Piccola Antologia commentata
Questa che viene presentata non è un'antologia ampia dei Detti dei Padri del deserto, ma un semplice "assaggio" che permetterà di approfondire l'interesse attraverso una lettura più completa grazie alle varie antologie pubblicate. In particolare, consiglio quella edita da Città Nuova, secondo il riferimento dato in Bibliografia, che è ricca di materiale.
Il breve commento personale che ho affiancato è solo un'interpretazione, che ovviamente non impedisce di cercarne e trovarne altre. Non vuole pertanto essere un commento esegetico, quanto piuttosto una riflessione spirituale del tutto personale e, in questo senso, limitata.
1. CURA DELLE ANIME
«In un cenobio, un fratello fu falsamente accusato di impurità: e si recò dal padre Antonio. Vennero allora i fratelli dal cenobio, per curarlo e portarlo via. Si misero ad accusarlo: «Tu hai fatto questo». Ed egli a difendersi: «Non ho fatto nulla del genere». Accadde per fortuna che si trovasse colà il padre Pafnuzio Kefala; egli disse questa parabola: «Sulla riva del fiume vidi un uomo immerso nella melma fino al ginocchio; e vennero alcuni per dargli una mano, ma lo fecero affondare fino al collo». E il padre Antonio, riferendosi al padre Pafnuzio, dice loro: «Ecco un vero uomo, capace di curare e di salvare le anime». Presi da compunzione per la parola degli anziani, essi si inchinarono davanti al fratello; poi, esortati i padri, lo riportarono al cenobio.» [Antonio il grande, n. 29].
Nella cura delle anime occorre molto tatto e cautela, attenzione e tenerezza. Spesso il tentativo di redimere una persona ha l’esito di affossarla sempre di più, a volte anche senza che sia presente il motivo scatenante (ossia senza il peccato, ma soltanto l’accusa, che si tende a reiterare). Questo atteggiamento di cura e attenzione verso i peccatori o i più deboli appare del tutto smarrito ai tempi moderni e nella direzione spirituale di molti, che prediligono circondarsi più di "giusti" (o presunti tali) che non di "peccatori", più bisognosi, stravolgendo in tal modo il messaggio di salvezza portato da Cristo.
2. RICOMINCIARE SEMPRE
«Un giorno i demoni assalirono Arsenio nella sua cella per tormentarlo; giunsero frattanto coloro che lo servivano e, stando fuori dalla cella, lo udirono gridare a Dio: "O Dio, non mi abbandonare; non ho fatto niente di buono ai tuoi occhi, ma nella tua bontà concedimi di cominciare".» [Arsenio, n. 3].
Ogni momento è buono per dire la prima volta (o ridire, se fosse necessario) il nostro “sì”, riaffermare il nostro impegno a cominciare l’opera di Dio o ricominciare nuovamente, secondo l’aiuto della sua misericordia. Sempre ricominciare, sempre cominciare di nuovo a fare qualcosa di buono nella nostra vita. Mai arrendersi alle forze del male, ai tormenti dell’anima, alle difficoltà e alle inquietudini, ma sempre affidarsi a Dio, implorandolo, nella sua misericordia, di poter cominciare di nuovo una storia con Lui. E Lui non ci abbandonerà certamente.
3. PARLARE COL CUORE
«Il Padre Poemen disse: "Insegna alla tua bocca a dire ciò che il tuo cuore racchiude".» [Poemen, n. 63].
La ricerca spirituale deve stabilire delle tappe certe. Fra queste c'è la meravigliosa sintonia fra le profondità del cuore e quanto affermiamo con la bocca. La parola non è mai vuota, questo ci insegnano i Padri del deserto, e dunque lasciamo che sia il cuore a parlare sempre attraverso parole adeguate, che vengano dalle sue profondità. Dare così un senso di verità alle parole che altrimenti risuonerebbero vuote.
4. IL SENSO DELLA SOLITUDINE
«Un fratello chiese al padre Matoes: "Che devo fare? La mia lingua mi è causa di afflizione: quando giungo in mezzo agli altri, non riesco a trattenerla, ma in ogni loro azione trovo da giudicarli e accusarli. Che devo dunque fare?" L'anziano gli rispose: "Fuggi nella solitudine. È debolezza infatti. Chi vive con dei fratelli, non deve essere un cubo, ma una sfera, per poter rotolare verso tutti". E disse: "Non per virtù vivo in solitudine, ma per debolezza; sono forti infatti quelli che vanno in mezzo agli uomini".» [Matoes, n. 13].
Il vero forte non è il solitario, ma colui che vive in mezzo agli uomini. Questo è quanto ci viene confermato da padre Matoes. Eppure, oggi, sembra vero il contrario. Viviamo facilmente nel mondo e difficilmente nella solitudine, ma non siamo tutti forti, anzi. Siamo diventati sempre più "cubi" che rotolano, con i lati un po' smussati dai continui conflitti, ma non saremo così mai "sfere" in grado di dirigerci con verità e amore verso tutti. L'invito è quello di accettare i momenti di debolezza, recuperando il senso della vera solitudine, come allenamento all'apertura totale ed incondizionata agli altri.
5. LA FATICA DI AVVICINARSI A DIO
«La madre Sincletica disse: "Per coloro che si avvicinano a Dio all'inizio vi è lotta e grande fatica, ma poi gioia indicibile. Come quelli che vogliono accendere il fuoco: prima sono disturbati dal fumo e lacrimano, quindi raggiungono ciò che cercano. Perché, dice, il nostro Dio è fuoco che consuma (Eb 12,29). Così anche noi dobbiamo accendere il fuoco divino con lacrime e stenti".» [Sincletica, n. 1].
La lotta contraddistingue ogni percorso spirituale, soprattutto agli inizi: "sforzatevi di entrare per la porta stretta" (cfr. Lc 13,24 o Mt 7,13) è l'invito che Gesù stesso rivolge per percorrere la strada che porta alla salvezza. E se è vero, come affermato all'inizio di questa pagina, che il termine "fatica" è quello che meglio definisce il monaco, non è tuttavia un'esclusiva del monaco, ma di ogni persona che prende sul serio la propria vita e vuole arrivare a "bruciare" insieme con Dio.
6. LA SOTTIGLIEZZA DEI PENSIERI
«Il padre Poemen disse: "Molti dei nostri padri divennero valorosi nell'ascesi. Ma, quanto alla sottigliezza dei pensieri, che si raggiunge mediante la preghiera, soltanto uno o due.» [Poemen, n. 106].
L'ascesi non permette, per quanto estrema e dura, di giungere inevitabilmente a Dio. Lo sforzo dell'uomo, incamminato in questa via, rimarrà alla fine deluso. Questo non significa affatto che non abbia alcun significato o che sia dannosa, tutt'altro: l'ascesi permette di comprendere meglio il senso delle cose e della vita, attraverso la rinuncia e il distacco. E sicuramente la strada verso la salvezza passa anche attraverso queste cose: "chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà" (cfr. Lc 17,33), ossia chi vorrà disperatamente essere se stesso, non sarà mai il se stesso vero (cfr. Kierkegaard, La malattia mortale). Ma la vera sottigliezza dei pensieri, ossia essere un solo pensiero con Dio, si ottiene attraverso la preghiera, che è dialogo ininterrotto e costante con Lui, fatto di parole e di silenzi, di possesso e di rinuncia. E pochi, anche fra i padri del deserto, riescono ad ottenere simili pensieri, penetranti, acuti.
7. IL VERO MAESTRO
«Il padre Poemen disse: "Un uomo che insegna, e non fa ciò che insegna, assomiglia a una sorgente; abbevera e lava tutti, ma non può purificare se stessa".» [Poemen, n. 25].
Il vero maestro non è colui che insegna senza realizzare quanto crede e trasmette. Per primo deve mettere in pratica le sue teorie. Per primo, deve vivere quanto crede. Ma questa difficoltà, di tradurre personalmente quanto creduto e insegnato, è una situazione frequente per la maggior parte delle persone. "Sapere di avere bisogno è la pienezza dell'aver bisogno, non la soddisfazione" (G.Romano Bacchin, Su l'autentico nel filosofare), così come sapere alcune verità e sapere di poterle insegnare non è arrivare a possederle o viverle pienamente. Non c'è un giudizio di valore riguardo al fatto che un uomo che insegna non riesca a vivere ciò di cui è consapevole, quanto una sorta di connotazione negativa per se stesso: il maestro è comunque una sorgente che lava e dà da bere a molti, sebbene non riesca, se non mette in pratica quanto afferma, a purificare se stesso. In questo sta solo una grande tragicità personale, che è quella di essere di aiuto agli altri senza sapere aiutare se stessi, su cui i padri invitano a riflettere, onde superarla.
8. PARLARE E TACERE
«Un fratello chiese al padre Poemen: "È meglio parlare o tacere?" L'anziano disse: "Chi parla per amore di Dio fa bene, e chi tace per amore di Dio fa ugualmente bene".» [Poemen, n. 147].
Spesso ci domandiamo cosa sia meglio fare: parlare o tacere, agire o astenersi, chiedere o rimanere in silenzio, aiutare o meno. In realtà, non conta molto quello che uno fa, o meglio non conta l'opera in sé e per sé, quanto l'intenzione che la anima. Per questo, sia che si parli o che si taccia, sia che si agisca o che si rimanga inerti, quello che ci deve preoccupare è se ogni nostra azione provenga dall'amore per Dio. Solo l'amore sa come agire (nel silenzio come nella parola, nell'azione come nella quiete) e solo chi ama veramente può fare ciò che vuole (Agostino), senza preoccuparsi se sia una cosa giusta o sbagliata (Eckhart). L'uomo deve sempre essere padrone e non schiavo di ciò che realizza, e questo può compiersi soltanto se si affida all'amore di Dio, che fa buone tutte le sue opere.
9. VIVERE PRIMA DI PARLARE
«Un fratello venne dal padre Teodoro e cominciò a parlare e a trattare cose di cui non aveva ancora fatto esperienza. "Non hai ancora trovato la nave - gli dice l'anziano -, non hai ancora caricato il tuo bagaglio, e sei già arrivato in quella città prima di essere partito? Compi prima l'opera e poi giungerai a ciò di cui ora parli".» [Teodoro di Ferme, n. 9].
Si tratta di un male comune: quello di parlare prima di realizzare qualcosa o di parlare di qualcosa e di trattarne prima ancora di conoscerla e di averla vissuta. I Padri invitano a fare un'esperienza che coinvolga la persona intera, un'esperienza di vita che sia il più possibile "assoluta". Inoltre, invitano a misurare le parole sempre in ogni istante e non dire oltre il normale dire e l'essenzialità di quanto necessario. Non esagerare le proprie esperienze, non farsi maestri di vita (soprattutto spirituale) prima di aver fatto un'esperienza vera e profonda. E anche allora avere sempre una modestia nel presentarsi agli altri. I Padri non parlano né danno consigli, se non dopo essere stati interrogati. La realtà quotidiana è ben altra cosa: si vive in un mondo che cresce precocemente le nostre vite, che coltiva in modo frenetico le nostre ansie di giungere (presto) ad una meta per poi subito ripartire, senza limiti né soddisfazione. In verità non si giunge a nulla, perché non si vive più in profondità. Si vive in un'altra dimensione, quella dell'estensione, della larghezza e la direzione non è quella che si avvicina al fondo dell'anima, ma quella che se ne allontana. O meglio, la nostra anima non è affatto scrutata. Anche la psicologia moderna è una semplice cultura dell'esteriore, del comportamento che appare o di meccanismi, sempre esteriori, fatti di osmosi, di scambi cellulari, di sostanze che non danno ragione alle nostre istanze più vere e profonde.
10. LA TENEREZZA DI DIO
«Alcuni anziani si recarono dal padre Poemen e gli chiesero: "Se vediamo dei fratelli che sonnecchiano durante la liturgia, vuoi che li scuotiamo, perché rimangano desti durante la veglia?" Ma egli disse loro: "Veramente, se io vedo un fratello che sonnecchia, metto la sua testa sulle mie ginocchia e lo lascio riposare".» [Poemen, n. 92].
La cura straordinaria e la grande tenerezza dei Padri si rivela in questo detto di Poemen. Fa pensare che, al di là di ogni regola scritta o comunque osservata, tutto debba passare (= essere filtrato) da un semplice buon senso, che è oltre ogni regola e norma e che non si insegna. Il buon senso che è tenerezza, appunto, gentilezza nei modi e nei pensieri, accortezza, cura, attenzione all'altro come "essere altro", con una sua dignità che va oltre le leggi e le norme stabilite. Così dovrebbe essere intesa ogni teologia morale che si trova davanti non un fatto, ma una persona che ha fatto qualcosa. Una persona che ha necessità di quella tenerezza e di quella misericordia, che solo Dio sa veramente donare: che è un amore che supera la giustizia. In ogni istante, mi piace affidarmi a questa tenerezza che è di Dio, più spesso che degli uomini, alla sua misericordia che accoglie la mia anima sulle sue ginocchia e la lascia riposare.
AMDG et BVM
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