martedì 14 marzo 2023

A san Francesco di Sales Dolcissimo Santo,

 SULLA NAVE DI DIO

A san Francesco di Sales

Dolcissimo Santo,

ho riletto un libro che vi riguarda: S. Francesco di Sales e il

nostro cuore di carne. L’ha scritto, a suo tempo, Henry Bordeaux

dell’accademia di Francia.

Prima, però, Voi stesso avevate scritto di avere un «cuore di

carne», che s’inteneriva, comprendeva, teneva conto delle realtà

e sapeva che gli uomini non sono puri spiriti, ma esseri sensibili.

Con questo cuore umano avete amato le lettere e le arti, avete

scritto con sensibilità finissima, incoraggiando perfino l’amico

vescovo Camus a scrivere romanzi. Vi siete chinato verso tutti

per dare a tutti qualcosa.

Già studente universitario a Padova, vi eravate imposto

di non fuggire o abbreviare mai conversazione con alcuno per

quanto poco simpatico e noioso; di essere modesto senza insolenza,

libero senza austerità, dolce senza affettazione, arrendevole

senza contraddire.

Avete tenuto la parola. Al padre, che vi aveva scelto per sposa

una ricca e graziosa ereditiera, avete amabilmente risposto: «Papà,

ho visto mademoiselle, ma essa merita meglio di me!».

Sacerdote, missionario, vescovo avete dato il vostro tempo

agli altri: fanciulli, poveri, ammalati, peccatori, eretici, borghesi,

nobildonne, prelati, prìncipi.

Avete avuto, come tutti, incomprensioni e contraddizioni:

«il cuore di carne» soffriva, ma continuava ad amare i contraddittori.

«Se una persona mi cavasse per odio l’occhio sinistro – avete

detto – sento che la guarderei benevolmente con l’occhio destro.

Se mi cavasse anche questo, mi resterebbe il cuore per volerle

bene».

Molti giudicherebbero questo un vertice. Per Voi il vertice è

un altro. Avete infatti scritto: «L’uomo è la perfezione dell’universo;

lo spirito è la perfezione dell’uomo; l’amore è la perfezione

dello spirito; l’amor di Dio è la perfezione dell’amore». Perciò il

vertice, la perfezione e l’eccellenza dell’universo è per voi amare

Dio.

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* * *

Siete, dunque, per il primato dell’amore divino. Si tratta di

rendere buona la gente? Cominci, questa gente, ad amare Dio;

una volta acceso e affermato nel cuore questo amore, il resto

verrà da sé.

La terapia moderna dice: non si può guarire una malattia

locale, se non si bada a riconquistare la salute di tutto il corpo

mediante un’igiene generale e potenti ricostituenti quali la trasfusione

di sangue e la fleboclisi. Su questa linea Voi avete scritto:

«Il leone è un animale potente, pieno di risorse; per questo può

dormire senza timore tanto in una tana nascosta quanto sul ciglio

di una strada battuta da altri animali». E avete concluso: dunque,

diventate leoni spirituali! riempitevi di forza, di amor di Dio e

così non avrete paura di quelle bestie che sono le mancanze.

È questo – secondo Voi – il sistema di santa Elisabetta d’Ungheria.

Questa principessa frequentò per dovere balli e divertimenti

di corte, ma ne ricavò vantaggio spirituale invece che

danno. Perché? perché «al vento (delle tentazioni) i grandi fuochi

(dell’amor divino) si dilatano, mentre i piccoli si spengono»!

I fidanzati di questo mondo dicono: «Il tuo cuore e una capanna!

». Trovano più tardi che la capanna, ahimè, non basta e

non ci vogliono più stare, perché il cuore s’è raffreddato.

Avete scritto: «Appena la regina delle api esce nei campi,

tutto il suo piccolo popolo la circonda; così l’amor di Dio non

entra in un cuore senza che tutto il corteggio delle altre virtù vi

prenda alloggio». Per voi prescrivere le virtù a un’anima priva

dell’amor di Dio è prescrivere di punto in bianco l’atletismo a

un organismo fiacco. Rafforzare con l’amore di Dio l’organismo,

viceversa, è preparare il campione e lanciarlo con sicurezza verso

le vette della santità.

* * *

Ma quale amore di Dio? Ce n’è uno fatto di sospiri, di pii

gemiti, di dolci sguardi al cielo. Ce n’è un altro, maschio, franco,

fratello gemello di quello che possedeva Cristo, quando nell’orto

disse: «Sia fatta non la mia, ma la tua volontà». Questo è l’unico

amor di Dio da Voi raccomandato.

Secondo Voi, chi ama Dio, bisogna che s’imbarchi sulla nave

di Dio, deciso ad accettare la rotta segnata dei suoi comandaUso

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menti, dalle direttive di chi lo rappresenta e dalle situazioni e

circostanze di vita da lui permesse.

Voi avete immaginato di intervistare Margherita, quando

stava per imbarcarsi per l’Oriente con suo marito san Luigi IX

re di Francia:

— Dove va, signora?

— Dove va il re.

— Ma sa di preciso dove il re vada?

— Egli me l’ha detto in via generica, tuttavia non mi preoccupo

di saper dove vada, mi preme solo d’andare con lui.

— Ma dunque, signora, non ha nessuna idea di questo viaggio?

— No, nessuna idea, tranne quella di essere in compagnia

del mio caro signore e marito.

— Suo marito andrà in Egitto, si fermerà a Damietta, in

Acri e in parecchi altri siti; non ha intenzione anche lei, signora,

d’andar colà?

— Veramente no: non ho altra intenzione che quella d’esser

vicina al mio re; i luoghi dove egli si reca, non hanno per me importanza

alcuna, se non in quanto vi sarà lui. Più che andare, io

lo seguo; non voglio il viaggio, ma mi basta la presenza del re.

Quel re è Dio e Margherita siamo noi, se amiamo Dio sul

serio. E quante volte, in quanti modi siete ritornato su questo

concetto! «Sentirsi con Dio come un bambino sulle braccia della

mamma; che ci porti sul braccio destro o sul braccio sinistro è

lo stesso, lasciamo fare a Lui». Se la Madonna affidasse il bambino

Gesù a una suora? Ve lo siete chiesto e avete risposto: «La

suora pretenderebbe non mollarlo più, ma sbaglierebbe; il vecchio

Simeone ha ricevuto sulle braccia il Bambino con gioia, ma

con gioia l’ha presto restituito. Così noi non dobbiamo piangere

troppo nel restituire la carica, il posto, l’ufficio, quando scade il

termine o ce lo richiedono».

Nel castello di Dio cerchiamo di accettare qualunque posto:

cuochi o sguatteri di cucina, camerieri, mozzi di stalla, panettieri.

Se piacerà al re chiamarci al suo consiglio privato, vi andremo,

senza commuoverci troppo, sapendo che la ricompensa non dipende

dal posto, ma dalla fedeltà con cui serviamo.

Questo il vostro pensiero. Qualcuno lo considera una specie

di fatalismo alla orientale. Ma non è. «La volontà umana – avete

scritto – è padrona dei suoi amori, come una signorina è padrona

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dei suoi innamorati, che la domandano in sposa. Ciò, prima che

essa scelga; fatta però la scelta e divenuta donna sposata, la situazione

si capovolge: da padrona che era, diventa soggetta e rimane

in balìa di colui che fu già sua preda.

Anche la volontà può scegliere l’amore a suo piacimento, ma,

una volta dichiaratasi per uno, resta sottoposta a questo. E però

vero che nella volontà esiste una libertà, che non c’è nella donna

maritata, poiché la volontà può respingere il suo amore quando

vuole, anche l’amore di Dio, eliminando ogni fatalismo.

* * *

Se vi sentissero i politici! Essi misurano l’azione dal successo.

«Riesce? Allora vale!». Voi: «Vale anche non riuscita, l’azione, se

fatta per amor di Dio; il merito della croce portata non è il suo

peso, ma il modo con cui è portata; ci può essere più merito a

portare una piccola croce di paglia che una grande croce di ferro;

il mangiare, il bere, il passeggiare fatti per amore di Dio possono

valere più del digiuno o dei colpi di disciplina».

Ma Voi avete fatto un passo ancora più avanti, dicendo che

l’amore di Dio può – in un certo senso – perfino cambiare le

cose, rendendo buone le azioni di per sé indifferenti o anche pericolose.

È il caso del gioco d’azzardo e del ballo (quello dei vostri

tempi, naturalmente), se si fa «per svago e non per attaccamento;

per poco tempo e non fino a stancarsi e stordirsi; e raramente, in

modo che non diventi occupazione invece che ricreazione».

Dunque, è alla qualità delle nostre azioni che bisogna badare,

più che alla grandezza e al numero! Avete letto ciò che ha scritto

Rabelais, vostro quasi contemporaneo, sulle devozioni insegnate

al giovane Gargantua? «Ventisei o trenta messe da ascoltare ogni

giorno, una serie di Kyrie eleyson, che sarebbero bastati per sedici

romiti!». Se avete letto, avete dato anche la risposta, insegnando

alla vostre suore: «È bene avanzare, però non con la moltitudine

delle pratiche di pietà, ma bensì perfezionandole. L’anno scorso

avete digiunato tre volte la settimana: quest’anno volete raddoppiare

e la settimana vi basterà. Ma il prossimo anno? Digiunerete

– digiunerete raddoppiando ancora – nove giorni la settimana

o due volte al giorno? Fate attenzione! È pazzia desiderare di

morire martiri delle Indie e intanto trascurare i propri doveri

quotidiani!».

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In altre parole: non tanto praticare le devozioni, quanto avere

la devozione. L’anima non è tanto una cisterna da riempire,

quanto una fontana da far zampillare!

E non solo l’anima delle suore. Con questi princìpi la santità

cessa di essere privilegio dei conventi e diventa potere e dovere

di tutti! Non diventa impresa facile (è la via della croce!), ma

ordinaria: qualcuno la realizza con atti o voti eroici alla maniera

delle aquile, che planano negli alti cieli; moltissimi la realizzano

con l’eseguire i doveri comuni di ogni giorno, in modo però

non comune, alla maniera delle colombe, che volano da un tetto

all’altro.

Perché desiderare i voli d’aquila, i deserti, i chiostri severi,

se non vi si è chiamati? Non facciamo come le malate nevrotiche,

che vogliono ciliegie d’autunno e uva in primavera! Applichiamoci

a ciò che Dio ci chiede secondo lo stato in cui siamo.

«Signora – avete scritto – bisogna accorciare un po’ le preghiere,

per non compromettere i doveri di casa. Siete sposata, siate sposa

totalmente senza eccessiva verecondia; non annoiate i vostri,

fermandovi troppo in chiesa; abbiate una devozione tale da farla

amare anche a vostro marito, ma ciò avverrà solo se questi vi

sentirà sua».

* * *

Concludendo, ecco l’ideale dell’amor di Dio vissuto in mezzo

al mondo: che questi uomini e queste donne abbiano ali per

volare verso Dio con la preghiera amorosa; abbiamo anche piedi

per camminare amabilmente con gli altri uomini; e non abbiano

«grinte fosche», ma volti sorridenti, sapendo di essere avviati verso

la gaia casa del Signore!

Novembre 1972

S.E.ALBINO LUCIANI

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