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venerdì 25 settembre 2015

FARSI SANTI — IL BENE FARLO BENE



19 Aprile 1925

Per ubbidire al medico e per conservarmi un po' in forza per andare a Ro­ma, non ho più mai osato uscire, né andarvi a trovare... Andrò a Roma la prossima settimana... Avremo il Beato Cafasso: fu sempre umile ed il Signore ora vuole innalzarlo.

Voi preparatevi alle grandi feste: a Roma non è necessa­ria la presenza materiale, io vi rappresenterò; preparatevi con una Novena: fa tante grazie a chi l'invoca, specialmente spirituali... È un modello di religiosi, benché non religioso e nel secolo, poiché aveva lo spirito d'un religioso, e, dice Mons. Bertagna, che si vedeva dal modo di fare che doveva aver fatto il voto del più perfetto. Insisteva col dire il bene va fatto bene...

Noi per un po' di tempo facciamo bene, poi lo facciamo mollemente, e senza fare male non lo facciamo proprio bene. Quante volte al Ritiro Mensile, alla Confessione setti­manale vediamo che non facciamo tutto bene... Chi ama davvero il Signore, lascia da parte tante altre cose che impediscono la perfezione.

Il Signore, e lo leggiamo in questi dì, dopo la sua Risurrezione andava di­cendo, quando compariva «Pax vobis»! Deve essere davvero un qualcosa di grande questa «pace» che Gesù andava augurando ai suoi discepoli. Essa pro­viene dal perfetto adempimento del proprio dovere. Se mettiamo una mano sulla coscienza dobbiamo dire: non sono ciò che dovrei essere! Non basta non fare peccati, poiché: «qui spernit modica paulatim decidet». Se non siamo ge­nerosi col Signore, Egli non sarà con noi.

Quanti buoni desideri avevate en­trando in Comunità, nella Religione... poi... Se corrispondessero tutti, ci fos­se un cuor solo, si cercasse da tutti di dare buon esempio...; ma quando si vede che uno è solo così così, non sempre fervoroso, il Signore deve dire: «incipiam evomere ex ore meo». Non facciamo mica una carità al Signore ad essere buo­ni, massime se pensiamo all'avvenire, alle Missioni ed alla necessità di essere Santi!... «non est pax impiis!» (avranno sempre il rimorso). Invece: «pax mul­ta diligentibus legem tuam».

Può dirsi diligente chi la disciplina la osserva più o meno bene? Costui «non diligit» perciò «non est illi pax multa». Questa espressione mi fu sempre cara! Ma ricordate che «abbondante, multa» viene solo dall'amore. Quindi l'osservanza va fatta per amore. So che siete tutti di buona volontà, chi più, chi meno, vi vorrei tutti di molta buona volontà per avere molta pace. Attenzione alle piccole cose! Vi ripeto sempre le stesse rac­comandazioni, ma è necessario... Se non facciamo così: «non est pax multa»: non c'è scusa che valga... Gesù risorse per non mai più morire, ma vedete che strada ha percorso (il Calvario) prima di arrivarvi. Nel tempo Pasquale medi­tate i caratteri della Risurrezione del Signore; a) «jam non moritur», fosse così di tante nostre miserie! b) mors illi non dominabitur», c) il corpo di Gesù pos­siede le qualità d'un risorto: mettiamole in noi...
«Il bene va fatto bene» diceva il Cafasso. Andava dicendo a D. Bosco: andiamo d'accordo in tutto, eccetto in una cosa: il bene va fatto bene. Ed io mi ricordo che, stando per entrare in collegio, il mio santo Zio diceva a mia madre: «studi pure, ma non da D. Bosco». Là c'era un po' di tutto e non c'era troppa disciplina. Adesso è più sistemata la cosa: allora in principio si faceva come si poteva.

Vi ripeterò sempre questo: anche per riconoscenza ai vostri Superiori, che fanno tanto per voi (non sto a dirvi quanto sudano per mantenervi) dovete corrispondere di più. Il Signore ci manda il pane quotidiano, la Casa fa i sacrifizi necessari, perché non siate dei «patiti», il necessario c'è e speriamo che non mancherà, voi dovete corrispondere. «Ad quid terram occupat?». Fa pe­na quando si vede che qualcuno non corrisponde: guai se non si corrisponde ad una vocazione, che viene da Dio». Ciò è quel che già diceva S. Vincenzo de' Paoli: «Costui sarà un infelice sia che rimanga nella Religione, come ne esca».

Non troverà un'altra strada, sparsa di tante grazie quanto quella che il Signore m'ha tracciato. L'esperienza insegna ciò che riuscirono gli usciti dagli Istituti Religiosi, peggio se mandati via... Sul serio adunque: chi avesse scartato un pochino si metta sulla buona strada e ripeta il «nunc coepi», costi ciò che vuo­le.

Nella vita del nostro Beato non si trova alcun neo da obbiettare: è un uo­mo perfetto. Se volete onorare il B. Cafasso lo dovete onorare così: è un Sa­cerdote, che può essere benissimo un modello dei Religiosi. Fate a Lui una Novena, cercando di essere perfetti in tutto: nessun borbottamento; anche quando Monsignore è un po' esigente (io son troppo buono: un po' di timore fa anche del bene...); il Signore ha da continuare a benedirci...

Coraggio. Co­me S. Giovanni ripeteva sempre: Amatevi: io vi ripeto sempre: Osservate la di­sciplina intieramente: nell'assistente riconoscete la voce di Dio, sia o non sia un santo, anzi si acquistano molti più meriti, quando non lo fosse. Ubbiditelo come ubbidireste un vecchio venerando. Se qualcuno venisse a dirmi che mi ascolta solo perché sono vecchio, gli direi: che anche quand'era giovine, era ubbidito...

Viviamo una volta sola e bisogna vivere bene. Per andare in Africa biso­gna essere santi, altrimenti: «quid proficit» tanto tempo di preparazione? Se non siete santi adesso non lo sarete mai neppure allora... Non vogliamo le gra­zie del Signore adesso, non ce le darà neppure allora... e dire, che se occorre, farà anche dei miracoli. Credetemi non è mica solo un sogno quello che rac­conta P. Ferrero (Vedi «la Consolata» 1925).
Tutti santi... Adesso che siete in Comunità avete tanti mezzi ed ajuti... Laggiù sarete in libertà e verrete poi a lasciare anche il Breviario, portando la scusa del lavoro. I Santi non facevano così: Abbiamo bisogno di pregare e pregare molto, anche ed appunto perché siamo Missionari.
Fra non molto avrò da comparire al tribunale di Dio e rendere conto; ma potrò dire che ho fatto il mio dovere. Vorrei poter continuare a fare ciò che fa­ceva una volta: venirvi a trovare ogni settimana; ma è volontà di Dio anche quella... spero che qualcuno si ricorderà ancora di qualcosa. Adesso c'è chi fa al mio posto. Allegri, di buon umore, ed io vi ricorderò a Roma e vi porterò il Decreto di Beatificazione. Il Papa mi aspetta...


AMDG et BVM

giovedì 27 agosto 2015

Vi è obbligo di seguire la vocazione?


3. IL DOVERE DI SEGUIRE LA VOCAZIONE

Vi è obbligo di seguire la vocazione?
S. Alfonso, Dottore moralista benigno, risponde che il non seguire la propria Vocazione per sé non è peccato (eccetto che uno sia convinto, stando nel mondo, di perdersi), perché Nostro Signore non ne ha fatto un precetto. Tuttavia in pratica di rado uno va esente da peccato, a motivo dei pericoli cui espone la propria salvezza, scegliendo uno stato non conforme alla volontà di Dio. E cita in proposito quanto asserisce il D. Habert: "Quantunque, assolutamente parlando, costui possa salvarsi, non potrà tuttavia provvedere alla salvezza della sua anima se non con grande difficoltà" (18).
Il Signore, essendosi proposto da tutta l'eternità di crearci, stabilì, assieme a tutte le circostanze di tempo e di luogo, anche la strada che dobbiamo battere: in essa seminando le grazie che ci avrebbero aiutati a ben vivere, a santificarci, a giungere felicemente al Paradiso. Fortunato chi non devia dalla linea tracciatagli da Dio! Infelice chi scarta! Questi cammina per la via delle sole grazie sufficienti, che in pratica non bastano. Onde il detto: A gratia sufficienti, libera nos Domine! S'avvera anche qui ciò che dicemmo della vocazione naturale: chi sbaglia è uno spostato.
S. Paolo insegna che ciascuno ha il suo dono da Dio (19). La vocazione è per noi questo dono, di cui solo nell'eternità comprenderemo la preziosità. E il rifiutarlo non è nulla? Il Signore c'invita a uno stato di perfezione, ci offre un posto distinto nella Chiesa e nel Cielo, ci dà un segno di divina predilezione, e noi rifiutiamo tutto questo! Vi par nulla?... Si dirà che si tratta solo di consiglio. Sia, ma è così che si stimano i consigli di Dio? Se S. Francesco Zaverio avesse opposto un rifiuto alla divina chiamata, che ne sarebbe ora di lui ? Alla santità non sarebbe giunto certamente.
Quanti "spostati" spiritualmente nel mondo, per aver rifiutato il dono di Dio! Ricordatevi sempre che la prima offerta per l'Istituto, di cento lire, la ricevetti da un sacerdote di cui non seppi mai il nome, che diceva d'inviarla per far tacere il rimorso di non aver seguito da giovane la chiamata all'apostolato fra gli infedeli. Ah, no, non crediamo di essere noi a fare un atto di degnazione verso Dio, se rispondiamo alla Sua chiamata! E' Lui invece che fa a noi un grande dono di elezione e di predilezione.
Da chi consigliarsi
Come prepararsi alla vocazione? Anzitutto con la preghiera e con maggior raccoglimento. Poi con la segretezza: non propalare ai quattro venti la propria vocazione, il che è segno di leggerezza e cioè di non vocazione. Quindi ancora, nel caso che uno si trovi sempre dubbioso, col prendere consiglio. Ma il consiglio non va chiesto a tutte le persone che si conoscono, bensì al padre spirituale o confessore. E non ad un confessore qualsiasi, ma ad uno che abbia le doti di consigliere: dotto, pio, prudente, pratico in materia, ripieno dello spirito di Dio.
Non tutti purtroppo hanno il dono del consiglio o il vero spirito di Dio. S'incontrano di quelli che sembrano interessati ad allontanare dalla vocazione religiosa - e più ancora quella missionaria - chiunque si presenti loro per consiglio, e anche se non si presenta. Ho conosciuto un parroco che si opponeva a tutte le vocazioni religiose, adducendo il motivo "che le figliuole devono santificarsi in casa". Parecchie di queste povere giovani vennero a piangere da me. Non so come costui potesse far ciò in coscienza, mentre S. Tommaso dice chiaro "essere colpa grave impedire o dissuadere una vocazione certa" (20). E S. Alfonso scrive: "Fa meraviglia che anche da Sacerdoti, e persino da Religiosi, ai giovani chiamati allo stato religioso si dica che in qualsiasi luogo, anche nel mondo, si può servire Dio" (21). Costoro: o si son fatti religiosi senza vocazione, o non sanno neppure che cosa sia la vocazione. Certo in ogni luogo si può servir Dio; ma altro è servirlo nel luogo e nel modo ch'Egli desidera da noi, altro il servirlo a nostro capriccio.
Per contro, vi son di quelli che spalancano le porte dei monasteri a chiunque ne manifesti appena l'idea, e ancora ve li spingono, senza prima accertarsi della serietà della vocazione. Altri finalmente dirigono tutte le vocazioni a un solo monastero, come se nel mondo non vi fosse che quello e tutte dovessero passare di lì per salvarsi e santificarsi. Ne avviene che tante ne entrano, altrettante ne escono, con danno loro e scorno di chi le ha consigliate. Dunque: pochi consigli e da persone illuminate. S. Francesco di Sales dichiara espressamente "non essere necessario un esame di dieci Dottori per accertarsi della vocazione: se la si debba o no seguire" (22).
La vocazione e i parenti
Vi è obbligo di chiedere consiglio ai parenti, attendere il loro consenso, obbedirli se vi si oppongono?
Fu Lutero ad affermare che i figli peccano se entrano in Religione senza il consiglio dei genitori. E' uno dei tanti errori di questo infelice eresiarca. No, non è così; vari Concili affermano il contrario. I santi Padri e Dottori della Chiesa sono del pari unanimi nell'insegnare che i figli non son tenuti ad obbedire ai parenti in materia di vocazione. S.Tommaso, ad esempio, dice: "Riguardo al conservarsi vergine e a tutto ciò che concerne questo stato, né i servi son tenuti ad obbedire ai padroni, né i figli ai parenti" (23). Non mancano, è vero, genitori che solo vogliono accertarsi della vocazione, pronti poi a dare il consenso, ma son rari. Per lo più essi la fanno da oppositori, avverandosi ciò che Gesù predisse: E nemici dell'uomo saran quelli della sua casa(24).
Si dovrà almeno chiedere loro consiglio? No, risponde ancora S. Alfonso, perché il giudizio dei parenti per lo più è carnale, interessato. Non hanno la grazia ad hoc. E' solo per accidens che possono talora dar consigli al riguardo (25). Non bisogna quindi lasciarsi influenzare e guidare da essi in ciò che concerne la vocazione. Ha ragione S. Bernardo quando dice che sovente i parenti, in fatto di vocazione, si comportano come se preferissero vedere i figli perire con essi, piuttosto che vederli salvi senza di essi (26). Proprio così. Se si tratta di matrimonio; son tutti d'accordo, tutti solleciti, e il denaro per le spese necessarie e superflue lo trovano sempre; ma per il figlio o la figlia che entra in Religione, non lo si trova mai e s'inventano mille pretesti per rifiutarlo. Vi furono già parenti senza cuore che lasciarono partire il figlio sprovvisto persino del corredo necessario.
Si dovrà differire l'entrata in Religione fino a consenso ottenuto? S. Alfonso risponde negativamente (27). Tuttavia, dati i tempi attuali, se v'è speranza di ottenere il consenso, sarà bene chiederlo, anche per evitare noie alla comunità e perché i genitori diano la dote necessaria. Così noi, se chiediamo il consenso dei genitori per gli studenti, è solo per non aver fastidi. Bisogna però essere ben fermi nella vocazione e non cedere di fronte alle loro prove di severità o di tenerezza, di lacrime ecc.; né far dipendere la propria vocazione dal loro consenso. Non sta ad essi il fare o disfare le vocazioni.
Vi fu già un tempo in cui i parenti credevano di poter fissare essi stessi la vocazione dei figli: quale prete e quale no. Destinavano l'uno alla milizia (ed erano per lui tutti i beni), l'altro ad abate del tal convento. E ne risultavano abati senza vocazione. Anche al presente non mancano genitori che credono di poter disporre dei figli a piacimento. Se uno è d'ingegno è per il mondo; se invece è mezzo scemo: - Fatti frate, figlio mio! - Eh, no! Non tocca ad essi. E' Nostro Signore che elegge, ed elegge chi vuole. Egli è libero di fare ciò che vuole.
In quest'affare della vocazione, Nostro Signore ha dato a tutti, ma specialmente a noi Religiosi e Missionari, una importantissima lezione quando, in età di dodici anni, si fermò nel Tempio all'insaputa di Maria e di Giuseppe, pur conoscendo quanto dolore avrebbe ad essi procurato. Esempio di distacco e di santa durezza verso i parenti: e non solo quando sono di ostacolo alla vocazione, ma anche quando, come nel caso di Maria e di Giuseppe, non si oppongono.
Il mondo non comprende queste cose e si appella al quarto comandamento, ma dimentica il primo. E Gesù ce lo ricorda con quelle parole: Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me (28). Prima Lui poi i parenti. Ad essi possiamo sempre rispondere: Non sapete com'io debbo occuparmi delle cose spettanti al Padre che è nei cieli? (29). Così fecero tanti martiri della fede; così tutti coloro che, chiamati all'apostolato, resistettero alle lusinghe dei parenti. Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (3O). L'ordine esige tale preferenza.
Tutti i Santi si conformarono sempre a questi divini insegnamenti, a costo di qualsiasi martirio. S. Giovanna Francesca di Chantal, per seguire la chiamata di Dio, non dubitò di passare sul corpo del proprio figlio. Santa crudeltà che pochi praticano e solo i veri amanti di Gesù comprendono. Ben la comprese S. Paolo il quale, appena conosciuta la volontà di Dio a suo riguardo, non prese consiglio dalla carne e dal sangue (31), ma si diede subito e totalmente all'apostolato.

venerdì 7 agosto 2015

SIATE SANTI

12. GLI OSTACOLI ALLA SANTITA'

Mancanza di buon spirito
La mancanza di buon spirito ossia di spirito religioso, in contrasto con l'obbligo che abbiamo di tendere alla perfezione, può dipendere da varie cause. Accennerò ad alcune che più spesso si riscontrano nelle comunità religiose.
1. FINE NON RETTO - Di questo abbiamo diffusamente parlato. Il Signore non può benedire chi entra nell'Istituto con fine non buono. Impossibile quindi che costui avanzi nella santità, allo stesso modo che non può germogliare il seme gettato in terreno non adatto.
Ciò vale anche quando il fine non è per sé cattivo, ma non è quello dell'Istituto: ad esempio, se uno di voi pensasse di farsi religioso di altra Congregazione, non avrebbe dovuto entrare nell'Istituto; ora poi non dovrebbe restarvi, per non contrarre un grave obbligo verso l'Istituto stesso e per non privarsi dei mezzi di santificazione. Qui il Signore ha posto le grazie per la sola santificazione di quelli chiamati ad essere Missionari della Consolata, non per gli altri.
2. SPIRITO MONDANO: non lasciato fuori dell'Istituto, ma portato dentro; non rigettato ma coltivato. Può infatti avvenire che, dopo aver rinunziato al mondo, se ne conservi lo spirito. Invece di obliare il mondo si vive in esso con la mente; invece di abbominarlo lo si segue nelle sue massime e vanità. Non così ci ha insegnato Nostro Signore, il quale esige una separazione netta: Voi non siete del mondo, ma Io vi ho scelto dal mondo (174); la stessa separazione ch'Egli pose fra Sé e il mondo: Io non sono di questo mondo (175).
Gesù vuole dunque il distacco assoluto: o siamo con Lui, tutti suoi fino in un pensiero, fino nella più recondita fibra del cuore, o siamo contro di Lui. Non possiamo servire a due padroni: a Gesù e al mondo. Tanto meno possiamo desiderare efficacemente la santità, fino a che conserviamo alcun desiderio del mondo.
Esaminatevi. Vi sono taluni che si perdono dietro le notizie e le novità del mondo. Ciò avviene specialmente in parlatorio, dove costoro s'interessano un po' di tutto e di tutti, dove parlano più mondanamente che religiosamente, lasciando cattiva impressione persino nei parenti, che poi se ne lamentano. E intanto si esce di lì con la testa piena di mondo e la si porta così piena, allo studio e in cappella, persino alla santa Comunione. Come è possibile che uno possa pregar bene, vivere una vita d'intimità con Gesù? e come potrà santificarsi?
Questo spirito si manifesta inoltre nella smania di scrivere lettere o di uscire di casa senza necessità, o di leggere avidamente tutti i pezzi di giornali che capitano fra mano. Tutto spirito mondano, miei cari dal quale la perfezione religiosa dista come la luce dalle tenebre, come il fuoco dal freddo. Che bisogno c'è di queste cose? Vi sono per questo i Superiori, e anch'essi non vi si perdono dietro; due minuti e basta; come faceva S. G. Cafasso, il quale, quando gli si portava il giornale, domandava: "C'è qualche cosa per me?" - "No". E allora non lo leggeva neppure. State tranquilli che non ammalerete per questo.
Domandiamoci: quid hoc ad aeternitatem? Ah, che proprio non serve a nulla; se mai servirà ad allungarci il purgatorio. E alla mia santificazione che giova tutto questo? Nulla, piuttosto mi disturba, mi distrae, mi dissipa, mi allontana da essa. Son qui per farmi santo, santo missionario; voglio attendere unicamente a questo, non voglio curarmi d'altro. Quid ad te? Tu me sequere (176). Che importa a te del mondo, di ciò che avviene nel mondo, di ciò che si dice nel mondo. Seguire Gesù: ecco il nostro dovere. Seguirlo da vicino, con amore e fedeltà: ecco ciò che veramente porta alla santificazione ed ecco perciò la nostra unica occupazione.
3. SPIRITO DI DISSIPAZIONE - E' la conseguenza dello spirito mondano. Presenti nell'Istituto col corpo, si è fuori con la mente. Invece di tener la mente a bada e di chiuderla ad ogni rumore esterno, la si tramuta in una pubblica piazza, dove si danno convegno tutti i pensieri, i ricordi, le immaginazioni, le fantasie. Si passano così intere giornate con la mente a divago, col cuore vuoto di Dio, con lo spirito freddo per tutto ciò che è pietà, con la volontà fiacca in tutto ciò che e servizio di Dio e adempimento del proprio dovere. Impossibile, in tale stato di dissipazione, amare e coltivare lo spirito di preghiera, mantenersi nel fervore. Come possono costoro ascoltare ancora i movimenti e le ispirazioni della grazia?
Questo spirito di dissipazione, inoltre, è quasi sempre accompagnato dallo spirito di leggerezza, che fa sorvolare su quanto qui dentro è ordinato alla santificazione; e dallo spirito buffonesco, che mette tutto in ridicolo, persino le prediche. Purtroppo questo difetto non è tanto raro! Si lascia quanto di buono si è udito, non si pensa che ad ogni modo è sempre parola di Dio, della quale si dovrà rendere conto, e si va a cercare la pagliuzza, per gettare il ridicolo su tutto. Quanto male fa questo spirito buffonesco!
Esso è favorito dal fatto che, nelle comunità, regna purtroppo quel maledetto rispetto umano, per cui nelle conversazioni non si ha il coraggio di introdurre una buona parola, far entrare un discorso spirituale o almeno utile, per tema d'apparire singolare o che gli altri pensino che la si vuol fare da maestro.
4. SPIRITO DI CRITICA - Su questo punto è bene che diciamo le cose proprio come sono, come io le sento. Vedete, non voglio farvi un rimprovero, no, ma è per prevenire, affinché non entri qui dentro questo pessimo spirito. Taluni pensano sempre al contrario dei superiori. Appena i superiori prendono una disposizione, danno un ordine, essi subito trovano a ridire. Ora questo brutto vizio di giudicare gli altri e soprattutto i Superiori, di borbottare su ciò che noi facciamo, non lo voglio, non voglio che entri nell'Istituto.
E' proprio da compiangere che nelle comunità vi sia sempre chi ha questo spirito. "Io farei così... se fossi io non farei così... io... io...". Tutta superbia, superbia grossa. Ne avviene che in Missione si trova poi a ridire su tutti i Superiori, su tutti gli ordini, a borbottare su tutto. Ecco perché non si fanno miracoli!
State attenti. Guai a coloro che pronunziano o anche solo ascoltano con compiacenza parole di critica! No, no, per carità! Ricordatevi del castigo gravissimo con cui Dio punì la sorella di Mosè per le sue mormorazioni. Guai alle comunità nelle quali entra questo spirito! È il principio della fine, lo dico sempre.
Non si vuol dire che dobbiate affatto disinteressarvi della Casa. No, il bene e il male dell'Istituto riguarda tutti indistintamente; quindi chi scorge qualche disordine, fa bene a riferirne al Superiore. Non è far la spia questo, ma è una carità, un dovere. Ma borbottare, mormorare di nascosto, trovare a ridire coi compagni, no, no!
Io faccio le cose più grosse di quel che sono, perché son sicuro che qui dentro questo spirito non c'è, o almeno non è così radicato. Ma, ripeto, è per prevenire. Dunque, cacciamo via lo spirito di critica, così dannoso a chi l'ha e a tutta la comunità. Su qualunque disposizione prendano i Superiori, nessuno s'arroghi il diritto di giudicare. Non tocca a voi. Preghiamo invece, sì, e tanto, perché Gesù ci faccia umili di cuore e di spirito; preghiamo la SS. Consolata che tenga lontano dal nostro Istituto questa peste - che è lo spirito di critica - e allora tutto andrà bene e il Signore benedirà, e le cose dell'Istituto prospereranno.
5. SPIRITO DI PARTITO - Questo spirito è per lo più effetto di antipatie per diversità di caratteri o di simpatie. Si va con questo e non con quello, si parla all'uno e non all'altro. Tutti siamo uguali, disposto ognuno a passeggiare con tutti: vincendo, per amore ed esercizio di perfezione, la ripugnanza che si sentisse nel frequentare qualche compagno, a motivo del suo carattere o dei suoi difetti.
Non vi sia nessuna distinzione o di paese o d'altro, non simpatie o antipatie, ma un cuor solo in una perfetta uguaglianza. Siete tutti fratelli che dovrete vivere insieme tutta la vita. Quindi, anche per carità fraterna, non pretendere che gli altri non abbiano difetti. Emendiamo i nostri e sopportiamo quelli del prossimo.
Non di rado questo spirito nasce da una certa invidia, da un po' di gelosia. Non già che sia una mancanza il "sentire" invidia, ma dobbiamo reagire per non lasciarla entrare e che si cambi in mal animo verso qualche compagno.
6. SPIRITO DI CAPARBIETA' - Tratteremo a suo tempo della superbia e della virtù opposta. Qui accenno a quello spirito di ostinazione nelle proprie idee, per cui uno vuol sempre averla vinta, sempre dominare e non ammette che possa sbagliare; quindi mai il torto da parte sua, e guai a contraddirlo! Chi non combatte questo spirito non farà mai dei progressi nella via della perfezione. Che se poi si credesse già perfetto sarebbe un grande illuso ed un infelice.
Ancora una parola: come regolarci con gl'individui che sono manifestamente privi di buon spirito? Ecco: frequentarli il meno possibile. Voi lo capite: non è questione di avversione o di antipatie o d'altro. Si tratta con essi con carità, si prestano loro quei servigi che richiedono, si prega per essi, si procura anche di far loro del bene con il buon esempio, ma poi evitare il più possibile la loro compagnia, di modo che lo stesso isolamento in cui vengono a trovarsi, serva a scuoterli, a farli ravvedere. Ove tutti si comportassero così, dovrà infatti avvenire che costoro, volendo godere la compagnia di qualcuno, dovranno per forza cambiare il loro modo di pensare e di agire, per adattarsi a quello degli altri. E intanto resta evitato il pericolo di contrarre, da un troppo frequente contatto quel contagioso morbo della mancanza di buon spirito.
La tiepidezza
E' questo uno degli argomenti che amo sia trattato sempre negli esercizi spirituali al Clero e più ancora in quelli che si dettano a voi. Perché, vedete, se non la tiepidezza abituale, almeno per qualche giorno o settimana possiamo averla, e allora certe considerazioni servono a scuoterci.
Il Martini, nel commento al capo terzo dell'Apocalisse, chiama tiepido colui che ondeggia tra la virtù e il vizio; colui che vorrebbe fuggire i peccati, essere fedele a tutto, e intanto non si risolve mai a combattere coraggiosamente, perché teme la fatica della virtù. Vorrebbe essere santo, ma portato. E' come il pigro che vuole e non vuole. Non è questa una definizione della tiepidezza, ma una semplice spiegazione. Del resto la tiepidezza, come anche il fervore, non si possono definire; si comprendono meglio dai sintomi rivelatori di tali stati d'animo. Accenneremo ai principali di questi sintomi.
a) Cadere abitualmente e deliberatamente in peccati veniali e non farne caso; mentre il fervoroso evita con somma cura le stesse imperfezioni.
b) Omettere facilmente le preghiere d'obbligo, trovando sempre una scusa e aggrappandosi alle sentenze più larghe di morale. I fervorosi, al contrario, vi si mantengono scrupolosamente fedeli e, dovendo omettere qualche pratica di pietà, ne sentono pena e procurano di supplirvi in tutto o in parte.
c) Strapazzare le stesse pratiche di pietà, facendole per mestiere, per necessità, senza vivificarle con l'attenzione della mente, con l'affetto del cuore. Non parlo di aridità o di distrazioni involontarie, parlo di volontà. Invece il fervoroso gode di andare in chiesa, non si annoia a restarvi a lungo, prega con divozione, fa della preghiera - e soprattutto della santa Comunione - il cibo sostanziale dell'anima sua.
d) Perdere la stima e l'amore al proprio stato, quasi si fosse pentiti del passo fatto; quindi si cercano svaghi, distrazioni nel mondo e nelle conversazioni mondane, o negli interessi mondani. I fervorosi, all'opposto, procedono con crescente amore alla propria vocazione, ringraziandone ogni giorno il Signore e riconoscendosi indegni di tanta grazia.
Lo stato del tiepido è sommamente pericoloso. Si può più facilmente vedere uomini freddi e carnali giungere al fervore dello spirito, che non dei tiepidi riprendere il perduto fervore; specialmente quando la tiepidezza è già avanzata. Il P. Faber paragona la tiepidezza dell'anima all'etisia del corpo e voi sapete quanto sia difficile guarire di tale malattia (177). I danni della tiepidezza si possono inoltre rilevare dalle parole che nell'Apocalisse sono rivolte all'angelo della Chiesa di Laodicea: Mi sono note le tue opere, come non sei né freddo né caldo. Oh, fossi tu freddo o caldo! Ma perché sei tiepido, e né freddo né caldo, comincierò a vomitarti dalla mia bocca (178).
Quali i rimedi per un sì deplorevole stato? Li troviamo indicati nell'Apocalisse al luogo citato:
a) Rientrare sinceramente in noi e chiedere al Signore la grazia di ben conoscere noi stessi: Perocché vai dicendo: sono ricco e dovizioso e nulla mi manca. E non sai che sei un meschino e miserabile povero e cieco e nudo (179).
b) Risvegliare in noi un ardente amore di Dio soprattutto con la preghiera ben fatta e la meditazione quotidiana, che è il fuoco in cui l'anima si riscalda:Ti consiglio a comperare da me dell'oro passato e provato nel fuoco, onde tu arricchisca (180).
c) Fare guerra continua, implacabile ai peccati veniali, confessandosi sovente e bene, e far uso dei sacramentali: Onde tu sia vestito delle vesti bianche e affinché non comparisca la vergogna della tua nudità (181).
d) Far bene gli esami di coscienza, per scoprire le radici dei difetti ed estirparle: E ungi con un collirio i tuoi occhi, acciò tu vegga (182).
e) Soprattutto volere seriamente, volere fortemente, volere costantemente, a costo di qualsiasi sforzo e sacrificio: Io, quelli che amo, li riprendo e castigo. Abbi dunque zelo e fa penitenza. Ecco che Io sto alla porta e picchio (183).
f) Possiamo aggiungere la divozione al Cuore di Gesù con giaculatorie lungo il giorno e tutto indirizzando a Sua consolazione, poiché Egli promise a Santa M. Margherita Alacoque, per i suoi divoti: I tiepidi diverranno fervorosi.
La rilassatezza
Molto affine allo stato di tiepidezza nella vita spirituale, è lo stato di rilassatezza nella via della perfezione. Questa porta a quella. La nostra fragile natura c'inclina a decadere dal primo fervore e da quella buona volontà che già avevamo. E' così facile scendere in basso, lasciarci rimorchiare verso il male! Esaminiamo i sintomi e le cause di questo rilassarsi nella vita dello spirito.
a) La poca stima di certi punti delle costituzioni, del regolamento, della vita comune; quindi negligenza nell'osservarli e facilità nell'ometterli.
b) Le scuse addotte contro le infrazioni della Regola e quando si è corretti.
c) Soffrire o anche burlarsi del fervore dei compagni, perché rimprovero alle nostre freddezze.
d) Lasciar passare tante ispirazioni e grazie di Dio inutilmente, mentre un po' di buona volontà ci farebbe attenti a non perderne neppur una.
e) Dissiparsi, lasciare volontariamente che il pensiero corra dietro alle cose del mondo. Dovremmo fare con questi pensieri come si fa coi cani, che non si lasciano entrare in chiesa perché disturbano.
f) Operare senza riflessione o per un fine puramente umano, invece di far tutto per un fine soprannaturale.
g) Mancanza di energia nel vincere la passione dominante, nel tendere alla perfezione. Talora sembra a noi che vogliamo vincerci, ma ci manca la volontà di ferro. Il Signore dà la grazia, ma bisogna che cooperiamo.
h) Far comunella coi meno perfetti, per poter vivere e parlare più liberamente.
I rimedi contro la rilassatezza sono gli stessi già indicati per la tiepidezza: scuoterci e riprendere il primiero fervore, costi quel che costi.
Il peccato veniale
Poiché la tiepidezza è in pratica la risultante di peccati veniali deliberati e scusati, ad evitare quella, dobbiamo concepire un vero e profondo aborrimento del peccato veniale.
Dei peccati veniali, gli uni si dicono di fragilità: un atto primo-primo, un momento di sorpresa, uno scatto d'impazienza, ecc. Sono miserie nostre, sono infermità. Non sarebbero neppur peccati, se non ci fosse niente di volontà. Di questi non possiamo liberarci perfettamente senza uno speciale aiuto di Dio. Possiamo però diminuirne il numero e la volontarietà, con più attenzione su noi medesimi e con maggior fervore nel servizio di Dio. Queste miserie non c'impediscono di farci santi, possono anzi essere mezzi di avanzare nella via della perfezione, se noi sappiamo valercene per gettare più profonde le radici dell'umiltà, per stringerci vieppiù a Dio mediante l'amore e la confidenza.
Gli altri, i veri peccati veniali, sono volontari. Ad esempio: so che è male conservare quel po' di rancore contro un compagno e tuttavia non faccio nessuno sforzo per vincermi; so che, affermando o negando la tal cosa, mentisco e lo faccio ugualmente, ecc. Ove poi questi peccati veniali pienamente deliberati siano anche abituali, fatti cioè con una certa frequenza, peggio poi se scusati, costituiscono, come abbiam detto, il peggiore stato di tiepidezza, il segno certo che il Religioso ha rinunziato ad ogni efficace proposito di perfezione.
La malizia del peccato veniale deve misurarsi in rapporto a Dio che viene offeso; quindi il peccato veniale non differisce dal mortale se non per la minor gravità dell'offesa. Ne consegue che, dopo il peccato mortale, quello veniale è il maggior male che esista. Si suol fare al riguardo delle supposizioni, che fanno assai bene comprendere la gravità di questo male.
1. - Tutti i mali del mondo: malattie, devastazioni, guerre, ecc., anche presi assieme, non bastano ad uguagliare il male che è un peccato veniale. La cosa è evidente: essendo tutti quei mali d'ordine puramente naturale, mentre il peccato veniale è d'ordine soprannaturale, perché offende Dio.
2. - Supponiamo, per impossibile, che con un peccato veniale si potessero liberare tutte le anime del Purgatorio e tutte quelle cadute nell'inferno dal principio del mondo sino al momento attuale: ebbene, non lo si potrebbe fare. L'offesa che fa a Dio il peccato veniale non può essere riparata da tutto quel bene che abbiam supposto.
3. - Supponiamo, per impossibile, che gli Angeli e i Santi commettessero un solo peccato veniale. Ebbene, Dio sarebbe obbligato ad espellerli dal Paradiso fino a che non se ne fossero liberati e ne avessero scontata la pena.
4. - Iddio, per il peccato veniale, anche solo per la pena che gli è dovuta (come per la pena temporale dovuta al peccato mortale già perdonato) creò il Purgatorio, la cui esistenza è di fede.
5. - Basta aver commesso un solo peccato veniale per poter ricevere il Sacramento della Penitenza tutti i giorni, né sarebbe sufficiente tutta la vita per piangere l'offesa fatta con esso a Dio.
Tutte queste cose le sappiamo e anche le ripetiamo agli altri, ma ce ne dimostriamo praticamente convinti? Convinti n'erano i Santi, che avrebbero preferito mille volte la morte e le stesse pene eterne dell'inferno, piuttosto che commettere un solo peccato veniale deliberato.
A parte ogni altra considerazione, non dimentichiamo che i peccati veniali dispongono al mortale. Non si vuol dire che molti peccati veniali, presi insieme, equivalgano al mortale, no; ma colui che non fa caso dei peccati veniali, commettendoli a occhi aperti e con frequenza, finirà per cadere nel mortale. E ciò per tre ragioni: a) Perché a poco a poco si perde l'orrore del peccato mortale: come chi non cura una malattia per sé leggera si espone, per il lento aggravarsi di essa, alla morte. - b) Perché d'ordinario Iddio non dà più le grazie abbondanti e speciali che concede ai fervorosi. - c) Perché il demonio potrà più facilmente tentarci e farci cadere, essendo noi men preparati alla tentazione, più deboli nella resistenza.
D'altronde, chi ti dice che quello che tu credi solo peccato veniale, sia proprio tale? Chi conosce il limite tra il veniale e il mortale? E come puoi tu essere sicuro di mai oltrepassarlo? Le angustie di certe anime anche non scrupolose, pel timore di aver commesso un peccato mortale, prova questa verità; né i Moralisti sciolgono altrimenti il caso che con la presunzione del nostro stato abituale di coscienza. Non è dunque miglior consiglio scuoterci, stare attenti alle nostre passioni, alle nostre parole e azioni, castigare in noi le piccole voglie difettose, darsi con coraggio alla virtù? Sì, voglio salvarmi e voglio santificarmi: questo debbo dire di continuo a me stesso. Lo voglio perché lo posso, essendo che qui dentro i mezzi a ciò sono sovrabbondanti; lo voglio perché lo debbo, essendo che proprio per questo ho abbracciato lo stato religioso e missionario.
I demoni
Tutti questi ostacoli alla nostra perfezione per lo più son mossi e coordinati dal nemico dell'anima nostra, il demonio. Può quindi tornar utile, per stimolarci alla vigilanza, il richiamare alla mente quello che la Chiesa insegna riguardo agli angeli ribelli. Avete già studiato in teologia - e gli altri lo studieranno - quale sia stato il loro peccato. A noi importa soprattutto conoscere i rapporti ch'essi hanno con l'uomo, nonché i mezzi per combattere le loro insidie.
Come gli angeli buoni hanno con gli uomini relazioni d'amore e di sollecitudine per promuovere il bene, così gli angeli cattivi hanno con gli uomini relazioni di odio e di sollecitudine per promuovere il male. Gli angeli buoni esercitano il loro ufficio d'amore per mezzo della custodia che hanno di noi; i demoni sfogano il loro odio per mezzo delle infestazioni. Queste sono morali o fisiche, secondo che tentano di nuocere alle anime o ai corpi. Le prime si dicono tentazioni, le seconde ossessioni.
Per tentazioni demoniache s'intendono tutti quegli atti con cui i demoni si sforzano d'indurre gli uomini al peccato e così impedir loro di conseguire la beatitudine eterna. A ciò son mossi dall'odio che hanno contro Dio, il quale chiama gli uomini a prendere i posti lasciati vuoti da essi in Cielo; nonché dall'odio contro gli uomini, che essi vorrebbero con sé nell'inferno. Questa è dottrina certa, cattolica, fondata sulla divina rivelazione. Basti ricordare, fra i fatti Scritturali, le tentazioni di Eva, di Giobbe, di Giuda e dello stesso Nostro Signore Gesù Cristo. Tra i testi scritturali basti citare quello di S. Paolo:Rivestitevi di tutta l'armatura di Dio, affinché possiate resistere alle insidie del demonio. E quello di S. Pietro: Siate temperanti e vigilate, perché il diavolo vostro avversario, come leone che rugge, va attorno cercando chi divorare (184).
Come gli uomini cattivi possono tentare gli altri uomini, tanto più lo possono fare i demoni, che son creature più intelligenti e di natura più perfetta; e lo vogliono fare per odio contro Dio e contro l'uomo.
I demoni non possono tentare directe, costringendo l'umana volontà a cedere, a peccare: ma solamente indirecte, cioè facendo qualche cosa per cui la volontà umana sia sollecitata al peccato. E ciò in due modi: per un'azione estrinseca, o con un'azione interna, producendo movimenti negli organi corporei, per cui si eccitano cattivi fantasmi e moti disordinati. Come il Signore, nei suoi imperscrutabili disegni, permette le tentazioni degli uomini contro altri uomini, così può permettere che i demoni tentino gli uomini, mai però oltre le nostre forze. Fedele è Dio il quale non permetterà che voi siate tentati oltre il vostro potere, ma darà con la tentazione lo scampo, affinché la possiate sostenere (185). Frattanto Egli ci avverte, ci esorta e ci sostiene con la sua grazia e anche per mezzo degli Angeli Custodi.
Da parte loro, gli uomini per vincere le tentazioni debbono vivere vigilanti, per scoprire a tempo e fuggire le insidie diaboliche; non esporsi alle tentazioni pericolose; invocare con prontezza, umiltà e fiducia l'aiuto di Dio, raccomandarsi al patrocinio della SS. Vergine, dell'Angelo Custode e dei Santi. La Chiesa ci esorta a ciò fare nelle litanie dei Santi: Ab insidiis diaboli, libera nos Domine. E nelle preghiere del dopo Messa: O santo Michele Arcangelo, difendici nella lotta, sii nostro presidio contro la malizia e le insidie del demonio. E ancora nella bella preghiera di ogni giorno, a Compieta: Visita questa casa, o Signore, te ne preghiamo, e scaccia lontano da essa tutte le insidie del nemico, cioè del demonio, al quale la Chiesa oppone l'assistenza e la potenza degli angeli buoni: Che i tuoi santi angeli vi abitino e ci custodiscano nella pace.
Ancora una parola sulle ossessioni. I demoni possono, sempre per permissione di Dio, non solo nuocere all'anima degli uomini, ma anche al corpo e ai beni materiali. Questi mali si chiamano ossessioni o possessioni diaboliche. Quando il demonio prende reale possesso di un corpo entrandovi, dimorandovi e muovendolo, è vera ossessione o insessione, e il paziente si chiama energumeno. Quando invece si limita ad atti transeunti - e direi esterni - di molestare l'uomo nel corpo o nei beni materiali, è "possessione". Noto che nell'ossessione restano intatte le facoltà dell'anima, intatto il rapporto tra l'anima e il corpo; quindi il demonio non è sostanzialmente unito all'ossesso, ma unito solo estrinsecamente.
Le ossessioni sono possibili. Come infatti gli uomini più robusti possono imporsi ai più deboli, così, permettendolo Iddio, possono i demoni valersi della loro maggior forza a danno degli uomini; essendo spiriti, possono entrare nei corpi e vessarli. Moralmente poi lo possono perché desiderosi di far del male all'uomo anche nel corpo. Fin dai tempi più antichi si hanno esempi di ossessioni vere e proprie, come lo prova la Scrittura. Numerosi poi i fatti riportati dal Vangelo e dagli Atti degli Apostoli. Leggiamo in S. Marco che Nostro Signore curò molti infermi e cacciò molti demoni (186). Notate che qui si distinguono gli infermi dagli ossessi. La stessa potestà Nostro Signore la diede agli Apostoli e ai loro successori, i quali la esercitarono in tutti i tempi. A questo scopo la Chiesa istituì l'Ordine dell'Esorcistato. Anche al presente non mancano i casi di vera ossessione e già vi è noto quello di una donna liberata dal demonio con la medaglia della SS. Consolata. Come caso di possessione diabolica posso attestare, e con piena certezza, di altra persona che il demonio molto maltrattava, trasportandola or qua or là in diversi luoghi fuori della città. Questa prova durò per più anni e quell'anima ne soffriva terribilmente (187).
I segni per discernere la vera ossessione dalle malattie epilettiche, ciarlatanerie, ecc. sono di più specie. Segni di sospetto: istinti ferini, consacrazione di sé al demonio, ecc. Segni di probabilità: vociferazioni insolite, urla di belve, contrazioni strane delle membra, ecc. Segni di certezza: manifestazione di cose occulte, parlare lingue ignote o cose sublimi, orrore a toccare cose sacre e ad invocare i nomi di Gesù e di Maria, ecc.
Il Signore può permettere questi fatti per più fini. Anzitutto per provare i giusti e punire i colpevoli: Ut justi exerceantur et mali puniantur. Poi perché serva di ammonimento: imparino cioè gli uomini, dai mali del corpo, a temere i mali morali: Ut ex malis corporalibus discant homines timere mala moralia. In terzo luogo per manifestare la sua divina potenza nella liberazione degli ossessi: Ad manifestandam Dei virtutem in liberandis. Così, ai tempi di Nostro Signore e della primitiva Chiesa, queste liberazioni erano appunto una prova della divinità di Gesù e del Vangelo: Se io col dito scaccio i demoni, certamente a voi è venuto il regno di Dio (188).
Qual'è la conclusione pratica per noi? Quella di conservarci puri di anima e di corpo, per non cadere nel potere di colui che può perdere l'anima e il corpo eternamente nella geenna.

sabato 31 maggio 2014

Magnificat. Festa della Visitazione: " Fate anche voi come faceva la Madonna; fate tutte le cose con perfezione esteriore ed interiore, perché questo vale più che far miracoli, più che le austerità corporali! ".


Festa della Visitazione

Oggi la Chiesa celebra la festa della Visitazione di Maria SS. a santa Elisabetta.. Francesco di Sales, pur facendo rinnovare i voti delle sue Suore nella festa della Presentazione, volle che la Congregazione fosse intitolata a questo Mistero. Perché? Il primo motivo è che, da principio, egli intendeva fondare una Congregazione di Suore attive, dedite alla visita e alla cura dei bisognosi; quindi diede loro per Protettrice la Madonna nella sua visita a S. Elisabetta dove Ella esercitò in particolare l'umiltà e la carità. Inoltre S. Francesco di Sales, anche quando la Congregazione fu di clausura, con il conservarle questo titolo, volle significare che le Suore della Visitazione dovevano imitare la Madonna nel condurre una vita ordinaria, cioè senza asprezze di penitenze esteriori, ma impreziosita da tutte le virtù interiori.

In quei tre mesi, infatti, la Madonna condusse una vita esternamente ordinaria, ma non in modo ordinario. Faceva ciò che fanno le buone donne quando vanno ad assistere le vicine in simili circostanze: tutti i servizi di casa. S. Francesco di Sales volle dunque dire alle sue Suore: " Fate anche voi come faceva la Madonna; fate tutte le cose con perfezione esteriore ed interiore, perché questo vale più che far miracoli, più che le austerità corporali! ".

Anche voi dovete santificarvi per questa via: far tutte le cose bene ed unicamente per amor di Dio. Se uno stesse tre mesi in Comunità facendo così, si farebbe da tutti amare e avanzerebbe nella perfezione assai più che facendo cose straordinarie. È tanto difficile che noi facciamo bene tutte le cose, con retta intenzione!... No, non è il far molto che importa, ma il far tutto bene. Penso che, quando sarete in Missione dovrete aver pena di non aver fatto bene tutte le cose.

Secondo il Ven. Da Ponte (991) questo Mistero ci dà ancora due importanti insegnamenti. Il primo è che Maria SS. è il canale di tutte le grazie. Iddio avrebbe potuto santificare direttamente Giovanni Battista; no, volle farlo per mezzo di Maria. Fu infatti al suono della voce di Lei, che salutava S. Elisabetta, che Giovanni restò santificato. Vedete la potenza di Maria SS.!

Quando dunque avete qualche tentazione, ricorrete alla Madonna e ditele: "O Maria, voi avete fatto un lungo viaggio per recarvi a purificare Giovanni Battista dal peccato originale, veni te pure da me, in mio aiuto!". Ricorriamo a Lei con fiducia, tanto più che queste sono proprio le grazie ch'Ella desidera maggiormente di fare.

Il secondo ammaestramento è sul come noi, ad imitazione di Maria SS., dobbiamo combattere le tentazioni di vanagloria. Proclamata da Elisabetta " la benedetta fra le donne ", Ella non negò i doni ricevuti, le grandi cose che Iddio aveva operato in Lei, ma di tutto diede onore e gloria a Dio.

Ciò Ella fece col canto del Magnificat, sul quale voglio pure fermare brevemente la vostra attenzione. Tutti i giorni lo si recita, sovente lo si canta, ma forse non lo si considera abbastanza. 
Il P. Didon scrive: " Il Magnificat sorpassa ogni umana capacità...; è il più splendido grido di letizia che sia uscito da cuore umano. Maria SS. non pensa che alla propria bassezza e non si esalta che in Dio. Predice la sua gloria, ma in ciò non vede che il trionfo di Dio " (992). 
Adolfo Cellini (Scuola Cattolica, 1 nov. 1916) scrive: " Il concetto principale dell'Inno consiste nella sovranità assoluta di Dio e nella nullità ed essenziale dipendenza di ogni essere creato da Lui ". Ciò è il fondamento di tutta la morale del Vangelo: Dio è tutto, l'uomo niente; ma questo niente può divenire qualcosa inabissandosi nella sua nullità, bramoso unicamente e sommamente di glorificare Dio in tutto e sempre.

Il Magnificat consta di dieci versetti. Cornelio A Lapide (993) divide l'Inno in tre parti. 
La prima va dal v. 46 al 49: in essi Maria esalta i benefici conferiti da Dio a Lei sola, specialmente la Divina Maternità: L'anima mia magnifica il Signore... Perché?... Perché ha rivolto il suo sguardo sulla sua ancella... Il Signore guardò alla bassezza, alla nullità della sua serva, la esaltò, fece cose meravigliose in lei, sì che tutte le generazioni, piene di ammirazione, la grideranno beata!

La seconda parte va dal v. 50 al 53. In essi Maria esalta i benefici elargiti da Dio agli uomini lungo tutti i secoli: Et misericordia eius a progenie in progenies...; prima al popolo eletto, poi ai gentili e a tutti quelli che temono il Signore. Il Signore fece opere potenti col suo braccio. E quali opere? Quella di umiliare i superbi e di esaltare gli umili; quella di saziare tutti coloro che sono affamati di giustizia e di verità. Esurientes implevit bonis. Qui c'è il passato per il presente e per il futuro; è una forma ebraica. Vuol dire: il Signore è sempre pronto a ricolmare di beni quelli che lo desiderano.

La terza parte consta degli ultimi due versetti (54lss). In essi Maria torna al beneficio sovrano della Redenzione incominciata in se stessa con il concepimento di Gesù, ed estesa a tutte le generazioni future, conforme a ciò che il Signore aveva promesso ad Abramo: che in lui tutte le generazioni sarebbero state benedette, perché dalla sua progenie sarebbe nato il Redentore.


Procuriamo di meditare sovente questa magnifica preghiera, che serve ad eccitare in noi la divozione alla Madonna; recitare o cantare il Magnificat con lo spirito e con l'entusiasmo con cui Ella lo disse, rivestendoci dei suoi stessi sentimenti. Sono parole della S. Scrittura; queste poi sono del Signore, ispirate direttamente alla Madonna. Ogni parola si può dire un sacramentale: luce, verità e vita!

Beato Giuseppe Allamano: La Vita Spirituale


AVE MARIA PURISSIMA!

sabato 6 luglio 2013

Perché lo spirito umano, o meglio mondano, rientra e prende il sopravvento sullo spirito religioso?

Beato Giuseppe Allamano, prega per noi!

NECESSITA' DELLA FORMAZIONE                 

Fervore e decadenza nelle Religioni

Gli Istituti religiosi nei loro primordi furono per lo più fervorosi. Gli individui attendevano singolarmente alla propria santificazione, univano una soda virtù allo zelo dell'altrui salvezza, presentavano quella vicendevole unione che è uno dei più sicuri indizi dell'interiore carità. S. Atanasio così descrive il fervore dei discepoli del grande S. Antonio: "Regnava la concordia, nessuno recava danno, nessun maledico che andasse sparlando, ma una moltitudine di astinenti e una gara di sante opere". E conclude pieno di ammirazione con le parole Scritturali: Quanto son belli i tuoi padiglioni, o Giacobbe! E i tuoi tabernacoli, o Israele! Son come valli ubertose, come orti presso ad un fiume irriguo, come cedri vicini alle acque. La tua stirpe crescerà in grandi acque! (91).

S. Bonaventura scrive dei primi discepoli di S. Francesco: "In tutto e per tutto osservavano gl'insegnamenti del nostro santo Padre. La povertà li faceva pronti ad ogni obbedienza, forti nelle fatiche, lesti nei viaggi. L'amore del Vangelo li aveva resi tanto pazienti, da cercar sempre nuove sofferenze corporali".

Lo stesso dicasi di tanti altri Istituti nei loro inizi, come dell'Ordine di S. Benedetto, dell'Ordine Cistercense e, in tempi più recenti, dell'Ordine della Visitazione.

Ma non tutti continuarono nel fervore. Lo spirito umano, o meglio mondano, rientrò e prese il sopravvento sullo spirito religioso. Ed ecco: all'osservanza succedere la trascuratezza, al fervore la tiepidezza, all'unione i partiti e le scissioni. Già se ne lamentava S. Girolamo; più tardi S. Bernardo scriveva all'Abate Guglielmo: "Ormai l'economia è reputata avarizia, la sobrietà austerità, il silenzio tristezza. Invece la rilassatezza è detta discrezione, lo sperpero è scambiato con la liberalità, la loquacità con l'affabilità e cortesia. Vien detto allegria lo sghignazzare, decoro il lusso, pulizia la soverchia cura dei letti" (92).

S. Bonaventura a sua volta, divenuto Generale dell'Ordine, lagnavasi che notevoli disordini si fossero introdotti nelle Comunità. Il P. Consolatino, dell'Oratorio, nella sua vecchiaia piangeva non vedendo più nella Congregazione quello spirito di fervore che regnava vivente S. Filippo. E intanto alcune di queste istituzioni scomparvero, mentre altre si ridussero a poca cosa, avendo perduto quello splendore d'opere, quel fervore di vitalità che li distingueva nel loro inizio. Quali le cause del decadimento degli Istituti religiosi? Sulla scorta di S. Alfonso (93), le riduco a cinque.

1 - IL NUMERO: multitudo intrantium. E la ragione che porta il Santo è questa: che quando son molti, non si possono più formare così bene come quando son pochi. Per essere precisi si dovrebbe dire: la moltitudine di quelli che entrano senz'essere chiamati o che non corrispondono, privi perciò delle necessarie doti per lo stato abbracciato. Quante volte mi avete già udito dire: guai a spalancare la porta d'entrata! guai alla paura di mandar via!... Vi ripeto sempre le stesse cose; ma lo ripeto perché il numero mi spaventa, quando non sia accompagnato dalle necessarie virtù nei singoli membri. E' per questo che nei Monasteri del Carmelo, della Visitazione, ecc. è fissato il numero delle Suore d'ogni casa. E S. Vincenzo proibì ai suoi Religiosi di far proseliti.

2 - LA DEFICIENZA NEI SUPERIORI - Grande motivo questo! Può avvenire, infatti, che i Superiori non siano essi stessi debitamente formati e allora come possono formare gli altri allo spirito della Congregazione? Oppure che essi per i primi non siano osservanti, e come possono inculcare agli altri l'osservanza? E senza osservanza a che cosa si riduce una comunità? Diceva S. Giuseppe Calasanzio: "Guai a quel Superiore che con le parole esorta a ciò che con l'esempio distrugge!". Il Superiore in una Comunità è come la città posta sopra il monte; non può sottrarsi agli sguardi indagatori dei sudditi. S. Alfonso fa sua la sentenza del P. Doria, Carmelitano Scalzo: "che le Religioni decadono più per male di emicrania che di podagra". Cioè più per difetto di quelli che sono a capo, che non dei sudditi.

Come avviene questo?... Ah, quel Capitolo, quelle elezioni! Ne ho un po' di esperienza, sapete! Si prega, sì, davanti al SS. Sacramento, s'invocano i lumi dello Spirito Santo, ma poi invece di seguire i lumi celesti, si seguono quelli dell'amor proprio, dei gusti individuali, dello spirito di parte... e ne vengono fuori di tali Superiori e di tali Superiore!

Speriamo che nel nostro Istituto questa deficienza non abbia mai a riscontrarsi. Le Costituzioni parlano chiaro. I Capitolari s'impegnano con giuramento di eleggere quelli che stimano doversi eleggere davanti a Dio, e sono inoltre espressamente proibiti di procurare, sia direttamente che indirettamente, dei voti sia per sé e sia per gli altri. Stando alle Costituzioni, si eviteranno gli inconvenienti di cui parliamo.

3 - MUTAMENTO DI FINE - Ogni istituzione, e l'abbiamo veduto, ha il proprio fine particolare. Purtroppo alcune istituzioni non hanno più che il nome ad indicare il fine per cui vennero fondate. Il fine particolare del nostro Istituto è la conversione degli infedeli; se un giorno si dovessero aprir collegi, supponiamo in America, dovrebbero essere sempre e solo per questo fine: le Missioni fra gli infedeli.

4 - L'INTRODURSI DI ABUSI: e cioè lasciar introdurre a poco a poco usanze che non sono secondo lo spirito dei Fondatori. S'incomincia ad allungare le ricreazioni, si cambia il vitto, si trascura la puntualità d'orario... ed ecco la comunità cambiata. Si dice: "Son altri tempi!". No, è lo spirito che è un altro. Si dice: "Lo spirito è sempre quello"; invece lo spirito non c'è più.


5 - IL DISPREZZO DEI FERVOROSI: quando cioè s'incomincia a tacciare di scrupolosi, di esagerati coloro che sono fervorosi, che osservano il silenzio, la disciplina, la regola, ecc.

AVE GRATIA PLENA!