto sia stato fatto finora, all’appiattimento razionalistico, ai discorsi approssimativi, all’infantilismo pastorale che degradano la liturgia cattolica al rango di circolo di villaggio e la vogliono abbassare a un livello fumettistico. Anche le riforme già eseguite, specialmente riguardo al rituale, devono essere riesaminate sotto questi punti di vista ».

Mi ascolta, con l’attenzione e la pazienza consuete, mentre gli rileggo queste sue parole. Sono passati dieci anni da allora, l’autore di una simile messa in guardia non è più un semplice studioso, è il custode dell’ortodossia stessa della Chiesa. Il Ratzinger di oggi, Prefetto della fede, si riconosce ancora in questo brano?

« Interamente – non esita a rispondermi –. Anzi, da quando scrivevo queste righe altri aspetti che sarebbero stati da salvaguardare sono stati accantonati, molte ricchezze superstiti sono state dilapidate. Allora, nel 1975, molti colleghi teologi si dissero scandalizzati, o almeno sorpresi, dalla mia denuncia. Adesso, anche tra loro, sono numerosi quelli che mi hanno dato ragione, almeno parzialmente ». Si sarebbero cioè verificati ulteriori equivoci e fraintendimenti che giustificherebbero ancor più le parole severe di sei anni dopo, nel libro recente che citavamo: « Certa liturgia post-conciliare, fattasi opaca o noiosa per il suo gusto del banale e del mediocre, tale da dare i brividi...

La lingua, per esempio...
Per lui, proprio nel campo liturgico – sia negli studi degli specialisti che in certe applicazioni concrete – si constaterebbe « uno degli esempi più vistosi di contrasto tra ciò che dice il testo autentico del Vaticano II e il modo con cui è stato poi recepito e applicato ».
Esempio sin troppo famoso, si sa (ed esposto al rischio di strumentalizzazioni), è quello dell’impiego del latino, sul quale il testo conciliare è esplicito: « L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini » (Sacrosanctum Conciliurn, n. 36). Più avanti, i Padri raccomandano: « Si abbia (...) cura che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi » (n. 54). Più avanti ancora, nello stesso documento: « Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell’Ufficio divino la lingua latina » (n. 101).
[..]
Lo vedo scuotere il capo: «Che vuole, anche questo è tra i casi di una sfasatura – purtroppo frequente in questi anni – tra il dettato del Concilio, la struttura autentica della Chiesa e del suo culto, le vere esigenze pastorali del momento e le risposte concrete di certi settori clericali. Eppure la lingua liturgica non era affatto un aspetto secondario. All’origine della frattura tra Occidente latino e Oriente greco c’è anche una questione di incomprensione linguistica. È probabile che la scomparsa della lingua liturgica comune possa rafforzare le spinte centrifughe tra le varie aree cattoliche ».
[..]
« La liturgia non è uno show, uno spettacolo che abbisogni di registi geniali e di attori di talento. La liturgia non vive di sorprese “simpatiche”, di trovate “accattivanti”, ma di ripetizioni solenni. Non deve esprimere l’attualità e il suo effimero ma il mistero del Sacro. Molti hanno pensato e detto che la liturgia debba essere “fatta” da tutta la comunità, per essere davvero sua. È una visione che ha condotto a misurarne il “successo” in termini di efficacia spettacolare, di intrattenimento. In questo modo è andato però disperso il proprium liturgico che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti insieme non possiamo proprio fare. Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la Chiesa tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è l’assolutamente Altro che, attraverso la comunità (che non ne è dunque padrona ma serva, mero strumento) giunge sino a noi ».
Continua: « Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune, è la fonte stessa della sua identità: anche per questo deve essere “predeterminata”, “imperturbabile”, perché attraverso il rito si manifesta la Santità di Dio. Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata “la vecchia rigidità rubricistica”, accusata di togliere “creatività”, ha coinvolto anche la liturgia nel vortice del “fai-da-te”, banalizzandola perché l’ha resa conforme alla nostra mediocre misura ».

C’è poi un altro ordine di problemi sul quale Ratzinger vuole richiamare l’attenzione: « Il Concilio ci ha giustamente ricordato che liturgia significa anche actio, azione, e ha chiesto che ai fedeli sia assicurata una actuosa participatio, una partecipazione attiva ».

Mi sembra ottima cosa, dico.
« Certo – conferma –. E un concetto sacrosanto che però, nelle interpretazioni postconciliari, ha subito una restrizione fatale. Sorse cioè l’impressione che si avesse una “partecipazione attiva” solo dove ci fosse un’attività esteriore, verificabile: discorsi, parole, canti, omelie, letture, stringer di mani... Ma si è dimenticato che il Concilio mette nella actuosa participatio anche il silenzio, che permette una partecipazione davvero profonda, personale, concedendoci l’ascolto interiore della Parola del Signore. Ora, di questo silenzio non è restata traccia in certi riti ».

Suoni e arte per l’Eterno

E qui si aggancia un suo discorso sulla musica sacra, quella musica tradizionale dell’Occidente cattolico alla quale il Vaticano II non ha certo misurato le lodi, esortando non solo a salvare ma a incrementare « con la massima diligenza » questo che chiama « il tesoro della Chiesa »; e, dunque, dell’umanità intera.
« Invece, molti liturgisti hanno messo da parte quel tesoro, dichiarandolo “accessibile a pochi”, l’hanno accantonato in nome della “comprensibilità per tutti e in ogni momento” della liturgia postconciliare. Dunque, non più “musica sacra” – relegata, semmai, per occasioni speciali, nelle cattedrali – ma solo “musica d’uso”, canzonette, facili melodie, cose correnti ».
Anche qui il Cardinale ha facile gioco nel mostrare l’allontanamento teorico e pratico dal Concilio « secondo il quale, oltretutto, Ia musica sacra è essa stessa liturgia, non ne è un semplice abbellimento accessorio ». E, secondo lui, sarebbe anche facile mostrare come « l’abbandono della bellezza » si sia dimostrata, alla prova dei fatti, un motivo di « sconfitta pastorale ».

Dice: « È divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza e ci si assoggetta solo all’utile. L’esperienza ha mostrato come il ripiegamento sull’unica categoria del “comprensibile a tutti” non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, più aperte, ma solo più povere. Liturgia “semplice” non significa misera o a buon mercato: c’è la semplicità che viene dal banale e quella che deriva dalla ricchezza spirituale, culturale, storica ». «Anche qui – continua – si è messa da parte la grande musica della Chiesa in nome della “partecipazione attiva”: ma questa “partecipazione” non può forse significare anche il percepire con lo sprito, con i sensi? Non c’è proprio nulla di “attivo” nell’ascoltare, nell’intuire, nel commuoversi? Non c’è qui un rimpicciolire l’uomo, un ridurlo alla sola espressione orale, proprio quando sappiamo che ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è soltanto la punta di un iceberg rispetto a ciò che è la nostra totalità? Chiedersi questo non significa certo opporsi allo sforzo di far cantare tutto il popolo, opporsi alla “musica d’uso”: significa opporsi a un esclusivismo (solo quella musica) che non è giustificato né dal Concilio né dalle necessità pastorali ».
Questo discorso sulla musica sacra – intesa anche come simbolo di presenza della bellezza “gratuita” nella Chiesa – sta particolarmente a cuore a Joseph Ratzinger che vi ha dedicato pagine vibranti: « Una Chiesa che si riduca solo a fare della musica “corrente” cade nell’inetto e diviene essa stessa inetta. La Chiesa ha il dovere di essere anche “città della gloria”, luogo dove sono raccolte e portate all’orecchio di Dio le voci più profonde dell’umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano ».
[..]
« L’unica, vera apologia del cristianesimo può ridursi a due argomenti: i santi che la Chiesa ha espresso e l’arte che è germinata nel suo grembo. Il Signore è reso credibile dalla magnificenza della santità e da quella dell’arte esplose dentro la comunità credente, più che dalle astute scappatoie che l’apologetica ha elaborato per giustificare i lati oscuri di cui purtroppo abbondano le vicende umane della Chiesa. Se la Chiesa deve continuare a convertire, dunque a umanizzare il mondo, come può rinunciare nella sua liturgia alla bellezza, che è unita in modo inestricabile all’amore e insieme allo splendore della Resurrezione? No, i cristiani non devono accontentarsi facilmente, devono continuare a fare della loro Chiesa un focolare del bello – dunque del vero – senza il quale il mondo diventa il primo girone dell’inferno ».
Mi parla di un teologo famoso, uno dei leaders del pensiero post-conciliare che gli confessava senza problemi di sentirsi un “barbaro”. Commenta: « Un teologo che non ami l’arte, la poesia, la musica, la natura, può essere pericoloso. Questa cecità e sordità al bello non è secondaria, si riflette necessariamente anche nella sua teologia».

Solennità, non trionfalismo
Ancora in questa linea, Ratzinger non è affatto persuaso della validità di certe accuse di “trionfalismo”, nel nome delle quali si sarebbe gettato via con eccessiva facilità molto dell’antica solennità liturgica: « Non è affatto trionfalismo la solennità del culto con cui la Chiesa esprime la bellezza di Dio, la gioia della fede, la vittoria della verità e della luce sull’errore e sulle tenebre. La ricchezza liturgica non è ricchezza di una qualche casta sacerdotale; è ricchezza di tutti, anche dei poveri, che infatti la desiderano e non se ne scandalizzano affatto. Tutta la storia della pietà popolare mostra che anche i più miseri sono sempre stati disposti istintivamente e spontaneamente a privarsi persino del necessario pur di rendere onore con la bellezza, senza alcuna tirchieria, al loro Signore e Dio ».
[..]
« Per un certo modernismo neo-clericale il problema della gente sarebbe il sentirsi oppressa dai “tabù sacrali”. Ma questo, semmai, è il problema loro, di clericali in crisi. Il dramma dei nostri contemporanei è, al contrario, il vivere in un mondo sempre più di una profanità senza speranza. L’esigenza vera oggi diffusa non è quella di una liturgia secolarizzata, ma, al contrario, di un nuovo incontro con il Sacro attraverso un culto che faccia riconoscere la presenza dell’Eterno ».

Ma è sotto accusa, per lui, anche quello che definisce « l’archeologismo romantico di certi professori di liturgia, secondo i quali tutto ciò che si è fatto dopo Gregorio I Magno sarebbe da eliminare come un’incrostazione, un segno di decadenza. A criterio del rinnovamento liturgico non hanno posto la domanda: “Come deve essere oggi? “, ma l’altra: “Come era allora? “. Si dimentica che la Chiesa è viva, che la sua liturgia non può éssere pietrificata in ciò che si faceva nella città di Roma prima del Medio Evo. In realtà, la Chiesa medievale (o anche, in certi casi, la Chiesa barocca) hanno proceduto a un approfondimento liturgico che occorre vagliare con attenzione prima di eliminare. Dobbiamo rispettare anche qui la legge cattolica della sempre migliore e più profonda conoscenza del patrimonio che ci è stato affidato. Il puro arcaismo non serve, così come non serve la pura modernizzazione ».
Per Ratzinger, poi, la vita cultuale del cattolico non può essere ridotta al solo aspetto “comunitario”: deve continuare ad esserci un posto anche per la devozione privata, seppure ordinata al “pregare insieme”, cioè alla liturgia.

Eucaristia: nel cuore della fede
Aggiunge poi: « La liturgia, per alcuni sembra ridursi alla sola eucaristia, vista quasi sotto l’unico aspetto del “banchetto fraterno”. Ma la messa non è solamente un pasto tra amici, riuniti per commemorare l’ultima cena del Signore mediante la condivisione del pane. La messa è il sacrificio comune della Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e per noi e a noi si partecipa. E la rinnovazione sacramentale del sacrificio di Cristo: dunque, la sua efficacia salvifica si estende a tutti gli uomini, presenti e assenti, vivi e morti. Dobbiamo riprendere coscienza che l’eucaristia non è priva di valore se non si riceve la Comunione: in questa consapevolezza, problemi drammaticamente urgenti come l’ammissione al sacramento dei divorziati risposati possono perdere molto del loro peso opprimente ».

Vorrei capire meglio, dico.
« Se l’eucaristia — spiega — è vissuta solo come il banchetto di una comunità di amici, chi è escluso dalla ricezione dei Sacri Doni è davvero tagliato fuori dalla fraternità. Ma se si torna alla visione completa della messa (pasto fraterno e insieme sacrificio del Signore, che ha forza ed efficacia in sé, per chi vi si unisce nella fede), allora anche chi non mangia quel pane partecipa egualmente, nella sua misura, dei doni offerti a tutti gli altri ».

All’eucaristia e al problema del suo “ministro” (che può essere solo chi sia stato ordinato in quel « sacerdozio ministeriale o gerarchico » il quale, riconferma il Concilio, « differisce essenzialmente e non solo di grado » dal « sacerdozio comune dei fedeli », Lumen Gentium, n. 10) il card. Ratzinger ha dedicato uno dei primi documenti ufficiali a sua firma della Congregazione per la fede. Nel « tentativo di staccare l’eucaristia dal legame necessario con il sacerdozio gerarchico », vede un altro aspetto di certa “banalizzazione” del mistero del Sacramento.
È lo stesso pericolo che individua nella caduta dell’adorazione davanti al tabernacolo: « Si è dimenticato — dice — che l’adorazione è un approfondimento della comunione. Non si tratta di una devozione “individualistica” ma della prosecuzione o della preparazione, del momento comunitario. Bisogna poi continuare in quella pratica, così cara al popolo (a Monaco di Baviera, quando la guidavo, vi partecipavano decine di migliaia di persone) della processione del Corpus Domini. Anche su questa gli “archeologi” della liturgia hanno da ridire, ricordando che quella processione non c’era nella Chiesa romana dei primi secoli. Ma ripeto qui quanto già dissi: al sensus fidei del popolo cattolico deve essere riconosciuta la possibilità di approfondire,di portare alla luce, secolo dopo secolo, tutte le conseguenze del patrimonio che gli è affidato ».

«Non c’è solo la messa »
Aggiunge: « L’eucaristia è il nucleo centrale della nostra vita cultuale, ma perché possa esserne il centro abbisogna di un insieme completo in cui vivere. Tutte le inchieste sugli effetti della riforma liturgica mostrano che certa insistenza pastorale solo sulla messa finisce per svalutarla, perché è come situata nel vuoto, non preparata e non seguita com’è da altri atti liturgici. L’eucaristia presuppone gli altri sacramenti e ad essi rinvia. Ma l’eucaristia presuppone anche la preghiera in famiglia e la preghiera comunitaria extra-liturgica ».

A cosa pensa in particolare?
« Penso a due delle più ricche e feconde preghiere della cristianità, che portano sempre e di nuovo nella grande corrente eucaristica: la Via Crucis e il Rosario. Dipende anche dal fatto che abbiamo disimparato queste preghiere se noi oggi ci troviamo esposti in modo così insidioso alle lusinghe di pratiche religiose asiatiche ».

Infatti, osserva, « se recitato come tradizione vuole, il Rosario porta a cullarci nel ritmo della tranquillità che ci rende docili e sereni e che dà un nome alla pace: Gesù, il frutto benedetto di Maria; Maria, che ha nascosto nella pace raccolta del suo cuore la Parola vivente e poté così diventare madre della Parola incarnata. Maria è dunque l’ideale dell’autentica vita liturgica. È la Madre della Chiesa anche perché ci addita il compito e la meta più alta del nostro culto: la gloria di Dio, da cui viene la salvezza degli uomini ».

LAUDETUR  JESUS  CHRISTUS!
LAUDETUR  CUM  MARIA!
SEMPER  LAUDENTUR!