1. In quel tempo: “Mentre gli Undici stavano a mensa, apparve loro Gesù” (Mc 16,14). In questo brano del vangelo si devono considerare tre fatti:
- l’ultima apparizione di Cristo,
- l’invio degli apostoli alla predicazione,
- l’ascensione di Cristo al cielo.
I. l’ultima apparizione di cristo
2. “Mentre gli Undici stavano a mensa”. Nota che Gesù, dopo la sua risurrezione, apparve ai suoi discepoli dieci volte. Apparve cinque volte nel giorno stesso della risurrezione, come vedremo nel sermone sulla Risurrezione del Signore: “Fiorirà il mandorlo”. La sesta volta apparve a Tommaso, insieme agli altri discepoli, otto giorni dopo essere risorto. La settima volta al mare di Tiberiade. L’ottava volta sul monte, al quale li aveva mandati. La nona e la decima volta in questo giorno dell’Ascensione.
In questo giorno andò da loro a Gerusalemme e disse: “Restate in città, finché non sarete rivestiti della potenza dall’alto” (Lc 24,49). E poiché mangiò con loro, se ne deduce che era passata l’ora sesta, cioè il mezzogiorno: e questa fu la nona apparizione.
Poi li condusse fuori, al monte degli Ulivi, verso Betania. Alzate le mani, li benedisse. E sotto i loro occhi si innalzò verso il cielo, avvolto in una nube splendente che sembrava sollevarlo: e questa fu la decima apparizione.
“Mentre dunque gli undici discepoli erano a mensa, apparve loro Gesù”. In lat. è detto recumbentibus, cioè mentre erano distesi (adagiati) a mensa, secondo l’uso del tempo. Osserva che Gesù appare solo a chi è disteso nella quiete, nella pace e nell’umiltà. Dice infatti Isaia: “A chi volgerò il mio sguardo, se non al poverello, al contrito di spirito e a colui che teme le mie parole?” (Is 66,2). Nell’acqua torbida e agitata non vede il suo volto chi vi si specchia. Se vuoi che appaia in te il volto di Cristo che ti guarda, distenditi e riposa. “Fermatevi in città – disse – fino a che non siate rivestiti della potenza dall’alto”. Restare in città significa raccogliersi nella propria coscienza e tenersi lontano dal chiasso esteriore. Si legge infatti nel secondo libro dei Re che Davide si stabilì nella sua casa di cedro e il Signore gli diede tregua da tutti i suoi nemici all’intorno (cf. 2Re 7,1-2).
Si legge nella Storia Naturale che il cedro è un albero molto alto, di gradevole profumo e di vita lunga; con il suo profumo mette in fuga i serpenti e ha la particolarità di fare frutto di continuo, in inverno e in estate.
La casa di cedro è la coscienza del giusto: è alta per l’amore di Dio, di gradevole profumo per la sua onesta condotta, ha vita lunga per la perseveranza; con il profumo della sua onestà o della sua preghiera devota mette in fuga i serpenti, vale a dire gli impulsi carnali o i demoni, e sia nell’inverno dell’avversità che nell’estate della prosperità produce frutti di eterna salvezza. Chi dimora in tale casa sta al sicuro da tutti i nemici all’intorno, cioè dal diavolo, dal mondo e dalla carne, e gode della pace, perché si riveste di potenza dall’alto, e non dal basso, cioè dal mondo. Chi si riveste della potenza del mondo, viene facilmente sconfitto nella guerra; chi invece si riveste della potenza dall’alto, cioè della potenza dello Spirito Santo, distrugge i nemici e compie le opere di virtù.
3. “Li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato” (Mc 16,14). O infelici coloro che non credono a Pietro, al quale Cristo apparve, e che lo vide risuscitato dai morti!
Dice Pietro: “Avete ucciso l’autore della vita, che Dio ha risuscitato dai morti, e di questo noi siamo testimoni” (At 3,15), “noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui, dopo che fu risuscitato da morte” (At 10,41): e in questo è prefigurata la reale risurrezione della carne. Non credono che Cristo sia risuscitato dai morti coloro che negano la finale risurrezione dei corpi. Perciò leggiamo nella prima lettera ai Corinzi: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dai morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato; e se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,12-14). Nella finale risurrezione dei corpi, Dio ripudierà e condannerà gli increduli e i duri di cuore, i quali ora non credono che essa avverrà.
II. l’invio degli apostoli alla predicazione
4. Gli apostoli vengono mandati a predicare dove è detto: “Andate in tutto il mondo” (Mc 16,15). C’è un comando simile anche in Isaia: “Andate, veloci messaggeri, ad un popolo disperso e straziato, ad un popolo tremebondo come nessun altro, ad un popolo in attesa e oppresso” (Is 18,2).
Il genere umano era stato disperso, scacciato dalla felicità del paradiso terrestre, era straziato dalla persecuzione diabolica, pieno di terrore per le pene dell’inferno minacciate all’anima, e oppresso nei riguardi del corpo per la prospettiva della corruzione: e tuttavia aspettava il Salvatore del mondo. A questo popolo il Salvatore mandò i veloci messaggeri, cioè gli apostoli obbedienti, dicendo: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a tutte le creature” (Mc 16,15), cioè a tutto il genere umano, che ha qualcosa in comune con ogni creatura, con gli angeli, con gli animali, con le piante, con le pietre, con il fuoco e con l’acqua, con il caldo e con il freddo, con l’umido e con il secco, perché l’uomo è un microcosmo, cioè un piccolo mondo.
“Chi crederà”, ossia chi professerà la fede per se stesso o per mezzo di un altro, “e sarà battezzato”, cioè persevererà nella grazia ricevuta con il battesimo, “sarà salvo; chi invece non crederà, sarà condannato. E questi saranno i miracoli che accompagneranno coloro che credono: nel mio nome scacceranno i demoni”, ecc. (Mc 16,16-17).
In quel tempo avvenivano i miracoli a favore degli infedeli chiamati alla conversione; adesso invece, poiché la fede è adulta, il miracolo è cessato. Anche noi infatti, quando impiantiamo delle pianticelle, le innaffiamo fino a che mettono le radici in terra e s’irrobustiscono.
5. Senso morale. Il mondo è così chiamato perché è sempre in movimento (lat. mundus, motus). Ai suoi elementi non è concesso riposo. Il mondo ha quattro parti: l’oriente, l’occidente, il meridione e il settentrione. Come il mondo consta di queste quattro parti, così anche l’uomo, che è un piccolo mondo, consta – a detta degli antichi – di quattro fluidi (indoli) commisti, in giusta proporzione, in un unico temperamento. Il misero uomo dall’inizio alla fine della sua vita è sempre in movimento, e mai riposa finché non arriva al suo “luogo”, cioè a Dio. Dice infatti Agostino: “Inquieto è il nostro cuore, o Signore, finché non riposerà in te”. “E nella pace è il suo luogo”(Sal 75,3). Il luogo dell’uomo è Dio: non ci sarà mai pace se non in lui, e quindi a lui si deve tornare.
I momenti principali della vita dell’uomo sono: l’oriente della nascita, l’occidente della morte, il meridione della prosperità e il settentrione delle avversità. In questo mondo dobbiamo andare: “Andate in tutto il mondo”, per meditare come eravate al momento della vostra nascita, come sarete al momento della morte; come siete quando vi sorride la prosperità e come vi comportate quando si abbatte su di voi l’avversità: osservate se quella vi esalta e questa vi deprime. Da questa quadruplice meditazione scaturisce un quadruplice profitto: la diffidenza di sé, il disprezzo del mondo, l’equilibrio per non esaltarsi, la pazienza per non deprimersi e scoraggiarsi.
È bene quindi andare in tutto il mondo e predicare il vangelo a tutte le creature. Dice l’Apostolo: “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura: le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17). E il salmo: “Il popolo che sarà creato [nuovo] darà lode al Signore” (Sal 101,19); e Isaia: “Ecco, io creo Gerusalemme, città di esultanza e il suo popolo, popolo di gaudio. E io esulterò di Gerusalemme e godrò del mio popolo” (Is 65,18-19).
Creare significa fare qualcosa dal nulla. L’uomo, quando è in peccato mortale, è nulla, perché Dio, che veramente è, non è in lui con la grazia. “L’uomo – dice Agostino – quando pecca diventa un nulla”; ma quando, per mezzo della grazia di Dio si converte e fa penitenza, viene creata in lui una nuova creatura, cioè una nuova e pura coscienza. E questa è Gerusalemme, cioè la città della pace, che esulta per la misericordia di Dio che le è stata elargita. Viene creato anche “un popolo” di molti e buoni pensieri e sentimenti, in cui c’è il gaudio e la lode a Dio, provenienti dalla sua dolcezza che esso pregusta. E allora le cose vecchie, vale a dire le opere e l’incallito comportamento dei cinque sensi, passano, si allontanano, e ne nascono di nuove in Cristo, affinché l’uomo non viva più per se stesso, ma per Cristo che è morto per lui (cf. 2Cor 5,15).
Queste dunque sono “tutte le creature”: l’uomo esteriore e interiore e il rinnovamento prodotto dalla grazia. A questa creatura dobbiamo predicare il vangelo del Regno, cioè annunziare il bene: la parola greca “evangelo” significa appunto “buon annunzio”. Annuncia il bene ad ogni creatura colui che si orna di virtù internamente e esternamente. Predica il vangelo del Regno colui che, nel segreto del suo cuore, considera quanto grande sarà la gloria di contemplare, insieme con gli spiriti beati, il volto del creatore, lodarlo senza fine insieme con essi, vivere sempre con lui che è la vita, e godere perennemente di una felicità inesprimibile.
Da questa predicazione provengono due risultati: “Chi crederà e sarà battezzato”. Credere vuol dire “dare il cuore” (lat. credo, cor do). Figlio mio, dice Gesù, dàmmi il tuo cuore! (cf. Pro 23,26). Chi dà il cuore, dà tutto. Perciò crede colui che con la devozione del suo cuore si sottomette totalmente a Dio; viene battezzato, quando si inonda di lacrime o per la dolcezza della contemplazione divina, o per il ricordo della sua iniquità, oppure per la compassione che prova di fronte alle necessità dei fratelli. “Invece chi non crede”, non dà il cuore a Dio, e se non lo dà a Dio, necessariamente lo darà al diavolo, o alla carne, o al mondo. E chi avrà fatto questo, “sarà condannato”.
6. “E questi sono i miracoli che accompagneranno quelli che credono”. Il miracolo è chiamato in latino signum, segno. I segni accompagneranno coloro che hanno dato il cuore a Dio, perché già sul loro cuore c’è il segno di cui parla il Cantico dei Cantici: “Méttimi come un segno sopra il tuo cuore” (Ct 8,6).
Quando vogliamo difendere dai ladri una nostra proprietà, la nostra casa o i nostri beni, siamo soliti apporvi un segno, un marchio, come la bandiera del re o di qualche potente, perché vedendolo, i ladri non osino penetrarvi. Così se vogliamo difendere il nostro cuore dai demoni, mettiamo su di esso, come segno, Gesù, che è la salvezza: dove c’è salvezza c’è incolumità.
Ed ecco i segni, i miracoli: “Nel mio nome scacceranno i demoni” (Mc 16,17). “Demoni” è un termine preso dalla lingua greca. In greco dàimon significa “esperto”, “perito”, che conosce le cose. I demoni raffigurano la sapienza della carne e l’astuzia del mondo, le quali, a guisa di demoni, tormentano l’uomo, lo spirito dell’uomo e con insistenza affliggono il suo corpo.
La sapienza della carne simboleggia il demonio notturno, l’astuzia del mondo il demonio meridiano. La sapienza della carne è cieca, per quanto essa sia convinta di vederci molto bene: solo nella notte ha la vista acuta, come il gatto. L’astuzia del mondo, poiché arde del calore della malizia, è come il sole a mezzogiorno. Chi ha dato il cuore a Dio, scaccia via da sé questi demoni e farà anche tutti gli altri segni di cui parla il vangelo.
“Parleranno lingue nuove” (Mc 16,17). La lingua del mondo è una lingua vecchia, perché dice cose vecchie dell’uomo vecchio. Coloro che sono tormentati dai demoni sopraddetti, parlano questa lingua; ma quando li scacciano via da sé, parlano lingue nuove nella novità della loro vita. Dice infatti Isaia: “In quel giorno ci saranno cinque città nella terra d’Egitto che parleranno la lingua di Canaan e giureranno per il Signore degli eserciti: la prima si chiamerà “Città del Sole” (Is 19,18).
La terra d’Egitto, nome che significa “tenebre”, raffigura il corpo dell’uomo, coperto dalle tenebre della colpa e dei castighi: in esso ci sono cinque città, cioè i cinque sensi del corpo, il primo dei quali, cioè la vista, è chiamato “Città del Sole”, perché, come il sole illumina tutto il mondo, così la vista illumina tutto il corpo. Queste città parlano la lingua di Canaan, che significa “cambiata”: per il cambiamento operato dalla destra dell’Altissimo (cf. Sal 76,11), si spogliano dell’uomo vecchio con le sue azioni e indossano l’uomo nuovo, vivendo nella giustizia e nella verità (cf. Ef 4,24; Col 3,9).
Come parlando si porta all’esterno la parola che è nascosta nel cuore, così i cinque sensi dell’uomo, ormai cambiati e convertiti a Dio, parlano di lui all’esterno come lo hanno all’interno, e in questo appunto consiste il giurare: affermare la verità. Infatti la verità della coscienza si afferma e si conferma con la testimonianza della vita santa, a lode del Signore degli eserciti, cioè del Signore degli angeli.
E ancora: “Prenderanno i serpenti” (Mc 16,18), nei quali sono simboleggiate l’adulazione e la detrazione, che avanzano serpeggiando di nascosto e inòculano il veleno. L’adulatore avanza serpeggiando e il detrattore inòcula il veleno. Coloro che parlano lingue nuove, scacciano da sé questi serpenti: “Siano lontane dalla vostra bocca le cose vecchie” (1Re 2,3). La saliva dell’uomo digiuno uccide il serpente; la lingua digiuna, cioè mortificata, è come una lingua nuova, il cui contravveleno annulla il veleno.
Ma l’antico serpente adulava, per così dire, Eva quando diceva: “Non morirete affatto!”, e quasi calunniava Dio dicendo: “Dio sa che nel giorno in cui mangerete dell’albero proibito, si apriranno i vostri occhi e sarete come dèi, conoscendo il bene e il male” (Gn 3,45). Come dicesse: Dio vi ha proibito questo perché è invidioso, e non vuole che voi diventiate simili a lui nella scienza. Ecco come l’adulazione avanza serpeggiando, e la detrazione inòcula il veleno. Chi invece ha la lingua digiuna, sputi in bocca al serpente e lo uccida, e così lo scacci da sé.
7. Ancora: “Se berranno qualche veleno, non recherà loro danno” (Mc 16,18). Dice la Glossa: Quando sentono le pestifere suggestioni diaboliche, è come se bevessero qualcosa di micidiale, che però non reca loro danno, perché non le portano ad esecuzione. E dice Isaia: “Non berranno più vino cantando: ogni bevanda sarà amara per i bevitori” (Is 24,9), e quindi non recherà loro danno. Non beve, cantando, il vino della suggestione diabolica, colui che non vi acconsente, anzi la respinge, ne soffre e piange; e quindi la bevanda stessa, cioè la suggestione del diavolo, è amara per coloro che la bevono, cioè per quelli che l’avvertono e sono costretti a subirla. Al contrario Gioele dice: “Alzatevi, ubriachi, e piangete e mandate lamenti voi tutti che bevete il vino con piacere, perché sarà tolto dalla vostra bocca” (Gl 1,5). E così avviene proprio alla lettera, perché il piacere del vino sparisce immediatamente dalla bocca, non appena scende per la gola. Quanti mali cagiona un brevissimo piacere a colui che, con il consenso della mente e delle opere, beve il vino della suggestione diabolica! Agli ubriachi di questo vino è detto: “Alzatevi!” nel ricordo del vostro peccato, “piangete” nella contrizione del cuore, “mandate lamenti” nella confessione.
Chi avrà realizzato in sé i quattro segni di cui abbiamo parlato, potrà certamente operare anche il quinto a favore del prossimo: “Imporranno le mani ai malati, e questi guariranno” (Mc 16,18). Ammalato si dice in lat. æger, che suona come egens, bisognoso, perché ha bisogno di un rimedio, di una medicina. L’ammalato è il peccatore che ha veramente bisogno della medicina, cioè dell’esempio delle buone opere. E impone le mani su di lui perché si senta meglio, cioè perché ritorni alla penitenza, colui che non solo lo incoraggia con la parola della predicazione, ma anche lo sostiene con l’esempio della vita santa. Amen.
III. l’ascensione di gesù al cielo
8. “E il Signore Gesù”, che era disceso dal cielo, “dopo aver parlato loro, fu assunto in cielo” (Mc 16,19). Troviamo la concordanza nei Proverbi di Salomone: “Chi è salito al cielo e ne è disceso? Chi racchiuse lo spirito (vento) nelle sue mani? Chi raccolse le acque nel suo manto? Chi innalzò tutti i confini della terra? Qual è il suo nome, o qual è il nome del suo figlio, se lo sai?” (Pro 30,4).
Fa’ attenzione alle tre parole: racchiuse, raccolse, innalzò. Il Figlio di Dio Padre, Gesù Cristo, discese dal cielo e assunse la nostra carne mortale, e salì quindi al cielo proprio con essa, divenuta immortale: di lassù mandò lo Spirito della grazia settiforme, che egli racchiude nelle mani della sua potenza. Ed è così, perché lo dà a chi vuole e quando vuole, e lo chiude quando vuole. Dice infatti Giobbe: “Nasconde nelle mani la luce e le ordina di apparire di nuovo. Annunzia a chi gli è amico che essa è sua proprietà e che ad essa può avvicinarsi” (Gb 36,32-33). A chi è amico di Dio viene manifestata talvolta una certa luce nella coscienza, una luce di interiore letizia, come un lume che, rinchiuso tra le mani, si vede e si occulta ad arbitrio di colui che lo tiene: e questo perché l’animo s’infiammi per giungere al possesso della luce eterna e all’eredità della piena visione di Dio.
Parimenti, il Figlio di Dio raccoglie, cioè frena le acque, vale a dire la concupiscenza carnale, nel manto, cioè nel corpo, del quale l’anima è ricoperta come di una veste. Dice Giobbe: “Io mi consumerò e andrò in putrefazione, come una veste che viene consumata dalla tignola” (Gb 13,28). La tignola nasce dalla veste e poi la corrode: la corruzione nasce dal corpo e poi lo distrugge. Il Figlio di Dio racchiude in questa veste gli istinti dei sensi con il legame dell’amore e la fune del timore, affinché non ne escano le acque della concupiscenza carnale, e così risveglia alla penitenza e alla gloria eterna tutti i confini della terra, cioè coloro nei quali ormai la condizione terrena è conclusa.
Perciò “fu assunto in cielo”, per sollevare con sé la terra e farla cielo; infatti il Padre per bocca di Isaia gli dice: “Ho posto le mie parole nella tua bocca e ti ho custodito all’ombra delle mie mani, perché tu impianti i cieli e fondi la terra e dica a Sion: Tu sei mio popolo” (Is 51,16). E il Figlio stesso dice: “Colui che mi ha mandato è veritiero, ed io dico al mondo le cose che ho udito da lui” (Gv 8,26). Nell’ora della passione il Padre lo protesse all’ombra della mano della sua potenza, perché gli prestò conforto nel momento in cui più infieriva la crudeltà dei giudei. Dice il salmo: “Stendesti la tua ombra sopra il mio capo nel giorno della battaglia” (Sal 139,8), nella quale con le mani inchiodate sulla croce distrusse le potenze dell’aria. Egli impiantò i cieli, cioè la divinità, sulla terra della nostra umanità e fondò la terra della nostra umanità nel cielo, cioè ve la stabilì per sempre.
Quindi conclude: “E sedette alla destra di Dio” (Mc 16,19). E nel salmo: “Disse il Signore”, il Padre, “al mio Signore”, cioè al Figlio suo: “Siedi alla mia destra” (Sal 109,1): vale a dire: Ripòsati e regna con me sui beni più preziosi.
Lo stesso Gesù, partecipe della nostra natura, renda anche noi partecipi di questi beni, lui che è benedetto nei secoli. Amen.
IV. sermone allegorico
9. “Ho attraversato questo Giordano portando solo il mio bastone, ed ora ritorno con due schiere” (Gn 32,10). Queste parole disse Giacobbe quando dalla Mesopotamia ritornava alla sua terra natale. Possono benissimo essere attribuite a Cristo che da questa terra fa ritorno al Padre, e il cui bastone fu la croce.
Leggiamo nel primo libro dei Re: “Il filisteo disse a Davide: Sono io forse un cane, perché tu mi venga contro con un bastone?” (1Re 17,43). Il filisteo, nome che s’interpreta “cade per aver bevuto”, o anche “doppia rovina”, raffigura il diavolo che, ubriaco di superbia, cadde dal cielo, e fece poi cadere l’uomo nella duplice rovina dell’anima e del corpo. È chiamato cane perché con le sue suggestioni abbaia contro gli innocenti e non riconosce il padrone, cioè il suo Creatore; il nostro Davide, Cristo, per combattere per noi contro di lui, lo affrontò con il bastone della croce. Ecco perché nello stesso libro dei Re è detto poco sopra: “Davide prese il suo bastone, che sempre aveva per mano; si scelse quindi dal torrente cinque ciottoli ben levigati e li pose nella sacca da pastore, che portava con sé; prese in mano la fionda e mosse contro il filisteo” (1Re 17,40).
Ecco le armi con le quali Gesù Cristo uccise il nostro nemico. Cristo ebbe sempre nelle sue mani il bastone della croce: prima della passione lo ebbe nelle opere, nella passione fu inchiodato ad essa per le mani, dopo la passione ne conservò nelle mani le ferite, per mostrarle per noi al Padre. Dice infatti Isaia: “Ecco che io ti ho scritto nelle mie mani” (Is 49,16).
Osserva che per scrivere qualche cosa sono necessari almeno tre strumenti: la carta, la penna e l’inchiostro. La carta fu la mano di Cristo, la penna il chiodo e l’inchiostro il suo sangue. La sua scrittura fornisce la prova della nostra liberazione, cònfuta il nemico e ci riconcilia con Dio Padre.
I cinque ciottoli ben levigati raffigurano le cinque piaghe di Gesù Cristo, che egli prese dal torrente della nostra umanità. La sacca da pastore raffigura l’amore, con il quale ci ha amati sino alla fine: “Il buon pastore – ha detto – dà la sua vita per le sue pecore” (Gv 10,11). Mise in questa sacca i cinque ciottoli ben levigati, perché per l’amore che nutriva per noi, ricevette su di sé le cinque piaghe, le quali ci resero ben levigati, cioè puri e luminosi. La fionda, che ha due strisce di cuoio di pari lunghezza, raffigura l’imparzialità della giustizia, per la quale condannò il diavolo e strappò dalle sue mani il genere umano. Fu giusto infatti e legittimo che il diavolo perdesse il potere che aveva sul genere umano, sul quale presumeva di avere qualche diritto, lui che osò stendere la mano su Cristo, sul quale diritti certamente non ne aveva. “Viene il principe di questo mondo, ma su di me non ha alcun potere” (Gv 14,30), perché “tra i morti io sono libero” (Sal 87,6): tuttavia Cristo è passato attraverso la morte, per liberare i morti. Dice infatti: “Con il mio bastone ho attraversato questo Giordano”. “Nel suo viaggio bevve al torrente: per questo sollevò in alto il capo” (Sal 109,7). Sul “bastone” della croce, solo, povero e nudo, passò dalla riva della nostra mortalità, della nostra condizione mortale, a quella della sua immortalità, attraverso il fiume del giudizio – questo significa il nome Giordano –, vale a dire attraverso lo spargimento del suo sangue con il quale giudicò il diavolo, cioè lo condannò e ne distrusse il potere.
10. E quanto grande vantaggio sia venuto a noi da questo suo passaggio, si comprende quando aggiunge: “E adesso”, cioè oggi, “ritorno con due schiere”. La sua partenza dal Padre, il suo ritorno al Padre, la sua discesa agli inferi e la sua ascensione fino al trono di Dio: ecco il “cerchio (l’anello) posto nelle narici di beemot(ippopotamo) (cf. Gb 40,10.21) e di Sennacherib” (2Mac 15,22), al quale il Signore dice: “Metterò un anello alle tue narici e un morso alle tue labbra e ti rimanderò per la strada per la quale sei venuto” (Is 37,29). Cristo, sapienza del Padre, che, come il cerchio, non ha principio né fine, uscendo dal Padre e al Padre ritornando, riunendo in se stesso tutte le cose e racchiudendole nel suo cuore, smascherò la perfidia del diavolo, raffigurata nelle narici. Infatti, come per mezzo delle narici percepiamo le cose a distanza, così il diavolo, con l’acutezza della sua astuzia (perfidia) capisce a quale vizio un uomo è maggiormente incline, e quindi si sforza di catturarlo con quello.
Nel morso ci sono due elementi: il ferro e la briglia; il ferro si mette nella bocca del cavallo, con la briglia lo si frena e lo si guida. Cristo, nella sua passione, con i chiodi e con la briglia della sua umanità fabbricò un morso con cui domare e frenare il diavolo, perché non corresse a suo piacimento, ma ritornasse indietro per la via per la quale era venuto. Era venuto per mezzo di Eva, di Adamo e del frutto dell’albero proibito: ma dovette ritornare indietro, e ciò che aveva rapito con l’astuzia, lo perdette per opera di Maria, per opera di Cristo e per mezzo del legno della croce; con questo legno passò il nostro Giacobbe che sconfisse il diavolo e oggi è ritornato in cielo con due squadre.
Giacobbe divise in due squadre tutta la gente che era con lui (cf. Gn 32,7): le schiave e i loro figli erano nella prima squadra; nella seconda le donne libere, ossia Lia e Rachele e i loro figli. Queste due squadre simboleggiano la chiesa, formata da due popoli: dal popolo dei pagani, indicato nelle schiave, e dal popolo giudaico, indicato nelle persone libere, per aver dato al mondo la conoscenza di Dio e la sua legge.
Questa chiesa Cristo la conquistò con molte sofferenze, in Mesopotamia, cioè nel mondo, e l’ha portata con sé oggi ritornando al cielo, poiché ha portato con sé la sua fede e la sua devozione, affinché il suo cuore e la sua vita non fossero più in terra ma nel cielo (cf. Fil 3,20). E al cielo faccia giungere anche noi, colui che è benedetto nei secoli. Amen.
V. sermone morale
11. “Con il mio bastone”. Vedremo il significato morale di queste quattro cose: del bastone, del Giordano e delle due squadre.
Nel bastone è simboleggiata la pratica della penitenza, della quale si parla nella Genesi, quando Giuda [figlio di Giacobbe] dice a Tamar: “Cosa vuoi avere per caparra? Rispose Tamar: Il tuo anello, il tuo bracciale e il bastone che hai in mano” (Gn 38,18). Giuda è Cristo che, secondo l’Apostolo, appartiene appunto alla tribù di Giuda. Tamar, nome che s’interpreta “mutata”, o “amara”, o anche “palma”, è l’anima che ha cambiato ed è passata dal male al bene; amara a motivo della penitenza che pratica per essere un giorno palma nella gloria. Si legge infatti in Giobbe: “Morirò nel mio piccolo nido”, cioè nell’umiltà e nella tranquillità della coscienza, “e moltiplicherò i miei giorni come la palma” (Gb 29,18). Però in questa triplice interpretazione può anche essere raffigurato il triplice stato degli incipienti, dei proficienti e dei perfetti.
Cristo dunque dice all’anima: “Che cosa vuoi avere per caparra?”. Caparra in lat. si dice àrrabo, che suona come arra bona, buon pegno: il pegno è ciò che si dà come caparra. L’anima, per essere sicura delle promesse, domanda un buon pegno, cioè l’anello, il bracciale e il bastone.
Nell’anello è simboleggiata la fede formata [la fede unita alla grazia e alla carità]. Leggiamo in Luca: “Mettetegli l’anello nella mano” (Lc 15,22). La Glossa: L’anello è il segno della fede, con il quale sono segnate le promesse nel cuore dei fedeli. “Dàteglielo nella mano”, cioè nelle opere, affinché la fede si manifesti nelle opere, e le opere testimonino la fede.
Nel bracciale – in latino armilla, da armus, òmero, la parte superiore del braccio –, che è rotondo e si porta al polso, è indicata l’opera di carità che fa stendere il braccio per portare il peso del fratello in necessità, e lo fa metter sotto l’òmero, o la spalla, per sorreggerlo (cf. Gn 49,15).
Nel bastone, con il quale uno si difende dal cane, e sul quale si appoggia per non cadere, è indicata, come già detto, la pratica della penitenza, con la quale l’anima si difende dagli appetiti della carne e si sostiene per non cadere nel peccato mortale.
In queste tre cose è compresa tutta la giustizia, che consiste nel rendere a ciascuno il suo, cioè l’anello della fede a Dio, il bracciale della carità al prossimo e la pratica della disciplina a se stessi.
12. È detto del bastone: “Ho attraversato questo Giordano con il mio bastone”. Giordano s’interpreta “discesa” o anche “appropriazione delle cose”, cioè delle cose transitorie di questo mondo. Chi vuole appropriarsene è costretto ad abbassarsi, cioè a discendere dal suo stato di giustizia, dalla quiete della coscienza e dalla dolcezza della contemplazione. Perché, come dice Gregorio, chi si appoggia ad uno che scivola giù, necessariamente scivola giù con lui. Beato invece chi può dire: Con la pratica della penitenza sono passato dalla riva della vanità del mondo alla riva della familiarità celeste; ho attraversato questo Giordano, ho scavalcato cioè tutto ciò che è transitorio e caduco.
Dice la Genesi: “Giacobbe attraversò il guado di Iabbok; trasportate tutte le cose che gli appartenevano, restò solo” (Gn 32,22-24). Iabbok s’interpreta “torrente di polvere”, e raffigura le cose temporali che, come il torrente, abbondano nell’inverno della miseria di questa vita, ma inaridiscono d’estate, vale a dire quando giungerà la vampa della morte o dell’ultimo giudizio. Le cose temporali, come la polvere, accecano i loro amatori. La polvere è detta in lat. pulvis, perché viene spazzata via (pulsa) dalla forza del vento. Così queste cose temporali vengono spazzate via dal vento dell’avversità e rapite dalla morte. Ma Giacobbe, cioè il giusto, vincitore del mondo, passa al di là delle cose temporali, per non passare con esse, perché nulla vi rimanga delle sue cose, ma trasferisce al di là tutto ciò che gli appartiene. E che cosa appartiene al giusto, se non l’umiltà, la carità, la castità e le altre virtù? Chi trasferisce queste cose con sé, resta solo, cioè estraneo al chiasso del mondo, lontano dal tumulto dei pensieri e dagli assalti dei demoni. Beato colui che passa così, perché nell’ora della morte potrà dire: “E adesso io ritorno con due squadre”.
Infatti ciò si accorda con quanto è scritto nel Cantico dei Cantici: “Tutte hanno parti gemellari e nessuna di esse è sterile” (Ct 4,2). E di nuovo: “Le tue due mammelle sono come due cerbiatti gemelli di una capriola, che pascolano tra i gigli, fino a che spiri la brezza del giorno che finisce e le ombre si allunghino” (Ct 4,5-6).
La capriola – detta in lat. caprea, perché prende le cose difficili (ardua capiens) –, ha la vista acuta, sceglie le erbe da mangiare e si spinge sulle alture. La capriola raffigura l’anima del giusto che, con il desiderio del cielo, raggiunge le cose difficili, e perciò si innalza fino ad esse; ha molto acuto lo sguardo della fede, si sceglie le erbe dei pascoli eterni con le quali si ristora; le sue due mammelle sono il duplice sentimento suscitato dalla carità, con il cui latte e la cui dolcezza nutre se stessa e il prossimo.
Questi sono i due parti gemellari, i due cerbiatti o i due caprioli, che pascolano tra i gigli: il sentimento della carità divina pascola tra i gigli, cioè nella castità della mente e del corpo, ossia nella letizia della contemplazione; il sentimento della carità fraterna pascola tra i gigli, vale a dire nella luce della buona riputazione.
E per quanto tempo pascoleranno così? Finché spunterà il giorno dell’eterno splendore e tramonteranno le ombre della cecità presente. Dica dunque il giusto: “E ora”, cioè alla fine della mia vita, “con due squadre”, vale a dire con i meriti della vita attiva e di quella contemplativa, “ritornerò” alla patria celeste.
A questa patria faccia giungere anche noi, colui che è benedetto nei secoli. Amen.