venerdì 17 gennaio 2020

Di fronte alla persistente crisi che il sacerdozio attraversa...

Il Sacerdozio Cattolico
Benedetto XVI

Di fronte alla persistente crisi che il sacerdozio attraversa
da molti anni, ho ritenuto necessario risalire
alle radici profonde della questione. Avevo intrapreso
un lavoro di riflessione teologica, ma l’età e una certa
stanchezza mi avevano costretto ad abbandonarlo. I
colloqui con il Cardinale Robert Sarah mi hanno dato
la forza di riprenderlo e di portarlo a termine.

Alle radici della grave situazione in cui versa oggi
il sacerdozio, si trova un difetto metodologico nell’accoglienza
della Scrittura come Parola di Dio.
L’abbandono dell’interpretazione cristologica
dell’Antico Testamento ha portato molti esegeti contemporanei
a una teologia senza il culto. Non hanno
compreso che Gesù, al posto di abolire il culto e l’adorazione
dovuti a Dio, li ha assunti e portati a compimento
nell’atto d’amore del suo sacrificio. Alcuni
sono giunti persino a rifiutare la necessità di un sacerdozio
autenticamente cultuale nella Nuova Alleanza.
Nella prima parte del mio saggio, ho voluto mettere
in luce la struttura esegetica fondamentale che consente
una corretta teologia del sacerdozio.

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Nella seconda parte, applicando questa ermeneutica
allo studio di tre testi, ho esplicitato le esigenze del
culto in spirito e verità. L’atto cultuale passa ormai
attraverso un’offerta della totalità della propria vita
nell’amore. Il sacerdozio di Gesù Cristo ci fa entrare
in una vita che consiste nel diventare uno con lui e
nel rinunciare a tutto ciò che appartiene solo a noi.
Per i sacerdoti questo è il fondamento della necessità
del celibato, come anche della preghiera liturgica, della
meditazione della Parola di Dio e della rinuncia ai
beni materiali.

Ringrazio il caro Cardinale Sarah per avermi dato
l’opportunità di assaporare nuovamente i testi della
Parola di Dio che hanno guidato i miei passi tutti i
giorni della mia vita.

1. Il formarsi del sacerdozio neotestamentario
nell’esegesi cristologico-pneumatologica

Il movimento che si era formato intorno a Gesù di
Nazaret – perlomeno nel periodo pre-pasquale – era
un movimento di laici. In questo somigliava al movimento
dei farisei, motivo per cui i primi contrasti descritti
nei Vangeli fanno riferimento essenzialmente al
movimento farisaico. Solo nell’ultima Pèsach [Pasqua]
di Gesù a Gerusalemme l’aristocrazia sacerdotale del
Tempio – i sadducei – si accorge di Gesù e del suo
movimento, fatto questo che conduce al processo,
alla condanna e all’esecuzione di Gesù. Il sacerdozio
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era ereditario: chi non proveniva da una famiglia di
sacerdoti non poteva neppure diventare sacerdote. Di
conseguenza, neppure i ministeri nella comunità che
andava costituendosi intorno a Gesù potevano appartenere
all’ambito del sacerdozio veterotestamentario.
Gettiamo un rapido sguardo sulle strutture ministeriali
essenziali della prima comunità di Gesù.
Apostolo
Nel mondo greco la parola «apostolo» rappresenta
un terminus technicus del linguaggio politico-istituzionale5.
Nel giudaismo precristiano la parola è utilizzata
nel suo collegare funzione profana d’inviato, responsabilità
di fronte a Dio e significato religioso. Essa indica
in questo contesto anche l’inviato incaricato e
autorizzato da Dio.
Episkopos
Nel greco profano indica funzioni alle quali sono
associati compiti di tipo tecnico e finanziario, ma comunque
ha anche un contenuto religioso, in quanto
sono perlopiù degli dèi a essere chiamati episkopos,
vale a dire «patrono». «La Septuaginta utilizza il ter-

5 Cfr. g. KIttel, F. geRhaRd (edd.), Theologisches Wörterbuch
zum Neuen Testament, W. Kohlhammer, Stuttgart 1957-
1979 (ristampa anastatica dell’edizione del 1933), I, p. 406.
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mine episkopos nel medesimo duplice modo in cui è
usato nella grecità pagana, come appellativo di Dio e
nel più generico significato profano di “sorvegliante”
in ambiti di vario tipo»6.
Presbyteros
Mentre tra i cristiani di origine pagana, per indicare
i ministri, prevale il termine episkopos, la parola presbyteros
è caratteristica dell’ambito giudeo-cristiano.
La tradizione ebraica del «più anziano» inteso come
una sorta di organo costituzionale, a Gerusalemme
con tutta evidenza andò presto sviluppandosi in una
prima forma ministeriale cristiana. A partire da qui,
nella Chiesa composta da giudei e pagani, andò sviluppandosi
quella triplice forma ministeriale di episcopi,
presbiteri e diaconi, che alla fine del I secolo si
rinviene – già chiaramente sviluppata – in Ignazio di
Antiochia. Essa sino a oggi esprime validamente, dal
punto di vista linguistico e ontologico, la struttura ministeriale
della Chiesa di Gesù Cristo.
Da quanto sinora detto dobbiamo trarre una prima
conclusione. Il carattere laicale del primo movimento
di Gesù e il carattere dei primi ministeri inteso non in
senso cultuale-sacerdotale non si basa affatto necessariamente
su una scelta anti-cultuale e anti-giudaica,
ma è invece conseguenza della particolare situazio-
6 Ibidem, II, p. 610.
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ne del sacerdozio veterotestamentario, per la quale
il sacerdozio è legato alla tribù di Aronne-Levi. Negli
altri due «movimenti laicali» del tempo di Gesù, il
rapporto con il sacerdozio è concepito diversamente:
i farisei sembrano avere fondamentalmente vissuto in
sintonia con la gerarchia del Tempio – a prescindere
dalla disputa sulla risurrezione del corpo. Presso gli
esseni, il movimento di Qumràn, la situazione è più
complessa. In ogni caso, in una parte del movimento
di Qumràn era marcato il contrasto con il Tempio
erodiano e il sacerdozio a esso corrispondente, ma
non per negare il sacerdozio, quanto invece proprio
per ricostituirlo nella sua forma pura e corretta. Anche
nel movimento di Gesù non si tratta affatto di
«desacralizzazione», «de-legalizzazione» e rifiuto di
sacerdozio e gerarchia. Di certo, però, viene ripresa la
critica dei profeti al culto ed è messa in sorprendente
unità con la tradizione del sacerdozio e del culto che
dobbiamo tentare di comprendere. Nel mio libro Introduzione
allo spirito della liturgia7 ho esposto la linea
critica dei profeti riguardo al culto ripresa da Stefano e
che san Paolo collega con la nuova tradizione cultuale
dell’Ultima cena di Gesù. Gesù stesso aveva ripreso e
approvato la critica dei profeti al culto, soprattutto in
rapporto alla disputa sulla giusta interpretazione dello
Shabbat (cfr. Mt 12,7).
  7 J. RatzIngeR, Introduzione allo spirito della liturgia, San
Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001.
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Consideriamo innanzitutto il rapporto di Gesù col
Tempio quale espressione della speciale presenza di
Dio in mezzo al suo popolo eletto e quale luogo di
culto regolato da Mosè. L’episodio di Gesù dodicenne
nel Tempio mostra che la sua famiglia era osservante
e che egli ovviamente ha partecipato alla devozione
della sua famiglia. Le parole dette alla madre «Devo
occuparmi delle cose del Padre mio» (Lc 2,49) sono
espressione della convinzione che il Tempio rappresenti
in modo speciale il luogo nel quale Dio abita e
dunque il giusto luogo di permanenza per il Figlio.
Anche nel breve periodo della sua vita pubblica, Gesù
partecipa ai pellegrinaggi di Israele al Tempio, e dopo
la sua risurrezione notoriamente la sua comunità si
raduna di regola nel Tempio per l’insegnamento e la
preghiera.
E tuttavia, con la purificazione del Tempio, Gesù
ha posto un accento fondamentalmente nuovo sul
Tempio (Mc 11,15ss; Gv 2,13-22). L’interpretazione,
secondo cui con quel gesto Gesù avrebbe solo combattuto
gli abusi, dunque confermando il Tempio, è
insufficiente. In Giovanni troviamo delle parole che
interpretano quell’azione di Gesù come prefigurazione
della distruzione della costruzione di pietra al cui
posto comparirà il suo corpo quale nuovo Tempio.
Questa interpretazione di Gesù, nei Sinottici, compare
sulla bocca di testimoni mendaci nel racconto del
processo (Mc 14,58). La versione dei testimoni è distorta
e dunque non utilizzabile ai fini dell’esito del
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processo. Ma resta il fatto che Gesù ha pronunciato
parole di questo tipo, l’espressione letterale delle quali
peraltro non poté essere determinata in modo sufficientemente
sicuro per il processo. La Chiesa nascente
ha perciò a ragione assunto come autenticamente
gesuana la versione giovannea. Questo significa che
Gesù considera la distruzione del Tempio come conseguenza
dell’atteggiamento sbagliato della gerarchia
sacerdotale dominante. Dio però qui – come in ogni
punto di svolta della storia della salvezza – utilizza l’atteggiamento
sbagliato degli uomini come un modus
del suo amore più grande. A questo livello evidentemente
Gesù considera in ultima analisi la distruzione
del Tempio esistente come un passo del risanamento
divino e la interpreta come definitiva nuova formazione
e impostazione del culto. In questo senso la purificazione
del Tempio è annuncio di una nuova forma di
adorazione di Dio e perciò riguarda la natura del culto
e del sacerdozio.
Per comprendere quello che con il culto Gesù ha
voluto e quello che non ha voluto è naturalmente decisiva
l’Ultima cena, con l’offerta del corpo e del sangue
di Gesù Cristo. Non è questa la sede per entrare
nella disputa poi sviluppatasi sulla giusta interpretazione
di questo avvenimento e delle parole di Gesù.
Importante è che Gesù, da un lato, riprende la tradizione
del Sinai e si presenta così come il nuovo Mosè;
dall’altro, però, egli riprende la speranza della Nuova
Alleanza formulata in modo particolare da Geremia,
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preannunciando così un superamento della tradizione
del Sinai al centro del quale sta egli stesso quale sacrificante
e sacrificato a un tempo. È importante considerare
che quel Gesù che sta in mezzo ai discepoli è
il medesimo che dona loro se stesso nella sua carne e
nel suo sangue e così anticipa la Croce e la risurrezione.
Senza la risurrezione il tutto non avrebbe senso.
La crocifissione di Gesù in sé non è un atto di culto e
i soldati romani che la eseguono non sono dei sacerdoti.
Essi compiono un’esecuzione, ma non pensano
neanche lontanamente di porre un atto di culto. Il fatto
che Gesù doni per sempre se stesso come cibo nella
sala dell’Ultima cena significa l’anticipazione della sua
morte e della sua risurrezione e la trasformazione di
un atto di crudeltà umana in un atto di donazione e
di amore. Così Gesù stesso compie il fondamentale
rinnovamento del culto che rimarrà per sempre valido
e vincolante: egli trasforma il peccato degli uomini
in un atto di perdono e di amore nel quale i futuri
discepoli possono entrare con la loro partecipazione a
ciò che Gesù ha istituito. In questo modo si comprende
anche quel che Agostino ha chiamato il passaggio,
nella Chiesa, dalla Cena al sacrificio mattutino. La
Cena è dono di Dio a noi nell’amore che perdona di
Gesù Cristo e permette all’umanità di accogliere a sua
volta il gesto dell’amore di Dio e di restituirlo a Dio.
In tutto questo nulla è detto direttamente sul sacerdozio.
E tuttavia, comunque, è evidente che l’antico
ordine di Aronne è superato e Gesù stesso si presenta
31
come il Sommo Sacerdote. È importante, inoltre, che
in questo modo si fondono la critica del culto da parte
dei profeti e la tradizione cultuale che parte da Mosè:
l’amore è il sacrificio. Nel mio libro su Gesù8 ho esposto
come questa nuova fondazione del culto e, con
esso, del sacerdozio, in Paolo è già interamente compiuta.
È un’unità basilare, fondata sulla mediazione
costituita dalla morte e risurrezione di Gesù, che era
chiaramente condivisa anche dagli avversari dell’annuncio
paolino.
La distruzione delle mura del Tempio causata
dall’uomo è assunta positivamente da Dio: non esistono
più muri, Cristo risorto è invece divenuto per
l’uomo lo spazio dell’adorazione di Dio. Così il crollo
del Tempio erodiano significa anche questo: che nulla
di divisivo si frappone più tra lo spazio linguistico
ed esistenziale della legislazione mosaica, da un lato,
e quello del movimento raccoltosi intorno a Gesù,
dall’altro. I ministeri cristiani (episkopos, presbyteros,
diakonos) e quelli regolati dalla legge mosaica (sommi
sacerdoti, sacerdoti, leviti) ora stanno apertamente
gli uni accanto agli altri e ora possono dunque, con
una chiarezza nuova, essere anche identificati gli uni
con gli altri. In effetti l’equiparazione terminologica
si compie relativamente presto (episkopos = sommo

   8 Cfr. J. RatzIngeR, Gesù di Nazaret. Seconda Parte.
Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice
Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 49-52.

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sacerdote, presbyteros = sacerdote, diakonos = levita).
La rinveniamo in modo del tutto ovvio nelle catechesi
sul battesimo di sant’Ambrogio, le quali però sicuramente
si rifanno a modelli e documenti più antichi, di
cui san Clemente Romano è uno dei primi testimoni,
verso il 96, nella sua Prima Lettera ai Corinzi: «Dobbiamo
fare con ordine tutto ciò che il Sovrano ci ha comandato
di adempiere nei tempi stabiliti. Egli ci ha
comandato che le offerte e le liturgie siano effettuate
non a caso e disordinatamente, ma nei tempi e nelle
ore stabilite […]. Poiché al sommo sacerdote sono
assegnate funzioni liturgiche proprie, e ai sacerdoti è
attribuito un posto proprio; ai leviti spettano servizi
propri e il laico è tenuto ai precetti che lo riguardano»9.
Assistiamo qui all’interpretazione cristologica
dell’Antico Testamento, che può essere chiamata anche
interpretazione pneumatologica e che rappresenta
il modo in cui l’Antico Testamento poté divenire e
rimanere la Bibbia dei cristiani. Se, da un lato, questa
interpretazione cristologico-pneumatologica poté anche
essere detta «allegorica» da una prospettiva storico-
letteraria, dall’altro, risulta comunque evidente la
profonda novità e la chiara motivazione della nuova
interpretazione cristiana dell’Antico Testamento: qui
l’allegoria non rappresenta un espediente letterario
per rendere il testo utilizzabile per nuovi scopi, ma

   9 clemente dI Roma, Lettera ai Corinzi, 40,1-5, a cura di B.
Artioli, ESD, Bologna 2010, p. 177.

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è espressione di un passaggio storico che corrisponde
alla logica interna del testo.
La Croce di Gesù Cristo è l’atto di amore radicale
nel quale si compie realmente la riconciliazione fra
Dio e il mondo segnato dal peccato. Questa è la ragione
per cui questo avvenimento, che di per sé non
è in alcun modo di tipo cultuale, rappresenta invece
la suprema adorazione di Dio. Nella Croce la linea
«catabasica» della discesa di Dio e la linea «anabasica»
dell’offerta dell’umanità a Dio divengono un unico
atto che ha reso possibile il nuovo Tempio del suo
corpo nella risurrezione. Nella celebrazione dell’Eucaristia
la Chiesa, anzi l’umanità, è sempre di nuovo
attirata e coinvolta in questo processo. Nella Croce di
Cristo la critica del culto da parte dei profeti giunge
definitivamente al suo scopo. Allo stesso tempo però
è istituito il nuovo culto. L’amore di Cristo sempre
presente nell’Eucaristia è il nuovo atto di adorazione.
Di conseguenza i ministeri sacerdotali di Israele sono
«annullati» nel servizio dell’amore, che al contempo
significa sempre adorazione di Dio. Questa nuova
unità di amore e culto, di critica del culto e di glorificazione
di Dio nel servizio dell’amore, è certamente
un compito inaudito affidato alla Chiesa che ogni generazione
deve nuovamente adempiere.
Il superamento pneumatico della «lettera» veterotestamentaria
nel servizio alla Nuova Alleanza richiede
così sempre di nuovo un superamento della «lettera»
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nello Spirito. Nel XVI secolo Lutero, sulla base di una
lettura dell’Antico Testamento di tipo completamente
diverso, non poté più compiere questo passaggio. Per
questo egli interpretò il culto veterotestamentario e
il sacerdozio a esso ordinato ormai solo come espressione
della «Legge», che per lui non era parte della via
di grazia di Dio, ma a essa si contrapponeva. Così egli
non poté che vedere un contrasto radicale fra gli uffici
ministeriali neotestamentari e il sacerdozio come
tale. Con il Vaticano II tale questione è divenuta assolutamente
ineludibile anche per la Chiesa cattolica.
L’«allegoria» come passaggio pneumatico dall’Antico
al Nuovo Testamento era divenuta incomprensibile.
E mentre il Decreto sul sacerdozio quasi non tratta
la questione, essa dopo il Concilio ci ha investito con
un’urgenza inaudita e si è trasformata nella perdurante
crisi del sacerdozio nella Chiesa.
Due annotazioni personali potranno contribuire
a illustrare quanto detto. Mi è rimasto impresso nella
memoria come, nella sua conversione da luterano
convinto a convinto cattolico, affrontò questa questione
con la sua consueta passione un mio amico, il
grande indologo Paul Hacker. Considerava i «sacerdoti
» una realtà superata una volta per tutte nel Nuovo
Testamento, e con appassionata indignazione si opponeva
innanzitutto al fatto che nella parola tedesca
«Priester», che proviene dal termine greco presbyter, di
fatto comunque continuasse a risuonare il significato
35
di sacerdos. Non so più come alla fine sia riuscito a risolvere
la questione.
Io stesso, in una conferenza sul sacerdozio della
Chiesa tenuta subito dopo Concilio, ho creduto di dover
presentare il presbitero neotestamentario come
colui che medita la Parola e non come «artigiano del
culto». Ora, la meditazione della Parola di Dio, in effetti,
è un compito grande e fondamentale del sacerdote
di Dio nella Nuova Alleanza. Ma questa Parola è
divenuta carne e meditarla significa sempre anche farsi
nutrire dalla carne che come pane del Cielo ci è donata
nella Santissima Eucaristia. La meditazione della
Parola nella Chiesa della Nuova Alleanza è anche un
sempre nuovo abbandonarsi alla carne di Gesù Cristo
e questo abbandonarsi è al contempo un esporsi alla
trasformazione di noi stessi per mezzo della Croce.
Su questo tornerò ancora in seguito. Fissiamo per il
momento alcuni passaggi nel concreto sviluppo della
storia della Chiesa. Un primo passo si vede nell’istituzione
di un nuovo ministero. Gli Atti degli Apostoli
ci riferiscono del sovraccarico di lavoro degli Apostoli
che, accanto al compito dell’annuncio e della preghiera
della Chiesa, dovevano assumere al contempo la
piena responsabilità della cura dei poveri. La conseguenza
fu che la parte ellenista della Chiesa nascente
si sentì trascurata. Così gli Apostoli decisero di concentrarsi
completamente sulla preghiera e sul servizio
alla Parola. Per i compiti caritativi essi crearono
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il ministero dei Sette che più tardi si identificò con il
diaconato. L’esempio di santo Stefano mostra come
anche questo ministero, peraltro, non richiedeva semplicemente
un puro lavoro pragmatico-caritativo ma
anche Spirito e fede, e dunque capacità di servizio alla
Parola.
Un problema rimasto fino a oggi cruciale scaturì
dal fatto che i nuovi ministeri non poggiavano sulla
discendenza familiare, ma su elezione e vocazione.
Mentre nel caso della gerarchia sacerdotale di Israele
la continuità veniva assicurata da Dio stesso, perché in
ultima analisi era lui a donare i figli ai genitori, i nuovi
ministeri non poggiavano al contrario sull’appartenenza
familiare ma su una vocazione donata da Dio
e da riconoscere da parte dell’uomo. Per questo nella
comunità neotestamentaria sin dall’inizio si pone il
problema della vocazione: «Pregate dunque il padrone
della messe che mandi operai nella sua messe!» (Mt
9,37). C’è sempre, in ogni generazione, la speranza e
la preoccupazione della Chiesa di trovare dei chiamati.
Sappiamo sin troppo bene quanto questo proprio
oggi rappresenti la preoccupazione e il compito della
Chiesa.
C’è un’ulteriore questione direttamente legata a
questo problema. Ben presto – non sappiamo esattamente
quando, ma in ogni caso molto presto – andò
sviluppandosi come essenziale per la Chiesa la celebrazione
regolare o addirittura quotidiana dell’Eu
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carestia. Il pane «supersostanziale» è al contempo il
pane «quotidiano» della Chiesa. Questo, però, ebbe
una conseguenza importante che proprio oggi assilla
la Chiesa10.
Nella coscienza comune di Israele era evidente che i
sacerdoti avrebbero dovuto attenersi all’astinenza sessuale
nei periodi in cui esercitavano il culto e dunque
stavano in contatto con il mistero divino. Il rapporto
fra astinenza sessuale e culto divino era assolutamente
chiaro nella coscienza comune di Israele. Come
esempio, vorrei solo ricordare l’episodio nel quale
David, in fuga da Saul, prega il sacerdote Achimelech
di dargli del pane: «Il sacerdote rispose a Davide:
“Non ho sottomano pani comuni, ho solo pani sacri:
se i tuoi giovani si sono almeno astenuti dalle donne,
potete mangiarne”. Rispose Davide al sacerdote: “Ma
certo! Dalle donne ci siamo astenuti da tre giorni”»
(1Sam 21,5s). Visto che i sacerdoti veterotestamentari
dovevano dedicarsi al culto solo in determinati perio-

10 Sul significato del termine epioúsios (supersubstantialis)
cfr. e. noRdhoFen, Was für ein Brot? [Che tipo di pane?], «Internationale
Katholische Zeitschrift Communio» 46 (2017) 1, pp.
3-22; g. neuhauS, Möglichkeit und Grenzen einer Gottespräsenz im
menschlichen «Fleisch». Anmerkungen zu Eckhard Nordhofens Relektüre
der vierten Vaterunser-Bitte [Possibilità e limiti di una presenza
divina nella «carne» dell’uomo. Considerazioni sulla rilettura di
Eckard Nordhofen sulla quarta richiesta del Padre Nostro], ibidem,
pp. 23-32.

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di, matrimonio e sacerdozio risultavano senz’altro tra
loro conciliabili.
A causa della celebrazione eucaristica regolare, o
in molti casi giornaliera, per i sacerdoti della Chiesa di
Gesù Cristo la situazione era radicalmente cambiata.
Tutta la loro vita è in contatto con il mistero divino
ed esige così un’esclusività per Dio la quale esclude
un altro legame accanto a sé, come il matrimonio, che
abbraccia l’intera vita. Sulla base della celebrazione
giornaliera dell’Eucaristia, e sulla base del servizio per
Dio che essa includeva, scaturì da sé l’impossibilità di
un legame matrimoniale. Si potrebbe dire che l’astinenza
funzionale si era trasformata da sé in un’astinenza
ontologica. In questo modo la sua motivazione
e il suo senso erano mutati dall’interno e in profondità.
Oggi invece si muove subito l’obiezione che si
tratterebbe di un giudizio negativo della corporeità
e della sessualità. L’accusa che alla base del celibato
sacerdotale ci sarebbe un’immagine del mondo manichea
veniva mossa già nel IV secolo, ma fu subito
respinta con decisione dai Padri e allora per qualche
tempo cessò. Una diagnosi di questo tipo è errata già
solo per il fatto che, sin da principio, nella Chiesa il
matrimonio era considerato un dono dato nel paradiso
da Dio. Ma esso assorbiva l’uomo nella sua interezza
e il servizio per il Signore richiedeva parimenti
l’uomo interamente, cosicché ambedue le vocazioni
non sembrarono realizzabili insieme. Così la capacità
di rinunciare al matrimonio per essere totalmente a
39
disposizione del Signore è divenuto un criterio per il
ministero sacerdotale.
Riguardo alla forma concreta di celibato nella
Chiesa antica, va ancora rilevato che i sacerdoti sposati
potevano ricevere il sacramento dell’Ordine se
si fossero impegnati all’astinenza sessuale, dunque a
contrarre il cosiddetto «matrimonio di san Giuseppe».
Questo nei primi secoli sembra essere stato assolutamente
normale. Evidentemente sussisteva un numero
sufficiente di persone che trovavano ragionevole e
vivibile un simile modo di vivere nel comune donarsi
al Signore11.

Tre testi per chiarire la nozione cristiana di
sacerdozio

A conclusione di queste riflessioni vorrei interpretare
tre passi scritturistici nei quali emerge con chiarezza
il passaggio dalle pietre al corpo, e dunque la
profonda unità fra i due Testamenti, che tuttavia non
rappresenta semplicemente un’unità meccanica ma
un progredire nel quale l’intenzione profonda delle

11 Ampie informazioni sulla storia del celibato nei primi
secoli si trovano in: S. heId, Zölibat in der frühen Kirche. Die
Anfänge einer Enthaltsamkeitspflicht für Kleriker in Ost und West [Il
celibato nella Chiesa primitiva. L’inizio dell’obbligo dell’astinenza per
i membri del clero in Oriente e in Occidente], Ferdinand Schöningh,
Paderborn 1997.

40
parole iniziali si compie proprio attraverso il passaggio
dalla “lettera” allo Spirito.


Salmo 16,5-6: le parole per l’accettazione nello stato clericale
prima del Concilio

Vorrei in primo luogo interpretare le parole del
Salmo 16,5-6 che prima del Concilio Vaticano II erano
utilizzate per l’accettazione nel clero. Erano recitate
dal vescovo e poi ripetute dal candidato, che così veniva
accolto nel clero della Chiesa: «Dominus pars hereditatis
meae et calicis mei tu es qui restitues hereditatem
meam mihi». «Il Signore è mia parte di eredità e mio
calice: nelle tue mani è la mia vita. Per me la sorte è
caduta su luoghi deliziosi: la mia eredità è stupenda»
(Sal 16,5-6). In effetti il Salmo esprime esattamente,
per l’Antico Testamento, quello che ora vuol dire nella
Chiesa: accettazione nella comunità sacerdotale.
Il passo si riferisce al fatto che tutte le tribù d’Israele,
ogni singola famiglia, rappresentava l’eredità della
promessa di Dio ad Abramo. Questo si esprimeva
concretamente nel fatto che ogni famiglia otteneva in
eredità una porzione della Terra promessa come sua
proprietà. Il possesso di una porzione di Terra santa
dava a ogni singolo la certezza di essere partecipe
della promessa e in pratica significava il suo concreto
sostentamento. Ognuno doveva ottenere tanta terra
quanta gliene occorreva per vivere. Quanto importante
fosse per il singolo questa concreta eredità si
evince chiaramente dalla storia di Nabot (1Re 21,1-29)
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che non è assolutamente disposto a cedere al re Acab
la sua vigna, nonostante che quest’ultimo sia pronto
a risarcirlo pienamente. La vigna, per Nabot, è più di
un prezioso appezzamento di terra: è la sua partecipazione
alla promessa di Dio a Israele. Se, da un lato,
ogni israelita disponeva in questo modo del terreno
che gli assicurava il necessario per vivere, dall’altro, la
particolarità della tribù di Levi risiede nel fatto che era
l’unica tribù che non ereditava terreni. Il levita restava
privo di terra e dunque privo di un’immediata base di
sostentamento in termini di terra. Egli vive soltanto
di Dio e per Dio. Concretamente questo significa che
egli può vivere, in un modo regolato con precisione,
delle offerte sacrificali che Israele riserva a Dio.
Questa figura veterotestamentaria si realizza nei
sacerdoti della Chiesa in modo nuovo e più profondo:
essi devono vivere soltanto di Dio e per lui. Che
cosa questo concretamente significhi è chiaramente
detto soprattutto in Paolo. Egli vive di quello che gli
daranno gli uomini, perché egli dona loro la Parola di
Dio che è il nostro autentico pane, la nostra vera vita.
Di fatto, in questa trasformazione neotestamentaria
dell’essere privi di terra dei leviti, traspare la rinuncia
al matrimonio e alla famiglia che consegue dal radicale
essere per Dio. La Chiesa ha interpretato la parola
«clero» (comunione ereditaria) in questo senso. Entrare
a far parte del clero significa rinunciare a un proprio
centro di vita e accettare soltanto Dio come sostegno
e garante della propria vita.
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Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo
della sua esistenza, la terra della sua vita, è Dio stesso.
Il celibato, in vigore per i vescovi in tutta la Chiesa
d’Oriente e d’Occidente e, secondo una tradizione che
risale a un’epoca vicina a quella apostolica, per tutti i sacerdoti
nella Chiesa latina, in definitiva non può essere
compreso e vissuto se non su questo fondamento.
Avevo a lungo riflettuto su questa idea in occasione
degli Esercizi che avevo predicato a Giovanni Paolo II
e alla Curia romana all’inizio della Quaresima 1983:
«Per questo non occorre più fare grandi trasposizioni
nella nostra propria spiritualità. Parti fondamentali
del sacerdozio sono così qualcosa come l’essere esposto
del levita, la mancanza di una terra, l’essere proiettato-
in-Dio. Il racconto della vocazione di Luca 5,1-11
[…] si conclude non senza ragione con le parole: “Essi
lasciarono tutto e lo seguirono” (v. 11). Senza un tale
abbandono delle proprie cose non c’è Sacerdozio. La
chiamata alla sequela non è possibile senza questo segno
di libertà e di rinuncia di qualsiasi compromesso.
Credo che da questo punto di vista il celibato acquisti
il suo grande significato come abbandono di un futuro
paese terreno e di un proprio ambito di vita familiare,
e che anzi diventi proprio indispensabile affinché possa
rimanere fondamentale il venir consegnato a Dio
e acquistare la sua concretezza. Questo significa ben
s’intende che il celibato impone le sue esigenze riguardo
a tutte le forme d’impostazione della vita. Non può
raggiungere il suo pieno significato, se noi per il resto
seguiamo le regole della proprietà e del gioco della
43
vita oggi comunemente accettata. Non può soprattutto
avere stabilità, se noi non facciamo del nostro ambientarci
presso Dio il centro della nostra vita.
Il Salmo 16, quanto il Salmo 119, è un vigoroso accenno
alla necessità della continua dimestichezza
meditativa con la parola di Dio, che solamente così
può divenire per noi domicilio. L’aspetto comunitario,
ad esso necessariamente congiunto, della pietà
liturgica emerge là dove il Salmo 16 parla del Signore
come “mio calice” (v. 5). Secondo il linguaggio abituale
dell’Antico Testamento questo accenno si riferisce
al calice festivo che veniva fatto passare di mano in
mano nella cena cultuale, o al calice fatale, al calice
dell’ira o della salvezza. L’orante sacerdotale del Nuovo
Testamento vi può trovare indicato in modo particolare
quel calice, mediante il quale il Signore nel
senso più profondo è diventato la nostra terra, il Calice
Eucaristico, nel quale egli partecipa se stesso come
nostra vita. La vita sacerdotale alla presenza di Dio è
così concretizzata nella vita in virtù del mistero eucaristico.
Nel senso più profondo l’Eucaristia è la terra,
che è diventata nostra porzione e della quale possiamo
dire: “Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi;
sì, la mia eredità è magnifica!”»12.
È sempre vivo nella mia memoria il ricordo di quando,
meditando questo versetto del Salmo 16 alla vigilia

12 J. RatzIngeR, Il cammino pasquale, Àncora, Milano 20064,
pp. 157-158.

44
della mia tonsura, compresi cosa il Signore volesse da
me in quel momento: voleva egli stesso disporre interamente
della mia vita e in questo modo al contempo
affidarsi interamente a me. Così potei considerare le
parole del Salmo interamente come il mio destino: «Il
Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue
mani è la mia vita. Per me la sorte è caduta su luoghi
deliziosi: la mia eredità è stupenda» (Sal 16, 5).

Deuteronomio 10,8 e 18,5-8. Le parole assunte nella II
Preghiera eucaristica: il compito della tribù di Levi riletto
cristologicamente e pneumatologicamente per i sacerdoti
della Chiesa

In secondo luogo, vorrei analizzare un passo tratto
dalla II Preghiera eucaristica della Liturgia romana
successiva alla riforma del Vaticano II. Il testo della
II Preghiera eucaristica è generalmente attribuito a
sant’Ippolito († 235 circa); in ogni caso è molto antico.
In essa troviamo le seguenti parole: «Domine, panem
vitae et calicem salutis offerimus, gratias agentes quia nos
dignos habuisti astare coram te et tibi ministrare». Questa
frase non significa, come alcuni liturgisti vollero farci
credere, lo stabilire che anche durante la Preghiera
eucaristica i sacerdoti e i fedeli dovevano stare in piedi
e non inginocchiarsi 13. La giusta comprensione di

13 Mentre la traduzione tedesca ufficiale della II Preghiera
eucaristica dice correttamente «vor dir zu stehen und dir zu dienen
» («a stare davanti a te e a te servire»), la traduzione italiana

45
questa frase si evince dal considerare che essa è tratta
letteralmente da Dt 10,8 (di nuovo in Dt 18,5-8), dove
descrive il compito cultuale essenziale della tribù di
Levi: «In quel tempo il Signore prescelse la tribù di
Levi per portare l’arca dell’alleanza del Signore, per
stare davanti al Signore al suo servizio e per benedire
nel nome di lui» (Dt 10,8). «Perché il Signore tuo
Dio l’ha scelto fra tutte le tue tribù, affinché attenda
al servizio del nome del Signore, lui e i suoi figli per
sempre» (Dt 18,5).
Queste parole, che nel Deuteronomio hanno il compito
di definire l’essenza del servizio sacerdotale, sono
poi state assunte nella Preghiera eucaristica della
Chiesa di Gesù Cristo, della Nuova Alleanza, esprimendo
in tal modo la continuità e la novità del sacerdozio.
Quel che allora veniva detto della tribù di Levi
e che spettava esclusivamente a essa, ora è applicato
ai presbiteri e ai vescovi della Chiesa. Non si tratta –
come forse si sarebbe portati ad affermare sulla base
di una concezione ispirata alla Riforma – di una ricaduta
dalla novità della comunità di Gesù Cristo, in un
sacerdozio cultuale superato e da respingere; si tratta
invece del nuovo passo della Nuova Alleanza, la quale
assume e nel contempo trasforma l’Antico elevandolo
all’altezza di Gesù Cristo. Il sacerdozio non è più
una faccenda di appartenenza familiare, ma è aperto

------
semplifica il testo, omettendo l’immagine dello stare davanti a
Dio, e dice: «Ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua 
presenza a compiere il servizio sacerdotale».

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alla vastità dell’umanità. Non è più amministrazione
del sacrificio nel Tempio, ma inclusione dell’umanità
nell’amore di Gesù Cristo che abbraccia tutto il mondo:
culto e critica del culto, sacrificio liturgico e servizio
dell’amore al prossimo sono divenuti una cosa
sola. Perciò questa frase («astare coram te et tibi ministrare
») non parla di un atteggiamento esteriore; essa,
invece, quale punto più profondo di unità fra Antico
e Nuovo Testamento, descrive la natura stessa del sacerdozio,
che a sua volta non si riferisce a una determinata
classe di persone, ma in ultima analisi rimanda
al nostro stare tutti davanti a Dio.
Ho cercato di interpretare questo testo in un’omelia
in San Pietro per il Giovedì Santo del 2008 che
qui riprendo e riporto: «Allo stesso tempo, il Giovedì
Santo è per noi un’occasione per chiederci sempre
di nuovo: A che cosa abbiamo detto “sì”? Che cosa è
questo “essere sacerdote di Gesù Cristo”? Il Canone II
del nostro Messale, che probabilmente fu redatto già
alla fine del II secolo a Roma, descrive l’essenza del
ministero sacerdotale con le parole con cui, nel Libro
del Deuteronomio (18,5-7), veniva descritta l’essenza del
sacerdozio veterotestamentario: “astare coram te et tibi
ministrare”. Sono quindi due i compiti che definiscono
l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo lo
“stare davanti al Signore”. Nel Libro del Deuteronomio
ciò va letto nel contesto della disposizione precedente,
secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna porzione
di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di
47
Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori necessari
per il sostentamento della vita quotidiana. La loro
professione era “stare davanti al Signore” – guardare a
Lui, esserci per Lui. Così, in definitiva, la parola indicava
una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un
ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri
coltivavano la terra, della quale viveva anche il sacerdote,
così egli manteneva il mondo aperto verso Dio,
doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui. Se questa
parola ora si trova nel Canone della Messa immediatamente
dopo la consacrazione dei doni, dopo l’entrata
del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò indica
per noi lo stare davanti al Signore presente, indica
cioè l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale.
Ma anche qui la portata va oltre. Nell’inno della Liturgia
delle Ore che durante la Quaresima introduce
l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso
i monaci era recitato durante l’ora della veglia notturna
davanti a Dio e per gli uomini – uno dei compiti
della Quaresima è descritto con l’imperativo: “arctius
perstemus in custodia” – stiamo di guardia in modo più
intenso. Nella tradizione del monachesimo siriaco, i
monaci erano qualificati come “coloro che stanno in
piedi”; lo stare in piedi era l’espressione della vigilanza.
Ciò che qui era considerato compito dei monaci,
possiamo con ragione vederlo anche come espressione
della missione sacerdotale e come giusta interpretazione
della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve
essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte
alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il
48
mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto
di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità.
Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore
deve essere sempre, nel più profondo, anche un
farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua
volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve
essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola,
della sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sacerdote,
impavido e disposto a incassare per il Signore
anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli:
essi erano “lieti di essere stati oltraggiati per amore del
nome di Gesù” (5,41).
Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II
riprende dal testo dell’Antico Testamento – “stare davanti
a te e a te servire”. Il sacerdote deve essere una
persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A
tutto ciò si aggiunge poi il servire. Nel testo veterotestamentario
questa parola ha un significato essenzialmente
rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di
culto previste dalla Legge. Ma questo agire secondo il
rito veniva poi classificato come servizio, come un incarico
di servizio, e così si spiega in quale spirito quelle
attività dovevano essere svolte. Con l’assunzione
della parola “servire” nel Canone, questo significato
liturgico del termine viene in un certo modo adottato
– conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò
che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione
dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a
Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha
reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli
49
uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote
deve inserirsi. Così la parola “servire” comporta molte
dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la
retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in
genere, compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo
imparare a comprendere sempre di più la sacra
Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva
familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra
vita quotidiana. È allora che celebriamo in modo
giusto, allora emerge da sé l’ars celebrandi, l’arte del
celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto.
Deve diventare una cosa sola con l’arte del
vivere rettamente. Se la Liturgia è un compito centrale
del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera
deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre
di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di
Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cristiana,
per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo
essere persone che con la Parola di Dio hanno
familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo
spiegarla in modo adeguato. “Servire il Signore” – il
servizio sacerdotale significa proprio anche imparare
a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere
a tutti coloro che Egli ci affida.
Fanno parte del servire, infine, ancora due altri
aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il
servo che ha accesso alla dimensione più privata della
sua vita. In questo senso “servire” significa vicinanza,
richiede familiarità. Questa familiarità comporta
anche un pericolo: quello che il sacro da noi conti
50
nuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si
spegne così il timore riverenziale. Condizionati da
tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande,
nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente,
ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla
realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore
dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre
di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è
nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani.
Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto
anche obbedienza. Il servo sta sotto la parola: “Non
sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22,42). Con
questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la
battaglia decisiva contro il peccato, contro la ribellione
del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva,
appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua volontà
e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità
è sempre quella di voler essere totalmente autonoma,
di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che
solo così noi saremmo liberi; che solo grazie a una
simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completamente
uomo, diventerebbe divino. Ma proprio così
ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi
dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri
e possiamo essere liberi soltanto in comunione con
loro. Questa libertà condivisa può essere libertà vera
solo se con essa entriamo in ciò che costituisce la misura
stessa della libertà, se entriamo nella volontà di
Dio. Questa obbedienza fondamentale che fa parte
dell’essere uomini, diventa ancora più concreta nel
51
sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e
la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Non
inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fosse,
ma annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto
solo nella comunione del suo Corpo. La nostra obbedienza
è un credere con la Chiesa, un pensare e parlare
con la Chiesa, un servire con essa. Rientra in questo
sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro:
“Sarai portato dove non volevi”. Questo farsi guidare
dove non vogliamo è una dimensione essenziale del
nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In
un tale essere guidati, che può essere contrario alle
nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa nuova –
la ricchezza dell’amore di Dio.
“Stare davanti a Lui e servirLo”: Gesù Cristo come
il vero Sommo Sacerdote del mondo ha conferito a
queste parole una profondità prima inimmaginabile.
Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto
diventare quel servo di Dio che la visione del Libro
del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto essere il
servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo sommo
sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi. Con
il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi
sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla
malattia della nostra superbia. Così ci rende capaci di
diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera
ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere
con Lui e verso di Lui. La sua elevazione è la Croce.
È la discesa più profonda e, come amore spinto sino
alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera
52
“elevazione” dell’uomo. “Stare davanti a Lui e servir-
Lo” – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di
servo di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa
e dell’ascesa di Cristo rimanda così sempre, al di là
di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore
del prossimo. Chiediamo al Signore, in questo giorno,
il dono di poter dire in tal senso nuovamente il nostro
“sì” alla sua chiamata: “Eccomi. Manda me, Signore”
(Is 6,8). Amen»14.

Giovanni 17,17: la preghiera sacerdotale di Gesù,
interpretazione dell’ordinazione sacerdotale

   Infine vorrei riflettere ancora un istante su alcune
parole tratte dalla preghiera sacerdotale di Gesù (Gv
17), che alla vigilia della mia ordinazione sacerdotale
si impressero particolarmente nel mio cuore. Mentre
i Sinottici essenzialmente riportano la predicazione di
Gesù in Galilea, Giovanni – che sembra aver avuto
rapporti di parentela con l’aristocrazia del Tempio
– riferisce soprattutto dell’annuncio di Gesù a Gerusalemme
e delle questioni riguardanti il Tempio e il
culto. In questo contesto la preghiera sacerdotale di
Gesù (Gv 17) acquista un rilievo particolare.

14 Benedetto XVI, Il sacerdote: uomo in piedi, dritto, vigilante,
Omelia durante la messa crismale nella Basilica Vaticana di San
Pietro, mattina del Giovedì Santo, 20 marzo 2008. Cfr. anche
Insegnamenti di Benedetto XVI, IV, 1 (gennaio-giugno 2008),
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, pp. 442-446.

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Non intendo qui ripetere i singoli elementi che ho
analizzato nel secondo tomo del mio libro su Gesù15.
Vorrei solo limitarmi ai versetti 17 e 18 che mi colpirono
particolarmente alla vigilia della mia ordinazione
sacerdotale. Recitano così: «Consacrali [santificali]
nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai
mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro
nel mondo». Il termine «santo» esprime la particolare
natura di Dio. Lui solo è il Santo. L’uomo diventa
santo nella misura in cui inizia a stare con Dio. Stare
con Dio significa scardinamento del puro io e il suo divenire
una sola cosa con il tutto della volontà di Dio.
Questa liberazione dall’io può tuttavia risultare molto
dolorosa e non è mai compiuta una volta per tutte.
Con il termine «santifica» può tuttavia essere intesa
molto concretamente anche l’ordinazione sacerdotale
che significa appunto la rivendicazione radicale
dell’uomo da parte del Dio vivo per il suo servizio.
Quando il testo dice «Consacrali [santificali] nella verità
», il Signore prega il Padre di includere i Dodici nella
sua missione, di ordinarli sacerdoti.
«Consacrali [santificali] nella verità». Sembra qui
sommessamente indicato anche il rito dell’ordinazione
sacerdotale veterotestamentaria. L’ordinando veniva
fisicamente purificato con un lavacro completo
per fargli successivamente indossare le vesti sacre.
Ambedue le cose prese insieme significano che, in
questo modo, l’inviato deve diventare un uomo nuo-

15 Cfr. J. RatzIngeR, Gesù di Nazaret, op. cit., pp. 91-118.

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vo. Ma quel che nel rituale veterotestamentario è figura
simbolica, nella preghiera di Gesù diventa realtà.
Il solo lavacro che può realmente purificare gli uomini
è la verità, è Cristo stesso. Ed egli è anche la veste
nuova accennata nell’esteriore vestizione cultuale.
«Consacrali [santificali] nella verità». Significa: immergili
completamente in Gesù Cristo affinché valga per
loro quel che Paolo ha indicato come l’esperienza fondamentale
del suo apostolato: «Non sono più io che
vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Così, alla sera di quella vigilia, si è impresso profondamente
nella mia anima che cosa significa davvero
l’ordinazione sacerdotale al di là di ogni aspetto cerimoniale:
significa essere sempre di nuovo purificati
e pervasi da Cristo così che è Lui a parlare e agire in
noi, e sempre meno noi stessi. E mi è divenuto chiaro
che questo processo del divenire una cosa sola con lui
e il superamento di ciò che è solo nostro dura tutta la
vita e racchiude anche sempre dolorose liberazioni e
rinnovamenti.
In questo senso le parole di Gv 17,17 sono state
un’indicazione di cammino in tutta la mia vita.

Benedetto XVI

Città del Vaticano, Monastero “Mater Ecclesiae”,
17 settembre 2019

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