lunedì 2 febbraio 2015

Detti dei Padri del deserto


Piccola Antologia commentata

Questa che viene presentata non è un'antologia ampia dei Detti dei Padri del deserto, ma un semplice "assaggio" che permetterà di approfondire l'interesse attraverso una lettura più completa grazie alle varie antologie pubblicate. In particolare, consiglio quella edita da Città Nuova, secondo il riferimento dato in Bibliografia, che è ricca di materiale. 
Il breve commento personale che ho affiancato è solo un'interpretazione, che ovviamente non impedisce di cercarne e trovarne altre. Non vuole pertanto essere un commento esegetico, quanto piuttosto una riflessione spirituale del tutto personale e, in questo senso, limitata.
  



1. CURA DELLE ANIME

«In un cenobio, un fratello fu falsamente accusato di impurità: e si recò dal padre Antonio. Vennero allora i fratelli dal cenobio, per curarlo e portarlo via. Si misero ad accusarlo: «Tu hai fatto questo». Ed egli a difendersi: «Non ho fatto nulla del genere». Accadde per fortuna che si trovasse colà il padre Pafnuzio Kefala; egli disse questa parabola: «Sulla riva del fiume vidi un uomo immerso nella melma fino al ginocchio; e vennero alcuni per dargli una mano, ma lo fecero affondare fino al collo». E il padre Antonio, riferendosi al padre Pafnuzio, dice loro: «Ecco un vero uomo, capace di curare e di salvare le anime». Presi da compunzione per la parola degli anziani, essi si inchinarono davanti al fratello; poi, esortati i padri, lo riportarono al cenobio.» [Antonio il grande, n. 29].

Nella cura delle anime occorre molto tatto e cautela, attenzione e tenerezza. Spesso il tentativo di redimere una persona ha l’esito di affossarla sempre di più, a volte anche senza che sia presente il motivo scatenante (ossia senza il peccato, ma soltanto l’accusa, che si tende a reiterare). Questo atteggiamento di cura e attenzione verso i peccatori o i più deboli appare del tutto smarrito ai tempi moderni e nella direzione spirituale di molti, che prediligono circondarsi più di "giusti"  (o presunti tali) che non di "peccatori", più bisognosi, stravolgendo in tal modo il messaggio di salvezza portato da Cristo. 




2. RICOMINCIARE SEMPRE

«Un giorno i demoni assalirono Arsenio nella sua cella per tormentarlo; giunsero frattanto coloro che lo servivano e, stando fuori dalla cella, lo udirono gridare a Dio: "O Dio, non mi abbandonare; non ho fatto niente di buono ai tuoi occhi, ma nella tua bontà concedimi di cominciare".» [Arsenio, n. 3].

Ogni momento è buono per dire la prima volta (o ridire, se fosse necessario) il nostro “sì”, riaffermare il nostro impegno a cominciare l’opera di Dio o ricominciare nuovamente, secondo l’aiuto della sua misericordia. Sempre ricominciare, sempre cominciare di nuovo a fare qualcosa di buono nella nostra vita. Mai arrendersi alle forze del male, ai tormenti dell’anima, alle difficoltà e alle inquietudini, ma sempre affidarsi a Dio, implorandolo, nella sua misericordia, di poter cominciare di nuovo una storia con Lui. E Lui non ci abbandonerà certamente.




3. PARLARE COL CUORE

«Il Padre Poemen disse: "Insegna alla tua bocca a dire ciò che il tuo cuore racchiude".» [Poemen, n. 63].

La ricerca spirituale deve stabilire delle tappe certe. Fra queste c'è la meravigliosa sintonia fra le profondità del cuore e quanto affermiamo con la bocca. La parola non è mai vuota, questo ci insegnano i Padri del deserto, e dunque lasciamo che sia il cuore a parlare sempre attraverso parole adeguate, che vengano dalle sue profondità. Dare così un senso di verità alle parole che altrimenti risuonerebbero vuote.




4. IL SENSO DELLA SOLITUDINE

«Un fratello chiese al padre Matoes: "Che devo fare? La mia lingua mi è causa di afflizione: quando giungo in mezzo agli altri, non riesco a trattenerla, ma in ogni loro azione trovo da giudicarli e accusarli. Che devo dunque fare?" L'anziano gli rispose: "Fuggi nella solitudine. È debolezza infatti. Chi vive con dei fratelli, non deve essere un cubo, ma una sfera, per poter rotolare verso tutti". E disse: "Non per virtù vivo in solitudine, ma per debolezza; sono forti infatti quelli che vanno in mezzo agli uomini".» [Matoes, n. 13].

Il vero forte non è il solitario, ma colui che vive in mezzo agli uomini. Questo è quanto ci viene confermato da padre Matoes. Eppure, oggi, sembra vero il contrario. Viviamo facilmente nel mondo e difficilmente nella solitudine, ma non siamo tutti forti, anzi. Siamo diventati sempre più "cubi" che rotolano, con i lati un po' smussati dai continui conflitti, ma non saremo così mai "sfere" in grado di dirigerci con verità e amore verso tutti. L'invito è quello di accettare i momenti di debolezza, recuperando il senso della vera solitudine, come allenamento all'apertura totale ed incondizionata agli altri.




5. LA FATICA DI AVVICINARSI A DIO

«La madre Sincletica disse: "Per coloro che si avvicinano a Dio all'inizio vi è lotta e grande fatica, ma poi gioia indicibile. Come quelli che vogliono accendere il fuoco: prima sono disturbati dal fumo e lacrimano, quindi raggiungono ciò che cercano. Perché, dice, il nostro Dio è fuoco che consuma (Eb 12,29). Così anche noi dobbiamo accendere il fuoco divino con lacrime e stenti".» [Sincletica, n. 1].

La lotta contraddistingue ogni percorso spirituale, soprattutto agli inizi: "sforzatevi di entrare per la porta stretta" (cfr. Lc 13,24 o Mt 7,13) è l'invito che Gesù stesso rivolge per percorrere la strada che porta alla salvezza. E se è vero, come affermato all'inizio di questa pagina, che il termine "fatica" è quello che meglio definisce il monaco, non è tuttavia un'esclusiva del monaco, ma di ogni persona che prende sul serio la propria vita e vuole arrivare a "bruciare" insieme con Dio. 




6. LA SOTTIGLIEZZA DEI PENSIERI

«Il padre Poemen disse: "Molti dei nostri padri divennero valorosi nell'ascesi. Ma, quanto alla sottigliezza dei pensieri, che si raggiunge mediante la preghiera, soltanto uno o due.» [Poemen, n. 106].

L'ascesi non permette, per quanto estrema e dura, di giungere inevitabilmente a Dio. Lo sforzo dell'uomo, incamminato in questa via, rimarrà alla fine deluso. Questo non significa affatto che non abbia alcun significato o che sia dannosa, tutt'altro: l'ascesi permette di comprendere meglio il senso delle cose e della vita, attraverso la rinuncia e il distacco. E sicuramente la strada verso la salvezza passa anche attraverso queste cose: "chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà" (cfr. Lc 17,33), ossia chi vorrà disperatamente essere se stesso, non sarà mai il se stesso vero (cfr. Kierkegaard, La malattia mortale). Ma la vera sottigliezza dei pensieri, ossia essere un solo pensiero con Dio, si ottiene attraverso la preghiera, che è dialogo ininterrotto e costante con Lui, fatto di parole e di silenzi, di possesso e di rinuncia. E pochi, anche fra i padri del deserto, riescono ad ottenere simili pensieri, penetranti, acuti. 




7. IL VERO MAESTRO

«Il padre Poemen disse: "Un uomo che insegna, e non fa ciò che insegna, assomiglia a una sorgente; abbevera e lava tutti, ma non può purificare se stessa".» [Poemen, n. 25].

Il vero maestro non è colui che insegna senza realizzare quanto crede e trasmette. Per primo deve mettere in pratica le sue teorie. Per primo, deve vivere quanto crede. Ma questa difficoltà, di tradurre personalmente quanto creduto e insegnato, è una situazione frequente per la maggior parte delle persone. "Sapere di avere bisogno è la pienezza dell'aver bisogno, non la soddisfazione" (G.Romano Bacchin, Su l'autentico nel filosofare), così come sapere alcune verità e sapere di poterle insegnare non è arrivare a possederle o viverle pienamente. Non c'è un giudizio di valore riguardo al fatto che un uomo che insegna non riesca a vivere ciò di cui è consapevole, quanto una sorta di connotazione negativa per se stesso: il maestro è comunque una sorgente che lava e dà da bere a molti, sebbene non riesca, se non mette in pratica quanto afferma, a purificare se stesso. In questo sta solo una grande tragicità personale, che è quella di essere di aiuto agli altri senza sapere aiutare se stessi, su cui i padri invitano a riflettere, onde superarla.




8. PARLARE E TACERE

«Un fratello chiese al padre Poemen: "È meglio parlare o tacere?" L'anziano disse: "Chi parla per amore di Dio fa bene, e chi tace per amore di Dio fa ugualmente bene".» [Poemen, n. 147].

Spesso ci domandiamo cosa sia meglio fare: parlare o tacere, agire o astenersi, chiedere o rimanere in silenzio, aiutare o meno. In realtà, non conta molto quello che uno fa, o meglio non conta l'opera in sé e per sé, quanto l'intenzione che la anima. Per questo, sia che si parli o che si taccia, sia che si agisca o che si rimanga inerti, quello che ci deve preoccupare è se ogni nostra azione provenga dall'amore per Dio. Solo l'amore sa come agire (nel silenzio come nella parola, nell'azione come nella quiete) e solo chi ama veramente può fare ciò che vuole (Agostino), senza preoccuparsi se sia una cosa giusta o sbagliata (Eckhart). L'uomo deve sempre essere padrone e non schiavo di ciò che realizza, e questo può compiersi soltanto se si affida all'amore di Dio, che fa buone tutte le sue opere.




9. VIVERE PRIMA DI PARLARE

«Un fratello venne dal padre Teodoro e cominciò a parlare e a trattare cose di cui non aveva ancora fatto esperienza. "Non hai ancora trovato la nave - gli dice l'anziano -, non hai ancora caricato il tuo bagaglio, e sei già arrivato in quella città prima di essere partito? Compi prima l'opera e poi giungerai a ciò di cui ora parli".» [Teodoro di Ferme, n. 9].

Si tratta di un male comune: quello di parlare prima di realizzare qualcosa o di parlare di qualcosa e di trattarne prima ancora di conoscerla e di averla vissuta. I Padri invitano a fare un'esperienza che coinvolga la persona intera, un'esperienza di vita che sia il più possibile "assoluta". Inoltre, invitano a misurare le parole sempre in ogni istante e non dire oltre il normale dire e l'essenzialità di quanto necessario. Non esagerare le proprie esperienze, non farsi maestri di vita (soprattutto spirituale) prima di aver fatto un'esperienza vera e profonda. E anche allora avere sempre una modestia nel presentarsi agli altri. I Padri non parlano né danno consigli, se non dopo essere stati interrogati. La realtà quotidiana è ben altra cosa: si vive in un mondo che cresce precocemente le nostre vite, che coltiva in modo frenetico le nostre ansie di giungere (presto) ad una meta per poi subito ripartire, senza limiti né soddisfazione. In verità non si giunge a nulla, perché non si vive più in profondità. Si vive in un'altra dimensione, quella dell'estensione, della larghezza e la direzione non è quella che si avvicina al fondo dell'anima, ma quella che se ne allontana. O meglio, la nostra anima non è affatto scrutata. Anche la psicologia moderna è una semplice cultura dell'esteriore, del comportamento che appare o di meccanismi, sempre esteriori, fatti di osmosi, di scambi cellulari, di sostanze che non danno ragione alle nostre istanze più vere e profonde.




10. LA TENEREZZA DI DIO

«Alcuni anziani si recarono dal padre Poemen e gli chiesero: "Se vediamo dei fratelli che sonnecchiano durante la liturgia, vuoi che li scuotiamo, perché rimangano desti durante la veglia?" Ma egli disse loro: "Veramente, se io vedo un fratello che sonnecchia, metto la sua testa sulle mie ginocchia e lo lascio riposare".» [Poemen, n. 92].

La cura straordinaria e la grande tenerezza dei Padri si rivela in questo detto di Poemen. Fa pensare che, al di là di ogni regola scritta o comunque osservata, tutto debba passare (= essere filtrato) da un semplice buon senso, che è oltre ogni regola e norma e che non si insegna. Il buon senso che è tenerezza, appunto, gentilezza nei modi e nei pensieri, accortezza, cura, attenzione all'altro come "essere altro", con una sua dignità che va oltre le leggi e le norme stabilite. Così dovrebbe essere intesa ogni teologia morale che si trova davanti non un fatto, ma una persona che ha fatto qualcosa. Una persona che ha necessità di quella tenerezza e di quella misericordia, che solo Dio sa veramente donare: che è un amore che supera la giustizia. In ogni istante, mi piace affidarmi a questa tenerezza che è di Dio, più spesso che degli uomini, alla sua misericordia che accoglie la mia anima sulle sue ginocchia e la lascia riposare.

 AMDG et BVM

Gli otto spiriti della malvagità.

Evagrio Pontico 
“Sentenze – Gli otto spiriti della malvagità” Città Nuova (2010) Roma.

Wvagrio_spiritiEvagrio Pontico (345-399), è una degli esponenti più fecondi di quell’esperienza religiosa e mistica della Chiesa che nasce dall’esperienza monastica, nota come tradizione dei Padri del deserto. La sua produzione letteraria è molto ampia e ha conosciuto una vasta diffusione sia nell’area mediorientale che nell’occidente latino.

Così come nel “Trattato pratico” vengono date delle indicazione per seguire la via dei comandamenti, purificare l’animo e portarlo ad un gradino più alto di conoscenza verso Dio, in questo volume sono raccolte sia le “Sentenze”, testi in cui si tratteggia un percorso spirituale per aiutare il monaco a prendere consapevolezza delle passioni, per potersene distaccare, in un processo di ulteriore ascesi dalla conoscenza sensibile a quella spirituale, sia la nota opera di Evagrio Pontico Gli otto spiriti della malvagità, che qui è presentata nella sua forma più estesa. È interessante scoprire come l’esame dei vizi e delle passioni, il loro attecchimento negli spiriti umani, non varia poi di molto con l’evolversi dell’umanità. Si scopre così che il monaco, che viveva nel deserto nella seconda metà del 300, aveva la tendenza a quegli stessi difetti che sono ancora ricorrenti nella modernità: il peccato originale, la superbia dell’uomo che ha voluto fare da sé lo ha portato ad allontanarsi da Dio e ne ha sancito la solitudine, trasformando la distinzione originaria in una separazione e frammentazione apparentemente incontrovertibile. Per questa ragione, così come è utile all’uomo di oggi confrontarsi con le indicazione date nella praktikéè altrettanto fruttuoso rileggere la propria esperienza di vita e di fede alla luce di quelle tentazioni o demoni che abitano nel cuore e nello spirito dell’uomo, di ogni uomo, chiamati gli otto spiriti della malvagità e noti come demoni della gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria e superbia.

L’uomo moderno, l’uomo “liberato” da quella che è stata, ed è ancora, definita come l’oppressione della fede, li ha solo potuti svuotare della loro definizione peccaminosa, non della loro incidenza maligna sulla sua persona. Così, la gola (come d’altro canto avarizia o lussuria o ira…), depurata dal suo essere una “mancanza”, e divenuta esclusivamente causa di sensi di colpa, dei quali l’uomo della modernità non è ancora riuscito a disfarsi, diventa non più peccato, ma sicuramente un necessario interfacciarsi con il limite, la finitezza dell’uomo, con una sua dipendenza. Tristezza e acedia sono stati eletti a mali del secolo, ma di quale? Evagrione parlava ai monaci nel IV secolo! Tutto è ormai quell’inevitabile scontro con un nemico, con qualcosa definito come “altro da sé”, da combattere per mostrare una perfezione “a portata d’uomo” e dal quale ci si può affrancare con le diete, supporti di medicina estetica o psicologici, con la concentrazione, e in ultima analisi con la metempsicosi o, termine molto più di moda, la reincarnazione: nel caso non riuscissimo a renderci perfetti in questa vita… c’è la prossima! Ma è così? È davvero un altro da sé, che in genere, nondimeno, vediamo benissimo nel nostro nemico e molto meno potente in noi, riducibile ad uno dei tanti problemi della modernità e svalutabile a poca cosa, o esso nasconde un male più grande, l’incapacità di dare seguito ad una brama insita, e spesso non riconosciuta, un desiderio di infinito che l’uomo cerca disperatamente di saziare seguendo altri appetiti?

L’uomo teme la sua finitezza, dunque, teme la morte, questa è la radice della sua insoddisfazione e il nutrimento iperproteico, come potremmo definirlo, di questi pensieri, che poi diventano abitudini, per il credente peccato. E qual è la strada per uscire dal gorgo in cui l’uomo sprofonda ogni volta che incontra questa realtà del limite e della incompiutezza?

Questi pensieri, viziati dalla paura della morte, toccano ogni uomo e ne scoprono la nudità profonda, l’impossibilità di essere adeguato all’immagine che si è fatto di sé e da sé e lo interrogano da un livello più semplice ad uno sempre più complesso. Come mette in evidenza l’autore dell’ampia introduzione a questa edizione, Lucio Coco, “è interessante notare come la deduzione degli otto vizi sia inserita in uno schematismo più ampio corrispondente all’articolazione dell’anima razionale stessa. Non si tratta quindi di una estrazione casuale oppure di un processo semplicemente induttivo, per cui attraverso l’esperienza si può ricavare una serie di passioni. In base a queste considerazioni risulta evidente una certa concatenazione dei vizi e una certa loro progressione in base alloro generarsi all’ interno dell’anima tripartita. Avremo così i vizi del concupiscibile, più legati alla sfera sensibile: la gola, la lussuria e l’avarizia; quelli dell’irascibile, più legati all’ interiorità: la tristezza, l’ira e l’accidia; e infine i vizi della parte razionale, la vanagloria e la superbia, secondo una direzione ascendente che orienta dal basso verso l’alto i gruppi di vizi.

logismoi, i pensieri viziosi sono causa della caduta: “È impossibile che un monaco che abbia accolto un pensiero cattivo non ne sia rovinato” (Ex. 44). Per Evagrio essi sono il modo con cui i demoni, per questo li definisce spiriti della malvagità, spingono il monaco, e l’uomo, “a un modo di vita irragionevole” (Spir. 6), basato sulle passioni dominanti nell’anima irascibilis e in quella concupiscibilis. L’impegno da assolvere è allora volto a riconoscere l’azione di questi pensieri e a riconoscere quella mistificazione della realtà che essi operano nell’individuo.

È una battaglia che il monaco, e il cristiano, deve compiere, si tratta di un combattimento spirituale che parte dal riconoscimento in atto di dinamiche psicologiche insite in ogni individuo e che sono volte ad allontanarlo da Dio con tecniche sempre più raffinate. Man mano che lo Spirito progredisce verso la contemplazione, i pensieri anche si adattano al nuovo stato raggiunto e lo sollecitano con forme sempre più avanzate del culto del sé: non a caso, l’orgoglio è posto al vertice di questi pensieri. Già nelle “Paraenesis ad monachos”, Evagrio aveva bene illustrato questa essenzialità della lotta a questi spiriti del male, che si esplica nel loro riconoscimento e confessione per ridurne la capacità di distruzione che essi hanno nell’anima, allorché aveva rivelato che “Come non è possibile costruire una torre senza un muratore, così non è possibile acquistare la sapienza di Dio senza il combattimento” (Ex. 21); “Chi fugge la prova utile, fugge la vita eterna” (Ex. 24); “Come non è possibile che un lottatore riceva il premio senza aver combattuto, così non è possibile diventare un cristiano senza lottare” (Ex. 32).

Il monaco del Ponto ritiene che solo impegnandosi nella lotta con fatica e grazie alla preghiera, come riporta nella Sentenza 37 di questo testo, “chi prega continuamente sfugge alle tentazioni, i pensieri disturbano il cuore di chi è trascurato”. Si può uscire da questa deriva solo con la preghiera incessante, che consente di maturare una vera conoscenza spirituale.

Come già indicato nel Trattato Pratico, infatti, l’uomo deve purificarsi dalle passioni e solo dopo ha la possibilità di avvicinarsi alla vera scienza e gnosis, conoscenza, che conduce lo spirito dell’uomo, viva esso nel deserto o nella metropoli moderna, fino alla contemplazione di Dio. Sempre nel testo citato, Evagrio spiega in che modo sia arrivato a definire gli otto spiriti della malvagità. Partendo da una visione filosofica e di derivazione platonica caratterizzata da una tripartizione dell’anima in tre parti, razionale, concupiscibile e irascibile, evidenzia che un uso corretto di queste funzioni orienta alla virtù, ma una distorsione di esse può altresì portare ad un comportamento vizioso, contro natura, alterando e mistificando le funzioni stesse dell’anima. Nella parte inferiore si sviluppano i vizi i della sfera del concupiscibile, nella parte mediana quelli della sfera dell' irascibile e infine in alto quelli della sfera logica e razionale. Appartengono a quest’ultima sfera quei pensieri che, mossi dall’autocompiacimento e da una sopravvalutazione di sé, tipici della vanagloria e della superbia, portano l’individuo fino alla blasfemia della negazione di ogni dipendenza dell’uomo da Dio e dalla sua Grazia.

L’uomo sia che viva nel deserto, sia che viva nella metropoli super industrializzata moderna non ha sconti nei confronti dei pensieri, che attanagliano la sua anima razionale e la impoveriscono costantemente, può solo affrontarli consapevolmente, sforzandosi nel tempo che gli è dato di ritrovare in quell’anima razionale che è il luogo in cui risiede l’immagine che l’Altissimo si è compiaciuto di imprimere nell’umano, quello Spirito divino che gli consenta di sentirsi creatura creata e pertanto amata.


Alcuni passaggi delle riflessioni di Evagrio sugli 
otto spiriti della malvagità.

Gola
“Un fuoco spento si riaccende se prende dei fuscelli, la voluttà sopita si infiamma con cibo a sazierà. Non aver compassione di un corpo che si lamenta per la debolezza e non ingrassarlo con cibi ricercati. Infatti qualora riprenda vigore, si leverà contro di te e ti farà una guerra senza tregua finché non avrà fatto prigioniera la tua anima e ti avrà reso servo del vizio della lussuria. Un cavallo docile è un corpo tenuto a stecchetto e non disarciona mai chi lo cavalca; quello infatti si tira indietro quando viene stretto dal morso e ubbidisce alla mano del cavaliere, il corpo invece è domato dalla fame e dalla veglia e non recalcitra davanti alle decisioni di chi lo monta, né nitrisce agitato da un moto passionale”.

Lussuria
“Quando un ricordo di donna genera indifferenza e la fantasia di lei non muove la passione, allora considera che sei giunto alle soglie della continenza. Quando una sua immagine ti spinge a contemplarla e puoi collegare il suo corpo alle qualità dell'anima allora credi di essere nel possesso della virtù. Tuttavia non indugiare su simili pensieri e non fare a lungo mentalmente familiarità con una figura di donna, la passione infatti ama tornare indietro e ha vicino a sé il pericolo. Come infatti un'adeguata fusione purifica l'argento e se dura di più facilmente lo brucia e rovina, così una fantasia che si attarda distrugge uno stile di vita improntato alla continenza. Non presentare alla mente una fantasia di donna, perché non si sviluppi una fiamma di voluttà li e incendi il campo dell'anima tua. Infatti come una scintilla che cova nella paglia fa sviluppare un fuoco, così un ricordo di donna che permane accende il desiderio”.

Avarizia
“L’avarizia è la radice di tutti i mali e nutre come rami maligni le altre passioni, se tagli un ramo ne fa venire subito un altro e non permette che si secchi quello che è da lei sbocciato. Chi vuole uccidere il vizio deve strappare la radice… Chi molto possiede invece è irretito dalle cure ed è come un cane legato alla catena. Qualora sia obbligato a spostarsi, si porta in giro carico pesante e inutile fastidio, il ricordo delle ricchezze, viene punto dalla tristezza e soffre fortemente all’idea: ha abbandonato gli averi ed è sferzato dall’afflizione”.

Ira
“Tieni lontano dalla tua anima i pensieri d’ira, la collera non prenda dimora nel tuo cuore e non essere turbato durante la preghiera. Infatti nello stesso modo in cui il fumo delle stoppie disturba gli occhi così il rancore [disturba] la mente nel tempo della preghiera… L’offerta di chi serba rancore è un sacrificio irritante e non sarà portata all’altare per l’aspersione”.

Tristezza
“Il monaco triste non conosce il piacere spirituale. La tristezza è abbattimento d’anima ed è in relazione con pensieri d’ira. … La tristezza è un verme del cuore che divora la madre che lo ha generato. La madre che partorisce un bambino ha dolore ma quando ha partorito il dolore scompare. La tristezza generata invece causa un grande travaglio e permanendo dopo il parto reca non poca afflizione.
Chi ha vinto il desiderio ha vinto le passioni e chi ha vinto le passioni non è soggiogato dalla tristezza. Chi è temperante non si rattrista per la mancanza di cose da mangiare, né chi è continente per non aver soddisfatto una passione  dissoluta, né il mite per non aver ottenuto vendetta, né l'umile per essere stato privato di un umano riconoscimento, né chi non è avaro per aver subito una perdita; essi infatti possibilmente hanno evitato di desiderare queste cose, Come chi indossa una corazza non viene colpito da un proiettile, così chi non è soggetto alle passioni non viene ferito dalla tristezza”.

Accidia
“L’accidioso, leggendo, spesso sbadiglia e facilmente si fa prendere dal sonno, si sfrega gli occhi, stende le mani e, levato lo sguardo dal libro, prende a fissare il muro. Quindi torna a girarsi, legge un poco e inutilmente si affatica a sillabare le terminazioni delle parole, conta le pagine, calcola i quartini, critica la scrittura e la decorazione. Infine, chiuso il libro, lo mette sotto la testa e cade in un sonno non tanto profondo perché poi la fame desta la sua anima e lo porta a darsene pensiero. Un monaco accidioso è lento nella preghiera e non pronuncia mai le parole dell'orazione. Infatti come chi è malato non sopporta un peso grave, così pure 1'accidioso non sarà sollecito nel compiere l'opera di Dio, dal momento che uno è debilitato nelle forze del corpo e 1'altro è allentato nel tono spirituale… Fissa per te una misura in ogni lavoro e non separartene prima di averlo completato; prega continuamente e intensamente e lo spirito dell' accidia fuggirà da te”.

Vanagloria
“La vanagloria cresce accanto alle virtù e non se ne separa finché non ne abbia fiaccato il vigore… Una borsa bucata non tiene quello che vi si mette e la vanagloria disperde i premi delle virtù. …la preghiera di chi vuol piacere agli uomini non salirà a Dio. La vanagloria è uno scoglio a fior d'acqua, se ci vai contro perdi il carico della nave. …La vanagloria consiglia di pregare in piazza, chi la combatte invece prega nella sua stanza… La virtù del vanaglorioso è un sacrificio di ossa spezzate  e non viene presentato all'altare di Dio. Una linea tracciata sull' acqua scompare e lo sforzo della virtù in un'anima vanagloriosa. … L'accidia allenta la tensione spirituale, la vanagloria invece rafforza la mente che ha trascurato Dio, ridona gagliardia a chi è malato e rende più vigoroso il vecchio del giovane, a condizione che siano presenti molti testimoni dell'accaduto. In tal caso sono facili da sopportarsi il digiuno, la veglia, le preghiere, perché la lode di tanti desta la prontezza d'animo. Non svendere i tuoi sforzi per glorie umane e non tradire la gloria futura per una lode a buon mercato. L'umana gloria infatti riposa nella polvere e il suo c clamore si spegne in terra, la gloria della virtù invece rimane in eterno”.

Superbia
“La superbia è un rigonfiamento pieno di umore dell'anima; qualora giunga a maturazione, scoppierà e farà molto disgusto. …L'anima del superbo sale a una grande altezza e da lì precipita nell'abisso… Chi si è distaccato da Dio è malato di superbia e ascrive alla propria forza i buoni risultati. Come chi sale su una rete se va con un piede a vuoto, viene sbalzato giù, allo stesso modo cade chi confida sulla propria forza. … Al contadino non serve a niente un frutto marcio e Dio non saprà che farsene della virtù di un superbo. …L'anima del superbo infatti viene abbandonata da Dio e diventa il trastullo dei demoni. …Infatti chi poco prima si e opposto a Dio, rifiutando il suo soccorso, dopo viene spaventato da fatui fantasmi… La superbia precipitò giù dal cielo l'arcangelo e fece sì che si abbattesse sulla terra come una folgore. Perché inorgoglirti, uomo, se sei fango e putredine, perché gonfiarti e spingerti oltre le nuvole? Considera la tua natura: sei terra e polvere e in breve in cenere ti dissolverai. …Perché alzi quella testa che presto marcirà? È infatti cosa grande che l'uomo venga soccorso da Dio: fu abbandonato e ha conosciuto la debolezza della natura. Non hai niente che non abbia ricevuto da Dio… Perché ti vanti della grazia di Dio come se fosse un tuo acquisto? Riconosci chi è che ha dato e non esaltarti tanto! Tu sei una creatura di Dio, non rifiutare il Creatore; sei stato aiutato da Dio non rinnegare il benefattore. Sei asceso fino alla patria celeste ma è stato lui a guidarti; sei cresciuto nella virtù ma è stato lui che ha operato. Credi a colui che ti ha innalzato per rimanere saldo in quell' altezza. Sei uomo, stai dentro i limiti della tua natura. Riconosci il tuo simile perché è della tua stessa sostanza. …Quando sarai giunto al vertice delle virtù, allora avrai molto bisogno di tutelarti. Infatti chi cade dal basso rapidamente si rialza, invece chi cade dall'alto rischia la morte”.
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cfr:  http://www.cristinacampo.it/public/evagrio%20pontico%20%20la%20preghiera.pdf

Mediazione salvifica unica e universale di Gesù Cristo


CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

NOTIFICAZIONE
a proposito del libro del
P. JACQUES DUPUIS, S.J.,
«Verso una teologia del pluralismo religioso»
(Ed. Queriniana, Brescia 1997)

Preambolo 
In seguito ad uno studio condotto sull’opera di P. Jacques Dupuis S.I., Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso (Brescia 1997), la Congregazione per la Dottrina della Fede decise di approfondire l’esame della suddetta opera con procedura ordinaria, secondo quanto stabilito dal cap. III del Regolamento per l’esame delle dottrine.

Si deve anzitutto sottolineare che in questo libro l’Autore propone una riflessione introduttiva a una teologia cristiana del pluralismo religioso. Non si tratta semplicemente di una teologia delle religioni, ma di una teologia del pluralismo religioso, che intende ricercare, alla luce della fede cristiana, il significato che la pluralità delle tradizioni religiose riveste all’interno del disegno di Dio per l’umanità. Conscio della problematicità della sua prospettiva, l’Autore stesso non si nasconde la possibilità che la sua ipotesi potrebbe sollevare un numero di interrogativi pari a quelli per cui proporrà delle soluzioni.

A seguito dell’esame compiuto e dei risultati del dialogo con l’Autore, gli Em.mi Padri, valutati le analisi e i pareri espressi dai Consultori in merito alle Risposte date dall’Autore stesso, nella Sessione Ordinaria del 30 giugno 1999, hanno riconosciuto il suo tentativo di voler rimanere nei limiti dell’ortodossia, impegnandosi nella trattazione di problematiche finora inesplorate. Nello stesso tempo, pur considerando la buona disposizione dell’Autore, manifestata nelle sue Risposte, a fornire i chiarimenti giudicati necessari, nonché la sua volontà di rimanere fedele alla dottrina della Chiesa e all’insegnamento del Magistero, hanno constatato che nel libro sono contenute notevoli ambiguità e difficoltà su punti dottrinali di rilevante portata, che possono condurre il lettore a opinioni erronee o pericolose. Tali punti concernono l’interpretazione della mediazione salvifica unica e universale di Cristo, l’unicità e pienezza della rivelazione di Cristo, l’azione salvifica universale dello Spirito Santo, l’ordinazione di tutti gli uomini alla Chiesa, il valore e il significato della funzione salvifica delle religioni.

La Congregazione per la Dottrina della Fede, adempiuta la procedura ordinaria dell’esame in tutte le sue fasi, ha deciso di redigere una Notificazione[1] con l’intento di salvaguardare la dottrina della fede cattolica da errori, ambiguità o interpretazioni pericolose. Tale Notificazione, approvata dal Santo Padre nella Udienza del 24 novembre 2000, è stata presentata al P. Jacques Dupuis, e da lui è stata accettata. Con la firma del testo l’Autore si è impegnato ad assentire alle tesi enunciate e ad attenersi in futuro nella sua attività teologica e nelle sue pubblicazioni ai contenuti dottrinali indicati nella Notificazione, il cui testo dovrà comparire anche nelle eventuali ristampe o riedizioni del libro in questione, e nelle relative traduzioni.

La presente Notificazione non intende esprimere un giudizio sul pensiero soggettivo dell’Autore; ma si propone piuttosto di enunciare la dottrina della Chiesa a riguardo di alcuni aspetti delle suddette verità dottrinali, e nello stesso tempo di confutare opinioni erronee o pericolose, a cui, indipendentemente dalle intenzioni dell’Autore, il lettore può pervenire a motivo di formulazioni ambigue o spiegazioni insufficienti contenute in diversi passi del libro. In tal modo si ritiene di offrire ai lettori cattolici un sicuro criterio di valutazione, consono con la dottrina della Chiesa, al fine di evitare che la lettura del volume possa indurre a gravi equivoci e fraintendimenti.
 

I. A proposito della mediazione salvifica unica e universale di Gesù Cristo

1. Deve essere fermamente creduto che Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, crocifisso e risorto, è l’unico e universale mediatore della salvezza di tutta l’umanità.[2]

2. Deve essere pure fermamente creduto che Gesù di Nazareth, Figlio di Maria e unico Salvatore del mondo, è il Figlio e il Verbo del Padre.[3] Per l’unità del piano divino di salvezza incentrato in Gesù Cristo, va inoltre ritenuto che l’azione salvifica del Verbo sia attuata in e per Gesù Cristo, Figlio incarnato del Padre, quale mediatore della salvezza di tutta l’umanità.[4] È quindi contrario alla fede cattolica non soltanto affermare una separazione tra il Verbo e Gesù o una separazione tra l’azione salvifica del Verbo e quella di Gesù, ma anche sostenere la tesi di un’azione salvifica del Verbo come tale nella sua divinità, indipendente dall’umanità del Verbo incarnato.[5]
 
II. A proposito dell’unicità e pienezza della rivelazione di Gesù Cristo 

3. Deve essere fermamente creduto che Gesù Cristo è il mediatore, il compimento e la pienezza della rivelazione.[6] È quindi contrario alla fede della Chiesa sostenere che la rivelazione di/in Gesù Cristo sia limitata, incompleta e imperfetta. Inoltre, benché la piena conoscenza della rivelazione divina si avrà soltanto nel giorno della venuta gloriosa del Signore, tuttavia la rivelazione storica di Gesù Cristo offre tutto ciò che è necessario per la salvezza dell’uomo e non ha bisogno di essere completata da altre religioni.[7]

4. È conforme alla dottrina cattolica affermare che i semi di verità e di bontà che esistono nelle altre religioni sono una certa partecipazione alle verità contenute nella rivelazione di/in Gesù Cristo.[8] È invece opinione erronea ritenere che tali elementi di verità e di bontà, o alcuni di essi, non derivino ultimamente dalla mediazione fontale di Gesù Cristo.[9]
 
III. A proposito dell’azione salvifica universale dello Spirito Santo 

5. La fede della Chiesa insegna che lo Spirito Santo operante dopo la risurrezione di Gesù Cristo è sempre lo Spirito di Cristo inviato dal Padre, che opera in modo salvifico sia nei cristiani sia nei non cristiani.[10] È quindi contrario alla fede cattolica ritenere che l’azione salvifica dello Spirito Santo si possa estendere oltre l’unica economia salvifica universale del Verbo incarnato.[11]
 
IV. A proposito dell’ordinazione di tutti gli uomini alla Chiesa 

6. Deve essere fermamente creduto che la Chiesa è segno e strumento di salvezza per tutti gli uomini.[12]È contrario alla fede cattolica considerare le varie religioni del mondo come vie complementari alla Chiesa in ordine alla salvezza.[13]

7. Secondo la dottrina cattolica anche i seguaci delle altre religioni sono ordinati alla Chiesa e sono tutti chiamati a far parte di essa.[14]
 
V. A proposito del valore e della funzione salvifica delle tradizioni religiose 

8. Secondo la dottrina cattolica si deve ritenere che «quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica (cf. Cost. dogm. Lumen gentium, 16)».[15] È dunque legittimo sostenere che lo Spirito Santo opera la salvezza nei non cristiani anche mediante quegli elementi di verità e di bontà presenti nelle varie religioni; ma non ha alcun fondamento nella teologia cattolica ritenere queste religioni, considerate come tali, vie di salvezza, anche perché in esse sono presenti lacune, insufficienze ed errori,[16] che riguardano le verità fondamentali su Dio, l’uomo e il mondo.
     Inoltre, il fatto che gli elementi di verità e di bontà presenti nelle varie religioni possano preparare i popoli e le culture ad accogliere l’evento salvifico di Gesù Cristo, non comporta che i testi sacri delle altre religioni possano considerarsi complementari all’Antico Testamento, che è la preparazione immediata allo stesso evento di Cristo.[17]
 
Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell’Udienza del 19 gennaio 2001, alla luce degli ulteriori sviluppi, ha confermato la sua approvazione della presente Notificazione, decisa nella Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
     Roma, dalla sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 24 gennaio 2001, nella memoria di San Francesco di Sales.
 
+ Joseph Card. Ratzinger

Prefetto



+ Tarcisio Bertone, SDB
Arcivescovo emerito di Vercelli
Segretario






[1] La Congregazione per la Dottrina della Fede, a motivo di tendenze manifestate in diversi ambienti e sempre più recepite anche nel pensiero dei fedeli, ha pubblicato la Dichiarazione “Dominus Iesus” circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa (AAS, 92 [2000] 742-765), per tutelare i dati essenziali della fede cattolica. La Notificazione si ispira ai principi indicati nella suddetta Dichiarazione per la valutazione dell’opera di J. Dupuis.
[2] Cf. CONC. DI TRENTO, Decr. De peccato originali: Denz n. 1513; Decr. De iustificatione: Denz. nn. 1522; 1523; 1529; 1530. Cf. anche CONC. VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 10; Cost. dogm. Lumen gentium, nn. 8; 14; 28; 49; 60. GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptoris missio, n. 5: AAS 83 (1991) 249-340; Es. Apost. Ecclesia in Asia, n. 14: AAS 92 (2000) 449-528; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, n. 13-15.
[3] Cf. CONC. DI NICEA I: Denz. n. 125; CONC. DI CALCEDONIA: Denz. n. 301.
[4] Cf. CONC. DI TRENTO, Decr. De iustificatione: Denz. nn. 1529; 1530; CONC. VATICANO II, Cost. lit. Sacrosanctum Concilium, n. 5; Cost. past. Gaudium et spes, n. 22.
[5] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptoris missio, n. 6. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, n. 10.
[6] Cf. CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Dei verbum, nn. 2; 4; GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Fides et ratio, nn. 14-15; 92, AAS 91 (1999) 5-88; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, n. 5.
[7] Cf. CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, n. 6; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 65-66.
[8] Cf. CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 17; Decr. Ad gentes, n. 11; Dich. Nostra Aetate, n. 2.
[9] Cf. CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 16; GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptoris missio, n. 10.
[10] Cf. CONC. VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 22; GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptoris missio, nn. 28-29.
[11] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptoris missio, n. 5; Es. Apost. Ecclesia in Asia, nn. 15-16; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, n. 12.
[12] Cf. CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, nn. 9; 14; 17; 48. GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris missio, n. 11; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, n. 16.
[13] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptoris missio, n. 36; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, nn. 21-22.
[14] Cf. CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n.13 e n. 16; Decr. Ad gentes, n. 7; Dich. Dignitatis humanae, n. 1; GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptoris missio, n. 10; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, nn. 20-22; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 845.
[15]GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptoris missio, n. 29.
[16]Cf. CONC. VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 16; Dich. Nostra aetate, n. 2; Decr. Ad gentes, n. 9; cf. anche PAOLO VI, Es. Apost. Evangelii nuntiandi, n. 53: AAS 68 (1976) 5-76; GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptoris missio, n. 55; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE Dich. Dominus Iesus, n.8.
[17] Cf. CONC. DI TRENTO, Decr. de libris sacris et de traditionibus recipiendis: Denz n. 1501; CONC. VATICANO I, Cost. dogm. Dei Filius, cap. 2: Denz n. 3006; CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, n. 8.



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Purificazione di MARIA VERGINE e PRESENTAZIONE DI GESU' al Tempio.


FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE AL TEMPIO
OMELIA DI PAOLO VI
Mercoledì, 2 febbraio 1972

La festa, che oggi la Chiesa ci invita a celebrare, è complessa per il duplice fatto registrato nel Vangelo di San Luca (Luc. 2, 22, ss.) della Purificazione di Maria e della Presentazione di Gesù al Tempio, secondo il rituale ebraico (Cfr. Lev. 12, 2-8; Ex. 13, 2), e per lo sviluppo liturgico e popolare, che la commemorazione di tale fatto assunse, in forme e in tempi diversi, nella tradizione cristiana (Cfr. P. RADÒ, Ench. Lit. II, 1138, ss.), così che si presta a diverse considerazioni spirituali. Rimase per noi caratteristico di questa festa il rito della benedizione delle candele, forse derivato dalla solennità che a questa celebrazione era data, fin dalla fine del IV secolo a Gerusalemme (si veda la celebre Peregrinatio Etheriae, a. 395), o forse a causa della processione notturna, istituita da Papa Gelasio (492-496) per sostituirla nel costume cristiano a quelle lustrali pagane, solite a compiersi nel mese di febbraio (Cfr. M. RIGHETTI,Manuale di St. Lit. II, 84). Oggi il rito si evolve, e prende forma e significato di offerta, che voi state compiendo, ed a cui noi vogliamo attribuire il suo valore altamente espressivo: il cero si fa simbolo d’un’oblazione sacra, la quale, per un verso, vuole connettersi con quella di Gesù Cristo bambino, presentato a Dio in riconoscimento dell’ossequio voluto da Dio circa ogni primogenito, per un altro verso intende professare l’omaggio di obbedienza e di fedeltà all’Apostolo Pietro, nella persona del suo successore, Vescovo di Roma.

«UN CERO È UNA LUCE»

Se vogliamo pertanto fermare un istante l’attenzione su questo aspetto della singolare e tradizionale cerimonia, noi dobbiamo oggi entrare nell’intenzione e nello spirito d’un’oblazione. Un’oblazione, la quale ha nel cero il suo simbolo, il suo linguaggio, così semplice così profondo. Che cosa è un cero, nell’uso e nella mentalità liturgica? Qui si potrebbe fare una bella escursione nella spiritualità religiosa cattolica, la quale non rifiuta di servirsi di segni materiali, ma ne fa alfabeto sacramentale, artistico perciò, e di più misterioso e sacro. Un cero è una luce. Ricordate il triplice grido della liturgia del Sabato santo, quando la processione, entrando nella chiesa buia e deserta della presenza di Cristo, vibra di stupore e di gioia alla voce del diacono, che grida, alla accensione del cero: lumen Christi? E così la luce è tutto lo spazio della vita cristiana, della rivelazione divina, che risplende nelle tenebre dell’universo cosmico e della cecità sconfinata dello spirito umano. È una luce, che stabilisce una relazione dell’uomo con le cose, con gli altri uomini, con il tempo, con ciò che è e ciò che si muove, con la vita. Rileggete nel cuore il prologo di S. Giovanni: «la vita era la luce» (Io. 1, 4). E poi tutti ricordate la teologia evangelica della luce. La luce è Cristo. «Mentre io sono nel mondo, dice Cristo stesso, sono la luce del Mondo» (Io. 9, 5). E la luce siamo noi, noi stessi se la riceviamo da Lui: «Voi siete la luce del mondo» (Matth. 5, 14) ci dice il Maestro. Ma come la riceviamo, come la facciamo risplendere? Ancora il cero ce lo dice: ardendo, e ardendo consumandosi. Un lampo di fuoco, un raggio d’amore, un’inevitabile immolazione si celebrano sopra quella candela pura e diritta, mentre essa, effondendo il suo dono di luce, esaurisce se stessa in silenzioso sacrificio (Cfr. GUARDINI, I santi segni, p. 56, ss.). Dove trovare riflessa con più lirica e drammatica evidenza la storia della vita cristiana? dove riscontrare più aperto e vissuto quel «sacerdozio regale» (1 Petr. 2, 9), che il Concilio ha ricordato alla nostra fede e alla nostra pietà, riscoprendolo in ogni cristiano rigenerato dal battesimo, e che si fa manifesto mediante il cero sacro a lui, il nuovo cristiano, subito consegnato, dopo la sua inserzione nel Corpo mistico di Cristo, la Chiesa, da questa medesima Madre e Maestra?

TRIBUTO DI SUDDITANZA A CRISTO E ALLA CHIESA

Ma il cero, in questa cerimonia, esprime qualche altra cosa, come dicevamo, cioè l’oblazione dell’offerente a Cristo e alla sua Chiesa. Esso vuol essere un tributo di sudditanza. E allora il cero, simbolo di un’offerta della propria vita, integra il simbolo della luce; lo integra con quello d’una testimonianza, con quello d’un programma di vita, con quello d’una scelta, che decide dell’orientamento e dell’impiego della propria esistenza. Questo dono vuol dire: ecco, io riconosco sopra di me il dominio assoluto di Dio, la possessione di Cristo, l’autorità della Chiesa.
È un atto di umiltà, di fedeltà, di obbedienza, che prende figura nell’offerta del cero. Se volessimo approfondire quest’analisi, forse ci troveremmo sconcertati dal timore di compiere un gesto falso e insincero, perché contrario a quella coscienza della propria autonomia, della propria libertà adulta, della propria dignità personale, oggi dominante nella psicologia moderna. Anche fra noi, discepoli della dottrina di Cristo, questo sentimento di indipendenza e di autogoverno è così penetrato, che duriamo fatica, a prima vista, a scoprire come l’ossequio religioso e canonico, che ci è richiesto nell’economia ecclesiale, non solo si accorda con la vera libertà dei figli di Dio, ma ne è il fondamento e la garanzia. Abbiamo paura di essere asserviti ad una teocrazia anacronistica e insopportabile.

PARTECIPAZIONE ALLA COMUNIONE ECCLESIALE

Mentre invece non ci deve essere difficile, né ingrato, rivedere, alla luce meridiana della nostra fede, come la sudditanza, a noi richiesta da questo ordinamento teologico ed esistenziale, è alla base del nostro essere di uomini, di cristiani, di cattolici, di eletti alla sequela di Cristo. Servire Deo regnare est: non è questo un semplice proverbio ascetico; è la sintesi d’una metafisica religiosa, la quale discopre la sua ragionevolezza, anzi la sua beatitudine, quando, come nella casa di Dio, alla quale per via di fede e di grazia siamo stati ammessi, noi sperimentiamo come questo servizio che vogliamo professare verso Dio e verso ciò che a Dio ci conduce, non è schiavitù, non è degradazione, non è perdita della propria libertà, ma è piuttosto l’impiego più alto di questa libertà, è l’elevazione al livello superiore della conquista e del godimento dei valori superiori della vita, è associazione all’amore di quel Dio ch’è Padre e che Amore si definisce; ed è sequela di Cristo, e partecipazione a quella comunione che definisce la Chiesa.

L'ATTESA DEI GIOVANI

È servizio, sì. Ma quale significato di reale grandezza riacquista oggi questo decaduto ed ora riabilitato vocabolo, se riferito alla coscienza ideale della vita e a quella sociale del nostro tempo! Diventa vocazione. L’uomo ha bisogno di servire una causa per la quale valga la pena di dare questa vita presente. Forse tanta gente, oggi, si agita e si ribella, perché non sa chi e che cosa meriti davvero d’essere servito. La leggenda di S. Cristoforo dovrebbe essere raccontata di nuovo alla nostra generazione. Forse tanti giovani, inconsciamente non attendono che una chiamata potente a consacrare la propria vita, vuota altrimenti ed egoista e condannata a finale delusione, ad un ideale, ad una realtà che impegni tutte le loro energie e le esalti nel dono magnanimo ed eroico di sé; alla Croce, porta dolorosa e gloriosa della vera risurrezione.

Anche qui il discorso potrebbe prolungarsi. Ma qui lo fermiamo, nella convinzione e nella soddisfazione che l’offerta dei ceri vuol significare tutto questo. E in verità lo significa, con la nostra Apostolica Benedizione.

AMDG et BVM

Attendendo l'ora della liberazione.

Dogmatica, ma non sul dogma.

Editoriale di Radicati nella fede - Anno VIII n° 2 - Febbraio 2015 [qui]
 Dogmatica su ciò che non è dogma, sembra proprio questa la situazione della Chiesa degli ultimi decenni. Mentre si lasciano i teologi e i vari pastoralisti scorrazzare in piena libertà dentro la dottrina cristiana, riformulando pericolosamente le verità di fede fino a trasformarle e sconvolgerle in qualcosa d'altro; mentre si lascia libero corso ad un fiume di predicazione che rischia di non salvaguardare l'interezza del Credo cattolico, si diventa dogmatici, fissisti, autoritari su ciò che invece non è essenziale nella Chiesa, ad esempio sull'organizzazione della pastorale nelle diocesi e nelle parrocchie.

 Un tempo, invece, nella Chiesa ci si preoccupava di salvare i dogmi, la verità e le verità contenute nel Vangelo. Un tempo, invece, si era preoccupati di custodire e trasmettere l'integrità della morale cattolica, ripetendo i comandamenti e declinandoli ai fedeli perché si esercitassero ad applicarli alla concretezza della loro vita.

 Anche nella disciplina, un tempo severa nella Chiesa, si era tali solo per salvaguardare la sana trasmissione della Grazia di Dio nell'impianto sacramentale. Si era severi nel garantire le condizioni per ricevere con frutto i sacramenti, ma, ci sembra proprio così, non si dogmatizzava sul resto. La storia della Chiesa è storia di libertà, di una grande libertà nel rispondere alla volontà di Dio. Se pensiamo ai santi, ci accorgiamo che non ce n'è uno uguale all'altro; nelle loro vite appare la grande fantasia di Dio e la grande libertà dell'uomo nel compiere il bene. 
Nello stesso tempo vediamo, nelle diversissime vite dei santi, una uniformità impressionante per quanto riguarda i dogmi, cioè ciò che hanno creduto, l'importanza data ai sacramenti, la centralità della Messa, la vita concepita come partecipazione alla sofferenza redentiva del Signore, l'amore alla Chiesa, la scrupolosità nelle opere di misericordia, le fede nella vita eterna, la decisività della preghiera per i vivi e per i morti, etc. Erano insomma un catechismo vivente: potremmo con frutto fare dottrina partendo dalla vita dei santi di tutte le epoche della cristianità, e giungeremmo a riscrivere sempre lo stesso catechismo.

 I santi, la Chiesa, erano uniformi, meglio uniti, nella fede e nella disciplina che ragionevolmente ne discende, e non su tutto il resto.

 Oggi, e veniamo al dunque, non è proprio più così: sei controllato su tutto il resto, devi uniformarti ad uno “stile”, quello naturalmente della “Chiesa moderna”. Se non ti uniformi, non appartieni più a questa Chiesa; e se non ti buttano fuori, vivi come nell'ombra: sanno che ci sei, ma fanno di tutto perché tu sia invisibile. Non interessa che tu sia fervente cattolico, che tu custodisca tutta la dottrina della Chiesa di tutti i tempi. No, ai burocrati del clericalismo moderno preoccupa che tu non sia allineato al nuovo stile, allo stile moderno, alla Chiesa rinnovata!

 Questo è il nuovo dogma, è il super-dogma intoccabile, che avvolgendo tutti i dogmi di sempre, li neutralizza e li avvelena nella nuova ideologia.

 I dogmi, quelli veri, sono le verità rivelate da Dio, che siamo tenuti a credere per l'autorità di Dio che li rivela. La Chiesa ne è la custode, la responsabilità grave dei pastori è trasmetterli perché salvino le anime.

 Il super-dogma della modernità invece non viene da Dio, l'hanno inventato gli uomini. E pretendono di reinterpretare tutto secondo questa lapidaria affermazione: “La Chiesa deve mettersi al passo coi tempi, se non vuole restare fuori della storia”.

 È una falsità che viene da lontano; la Massoneria ne è diventata la più funesta propagatrice negli ultimi secoli; questa menzogna è entrata pian piano nella Chiesa, oggi sembra aver vinto. All'interno di questo bollettino troverete un bello scritto del P. Emmanuel, dove, parlando del mistero d'iniquità, definisce la Massoneria “la cloaca di tutte le corruzioni dell'umanità”. E cuore dell'opera massonica è questa reinterpretazione globale del cattolicesimo in chiave moderna, per trasformarlo in una inutile religione naturale, fatta di vuote parole di solidarietà umana.

 “La Chiesa deve mettersi al passo coi tempi, se non vuole restare fuori della storia”: è una menzogna, per questo non ve la spiegheranno mai, ma ve la imporranno con violenza. Non ve la spiegheranno, perché se lo facessero dimostrerebbero la loro eresia, dimostrerebbero di non venire da Dio.

 Da sempre, dagli inizi, la modernità non fu mai la preoccupazione della Chiesa. La sua preoccupazione fu sempre quella di essere fedele al Signore Gesù, alla divina Rivelazione. Pensate ciò che scrive san Paolo nella lettera ai Galati:

 “Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema! L'abbiamo gia detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!” (Gal 1,8-9).

 Impressionante! “Se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso”... San Paolo mette in guardia i fedeli... non solo un angelo dal cielo, ma nemmeno lui, il grande apostolo, può cambiare una virgola alla fede, una virgola a quel vangelo che aveva già loro predicato. E chi sono questi teologi- pastoralisti moderni, chi credono di essere, per chiederci di modificare la fede reinterpretandola secondo il super-dogma della modernità... la Chiesa deve adattarsi al mondo di oggi, non può più fare oggi ciò che faceva un tempo?

 Eh sì, ti dicono così, non potete fare più ciò che la Chiesa faceva un tempo... dovete adattarvi al mondo moderno. Anche qui però non ti dicono il perché, non ti spiegano.

 Perché mai non potremmo vivere la messa come un tempo? Perché mai non potremmo ricevere i sacramenti come un tempo? Perché mai dovremmo stravolgere una prassi consolidata nella Chiesa da secoli per applicare le dubbie ricette ecclesiastiche di oggi? Perché il catechismo chiaro e semplice della tradizione non dovrebbe andare più bene? Perché mai nelle chiese gli uomini di oggi non potrebbero vivere la preghiera come i cristiani di duemila anni? Perché mai dovremmo cambiare le regole per accedere ai sacramenti, se queste nascono dalla verità del Vangelo, se queste custodiscono il dogma?

 Loro, i clericali moderni, dicono che dobbiamo cambiare perché gli uomini di oggi non capirebbero. Ma anche questo non te lo spiegano, ti dicono che è così e che non si discute.

 A noi sembra invece che sono loro, i clericali ammodernati, a non sopportare la Chiesa, la Chiesa e la sua gloriosa storia di grazia e di santità. Non l'hanno più sopportata, la Chiesa di sempre, perché ne avevano smarrito le ragioni, e per non uscirne hanno lavorato per cambiarla con il dogma della modernità. L’hanno cambiata davvero dove hanno potuto, fino a sfigurarla, provocando la più grande crisi della storia cristiana.

Ma la Chiesa è di Dio, per questo restiamo sereni nella Tradizione, attendendo l'ora della liberazione.