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mercoledì 16 novembre 2016

SCRITTI DEL P. EMMANUEL ANDRÈ


CAPITOLO V
L’UTILITÀ DELLA PAROLA
C’è, dice lo Spirito Santo, un tempo per tacere e un tempo per parlare. L’uomo di Dio deve saper discernere questi tempi, e quando viene il tempo di parlare bisogna ch’egli vigili per dire ciò che Dio vuole ch’egli dica, e ciò che le anime hanno diritto di aspettarsi da un inviato di Dio.
San Pietro, ammaestrando tutti i cristiani disse: «Chi parla, lo faccia come con parole di Dio» (1 Pt. 4,11). Ma s’egli avesse scritto ai soli sacerdoti, avrebbe detto senza dubbio: «Se il sacerdote parla, lo faccia con parole di Dio». Avrebbe cioè soppressa la parola «come».
Sul pulpito il sacerdote deve parlare come Dio stesso; fuori di là, come l’uomo di Dio.
È nota l’espressione di San Bernardo riguardo alle parole buffe: «In ore saecularium nugae nugae sunt; in ore sacerdotum blasphemiae». La parola del sacerdote dev’essere sempre senza affettazione, affabile senza trivialità, dolce senza adulazioni, grave senza durezza, deve richiamare alle anime il ricordo di Nostro Signore del quale si dice: «Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!» (Gv. 7,46).
CAPITOLO VI
LA CARITÀ COMPASSIONEVOLE 
VERSO TUTTI
Il sacerdote è debitore a Dio e al prossimo: a Dio deve la preghiera, al prossimo deve una tenera e compassionevole carità.
Nostro Signore che nell’Evangelo ci ha dato un si grande numero di divini insegnamenti di tenerezza verso i peccatori e ci ha insegnato le parabole si commoventi del figlio prodigo, della pecorella sperduta, la storia della donna adultera, è egli stesso il modello della tenera carità che deve avere il pastore delle anime.
«Che il pastore, scrive San Gregorio, sia avvicinato da tutti i suoi fedeli per la sua compassione: che con le viscere della sua misericordia attiri a sé e prenda su di sé per caricarle, le infermità di tutti. Che il pastore si mostri in modo tale che i fedeli non abbiano alcuna ripugnanza a rivelargli quanto hanno di più segreto, e quando i piccoli sono agitati dai flutti delle tentazioni facciano ricorso a lui, come al seno d’una madre, «quas; ad matris sinum!».
CAPITOLO VII
L’UNIONE A DIO NELLA PREGHIERA
Quando la carità compassionevole, la tenerezza paterna e anche materna deve avvicinare il pastore ai suoi fedeli, altrettanto lo zelo della preghiera deve mantenerlo unito a Dio.
Il pastore è l’uomo di Dio: non può nulla se non con l’aiuto della grazia: deve ricevere da Dio le istruzioni di Dio: da Dio deve sollecitare le grazie necessarie e a sé e al suo gregge. Come farà se prima di tutto egli non sarà uomo di preghiera?
Dice San Paolo: Noi siamo gli ambasciatori di Gesù Cristo: «Pro Christo legatione fungimur» (2 Cor. 5,20). Ora, ogni ambasciatore deve ricevere le istruzioni di colui che lo manda per farne gl’interessi: perciò come il sacerdote potrà adoperarsi per gl’interessi di Dio presso le anime se da Dio non ebbe una parola? E come avrà egli una parola da Dio se non con la preghiera?
E qui ritorna l’affermazione di San Pietro che abbiamo più volte ricordata: «Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola» (At. 6,4). Dove si vede che l’Apostolo pone prima di ogni cosa la preghiera nella quale riceverà le luci di Dio che poi trasmetterà ai fedeli con la predicazione. «Preghiera e ministero della parola». La parola che non è stata «pregata» sarà sempre un vano rumore; impotente e infeconda: invece di essere la parola di Dio sarà la parola dell’uomo. Perciò, prima di tutto e sopra tutto: bisogna pregare.
CAPITOLO VIII
L’UMILTÀ
Il sacerdote ha doppiamente bisogno della grazia di Dio: ne ha bisogno per se stesso, ne ha bisogno per il suo gregge. Siccome poi Iddio, seguendo la più che saggia legge della sua misericordia e della sua giustizia, resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili, ne consegue che il sacerdote ha una duplice necessità, una necessità più viva, di quanto ne hanno i fedeli, di essere veramente umile. Ha bisogno di conoscere le vie di Dio e i suoi segreti; ha bisogno di conciliarsi la grazia di Dio e di conciliarla alle anime delle quali è pastore. Come potrà egli essere mediatore associato a Dio se non è umile? Forse Iddio si rivelerà all’uomo che vuol penetrare nei suoi segreti per rapirgli la sua gloria e attribuirla a sé stesso? Farà Iddio canale della sua grazia l’uomo che col suo orgoglio si fa nemico della grazia? Come potrà trattare con Dio della riconciliazione delle anime colpevoli chi pone sé stesso in rivolta con Dio col suo orgoglio?
Senza umiltà non c’è ministero possibile: Dio certamente ci vuole elargire la sua grazia, ma non vuole che lo rapiniamo della sua gloria: e dal momento che un sacerdote cerca la gloria per sé, cessa di essere il mediatore della grazia: «Dio resiste ai superbi; agli umili invece dà la sua grazia» (Giac. 4,6).
CAPITOLO IX
DELLO ZELO DELLA GIUSTIZIA
Lo zelo della giustizia è perfetta abnegazione agli interessi di Dio e negli interessi di Dio sono necessariamente compresi gl’interessi delle anime: perché Dio vuole la salvezza delle anime; è lo stesso interesse di Dio, dal momento che lì sta la sua maggior gloria.
Gl’interessi di Dio sovente sono compromessi dagli uomini: in questo caso il pastore, che sta tra Dio e gli uomini, si troverà spesse volte in lotta con gli uomini per difendere gl’interessi di Dio. Lotta che non è senza difficoltà: poiché se il pastore deve sé stesso a Dio di cui è l’uomo, deve anche sé stesso alle anime delle quali è pastore, e pastore responsabile. Se egli vede gl’interessi di Dio, per così dire con un occhio solo, si affaticherà in un modo imperfetto e comprometterà le anime: e, per altro, se mira a non compromettere le anime, potrà tuttavia mancare gl’interessi di Dio.
La difficoltà è grande, sovente estrema: vi è un pericolo d’ambo i lati. Da un lato il pastore dovrà temere di venir meno nei riguardi di Dio e dall’altro di mancare verso le anime.
In un tale modo di essere le cose, lo zelo non è un consigliere sufficiente: può, se è solo, far cadere negli eccessi e può compromettere lo stesso bene che cerca. Con lo zelo ci vuole anche la scienza; con la scienza, l’umiltà, la purezza delle vedute e dell’intenzione; cose tutte che il pastore non troverà mai se non è prima di tutto uomo di preghiera: «Orationi… instantes erimus».
CAPITOLO X
IL SACERDOTE DEV’ESSERE 
UOMO INTERIORE
La molteplicità delle cose che fanno parte delle sollecitudini di un pastore è necessariamente grandissima: le persone e le cose, i corpi e le anime, gl’interessi spirituali dei fedeli e quelli temporali della chiesa, tutto pesa insieme sul pastore.
Tutti gli avvenimenti possono avere un influsso sugli interessi delle anime e il pastore deve necessariamente vigilare su tutto. Tutte le età, tutte le condizioni, tutti i buoni e tutti gli altri devono essere per lui oggetto d’incessante sollecitudine. Pero non ci può essere lì il pericolo di lasciarsi assorbire dalle sollecitudine esterne, dalle preoccupazioni delle persone e delle cose?
La carità che il pastore deve al suo gregge non potrebbe essere per lui una causa, un pretesto e un’occasione per lasciarsi assorbire nella cura delle cose esteriori, della salute, degli interessi temporali e di qualsiasi altro interesse?
Un pastore deve pensare un po’ a tutto, tener conto di tutto, estendere la sua carità a tutto, ma questo tutto non
deve punto assorbirlo. Sopra questo tutto che è il gregge, c’è il tutto che è Dio, e il sacerdote deve applicarsi a Dio più che a tutto, e non potrà essere veramente utile a tutto a condizione che sia tutto d’Iddio. Il pastore troverà in Dio la luce, la misura, il vero zelo, la discrezione e le virtù necessarie per transitare in mezzo alle sollecitudini esterne del ministero per esser utile al gregge senza nuocere a sé stesso; per dedicarsi al prossimo senza cessare di stare unito con Dio.
CAPITOLO XI
IL SACERDOTE 
DEV’ESSERE DISINTERESSATO
«Avaro nihil est scelestius», dice lo Spirito Santo (Eccl. X,9). Noi possiamo dire anche che nulla è più contrario allo spirito del ministero quanto l’amore al denaro.
Dio non è né oro, né denaro e l’uomo del denaro non può essere l’uomo di Dio.
Il sacerdote, se fosse possibile, non dovrebbe toccare per terra, «Perché è il messaggero del Signore degli eserciti» (Ml. 2,7).
Messaggero celeste, ambasciatore di Dio, il pastore deve aspirare soltanto al cielo e volere soltanto Dio; l’eredità da lui scelta quando divenne chierico: «Il Signore è mia parte di eredità» (Sal. 16,5).
Il pastore dedito a Dio e alle anime non può essere preso dalle sollecitudini del bene e del mangiare: «Non affannatevi dunque dicendo: che cosa mangeremo? Che cosa berremo?» (Mt. 6,31).
Il pastore che si rimettesse semplicemente per tutte queste cose alle cure della Provvidenza, non mancherebbe di nulla.
Questo esattamente accadde per gli Apostoli. Nostro Signore li aveva inviati a predicare, e li aveva inviati con nulla, e non manco loro alcunché: «Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa? Risposero: nulla» (Lc. 22,35-6).
Il pastore riceverà da Dio il suo pane quotidiano, e non riceverà soltanto per sé stesso, ma anche per i suoi poveri. Riceverà con una mano e darà con l’altra; e avrà tanto più da dare quanto più si rimetterà soltanto a Dio per ciò che gli occorrerà. Testimone San Vincenzo de’ Paoli, l’uomo che in questo mondo ha dato di più.

mercoledì 2 novembre 2016

IL SACERDOTE


LA CARITÀ COMPASSIONEVOLE VERSO TUTTI
Il sacerdote è debitore a Dio e al prossimo: a Dio deve la preghiera, al prossimo deve una tenera e compassionevole carità.
Nostro Signore che nell’Evangelo ci ha dato un si grande numero di divini insegnamenti di tenerezza verso i peccatori e ci ha insegnato le parabole si commoventi del figlio prodigo, della pecorella sperduta, la storia della donna adultera, è egli stesso il modello della tenera carità che deve avere il pastore delle anime.
«Che il pastore, scrive San Gregorio, sia avvicinato da tutti i suoi fedeli per la sua compassione: che con le viscere della sua misericordia attiri a sé e prenda su di sé per caricarle, le infermità di tutti. Che il pastore si mostri in modo tale che i fedeli non abbiano alcuna ripugnanza a rivelargli quanto hanno di più segreto, e quando i piccoli sono agitati dai flutti delle tentazioni facciano ricorso a lui, come al seno d’una madre, «quas; ad matris sinum!».
CAPITOLO VII
L’UNIONE A DIO NELLA PREGHIERA
Quando la carità compassionevole, la tenerezza paterna e anche materna deve avvicinare il pastore ai suoi fedeli, altrettanto lo zelo della preghiera deve mantenerlo unito a Dio.
Il pastore è l’uomo di Dio: non può nulla se non con l’aiuto della grazia: deve ricevere da Dio le istruzioni di Dio: da Dio deve sollecitare le grazie necessarie e a sé e al suo gregge. Come farà se prima di tutto egli non sarà uomo di preghiera?
Dice San Paolo: Noi siamo gli ambasciatori di Gesù Cristo: «Pro Christo legatione fungimur» (2 Cor. 5,20). Ora, ogni ambasciatore deve ricevere le istruzioni di colui che lo manda per farne gl’interessi: perciò come il sacerdote potrà adoperarsi per gl’interessi di Dio presso le anime se da Dio non ebbe una parola? E come avrà egli una parola da Dio se non con la preghiera?
E qui ritorna l’affermazione di San Pietro che abbiamo più volte ricordata: «Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola» (At. 6,4). Dove si vede che l’Apostolo pone prima di ogni cosa la preghiera nella quale riceverà le luci di Dio che poi trasmetterà ai fedeli con la predicazione. «Preghiera e ministero della parola». La parola che non è stata «pregata» sarà sempre un vano rumore; impotente e infeconda: invece di essere la parola di Dio sarà la parola dell’uomo. Perciò, prima di tutto e sopra tutto: bisogna pregare.
CAPITOLO VIII
L’UMILTÀ
Il sacerdote ha doppiamente bisogno della grazia di Dio: ne ha bisogno per se stesso, ne ha bisogno per il suo gregge. Siccome poi Iddio, seguendo la più che saggia legge della sua misericordia e della sua giustizia, resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili, ne consegue che il sacerdote ha una duplice necessità, una necessità più viva, di quanto ne hanno i fedeli, di essere veramente umile. Ha bisogno di conoscere le vie di Dio e i suoi segreti; ha bisogno di conciliarsi la grazia di Dio e di conciliarla alle anime delle quali è pastore. Come potrà egli essere mediatore associato a Dio se non è umile? Forse Iddio si rivelerà all’uomo che vuol penetrare nei suoi segreti per rapirgli la sua gloria e attribuirla a sé stesso? Farà Iddio canale della sua grazia l’uomo che col suo orgoglio si fa nemico della grazia? Come potrà trattare con Dio della riconciliazione delle anime colpevoli chi pone sé stesso in rivolta con Dio col suo orgoglio?
Senza umiltà non c’è ministero possibile: Dio certamente ci vuole elargire la sua grazia, ma non vuole che lo rapiniamo della sua gloria: e dal momento che un sacerdote cerca la gloria per sé, cessa di essere il mediatore della grazia: «Dio resiste ai superbi; agli umili invece dà la sua grazia» (Giac. 4,6).
CAPITOLO IX
DELLO ZELO DELLA GIUSTIZIA
Lo zelo della giustizia è perfetta abnegazione agli interessi di Dio e negli interessi di Dio sono necessariamente compresi gl’interessi delle anime: perché Dio vuole la salvezza delle anime; è lo stesso interesse di Dio, dal momento che lì sta la sua maggior gloria.
Gl’interessi di Dio sovente sono compromessi dagli uomini: in questo caso il pastore, che sta tra Dio e gli uomini, si troverà spesse volte in lotta con gli uomini per difendere gl’interessi di Dio. Lotta che non è senza difficoltà: poiché se il pastore deve sé stesso a Dio di cui è l’uomo, deve anche sé stesso alle anime delle quali è pastore, e pastore responsabile. Se egli vede gl’interessi di Dio, per così dire con un occhio solo, si affaticherà in un modo imperfetto e comprometterà le anime: e, per altro, se mira a non compromettere le anime, potrà tuttavia mancare gl’interessi di Dio.
La difficoltà è grande, sovente estrema: vi è un pericolo d’ambo i lati. Da un lato il pastore dovrà temere di venir meno nei riguardi di Dio e dall’altro di mancare verso le anime.
In un tale modo di essere le cose, lo zelo non è un consigliere sufficiente: può, se è solo, far cadere negli eccessi e può compromettere lo stesso bene che cerca. Con lo zelo ci vuole anche la scienza; con la scienza, l’umiltà, la purezza delle vedute e dell’intenzione; cose tutte che il pastore non troverà mai se non è prima di tutto uomo di preghiera: «Orationi… instantes erimus».
AVE MARIA!

mercoledì 26 ottobre 2016

Il ministero sac. è un’opera divina

LA GRANDEZZA DEL MINISTERO
È LA MISURA DELLE VIRTÙ CHE RICHIEDE

Il ministero è un’opera divina: «Questa è l’opera di Dio credere in colui che egli ha mandato» (Gv. 6,29). San Paolo lo chiama opera del Signore: «Opus Domini» (I Cor. 16,10) Dio, infatti è il primo autore della salvezza degli uomini; fu il primo a volerla, il primo che ne pose le condizioni e ne istituì i mezzi, il primo che vi si è adoperato in Gesù Cristo Nostro Signore: «È stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo» (2 Cor. 5,19).

Dio chiamo gli uomini a suoi cooperatori nell’opera della salvezza degli uomini, tuttavia Egli è l’agente principale nell’esecuzione dell’opera divina: «Affidando a noi la parola della riconciliazione; noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro» (Ivi 19,20). Ne consegue che il sacerdote è veramente l’ambasciatore, l’incaricato d’affari, il ministro di Dio, e come dice San Paolo: l’uomo di Dio: «Homo Dei» (I Tim. 6,2).
Da questo San Paolo conclude che l’uomo di Dio è preparato, disposto, diremmo quasi equipaggiato per ogni ope ra: «L’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona (2 Tim. 3,17). Ossia l’uomo di Dio diventa così, a suo modo, l’uomo-Dio e per i poteri divini che esercita dev’essere ornato di ogni virtù. Dev’essere perfetto come il Padre celeste è perfetto (Matteo, 5,48).
Perciò abbiamo molto da fare prima di poter dire come San Paolo: «Ci ha resi ministri adatti di una nuova alleanza» (2 Cor. 3,6).
Fra tutte le virtù necessarie al sacerdote, al ministro della salvezza delle anime, al pastore, San Gregorio Magno ne richiede principalmente dieci: ne parla in modo ammirevole nella seconda parte del suo Pastorale: voglia egli perdonarci se scriviamo al suo seguito qualche cosa intorno a quelle virtù ch’egli possedeva e che noi non possediamo.


LA CASTITÀ

Dio è santo, anzi è la stessa santità; per questo egli vuole che i suoi ministri siano santi. Orbene: il carattere proprio della santità del sacerdote è la castità.
Il vescovo nell’atto di ordinare i diaconi dice loro: «Estote assumpti a carnalibus desideriis, a terrenis concupiscentiis; estote nitidi, puri, casti sicut decet ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei» (Pont. Rom). Per cui se nel diacono si deve effettuare un tale ministero di assunzione, tanto più deve divenir grande nel sacerdote. L’uomo di Dio non può essere uomo della carne, perché Dio è tutto spirito.
Il sacerdote sia che si consideri in faccia a Dio e in faccia a nostro Signore, vedrà che deve a Dio e a nostro Signore l’omaggio della più perfetta castità. Se poi si considererà in faccia ai fedeli vedrà che a tutti deve sempre castità per essere sempre per loro l’uomo di Dio, pronto a dare i sacramenti, pronto a lavorare per guarire le piaghe delle anime.
La castità del sacerdote dev’essere una castità eccellente; se no sarebbe in difetto rispetto a Dio per la quotidiana celebrazione del Sacrificio e per la comunione quotidiana; in difetto rispetto ai fedeli per i quali non sarebbe mai un medico capace, qualora diventasse un uomo colpevole.
La purezza del sacerdote esige da lui una vita seria, regolata, mortificata, assente alle dissipazioni mondane, una vita di preghiera, ritirata e di studio.
È a questo prezzo che il sacerdote sarà l’uomo di Dio e si manterrà in alto nello stato di assunzione che il vescovo gli ha augurato, ordinandolo diacono. In questo modo egli potrà ascoltare la voce di Dio nella preghiera; potrà vedere con tranquillità e dall’alto lo stato delle anime sulla terra: potrà impegnarsi a guarirle senza esporsi a contrarre egli stesso il male.
Insomma, la castità è una virtù così indispensabile al sacerdote che assolutamente non esitiamo di affermare che la potenza del sacerdote è in ragione diretta della sua castità.
Per giudicarne, si guardino da un lato i Santi e dall’altro un sacerdote caduto o che sta per cadere: i Santi sono potenti «in opere et sermone»; i sacerdoti caduti o che stanno per cadere non possono nulla: danno a sé stessi la testimonianza della loro impotenza ed hanno il solo diritto di tacere.



IL BUON ESEMPIO

«Sii esempio ai fedeli», dice San Paolo al suo discepolo Timoteo (I Tim. 4,12). «Offri te stesso come esempio in tutto», dice a Tito (Tit. 2,7).
Scrive San Giovanni Crisostomo che l’anima del sacerdote dev’essere più pura dei raggi del sole (De Sacerdotio lib. VI, cap. 2).
Scrive anche che i vizi di un sacerdote non possono restare nascosti e quando fossero poca cosa si rivelano molto presto: «Ne utiquam possunt sacerdotum vitia latere, sed etiam exigua cito conspicua sunt» (Ibid. lib. III, cap. 14).
Senza il buon esempio il sacerdote non può né agire, né parlare utilmente per le anime. Egli deve avere il diritto d’insegnare agli altri.

San Gregorio Nazianzeno non pensava altrimenti quando diceva: «Prima di purificare bisogna essere purificati e prima d’insegnare la sapienza bisogna averla acquistata. Prima di rischiarare bisogna diventare luminosi; prima di condurre gli altri a Dio bisogna esserne vicini noi stessi e prima di santificare, bisogna essere santo» (Oratio I o II).
Il sacerdote non saprà mai insegnare le virtù che non possiede e non riuscirà a far praticare il bene ch’egli non avrà praticato. L’esempio è la prima forma di predicazione e senza questa non servirà a nulla tutta l’eloquenza di questo mondo: «Bronzo che risuona o un cembalo che tintinna». 

San Girolamo suppone il caso di un sacerdote che avesse intorno a sé dei fedeli virtuosi senza essere virtuoso egli stesso, o meno di coloro che devono imparare da lui e nettamente afferma che un sacerdote così fatto è la distruzione, la rovina della Chiesa, e una rovina violenta: «Vehementer enim Ecclesiam Dei destruit -meliores esse laicos quam clericos».

È facile cogliere la ragione di questo detto. I fedeli non trovando nei loro pastori ciò di cui hanno bisogno per progredire nelle virtù e anche per preservarsi, andranno verso il declino che sarà tanto più rapido quanto il pastore sarà meno atto a sostenerli là dov’essi avrebbero potuto spiccare il volo.

L’esempio è perciò necessario e dev’essere tanto più perfetto quando si devono istruire delle anime più perfette.

LA DISCREZIONE NEL SILENZIO

Il sacerdote deve saper conservare un silenzio discreto, il rispetto che deve a Dio, a nostro Signore, al Santo Sacramento e alle anime, delle quali è pastore gl’impongono una legge indispensabile di discreto silenzio.

Una sua parola di troppo può compromettere il suo ministero e nuocere alla stessa parola di Dio quando l’annuncerà.

Il sacerdote dovrebbe parlare soltanto quando ha da Dio l’ordine di parlare: ciò appartiene agli obblighi del ministro che deve aprire la bocca soltanto secondo le intenzioni del principe che lo ha inviato. 
Se il sacerdote è uomo di preghiera non avrà difficoltà ad osservare la legge della discrezione e del silenzio: quando si ha l’onore d’intrattenerci con Dio nella preghiera, con Nostro Signore durante il Santo Sacrificio, non si ha punta inclinazione a conversare con gli uomini.
Il sacerdote chiacchierone non sarà mai considerato dalle anime come uomo di Dio e in questo le anime non sbagliano mai.

AMDG et BVM

domenica 11 settembre 2016

L’uomo sottomesso a Dio avrebbe attinto direttamente la vita dalla Grazia


DONDE LA NECESSITÀ DEL MINISTERO ECCLESIASTICO


   L’autorità ecclesiastica come l’autorità civile, e, conseguentemente tutta l’economia del santo ministero, hanno la loro ragione di essere dopo la caduta originale.

Se Adamo non fosse caduto, l’umanità fedele a Dio avrebbe goduto di una felicità così grande che avrebbe avuto al di sopra di se stessa soltanto la felicità della vita eterna.

L’uomo sottomesso a Dio avrebbe attinto direttamente la vita dalla grazia; non avrebbe avuto bisogno di una guida per trovare Dio, e con la santa e divina grazia sarebbe andato a Lui senza inciampare e senza venir meno.

Ma l’umanità non è più così; il peccato è entrato nel mondo e ha mutato in un modo sorprendente tutte le condizioni di questa terra. 
Per difenderci contro gli iniqui, Dio volle che nella società vi fosse l’autorità dei re e per ricondurci al bene e alla vita eterna volle che ci fosse un’autorità ecclesiastica e un ministero ecclesiastico e infine volle che le sue grazie giungessero agli uomini attraverso mezzi proporzionati ai bisogni degli uomini decaduti.

Adamo, dimentico di ciò che doveva a Dio, considerò cosa buona piacere ad Eva, come Eva aveva considerato cosa buona ubbidire a Satana [...il peccato fu di Adamo, laDonna è innocente]; e Dio volendo che il rimedio rispondesse alla natura della colpa, da parte sua considerò cosa buona che l’uomo fosse assoggettato all’uomo, sottomesso ai sacramenti, sottomesso a un minuzzolo di pane, a una goccia d’acqua.

Cioè Dio umiliò la sua creatura orgogliosa e qui il nostro ministero ha la sua ragione di essere; per essere i ministri della salvezza degli uomini, noi siamo i ministri dell’umiliazione degli uomini.

Quanto queste prospettive devono umiliarci se abbiamo gli occhi per vedere la profondità dell’umana caduta, la vera natura dei rimedi dei quali siamo ministri e, per conseguenza, la vera natura del nostro ministero!

Oh! Non abbiamo certamente nulla per gloriaci dell’autorità che Dio ci ha dato, dal momento che questa autorità è essa stessa una prova sempre parlante, una testimonianza sempre irrevocabile della caduta dell’umanità, della nostra caduta in essa e con essa. 
Ora che siamo caduti abbiamo il duplice obbligo di rialzarci e di lavorare a rialzare gli altri.

Il primo sta al di sopra delle forze dell’uomo; che diremo dunque, che faremo noi che con questo primo obbligo dobbiamo rispondere anche al secondo?

Siamo dei caduti: è qui, nell’attuale condizione dell’umanità, la ragione del ministero ecclesiastico.


L’autorità ecclesiastica come l’autorità civile, e, conseguentemente tutta l’economia del santo ministero, hanno la loro ragione di essere dopo la caduta originale.

LIBRO TERZO Il campo del ministero CAPITOLO I
DONDE LA NECESSITÀ DEL MINISTERO ECCLESIASTICO
Dom Emmanuel Andrè
AMDG et BVM

sabato 10 settembre 2016

Ministero Snaturato e Sacramenti. // ...E' meglio sapere soltanto ciò che sapevano San Pietro e San Paolo! //


COME IL MINISTERO PUÒ ESSERE SNATURATO NELL'AMMINISTRAZION

DEI SACRAMENTI


Abbiamo detto (Libro I, cap. VII) qual è il compito dei sacramenti nell'economia della religione e, conseguentemente nel ministero ecclesiastico. 

I sacramenti non danno le disposizioni necessarie per riceverli, è evidente perciò che il ministero sarebbe snaturato se chi dà i sacramenti non avesse tutta la sollecitudine necessaria per far nascere queste disposizioni, tutta l'attenzione indispensabile per riconoscerle là dove sono e tutta la fermezza voluta per non dare i sacramenti dove non vi sono le disposizioni richieste da Dio stesso. 

Con quanta facilità ci si immagina ai nostri giorni di avere le disposizioni a un sacramento poiché si ha la volontà di riceverlo e la bontà di accettarlo! 

Non so se questo modo di pensare sia proprio di un gran numero di anime, ma è cosa certa che dove esiste è completamente fuori delle condizioni perché il sacramento possa portare qualche frutto.


CIÒ CHE PUÒ ESSERE IL MINISTERO QUANDO È SNATURATO


Il ministero può fallire al suo scopo per una moltitudine di cause diverse, come l'abbiamo dimostrato con quanto precede; che può essere allora il ministero se non abitudine, empirismo, o una specie di industria? 

Ci spieghiamo. 

L'abitudine è una specie di ministero ecclesiastico che consiste nel rispondere a ciò che è domandato e a fare di volta in volta ciò che si presenta. 

Ossia, si fa quanto si deve fare, in virtù di un certo ordine materiale, di un'usanza e di un'abitudine che non merita biasimo in se stessa. 

Ad un ministero così fatto manca poco meno di quanto manca ad un cadavere: l'anima, lo spirito.
 
L'empirismo... Ahimè quale parola in una materia tanto grave! 

La parola infelicemente richiama alla memoria quegli uomini che con un solo rimedio s'impuntano a guarire tutti i mali e son detti ciarlatani. 

Quando nel ministero si segue un metodo analogo a quello dei ciarlatani, vi si mette del buon volere (non diciamo della buona volontà nel senso teologico della parola): si vuole il bene, ci si dà da fare per il bene, ma è un da fare mosso da una volontà poco e male illuminata. 

Si possono fare dei grandi passi con la speranza che finalmente si imboccherà la buona strada; ma non si sa chiaramente che cos'è la buona strada e quali sono le condizioni per camminarvi con sicurezza. 

Noi chiamiamo una specie d'industria un certo ministero ecclesiastico nel quale si fa un grande spreco dello spirito: s'inventano mille modi, si mettono in movimento mille espedienti, s'impiegano mille e mille arti, ma vi è un male in tutto lo spirito che si esplica: la mancanza dello spirito di Dio. 

Abbiamo tra le mani un libro scritto recentemente, assai lodato ed anche coronato di un certo successo. 

Un libro che è un vero metodo dell'industrialismo in fatto di ministero. Contiene espedienti di cento maniere, per il sindaco e per il suo vice, per il castellano e la castellana, per il notaio e per il medico, per il maestro e per la guardia campestre, ecc. ecc.
 
Dopo aver letto questo libro ci siamo detti: ecco delle cose che San Pietro e San Paolo non sapevano. Poi ci venne alla mente questa riflessione: è meglio sapere soltanto ciò che sapevano San Pietro e San Paolo!


LE CONSEGUENZE DEL MINISTERO SNATURATO


Quando il ministero è snaturato, il sacerdote che non riesce a convertire le anime è portato ad affermarsi [afferrarsi] piuttosto al ministero che a sé stesso. 

Lontano dal dirsi: non sono un uomo di preghiera; non tratto la parola di Dio come di Dio; non vigilo perché i sacramenti che sono santi siano santamente ricevuti. 

Ma dirà molto facilmente a sé stesso che i mezzi che gli sono stati affidati sono impotenti, e che, logicamente non può nulla e che non c'è nulla da fare. 

Dopo ciò egli potrà cadere in una specie di pigrizia spirituale, che gli impedirà di vedere e il male che sta di fronte ai suoi occhi, e il bene da farsi, né i mezzi da prendere per far sì che il suo ministero sia utile al prossimo e a sé stesso. 

Se il male aumenterà potranno sorgere nell'anima del sacerdote dei dubbi intorno all'opera di nostro Signore nel creare il ministero; e il ministero divenuto impotente tra le sue mani, potrà essere considerato da lui impotente a causa di nostro Signore.
 
Ancora un passo: il sacerdote dapprima avvilito, poi esitante nella fede, cadrà nello scoraggiamento, potrà perdere la fede e precipitare in colpe che non hanno più nome, quando sono le colpe di un sacerdote: "Non peccata, sed monstra", dice Tertulliano. 

Certamente in tutti questi scalini di discesa c'è una logica, beninteso senza fatalità: che Dio voglia allontanare una si fatta caduta dal sacerdote!

AVE MARIA

giovedì 4 agosto 2016

IL VERO STATO DELLE ANIME


CAPITOLO V
 IL VERO STATO DELLE ANIME

L’umanità è passata per tre stati successivi, il primo dopo la caduta fino a Mosè e si chiama stato della legge di natura; il secondo da Mosè a nostro Signore ed è lo stato della legge scritta; il terzo da nostro Signore fino a noi, lo stato di grazia che durerà fino alla fine dei tempi.

Sant’Agostino li riassume in tre parole: «Ante legem, sub lege, sub gratia» e, andando più lontano, osserva che questi diversi stati della umanità s’incontrano facilmente nelle anime le quali possono stare «Ante legem», o «sub lege» o «sub gratia».

Un’anima sta «Ante legem» quando sta nell’ignoranza, sia perché non le fu data l’istruzione, sia perché l’ha trascurata, non conoscendone il valore.

Un’anima è «sub lege» quando conosce il bene che deve fare e il male che deve evitare; ma o perché non ha ancora ricevuto la fede, o perché ha trascurato il vivere secondo la fede, sta in peccato pur sapendo che cos’è il peccato.

Un anima è «sub gratia», quando, con conoscenza, ha ricevuto il dono della fede e la grazia di vivere secondo la fede che opera per mezzo della carità: «La fede che opera per mezzo della carità» (Gal. 5,6).

In questo felice stato d’anima cammina in pace nella via dei santi comandamenti: ama le leggi di Dio e soprattutto Dio; è libera nel bene che ama e avanza con fiducia verso la ricompensa che Dio le promette. Bisogna fare questa distinzione nelle anime per proporzionare le istruzioni alla loro necessità e per non esigere da esse ciò che sorpasserebbe le loro forze. Cosi un’anima che sta ancora «ante legem» ha maggior bisogno di ricevere di quanto non è capace di dare; in essa la buona volontà consiste nel ricevere la luce nella misura che le è data, e non le si deve chiedere di più.

L’anima, poi, che è «sub lege» ha bisogno di essere illuminata intorno alla natura della fede, ai misteri dell’Incarnazione, della redenzione, della grazia medicinale del Salvatore, e della natura della carità. Ha bisogno di essere portata alla preghiera e soprattutto al desiderio di una grazia maggiore e più abbondante.

L’anima che sta «sub gratia» chiede di essere ben istruita sulla natura della grazia, della sua gratuità, della sua necessità e sulle sue meravigliose operazioni, e così rimettendosi ad essa con amore, possa camminare nelle strade di tutte le buone opere.

Tale anima ha pur bisogno di essere istruita e affermata nell’umiltà onde non esporsi alle cadute: «Chi crede di stare in piedi guardi di non cadere» (I Cor. 10,12). «Tu resti li in ragione della fede. Non montare in superbia, ma temi» (Rm. 11,20). 

Da qui la necessità che l’istruzione sia proporzionata allo stato delle anime, e che da parte loro l’azione risponda all’istruzione: sarebbe grande sventura chiedere loro più di quanto possono davanti a Dio: per esempio se si volesse condurre alla comunione chi non è neppure «sub lege» o chi stesse «ante legem» in una deplorevole ignoranza Il male fatto alle anime, agendo in questo modo, è incalcolabile e tanto più deplorevole in quanto si sono usati i sacramenti che sono stati ricevuti senza conoscenza, senza preparazione, senza frutto e senza gusto: per cui i sacramenti ricevuti in tal maniera spesso sono gli ultimi sacramenti.

sabato 30 luglio 2016

Dom Emmanuel Andrè, «Sacerdozio e ministero»




COME SI PROPAGA IL MALE PRESENTE


La sorgente del male, l’abbiamo detto, è il peccato originale. Questa sorgente, pero, è segretissima, e proprio dal segreto che l’avvolge trae maggior facilità per propagare i suoi veleni.

Il peccato originale è poco conosciuto, e spesso mal conosciuto. Poiché ha gettato le anime nell’ignoranza, sembra impegnarsi a nascondere soprattutto la sua malizia che essenzialmente consiste in due cose: la perdita della giustizia originale e il deterioramento della natura: ma oggi, pur ammettendo la perdita della giustizia originale, si vorrebbe tuttavia non riconoscere che la natura è stata deteriorata.

Questa conoscenza così monca del peccato originale lascia campo libero ad una folla di errori, ed è assolutamente impotente nella salvezza di alcunché, seguendo la massima assai conosciuta: «Bonum ex integra causa: malum ex quocunque defectu».

Da questo non saper e non voler riconoscere il deterioramento della natura causato dal peccato originale derivano conseguenze funestissime.
La natura diventa orgogliosa di sé stessa nonostante la solenne espressione dell’Apostolo: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto» (1 Cor. 4,7).

La natura, essendosi fetta cieca sul suo male, è portata ad abusare del suo proprio bene. Ne abusa col farsene una arma contro Dio e nello stesso tempo per ferire sé stessa con nuove ferite. Possiede la ragione, la libertà e i sensi e ne abusa. La sua insolente rivolta contro Dio l’imprigiona nel naturalismo; e con uno strascico di inevitabili conseguenze la sua ragione sprofonda nel razionalismo, la sua libertà nel liberalismo e i suoi sensi nella sensualità.

Eppure dopo tutte queste spaventose conquiste nel male, la natura, essendo rimasta insoddisfatta, si volta contro il Salvatore; nega la sua divinità, l’umanità, la grazia, la sua Chiesa, per finire col negare tutto. Poi dice a se stessa come l’antica Babilonia: «Io e nessuno fuori di me» (Is. 48,8).

È vero che il male non è grande in tutte le anime; ma negli stessi credenti le verità sono singolarmente diminuite. Esiste per essi un naturalismo addolcito che non si preoccupa di esser elevato a dogma, ma che si contenta perfettamente di esser accettato come dottrina pratica. C’è un razionalismo mitigato che non condanna la fede, ma che spesso si riserva il diritto di giudicarla; c’è anche un liberalismo cattolico; e benché non si sia ancora osato di pronunciare il nome di un sensualismo cattolico, si deve tuttavia ammettere che il sensualismo ha già invaso molte anime cattoliche nelle quali la vita sensuale è giunta a soffocare la conoscenza della stessa mortificazione cristiana, senza la quale, pero, secondo la testimonianza dell’Apostolo non esiste la vita davanti a Dio: «Poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del vostro corpo, vivrete» (Rm. 8,13).

Qui bisogna sottolineare un fatto capitale sul quale il razionalismo ha singolarmente falsificata le idee delle stesse anime buone. Se si studiassero gli autori che hanno trattato della grazia fino al secolo XV o XVI e si confrontassero con essi gli autori dei tempi moderni, si potrebbe osservare che esiste tra loro una differenza considerevole. In quella si riconosce in tutta la sua potenza la grazia medicinale del Redentore, la gratuità e l’efficacia. Nei moderni, invece, l’efficacia della grazia per lo più è attribuita alla volontà della creatura mentre anticamente la si considerava come un dono della stessa grazia. Riteniamo perciò che gli uomini, anche quelli cristiani, del nostro tempo non sono in grado di leggere il trattato di San Bernardo: «De gratia et libero arbitrio» senza smarrirsi, e, forse, senza scandalizzarsi. L’Abate Rohrbacher non ha forse scritto che San Bernardo non seppe fare distinzione della natura e della grazia? Voi pigmei del secolo XIX, voi avete scritto ciò riguardo San Bernardo; voi avete scritto lo stesso di Sant’Agostino.

I piccoli uomini del tempo presente non hanno ricevuto dalla grazia le percezioni che ricevettero gli antichi, perciò non ritengono di aver tanta necessità di pregare per chiedere, ottenere e conservare la grazia. Che cos’è la preghiera oggi? Dove le anime che pregano? Non è forse vero che la maggior parte dei cristiani che ancora pregano fanno consistere la preghiera nella recita di formule? Oh quanto sono lontani dal cristianesimo di nostro Signore e dei suoi Apostoli che è spirito e vita!