mercoledì 25 dicembre 2013

Chiama tutti nel rifugio luminoso e sicuro del mio Cuore Immacolato



...Questo è il compito che ti ho affidato: portare in ogni parte del mondo 
il mio materno annuncio e chiamare tutti i miei figli ad entrare, con il loro 
atto di consacrazione, nel rifugio luminoso e sicuro del mio Cuore Immacolato.
Perché la prova che sta per giungere a voi è tanto grande e siete chiamati tutti 
a soffrire con Me. 

Ma la vostra è come la sofferenza di una mamma che deve dare alla luce il 
suo bambino.
Infatti l'immenso dolore di questi ultimi tempi prepara la nascita di una 
nuova era, dei tempi nuovi, in cui Gesù verrà nello splendore della sua gloria 
ed instaurerà il suo Regno nel mondo.

Allora tutta la creazione, liberata dalla schiavitù del peccato e della morte, 
conoscerà lo splendore di un secondo Paradiso terrestre, in cui Dio dimorerà 
con voi, asciugherà ogni lacrima, non vi sarà più giorno né notte, perché le 
cose di prima sono passate e vostra luce sarà quella dell'Agnello e della 
nuova Gerusalemme discesa dal cielo sulla terra, pronta come una Sposa per il suo Sposo».







BUON NATALE

AUGURI DI SANTO NATALE

PVER 
NATVS  EST  NOBIS 
ET  FILIVS 
DATVS  EST  NOBIS 
CVJVS  IMPERIVM 
SVPER  HVMERVM  EJVS 
ET  VOCABITVR 
NOMEN  EJVS 
MAGNI  CONSILII 
ANGELVS

martedì 24 dicembre 2013

"Cristo nasce; rendete gloria. Cristo discende dai cieli; andategli incontro. Cristo è sulla terra; uomini, alzatevi. Tutta la terra canta il Signore! E per riunire tutto in una sola parola: Si rallegrino i cieli ed esulti la terra, per Colui che è insieme del cielo e della terra. Cristo riveste la nostra carne: siate ripieni di timore e di gaudio: di timore a motivo del peccato; di gaudio a motivo della speranza. Cristo nasce da una Vergine: o donne, onorate la verginità per diventare madri di Cristo.



IL SANTO GIORNO DI NATALE

Il lieto giorno della Vigilia di Natale volge al termine. La santa Chiesa ha già chiuso i divini Uffici dell'Attesa del Salvatore con la celebrazione del grande Sacrificio. Nella sua materna indulgenza, ha permesso ai suoi figli di rompere, a mezzogiorno, il digiuno di preparazione; i fedeli si sono seduti alla tavola frugale, con una gioia spirituale che fa loro presentire quella che inonderà i loro cuori nella notte che darà loro l'Emmanuele.

Ma una solennità sì grande come quella di domani deve, secondo l'usanza della Chiesa nelle sue feste, avere un preludio nel giorno che la precede tra pochi istanti, l'Ufficio dei Primi Vespri nel quale si offre a Dio l'incenso della sera, chiamerà i cristiani alla Chiesa; e lo splendore delle cerimonie, la magnificenza dei canti apriranno tutti i cuori alle emozioni d'amore e di riconoscenza che li debbono disporre, a ricevere le grazie del momento supremo.

Aspettando il sacro segnale che chiamerà alla casa di Dio, impieghiamo gli istanti che ci restano a meglio penetrare il mistero di sì grande giorno, i sentimenti della santa Chiesa in questa solennità e le tradizioni cattoliche mediante le quali i nostri antenati la hanno così degnamente celebrata.

Sermone di san Gregario Nazianzeno.
Innanzitutto, ascoltiamo la voce dei santi Padri che risuonò con un'enfasi e una forza capaci di ridestare qualsiasi anima. Ecco per primo san Gregorio, il Teologo, il Vescovo, di Nazianzo, che inizia così il suo trentottesimo discorso, consacrato alla Teofania, o nascita del Salvatore. Chi potrebbe ascoltarlo e rimanere freddo davanti alle sue parole?

"Cristo nasce; rendete gloria. Cristo discende dai cieli; andategli incontro. Cristo è sulla terra; uomini, alzatevi. Tutta la terra canta il Signore! E per riunire tutto in una sola parola: Si rallegrino i cieli ed esulti la terra, per Colui che è insieme del cielo e della terra. Cristo riveste la nostra carne: siate ripieni di timore e di gaudio: di timore a motivo del peccato; di gaudio a motivo della speranza. Cristo nasce da una Vergine: o donne, onorate la verginità per diventare madri di Cristo.

Chi non adorerebbe Colui che era fin dal principio? chi non loderebbe e non celebrerebbe Colui che è nato? Ecco che le tenebre svaniscono; è creata la luce; l'Egitto rimane sotto le ombre, Israele è illuminata da una lucente nube. Il popolo che era seduto nelle tenebre dell'ignoranza, scorge il lume d'una scienza profonda. Le cose antiche sono finite; tutto è ridiventato nuovo. Fugge la lettera e trionfa lo spirito; le ombre sono passate, e la verità fa il suo ingresso. La natura vede le sue leggi violate: è giunto il momento di popolare il mondo celeste: Cristo comanda; guardiamoci bene dal resistere.

Genti tutte, battete le mani; perché ci è nato un Bambino, ci è stato dato un Figlio. Il segno del suo principio è sulla sua spalla: perché la croce sarà il mezzo della sua elevazione; il suo nome è l'Angelo del grande consiglio, cioè del consiglio paterno.

Esclami pure Giovanni: Preparate le vie del Signore! Per me, voglio far anche risuonare la potenza di sì gran giorno: Colui che è senza carne s'incarna; il Verbo prende un corpo; l'Invisibile si mostra agli occhi, l'Impalpabile si lascia toccare; Colui che non conosce tempo prende un principio; il Figlio di Dio è diventato figlio dell'uomo. Gesù Cristo era ieri, è oggi, e sarà sempre. Si senta pure offeso il Giudeo; se ne rida il Greco; e la lingua dell'eretico si agiti nella sua bocca impura. Crederanno quando lo vedranno, questo Figlio di Dio, salire al cielo; e se anche in quel momento si rifiutano, crederanno quando ne discenderà e comparirà sul tribunale di giudice.

Sermone di san Bernardo.
Ascoltiamo ora, nella Chiesa Latina, il devoto san Bernardo, che effonde una soave letizia in queste melodiose parole, nel iv sermone per la Vigilia di Natale.
"Abbiamo ricevuto una notizia piena di grazia e fatta per essere accolta con trasporto: Gesù Cristo, Figlio di Dio, nasce in Betlemme di Giuda. La mia anima si è sciolta a queste parole: lo spirito ribolle in me, spinto come sono ad annunciarvi tanta felicità. Gesù significa Salvatore. Che cosa è più necessario di un Salvatore a quelli che erano perduti, più desiderabile a degli infelici, più vantaggioso per quelli che erano accasciati dalla disperazione? Dov'era la salvezza dov'era perfino la speranza della salvezza, per quanto debole, sotto la legge del peccato, in quel corpo di morte, in mezzo alla perversità, nella dimora d'afflizione, se questa salvezza non fosse nata d'un tratto e contro ogni speranza? O uomo, tu desideri, è vero, la tua guarigione; ma, avendo coscienza della tua debolezza e della tua infermità, temi il rigore del trattamento. Non temere dunque: Cristo è soave e dolce; la sua misericordia è immensa; come Cristo, egli ha ricevuto in eredità l'olio, ma per effonderlo sulle tue piaghe. E se ti dico che è dolce, non temere che il tuo Salvatore manchi di potenza; perché è ancheFiglio di Dio. Esultiamo dunque, riflettendo in noi stessi, e facendo risplendere al di fuori quella dolce sentenza, quelle soavi parole: Gesù Cristo. Figlio di Dio, nasce in Betlemme di Giuda!".

Sermone di sant'Efrem.
È dunque veramente un grande giorno quello della Nascita del Salvatore: giorno atteso dal genere umano per migliaia di anni, atteso dalla Chiesa nelle quattro settimane dell'Avvento che ci lasciano così cari ricordi; atteso da tutta la natura che riceve ogni anno sotto i suoi auspici, il trionfo del sole materiale sulle tenebre sempre crescenti. Il grande Dottore della Chiesa Sira, sant'Efrem, celebra con entusiasmo la bellezza e la fecondità di questo giorno misterioso; prendiamo qualche brano dalla sua divina poesia, e diciamo con lui:
"Degnati, o Signore, di permettere che celebriamo oggi il giorno stesso della tua nascita, che la presente solennità ci ricorda. Quel giorno è simile a tè; è amico degli uomini. Esso ritorna ogni anno attraverso i tempi; invecchia con i vecchi, e si rinnova con il bambino che è nato. Ogni anno, ci visita e passa; quindi ritorna pieno di attrattive. Sa che la natura umana non potrebbe fare a meno di lui; come te, esso viene in aiuto alla nostra razza in pericolo. Il mondo intero, o Signore, ha sete del giorno della tua nascita; questo giorno beato racchiude in sé i secoli futuri; esso è uno e molteplice. Sia dunque anche quest'anno simile a tè, e porti la pace fra il cielo e la terra. Se tutti i giorni sono segnati della tua liberalità, non è giusto forse che essa trabocchi in questo?

Gli altri giorni dell'anno traggono la loro bellezza da questo, e le solennità che seguiranno debbono ad esso la dignità e lo splendore di cui brillano. Il giorno della tua nascita è un tesoro, o Signore, un tesoro destinato a soddisfare il debito comune. Benedetto il giorno che ci ha ridato il sole, a noi erranti nella notte oscura; che ci ha recato il divino manipolo dal quale è stata diffusa l'abbondanza; che ci ha dato la vite che contiene il vino della salvezza che deve dare a suo tempo. Nel cuore dell'inverno che priva gli alberi dei loro frutti la vigna si è rivestita d'una divina vegetazione; nella stagione glaciale, un pollone è spuntato dal ceppo di Jesse. È in dicembre, in questo mese che trattiene nel grembo della terra il seme che le fu affidato, che la spiga della nostra salvezza, spunta dal seno della Vergine dove era disceso nei giorni di primavera, quando gli agnelli vanno belando nei prati".

Non è dunque da stupire che questo giorno il quale è caro a Dio stesso sia privilegiato nell'economia dei tempi; e conforta vedere le genti pagane presentire nei loro calendari la gloria che Dio gli riservava nella successione delle età. Abbiamo visto del resto che i Gentili non sono stati i soli a prevedere misteriosamente le relazioni del divino Sole di giustizia con l'astro mortale che illumina e riscalda il mondo; i santi Dottori e tutta la Liturgia sono molto prodighi riguardo a questa ineffabile armonia.

Il battesimo di Clodoveo.
Per incidere più profondamente l'importanza di un giorno così santo nella memoria dei popoli cristiani dell'Europa, stirpi preferite nei consigli della misericordia divina, il supremo Signore degli eventi ha voluto che il regno dei Franchi nascesse appunto il giorno di Natale (496) allorché nel Battistero di Reims, tra le pompe di tale solennità, Clodoveo, il fiero Sicambro, divenuto mite come l'agnello, fu immerso da san Remigio nel fonte della salvezza, dal quale uscì per inaugurare la prima monarchia cattolica fra le monarchie nuove, quel regno di Francia, il più bello - è stato detto - dopo quello dei cieli.

La conversione dell'Inghilterra.
Un secolo più tardi (597), era la volta della razza anglosassone. L'Apostolo dell'Isola dei Bretoni, il monaco sant'Agostino, dopo aver convertito al vero Dio il re Eteiredo, avanzò alla conquista delle anime. Essendosi diretto verso York, vi fece risuonare la parola di vita, e un intero popolo si unì per chiedere il Battesimo. Il giorno di Natale è fissato per la rigenerazione di quei nuovi discepoli di Cristo; e il fiume che scorre sotto le mura della città viene scelto per servire da fonte battesimale a quell'armata di catecumeni. Diecimila uomini, non contando le donne e i bambini, scendono nelle acque la cui corrente deve portar via l'immondezza delle loro anime. Il rigore della stagione non arresta i nuovi e ferventi discepoli del Bambino di Betlemme che appena pochi giorni prima ignoravano perfino il suo nome. Dalle acque gelide esce piena di gaudio e risplendente d'innocenza tutta un'armata di neofiti; e nel giorno stesso della sua nascita, Cristo conta una nazione di più sotto il suo impero.
Ma non era ancora abbastanza per il Signore che vuole onorare il giorno della nascita del suo Figliuolo.

L'incoronazione di Carlo Magno.
Un'altra illustre nascita doveva ancora abbellire questo lieto anniversario. A Roma, nella basilica di San Pietro, nella solennità di Natale dell'800, nasceva il Sacro Romano Impero al quale era riservata la missione di propagare il regno di Cristo nelle regioni barbare del Nord, e di mantenere l'unità europea, sotto la direzione del Romano Pontefice. In quel giorno, san Leone III poneva la corona imperiale sul capo di Carlo Magno; e la terra attonita rivedeva un Cesare, un Augusto, non più successore dei Cesari e degli Augusti della Roma pagana, ma investito di quei titoli gloriosi dal Vicario di Colui che si chiama, nei santi Oracoli, il Re dei re, il Signore dei signori.

La gloria del giorno di Natale.
Così Dio ha fatto, risplendere agli occhi degli uomini la gloria del regale Bambino che nasce oggi; così egli ha preparato, di epoca in epoca attraverso i secoli, ricchi anniversari di quella Natività che da gloria a Dio e pace agli uomini. Il susseguirsi dei tempi farà vedere al mondo in che modo l'Altissimo si riserva ancora di glorificare, in questo giorno, se stesso e il suo Emmanuele.
Nell'attesa, le nazioni dell'Occidente, colpite dalla dignità di tale festa, e considerandola con ragione come il principio di tutte le cose nell'era della rigenerazione del mondo, contarono a lungo gli anni cominciando dal Natale, come si vede su antichi Calendari, sui Martirologi di Usuardo e di Adone, e su un gran numero di Bolle, di Costituzioni e di Diplomi. Un concilio di Colonia, nel 1320, ci dimostra che tale usanza ancora esisteva a quell'epoca. Parecchi popoli dell'Europa cattolica, soprattutto gli Italiani, hanno conservato l'usanza di festeggiare il nuovo anno alla Natività del Salvatore. Si augura il buon Natale come altrove al primo gennaio il buon anno. Ci si scambiano i complimenti e i regali; si scrive agli amici lontani: preziose vestigia delle antiche usanze, di cui la fede era il principio e il baluardo invincibile.
Ma è tale agli occhi della santa Chiesa la gioia che deve riempire i fedeli nella Nascita del Salvatore che, associandosi con una particolare indulgenza a così legittima allegrezza, abolisce per il giorno di domani il precetto dell'astinenza dalla carne, se il Natale cade il venerdì o il sabato. Questa dispensa risale al Papa Onorio III, che occupava la sede di Pietro nel 1216; ma già fin dal IX secolo san Nicola I, nella sua risposta ai quesiti dei Bulgari, aveva mostrato simile condiscendenza, per incoraggiare la gioia dei fedeli nella celebrazione non solo della solennità di Natale, ma anche nelle feste di santo Stefano, di san Giovanni Evangelista, dell'Epifania, della Assunzione della Vergine, di san Giovanni Battista e dei santi Pietro e Paolo. Ma questa indulgenza non fu universale, e l'abolizione non si è conservata che per la festa di Natale di cui accresce la popolare allegrezza.
La legislazione civile medievale intese, a suo modo, mettere in risalto l'importanza di questa festa così cara a tutta la cristianità concedendo ai debitori la facoltà di sospendere il pagamento dei loro creditori durante tutta la settimana di Natale, che appunto per questo era, chiamata settimana di remissione, come quelle di Pasqua e della Pentecoste.
Ma sospendiamo per un poco questi ricordi familiari, che ci piace raccogliere sulla gloriosa solennità il cui avvicinarsi commuove così dolcemente i nostri cuori. È tempo di dirigere i nostri passi verso la casa di Dio, dove ci chiama l'Ufficio solenne dei Primi Vespri. Durante il tragitto, rivolgiamo il pensiero a Betlemme, dove Giuseppe e Maria sono già arrivati. Il sole materiale volge rapidamente al tramonto; e il divino Sole di giustizia rimane nascosto ancora per qualche istante sotto la nube, nel seno della più pura delle vergini. La notte è vicina; Giuseppe e Maria percorrono le strade della città di David, cercando un asilo per mettersi al riparo. Che i cuori fedeli siano dunque attenti, e si uniscano ai due incomparabili pellegrini. È giunta ormai l'ora in cui il canto di gloria e di riconoscenza deve levarsi da ogni bocca umana. Accogliamo con sollecitudine, per la nostra, la voce della santa Chiesa: essa non è certo inferiore a così nobile compito.

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 113-119



Abbiamo tempo e spazio per Lui?


BENEDICTUS PP XVI

SOLENNITÀ DEL NATALE DEL SIGNORE
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Lunedì, 24 dicembre 2012
Cari fratelli e sorelle!

Sempre di nuovo la bellezza di questo Vangelo tocca il nostro cuore – una bellezza che è splendore della verità. Sempre di nuovo ci commuove il fatto che Dio si fa bambino, affinché noi possiamo amarlo, affinché osiamo amarlo, e, come bambino, si mette fiduciosamente nelle nostre mani. Dio dice quasi: So che il mio splendore ti spaventa, che di fronte alla mia grandezza tu cerchi di affermare te stesso. Ebbene, vengo dunque a te come bambino, perché tu possa accogliermi ed amarmi.

Sempre di nuovo mi tocca anche la parola dell’evangelista, detta quasi di sfuggita, che per loro non c’era posto nell’alloggio. Inevitabilmente sorge la domanda su come andrebbero le cose, se Maria e Giuseppe bussassero alla mia porta. Ci sarebbe posto per loro? E poi ci viene in mente che questa notizia, apparentemente casuale, della mancanza di posto nell’alloggio che spinge la Santa Famiglia nella stalla, l’evangelista Giovanni l’ha approfondita e portata all’essenza scrivendo: “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Così la grande questione morale su come stiano le cose da noi riguardo ai profughi, ai rifugiati, ai migranti ottiene un senso ancora più fondamentale: abbiamo veramente posto per Dio, quando Egli cerca di entrare da noi? Abbiamo tempo e spazio per Lui? Non è forse proprio Dio stesso ad essere respinto da noi? Ciò comincia col fatto che non abbiamo tempo per Dio. Quanto più velocemente possiamo muoverci, quanto più efficaci diventano gli strumenti che ci fanno risparmiare tempo, tanto meno tempo abbiamo a disposizione. E Dio? La questione che riguarda Lui non sembra mai urgente. Il nostro tempo è già completamente riempito. Ma le cose vanno ancora più in profondità. Dio ha veramente un posto nel nostro pensiero? La metodologia del nostro pensare è impostata in modo che Egli, in fondo, non debba esistere. Anche se sembra bussare alla porta del nostro pensiero, Egli deve essere allontanato con qualche ragionamento. Per essere ritenuto serio, il pensiero deve essere impostato in modo da rendere superflua l’“ipotesi Dio”. Non c’è posto per Lui. Anche nel nostro sentire e volere non c’è lo spazio per Lui. Noi vogliamo noi stessi, vogliamo le cose che si possono toccare, la felicità sperimentabile, il successo dei nostri progetti personali e delle nostre intenzioni. Siamo completamente “riempiti” di noi stessi, così che non rimane alcuno spazio per Dio. E per questo non c’è neppure spazio per gli altri, per i bambini, per i poveri, per gli stranieri. A partire dalla semplice parola circa il posto mancante nell’alloggio possiamo renderci conto di quanto ci sia necessaria l’esortazione di san Paolo: “Lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare!” (Rm 12,2). Paolo parla del rinnovamento, del dischiudere il nostro intelletto (nous); parla, in generale, del modo in cui vediamo il mondo e noi stessi. La conversione di cui abbiamo bisogno deve giungere veramente fino alle profondità del nostro rapporto con la realtà. Preghiamo il Signore affinché diventiamo vigili verso la sua presenza, affinché sentiamo come Egli bussa in modo sommesso eppure insistente alla porta del nostro essere e del nostro volere. Preghiamolo affinché nel nostro intimo si crei uno spazio per Lui. E affinché in questo modo possiamo riconoscerlo anche in coloro mediante i quali si rivolge a noi: nei bambini, nei sofferenti e negli abbandonati, negli emarginati e nei poveri di questo mondo.



C’è ancora una seconda parola nel racconto di Natale sulla quale vorrei riflettere insieme a voi: l’inno di lode che gli angeli intonano dopo il messaggio circa il neonato Salvatore: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini del suo compiacimento”. Dio è glorioso. Dio è luce pura, splendore della verità e dell’amore. Egli è buono. È il vero bene, il bene per eccellenza. Gli angeli che lo circondano trasmettono in primo luogo semplicemente la gioia per la percezione della gloria di Dio. Il loro canto è un’irradiazione della gioia che li riempie. Nelle loro parole sentiamo, per così dire, qualcosa dei suoni melodiosi del cielo. Là non è sottesa alcuna domanda sullo scopo, c’è semplicemente il dato di essere colmi della felicità proveniente dalla percezione del puro splendore della verità e dell’amore di Dio. Da questa gioia vogliamo lasciarci toccare: esiste la verità. Esiste la pura bontà. Esiste la luce pura. Dio è buono ed Egli è il potere supremo al di sopra di tutti i poteri. Di questo fatto dovremmo semplicemente gioire in questa notte, insieme agli angeli e ai pastori.

Con la gloria di Dio nel più alto dei cieli è in relazione la pace sulla terra tra gli uomini. Dove non si dà gloria a Dio, dove Egli viene dimenticato o addirittura negato, non c’è neppure pace. Oggi, però, diffuse correnti di pensiero asseriscono il contrario: le religioni, in particolare il monoteismo, sarebbero la causa della violenza e delle guerre nel mondo; occorrerebbe prima liberare l’umanità dalle religioni, affinché si crei poi la pace; il monoteismo, la fede nell’unico Dio, sarebbe prepotenza, causa di intolleranza, perché in base alla sua natura esso vorrebbe imporsi a tutti con la pretesa dell’unica verità. È vero che, nella storia, il monoteismo è servito di pretesto per l’intolleranza e la violenza. È vero che una religione può ammalarsi e giungere così ad opporsi alla sua natura più profonda, quando l’uomo pensa di dover egli stesso prendere in mano la causa di Dio, facendo così di Dio una sua proprietà privata. Contro questi travisamenti del sacro dobbiamo essere vigilanti. Se un qualche uso indebito della religione nella storia è incontestabile, non è tuttavia vero che il “no” a Dio ristabilirebbe la pace. Se la luce di Dio si spegne, si spegne anche la dignità divina dell’uomo. Allora egli non è più l’immagine di Dio, che dobbiamo onorare in ciascuno, nel debole, nello straniero, nel povero. Allora non siamo più tutti fratelli e sorelle, figli dell’unico Padre che, a partire dal Padre, sono in correlazione vicendevole. Che generi di violenza arrogante allora compaiono e come l’uomo disprezzi e schiacci l’uomo lo abbiamo visto in tutta la sua crudeltà nel secolo scorso. Solo se la luce di Dio brilla sull’uomo e nell’uomo, solo se ogni singolo uomo è voluto, conosciuto e amato da Dio, solo allora, per quanto misera sia la sua situazione, la sua dignità è inviolabile. Nella Notte Santa, Dio stesso si è fatto uomo, come aveva annunciato il profeta Isaia: il bambino qui nato è “Emmanuele”, Dio con noi (cfr Is 7,14). E nel corso di tutti questi secoli davvero non ci sono stati soltanto casi di uso indebito della religione, ma dalla fede in quel Dio che si è fatto uomo sono venute sempre di nuovo forze di riconciliazione e di bontà. Nel buio del peccato e della violenza, questa fede ha inserito un raggio luminoso di pace e di bontà che continua a brillare.



Così Cristo è la nostra pace e ha annunciato la pace ai lontani e ai vicini (cfr Ef 2,14.17). Come non dovremmo noi pregarlo in quest’ora: Sì, Signore, annuncia a noi anche oggi la pace, ai lontani e ai vicini. Fa’ che anche oggi le spade siano forgiate in falci (cfr Is 2,4), che al posto degli armamenti per la guerra subentrino aiuti per i sofferenti. Illumina le persone che credono di dover esercitare violenza nel tuo nome, affinché imparino a capire l’assurdità della violenza e a riconoscere il tuo vero volto. Aiutaci a diventare uomini “del tuo compiacimento” – uomini secondo la tua immagine e così uomini di pace.

Appena gli angeli si furono allontanati, i pastori dicevano l’un l’altro: Orsù, passiamo di là, a Betlemme e vediamo questa parola che è accaduta per noi (cfr Lc 2,15). I pastori si affrettavano nel loro cammino verso Betlemme, ci dice l’evangelista (cfr 2,16). Una santa curiosità li spingeva a vedere in una mangiatoia questo bambino, del quale l’angelo aveva detto che era il Salvatore, il Cristo, il Signore. La grande gioia, di cui l’angelo aveva parlato, aveva toccato il loro cuore e metteva loro le ali.

Andiamo di là, a Betlemme, dice la liturgia della Chiesa oggi a noi. Trans-eamus traduce la Bibbia latina: “attraversare”, andare di là, osare il passo che va oltre, la “traversata”, con cui usciamo dalle nostre abitudini di pensiero e di vita e oltrepassiamo il mondo meramente materiale per giungere all’essenziale, al di là, verso quel Dio che, da parte sua, è venuto di qua, verso di noi. Vogliamo pregare il Signore, perché ci doni la capacità di oltrepassare i nostri limiti, il nostro mondo; perché ci aiuti a incontrarlo, specialmente nel momento in cui Egli stesso, nella Santissima Eucaristia, si pone nelle nostre mani e nel nostro cuore.
Andiamo di là, a Betlemme: con queste parole che, insieme con i pastori, ci diciamo l’un l’altro, non dobbiamo pensare soltanto alla grande traversata verso il Dio vivente, ma anche alla città concreta di Betlemme, a tutti i luoghi in cui il Signore ha vissuto, operato e sofferto. Preghiamo in quest’ora per le persone che oggi lì vivono e soffrono. Preghiamo perché lì ci sia pace. Preghiamo perché Israeliani e Palestinesi possano sviluppare la loro vita nella pace dell’unico Dio e nella libertà. Preghiamo anche per i Paesi circostanti, per il Libano, per la Siria, per l’Iraq e così via: affinché lì si affermi la pace. Che i cristiani in quei Paesi dove la nostra fede ha avuto origine possano conservare la loro dimora; che cristiani e musulmani costruiscano insieme i loro Paesi nella pace di Dio.
I pastori si affrettavano. Una santa curiosità e una santa gioia li spingevano. Tra noi forse accade molto raramente che ci affrettiamo per le cose di Dio. Oggi Dio non fa parte delle realtà urgenti. Le cose di Dio, così pensiamo e diciamo, possono aspettare. Eppure Egli è la realtà più importante, l’Unico che, in ultima analisi, è veramente importante. Perché non dovremmo essere presi anche noi dalla curiosità di vedere più da vicino e di conoscere ciò che Dio ci ha detto? Preghiamolo affinché la santa curiosità e la santa gioia dei pastori tocchino in quest’ora anche noi, e andiamo quindi con gioia di là, a Betlemme – verso il Signore che anche oggi viene nuovamente verso di noi. Amen.



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lunedì 23 dicembre 2013

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo San Luca 2,1-14. NATALE del Signore: Messa della notte, solennità.


"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’, ma leggetela e fatela leggere"
Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
"Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta

Martedi 24 dicembre 2013, Natale del Signore: Messa della notte, solennità

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 2,1-14.
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra.
Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio.
Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città.
Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme,
per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta.
Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto.
Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo.
C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge.
Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento,
ma l'angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo:
oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore.
Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».
E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama».
Traduzione liturgica della Bibbia


Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di 
Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 30 pagina 174.

(...) La luna è allo zenit e veleggia placida in un cielo gremito di stelle. Sembrano tante borchie di diamante infisse in un enorme baldacchino di velluto celeste cupo, e la luna vi ride in mezzo col suo faccione bianchissimo da cui scendono fiumi di luce lattea che fa bianca la terra. Gi alberi spogli sembrano più alti e neri sul suolo così imbiancato, mentre i muretti, che qua e là sorgono a confine, sembrano di latte, e una casina lontana pare un blocco di marmo di Carrara.
Alla mia destra vedo un luogo cintato da una siepe di pruni su due lati e da un muro basso e scabro da altri due. Questo muro sorregge il tetto di una specie di tettoia larga e bassa, che nella parte interna del recinto è costruita parte in muratura e parte in legname, quasi che nell’estate le parti in legno debbano esser tolte e la tettoia mutarsi in porticato. Da questo chiuso esce, di tanto in tanto, un belare intermittente e breve. Devono essere pecorelle che sognano o che forse credono sia prossimo il giorno per il chiarore che dà la luna. Un chiarore persino eccessivo, tanto è intenso, e che cresce quasi che il pianeta si avvicini alla terra o sfavilli per un misterioso incendio.
Un pastore si affaccia alla porta e, portandosi un braccio sulla fronte per fare riparo agli occhi, guarda in alto. Pare impossibile che ci si debba riparare dal chiarore della luna. Ma questo è così vivo che abbacina, specie chi esce da un chiuso dove è tenebra. Tutto è calmo. Ma quella luce stupisce.
Il pastore chiama i compagni. Si affacciano alla porta tutti. Un mucchio d’uomini irsuti, di età diverse. Ve ne sono di appena adolescenti e di già canuti. Commentano il fatto strano e i più giovani hanno paura. Specie uno, un fanciullo sui dodici anni, che si mette a piangere attirandosi le baie dei più vecchi.
“Di che temi, stolto?” gli dice il più vecchio. “Non vedi che aria quieta? Non hai mai visto splendere la luna? Sei sempre stato sotto le vesti della mamma come un pulcino sotto la chioccia, vero? Ma ne vedrai delle cose! Una volta io mi ero spinto verso i monti del Libano, oltre ancora. In alto. Ero giovane e non mi pesava l’andare. Ero anche ricco, allora... Una notte vidi una luce tale che pensai che fosse per tornare Elia sul suo carro di fuoco. Il cielo era tutto un incendio. Un vecchio -allora il vecchio era lui- mi disse: ‘Grande avventura sta per venire nel mondo’. E per noi fu sventura, perché vennero i soldati di Roma. Oh! ne vedrai, se campi...”
Ma il pastorello non lo ascolta più. Pare non abbia neppur più paura, perché lascia la soglia e sguscia da dietro le spalle di un nerboruto mandriano, dietro il quale si era rifugiato, ed esce nello stazzo erboso che è davanti alla tettoia. Guarda in alto e cammina come un sonnambulo o come uno ipnotizzato da qualcosa che lo attira totalmente. Ad un cero punto grida: “Oh!” e resta come pietrificato, a braccia un poco aperte.
Gli altri si guardano stupefatti.
“Ma cosa ha quello stolto?” dice uno.
“Domani lo rimando a sua madre. Non voglio pazzi a custodia delle pecore” dice un altro.
E il vecchio che ha parlato prima dice: “Andiamo a vedere prima di giudicare. Chiamate anche gli altri che dormono e prendete i bastoni. Che non sia una bestia cattiva o dei malandrini...”
Entrano, chiamando altri pastori, ed escono con torce e randelli. Raggiungono il fanciullo.
“Là, là” egli mormora sorridendo. “Al di sopra dell’albero, guardate quella luce che viene. Pare cammini sul raggio della luna. Ecco che si avvicina. Come è bella!”
“Io vedo solo un più vivo chiarore.”
“Io pure.”
“Anche io” dicono gli altri.
“No. Io vedo come un corpo” dice uno in cui riconosco il pastore che ha dato il latte a Maria.
“E’ un... è un angelo!” grida il bambino. “Eccolo che scende e si avvicina... Giù! In ginocchio davanti all’angelo di Dio!”
Un ‘oh!’ lungo e venerabondo si alza dal gruppo dei pastori, che cadono con il volto verso il suolo, e tanto più paiono schiacciati dall’apparizione fulgente quanto più sono anziani. I giovanetti sono in ginocchio, ma guardano l’angelo, che sempre più si avvicina e si ferma sospeso, ventilando le grandi ali, candore di perla nel candore di luna che lo circonda, al disopra del muro del recinto.
“Non temete. Non porto sventura. Io vi reco l’annuncio di una grande allegrezza per il popolo d’Israele e per tutto il popolo della terra”. La voce angelica è un’armonia d’arpa su cui cantino gole d’usignoli.
“Oggi, nella città di Davide, è nato il Salvatore.” L’angelo, nel dire questo, apre più grandi le ali e le muove come per un soprassalto di gioia, e una pioggia di faville d’oro e di pietre preziose pare ne sfugga. Un vero arcobaleno che fa un arco di trionfo sul povero stabbio.
“... il Salvatore che è Cristo”. L’angelo sfavilla di aumentata luce. Le sue ali, ora ferme e tese a punta verso il cielo come due vele immobili sullo zaffiro del mare, sembrano due fiamme che salgano ardendo.
“...Cristo, il Signore!” L’angelo raccoglie le sue due fulgide ali e se ne veste come di una sopraveste di diamante sull’abito di perla, si curva come se adorasse, con le braccia conserte sul cuore e il volto che scompare, curvato come è sul petto, fra l’ombra dei sommi dell’ali piegate. Non si vede che una oblunga forma luminosa immobile per lo spazio di un ‘Gloria’.
Ma ecco che si muove. Riapre le ali, alza il volto in cui la luce si fonde al paradisiaco sorriso, e dice: “Lo riconoscerete da questi segni: in una povera stalla, dietro Betlemme, troverete un bambino nelle fasce in una mangiatoia di animali, ché per il Messia non vi fu tetto nella città di David”. L’angelo si fa serio nel dire questo, mesto anzi.
Ma dai Cieli vengono tanti -oh! quanti!- tanti angeli simili a lui, una scala d’angeli che scende esultando e annullando la luna col loro splendore paradisiaco, e si riuniscono intorno all’angelo nunziante in un agitar di ali, in uno sprigionare di profumi, in un arpeggiare di note, in cui tutte le voci più belle del creato trovano un ricordo, ma portato alla perfezione di suono. Se la pittura è lo sforzo della materia per divenire luce, qui la melodia è lo sforzo della musica per fare balenare agli uomini la bellezza di Dio, e udire questa melodia è conoscere il Paradiso, dove tutto è armonia di amore, che da Dio si sprigiona per far lieti i beati e che da questi va a Dio per dirgli: ‘Ti amiamo!’
Il ‘Gloria’ angelico si sparge in onde sempre più vaste per la campagne quieta, e la luce con esso. E gli uccelli uniscono un canto che è saluto a questa luce precoce, e le pecore i loro belati per questo anticipato sole. Ma io, come già nella grotta per il bue e l’asino, amo credere che siano gli animali che salutano il loro Creatore, venuto in mezzo ad essi per amarli come Uomo oltre che come Dio.
Il canto si attenua e la luce pure, mentre gli angeli risalgono ai Cieli...
...I pastori tornano in loro.
“Hai udito?”
“Andiamo a vedere?”
“ E le bestie?”
“Oh! non succederà loro nulla! Andiamo per ubbidire alla parola di Dio!...”
“Ma dove andiamo?”
“Ha detto che è nato oggi? E che non ha trovato alloggio in Betlemme?” E’ il pastore che ha dato il latte, questo che parla ora. “Venite, io so. Ho visto la Donna e mi ha fatto pena. Ho insegnato un luogo per Lei, perché pensavo non trovassero alloggio, e all’uomo ho dato il latte per Lei. E’ tanto giovane e bella, e deve esser buona come l’angelo che ci ha parlato. Venite, venite. Andiamo a prendere latte, formaggi, agnelli e pelli conciate. Devono esser poveri molto e... chissà che freddo ha Colui che non oso nominare! E pensare che io ho parlato alla Madre come ad una povera sposa!...”
Vanno nella tettoia e ne escono poco dopo chi con delle fiaschette di latte, chi con delle reticelle di sparto intrecciato con dentro tondi formaggini, chi con delle ceste in cui vi è un agnello belante, e chi con delle pelli di pecora conciate.
“Io porto una pecora. Ha figliato da un mese. Il latte lo ha buono. Potrà loro servire se la Donna non ha latte. Mi pareva una bambina, e così bianca!... Un viso da gelsomino sotto la luna” dice il pastore del latte. E li guida.
Vanno alla luce della luna e delle torce dopo aver chiuso tettoia e recinto. Vanno per sentieri campestri, fra siepi di pruni spogliati dall’inverno.
Girano dietro Betlemme. Raggiungono la stalla venendo non dalla parte da cui venne Maria, ma dall’opposta, di modo che non passano davanti alle stalle più belle, ma trovano questa per prima. Si accostano al pertugio.
“Entra!”
“Io non oso.”
“Entra tu.”
“No.”
“Guarda almeno.”
“Tu, Levi, che hai visto l’angelo per primo, segno che sei buono più di noi, guarda”. Veramente prima gli hanno dato del pazzo... ma ora fa loro comodo che egli osi ciò che loro non osano.
Il fanciullo tituba, ma poi si decide. Si accosta al pertugio, scosta un pochino il mantello, guarda... e resta estatico.
“Che vedi?” lo interrogano ansiosi a bassa voce.
“Vedo una donna giovane e bella e un uomo curvi su una mangiatoia e sento..., sento piangere un piccolo bambino, e la donna gli parla con una voce... Oh! che voce!”
“Che dice?”
“Dice: ‘Gesù, piccolino! Gesù, amore della tua Mamma! Non piangere, piccolo Figlio!’. Dice: ‘Oh! potessi dirti: ‘Prendi il latte, piccolino!’. Ma non ce l’ho ancora!’. Dice: ‘Hai tanto freddo, amore mio! E ti punge il fieno. Che dolore per la tua Mamma sentirti piangere così e non poterti dare conforto!’. Dice: ‘Dormi, anima mia! ché mi si spacca il cuore a sentirti piangere e vederti lacrimare!’, e lo bacia e gli scalda i piedini con le sue mani, perché sta curva con le braccia giù nella mangiatoia.”
“Chiama! Fatti sentire!”
“Io no. Tu, che ci hai condotti e la conosci.”
Il pastore apre la bocca e poi si limita a fare un mugolio.
Giuseppe si volge e viene alla porta. “Chi siete?”
“Pastori. Vi portiamo cibo e lana. Veniamo ad adorare il Salvatore.”
“Entrate.”
Entrano e la stalla si fa più chiara per il lume delle torce. I vecchi spingono i bambini davanti a loro.
Maria si volge e sorride. “Venite” dice. “Venite!” e li invita con la mano e col sorriso, e prende quello che ha visto l’angelo e lo attira a sé, fin contro la greppia. E il fanciullo guarda beato.
Gli altri, invitati anche da Giuseppe, si avanzano coi loro doni e li mettono tutti, con brevi, commosse parole, ai piedi di Maria. E poi guardano il Bambinello, che piange piano, e sorridono commossi e beati.
E uno, più ardito, dice: “Prendi, o Madre. E’ soffice e pulita. L’avevo preparata per il bambino che mi sta per nascere. Ma te la dono. Metti il Figlio tuo fra questa lana, sarà morbida e calda”. E offre la pelle di una pecora, una bellissima pelle ricca di lana candida e lunga.
Maria solleva Gesù e ve lo avvolge. E lo mostra ai pastori, che in ginocchio sul fieno del suolo lo guardano estatici.
Si fanno più arditi e uno propone: “Bisognerebbe dargli un sorso di latte, meglio acqua e miele. Ma non abbiamo miele. Si dà ai piccolini. Ho sette figli e so...”
“Qui c’è il latte. Prendi, o Donna.”
“Ma è freddo. Caldo ci vuole. Dove è Elia? Egli ha la pecora.”
Elia deve essere quello del latte. Ma non c’è. Si è fermato fuori e guarda dalla fessura, e nel buio della notte si perde.
“Chi vi ha guidati?”
“Un angelo ci ha detto di venire e Elia ci ha guidati qui. Ma dove è ora?”
La pecora lo denuncia con un belato.
“Vieni avanti, ti si vuole.”
Entra con la sua pecora, vergognoso di esser il più notato.
“Tu sei?” dice Giuseppe che lo riconosce, e Maria gli sorride dicendo: “Sei buono.”
Mungono la pecora e con la punta di un lino intriso nel latte caldo e spumoso Maria bagna le labbra del Bambinello, che succhia quel dolciore cremoso. Sorridono tutti e più ancora quando, con l’angolino di tela ancora fra le labbruzze, Gesù si addormenta nel caldo della lana.
“Ma qui non potete rimanere. Fa freddo e vi è umido. E poi... vi è troppo odore di bestie. Non fa bene... e... non sta bene per il Salvatore.”
“Lo so” dice Maria con un grande sospiro. “Ma non c’è posto per noi a Betlemme.”
“Fa' cuore, o Donna. Noi ti cercheremo una casa.”
“Lo dirò alla padrona mia” dice quello del latte, Elia. “E’ buona. Vi accoglierà, dovesse cedervi la sua stanza. Appena è giorno glielo dico. Ha la casa piena di gente. Ma vi darà un posto.”
“Per il mio Bambino, almeno. Io e Giuseppe stiamo anche per terra. Ma per il Piccino...”
“Non sospirare, Donna. Ci penso io. E lo diremo a molti, ciò che ci è stato detto. Non mancherete di nulla. Per ora prendete ciò che la nostra povertà vi può dare. Siamo pastori...”
“Siamo poveri noi pure. E non vi possiamo compensare” dice Giuseppe.
“Oh! non vogliamo! Anche lo poteste non vorremmo! Il Signore ce ne ha già compensato. La pace l’ha promessa a tutti. Gli angeli dicevano così: ‘Pace agli uomini di buona volontà’. Ma a noi ce l’ha già data, perché l’angelo ha detto che questo Bambino è il Salvatore, che è Cristo, il Signore. Siamo poveri e ignoranti, ma sappiamo che i Profeti dicono che il Salvatore sarà il Principe della Pace. E a noi ci ha detto di andare ad adorarlo. Perciò ci ha dato la sua pace. Gloria a Dio nei Cieli Altissimi e gloria a questo suo Cristo, e benedetta sia tu, Donna, che lo hai generato! Santa sei, perché hai meritato di portato! Comandaci come Regina, ché saremo contenti di sevirti. Che possiamo fare per te?”
“Amare il Figlio mio ed avere sempre in cuore i pensieri di ora.”
“Ma per te? Non desideri nulla? Non hai parenti ai quali far sapere che Egli è nato?”
“Sì, li avrei. Ma non sono qui vicino. Sono a Ebron...”.
“Ci vado io” dice Elia. “Chi sono?”
“Zaccaria il sacerdote ed Elisabetta mia cugina.”
“Zaccaria? Oh! lo conosco bene. Nell’estate vado su quei monti, perché i pascoli vi sono ricchi e belli, e sono amico del suo pastore. Quando ti so sistemata vado da Zaccaria.”
“Grazie, Elia.”
“Niente grazie. Grande onore per me, povero pastore, andare a parlare al sacerdote e dirgli ‘E’ nato il Salvatore’.”
“No. Gli dirai: ‘Ha detto Maria di Nazareth, tua cugina, che Gesù è nato, e di venire a Betlemme’.”
“Così dirò”.
“Dio te ne compensi. Mi ricorderò di te, di voi tutti...”.
“Dirai al tuo Bambino di noi?”
“Lo dirò.”
“Io sono Elia.”
“E io Levi.”
“Ed io Samuele.”
“E io Giona.”
“Ed io Isacco.”
“Ed io Tobia.”
“Ed io Gionata.”
“Ed io Daniele.”
“E Simeone io.”
“E Giovanni mi chiamo io.”
“Io Giuseppe e mio fratello Beniamino, siamo gemelli.”
“Ricorderò i vostri nomi.”
“Dobbiamo andare... Ma torneremo... E ti porteremo altri ad adorare!..”
“Come tornare all’ovile lasciando questo Bambino?”
“Gloria a Dio che ce lo ha mostrato!”
“Facci baciare la sua veste” dice Levi con un sorriso d’angelo.
Maria alza piano Gesù e, seduta sul fieno, offre i piedini, avvolti nel lino, da baciare. E i pastori si chinano fino al suolo e baciano quei piedini minuscoli, velati di tela. Chi ha la barba se la forbisce prima e quasi tutti piangono e, quando devono andare, escono a ritroso, lasciando il cuore indietro...
La visione mi cessa così, con Maria seduta sulla paglia col Bambino in grembo e Giuseppe che, appoggiato alla greppia con un gomito, guarda e adora.

Dice Gesù:
“Oggi parlo Io. Sei molto stanca, ma abbi pazienza ancora un poco.
E’ la vigilia del Corpus Domini. Potrei parlarti dell’Eucarestia e dei santi che si fecero apostoli del suo culto, così come ti ho parlato dei santi che furono apostoli del Sacro Cuore. Ma voglio parlarti di un’altra cosa e di una categoria di adoratori del Corpo mio che sono i precursori del culto per esso. E sono i pastori. I primi adoratori del mio Corpo di Verbo divenuto Uomo.
Una volta ti dissi, e ciò è detto anche dalla mia Chiesa, che i Santi Innocenti sono i protomartiri del Cristo. Ora ti dico che i pastori sono i primi adoratori del Corpo di Dio. E in loro vi sono tutti i requisiti richiesti per essere adoratori del Corpo mio, anime eucaristiche.
Fede sicura: essi credono prontamente e ciecamente all’angelo.
Generosità: essi dànno tutta la loro ricchezza al loro Signore.
Umiltà: si accostano a dei più poveri, umanamente, di loro, con modestia di atti che non avvilisce, e si professano servi loro.
Desiderio: quanto non possono dare da loro, si industriano a procurare con apostolato e fatica.
Prontezza di ubbidienza: Maria desidera sia avvertito Zaccaria, e Elia va subito. Non rimanda.
Amore, infine: essi non sanno staccarsi di là, e tu dici: ‘lasciano là il loro cuore’. Dici bene.
Ma non bisognerebbe fare così anche col mio Sacramento?
E un’altra cosa, tutta per te, questa: osserva a chi si svela per primo l’angelo e chi merita di sentire le effusioni di Maria. Levi: il fanciullo.
A chi ha l’anima di fanciullo Dio si mostra e mostra i suoi misteri e permette che oda le parole divine e di Maria. E che ha anima di fanciullo ha anche il santo ardimento di Levi e dice: ‘Fammi baciare la veste di Gesù.’ Lo dice a Maria. Perché è sempre Maria quella che vi dà Gesù. E’ Lei la Portatrice dell’Eucarestia. E’ Lei la Pisside viva.
Chi va a Maria trova Me. Chi mi chiede a Lei, da Lei mi riceve. Il sorriso di mia Madre quando una creatura le dice: ‘Dammi il tuo Gesù, ché lo ami’, fa trasecolare i Cieli in un più vivo splendore di letizia, tanto è felice.
Dille dunque: ‘Fammi baciare la veste di Gesù. Fammi baciare le sue piaghe’. E osa di più ancora. Di': ‘Fammi posare il capo sul Cuore del tuo Gesù, perché ne sia beata.’
Vieni. Riposa. Come Gesù nella cuna, fra Gesù e Maria.”
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/


Handel

G. F. Handel




LIBERTA'

La "libbertà de pensiero"


Comunemente chi non si allinea al pensiero dominante viene definito pecora nera. Meditate questi versi di Trilussa sul "libero pensiero" e come rischia di finire il gatto nero.
Domanda: qual è la vera libertà di pensiero?




Un Gatto bianco, ch’era presidente
der Circolo der Libbero Pensiero
sentì che un Gatto nero,
libbero pensatore come lui,
je faceva la critica
riguardo a la politica
ch’era contraria a li principî sui.

“Giacché nun badi alli fattacci tui,
-Je disse er Gatto bianco inviperito-,
rassegnerai le proprie dimissione
e uscirai da le file der partito:
ché qui la pôi pensà libberamente
come te pare a te, ma a condizione
che t’associ a l’idee der presidente
e a le proposte de la commissione!”
“E’ vero, ho torto, ho aggito malamente…”
Rispose er gatto nero.
E pe' restà ner Libbero Pensiero
Da quella vorta nun pensò più gnente.

TRILUSSA – 192

Reliquie dei Santi, Tesoro divino!


Il rispetto delle reliquie dei santi


Quando Santa Brigida era dama della regina Bianca, un tempo regina di Svezia, aveva una cassaforte d'avorio piena di varie reliquie, fra cui quelle di San Luigi, che ella aveva portato dalla Francia. 

Per sbaglio i servitori misero la cassaforte in un luogo meno conveniente ed essa rimase lì, dimenticata, fino al giorno in cui Santa Brigida non vide che dalla cassa si sprigionava una grande luce.

Ammirando il prodigio, Brigida sentì una voce che le parlò così: «Ecco che il tesoro di Dio, oggetto di grande lode in cielo, viene disprezzato sulla terra: portiamolo dunque in un altro luogo». All'udire ciò, la Santa fece deporre con grande dignità quelle reliquie sull'altare. 

domenica 22 dicembre 2013

San Giovanni Paolo II ...canta la FEDE di Maria SS.ma, Corredentrice e Sposa dello Spirito Santo

Riflessione di  San Giovanni Paolo II:

"Tale benedizione raggiunge la pienezza del suo significato, quando Maria sta sotto la Croce di suo Figlio (Gv 19,25). Il Concilio afferma che ciò avvenne «non senza un disegno divino»: «Soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all'immolazione della vittima da lei generata», in questo modo Maria «serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla Croce»: l'unione mediante la fede, la stessa fede con la quale aveva accolto la rivelazione dell'angelo al momento dell'annunciazione. 

Allora si era anche sentita dire: «Sarà grande..., il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre..., regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,32). 

Ed ecco, stando ai piedi della Croce, Maria è testimone, umanamente parlando, della completa smentita di queste parole. Il suo Figlio agonizza su quel legno come un condannato. «Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori...; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima»: quasi distrutto (Is 53,3). 

Quanto grande, quanto eroica è allora l'obbedienza della fede dimostrata da Maria di fronte agli «imperscrutabili giudizi» di Dio! Come «si abbandona a Dio» senza riserve, «prestando il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà» a colui, le cui «vie sono inaccessibili» (Rm 11,33). Ed insieme quanto potente è l'azione della grazia nella sua anima, come penetrante è l'influsso dello Spirito Santo, della sua luce e della sua virtù! Mediante questa fede Maria è perfettamente unita a Cristo nella sua spoliazione. 

Infatti, «Gesù Cristo, ... pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini»: proprio sul Golgota «umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di Croce» (Fil 2,5). Ai piedi della Croce Maria partecipa mediante la fede allo sconvolgente mistero di questa spoliazione. È questa forse la più profonda «kenosi» della fede nella storia dell'umanità. 

Mediante la fede la madre partecipa alla morte del Figlio, alla sua morte redentrice; ma, a differenza di quella dei discepoli che fuggivano, era una fede ben più illuminata. Sul Golgota Gesù mediante la Croce ha confermato definitivamente di essere il «segno di contraddizione», predetto da Simeone. Nello stesso tempo, là si sono adempiute le parole da lui rivolte a Maria: «E anche a te una spada trafiggerà l'anima»" (Redemptoris Mater 18).



sabato 21 dicembre 2013

Domenica 22 dicembre 2013, IV Domenica di Avvento - Anno A : San Matteo 1,18-24.

"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’, ma leggetela e fatela leggere"
Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
"Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta

Domenica 22 dicembre 2013, IV Domenica di Avvento - Anno A

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 1,18-24.
Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo.
Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. 
Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. 
Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». 
Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 
Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi. 
Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.
Traduzione liturgica della Bibbia 


Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" 
di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 26 pagina 152.
Dopo cinquantatre giorni riprende la Mamma a mostrarsi con questa visione che mi dice di segnare in questo libro. La gioia si rinnova in me. Perché vedere Maria è possedere la Gioia.
Vedo dunque l’orticello di Nazareth. Maria fila all’ombra di un foltissimo melo stracarico di frutta, che cominciano ad arrossare e sembrano tante guance di bambino nel loro roseo e tondo aspetto. 
Ma Maria non è per nulla rosea. Il bel colore, che le avvivava le guance a Ebron, è scomparso. Il viso è di un pallore di avorio, in cui soltanto le labbra segnano una curva di pallido corallo. Sotto le palpebre calate stanno due ombre scure e i bordi dell’occhio sono gonfi come chi ha pianto. Non vedo gli occhi, perché Ella sta col capo piuttosto chino, intenta al suo lavoro e più ancora ad un suo pensiero che la deve affliggere, perché l’odo sospirare come chi ha un dolore nel cuore. 
E’ tutta vestita di bianco, di lino bianco, perché fa molto caldo nonostante che la freschezza ancora intatta dei fiori mi dica che è mattina. E’ a capo scoperto e il sole, che scherza con le fronde del melo mosse da un lievissimo vento e filtra con aghi di luce fin sulla terra bruna delle aiuole, le mette dei cerchiolini di luce sul capo biondo, e là i capelli sembrano di un oro zecchino. 
Dalla casa non viene nessun rumore, né dai luoghi vicini. Si sente solo il mormorio del filo d’acqua che scende in una vasca in fondo all’orto. 
Maria sobbalza per un picchio dato risolutamente all’uscio di casa. Posa conocchia e fuso e si alza per andare ad aprire. Per quanto l’abito sia sciolto ed ampio, non riesce a nascondere completamente la rotondità del suo bacino. 

Si trova di fronte Giuseppe. Maria impallidisce anche nelle labbra. Ora il suo viso pare un’ostia, tanto è esangue. Maria guarda con occhio che interroga mestamente. Giuseppe guarda con occhio che pare supplichi. Tacciono, guardandosi. Poi Maria apre la bocca: “A quest’ora, Giuseppe? Hai bisogno di qualche cosa? Che vuoi dirmi? Vieni.” 
Giuseppe entra e chiude la porta. Non parla ancora. 
“Parla, Giuseppe. Che cosa vuoi da me?” 
“Il tuo perdono.” Giuseppe si curva come volesse inginocchiarsi. Ma Maria, sempre così riservata nel toccarlo, lo afferra per le spalle risolutamente e glielo impedisce. 
Il colore va e viene dal volto di Maria, che ora è tutta rossa e ora di neve come prima. “Il mio perdono? Non ho nulla da perdonarti, Giuseppe. Non devo che ringraziarti ancora per tutto quanto hai fatto qui dentro in mia assenza e per l’amore che mi porti.” 
Giuseppe la guarda, e vedo due grossi goccioloni formarsi nell’incavo del suo occhio profondo, stare lì come sull’orlo di un vaso e poi rotolare giù sulle guance e sulla barba. “Perdono, Maria. Ho diffidato di te. Ora so. Sono indegno di avere tanto tesoro. Ho mancato di carità, ti ho accusata nel mio cuore, ti ho accusata senza giustizia perché non ti avevo chiesto la verità. Ho mancato verso la legge di Dio non amandoti come mi sarei amato...” 
“Oh! no! Non hai mancato!” 
“Sì, Maria. Se fossi stato accusato di un tal delitto, mi sarei difeso. Tu... Non concedevo a te di difenderti, perché stavo per prendere delle decisioni senza interrogarti. Ho mancato verso te recandoti l’offesa di un sospetto. Anche se solo un sospetto è offesa, Maria. Chi sospetta non conosce. Io non ti ho conosciuta come dovevo. Ma per il dolore che ho patito... tre giorni di supplizio, perdonami, Maria.” 
“Non ho nulla da perdonarti. Ma anzi, io ti chiedo perdono per il dolore che ti ho dato.” 
“Oh! sì, che fu dolore! Che dolore! Guarda, stamane mi hanno detto che sulle tempie sono canuto e sul viso ho rughe. Più di dieci anni di vita sono stati questi giorni! Ma perché, Maria, sei stata tanto umile da tacere, a me, tuo sposo, la tua gloria, e permettere che io sospettassi di te?” 
Giuseppe non è in ginocchio, ma sta così curvo che è come lo fosse, e Maria gli posa la manina sul capo e sorride. Pare lo assolva. E dice: “Se non lo fossi stata in maniera perfetta, non avrei meritato di concepire l’Atteso, che viene ad annullare la colpa di superbia che ha rovinato l’uomo. E poi ho ubbidito... Dio mi ha chiesto questa ubbidienza. Mi è costata tanto.... per te, per il dolore che te ne sarebbe venuto. Ma non dovevo che ubbidire. Sono l’Ancella di Dio, e i servi non discutono gli ordini che ricevono. Li eseguiscono, Giuseppe, anche se fanno piangere sangue.” 

Maria piange quietamente mentre dice questo. Tanto quietamente che Giuseppe, curvo come è, non se ne avvede sinché una lacrima non cade al suolo. Allora alza il capo e -è la prima volta che gli vedo fare questo- stringe le manine di Maria nelle sue brune e forti e bacia la punta di quelle rosee dita sottili che spuntano come tanti bocci di pesco dall’anello delle mani di Giuseppe. 
“Ora bisognerà provvedere perché...” Giuseppe non dice di più, ma guarda il corpo di Maria, e Lei diviene di porpora e si siede di colpo per non rimanere così esposta, nelle sue forme, allo sguardo che l’osserva. “Bisognerà fare presto. Io verrò qui... Compiremo il matrimonio.... Nell’entrante settimana. Va bene?” 
“Tutto quanto tu fai va bene, Giuseppe. Tu sei il capo di casa, io la tua serva.” 
“No. Io sono il tuo servo. Io sono il beato servo del mio Signore che ti cresce in seno. Tu benedetta fra tutte le donne d’Israele. Questa sera avviserò i parenti. E dopo... quando sarò qui lavoreremo per preparare tutto a ricevere.... Oh! come potrò ricevere nella mia casa Dio? Nelle mie braccia Dio? Io ne morrò di gioia!... Io non potrò mai osare di toccarlo.!...” 
“Tu lo potrai, come io lo potrò, per grazia di Dio!... ”. 
“Ma tu sei tu. Io sono un povero uomo, il più povero dei figli di Dio!...” 

“Gesù viene per noi, poveri, per farci ricchi in Dio, viene a noi due perché siamo i più poveri e riconosciamo di esserlo. Giubila, Giuseppe. La stirpe di Davide ha il Re atteso e la nostra casa diviene più fastosa della reggia di Salomone, perché qui sarà il Cielo e noi divideremo con Dio il segreto di pace che più tardi gli uomini sapranno. Crescerà fra noi, e le nostre braccia saranno cuna al Redentore che cresce, e le nostre fatiche gli daranno un pane... Oh! Giuseppe! Sentiremo la voce di Dio chiamarci ‘padre e Madre’ Oh!”. 
Maria piange di gioia. Un pianto così felice! E Giuseppe inginocchiato, ora, ai suoi piedi, piange col capo quasi nascosto nell’ampia veste di Maria, che le fa una caduta di pieghe sui poveri mattoni della stanzetta.
La visione cessa qui. 


Dice Maria SS.ma
“Nessuno interpreti in modo errato il mio pallore. Non era dato da paura umana. Umanamente mi sarei dovuta attendere la lapidazione. Ma non temevo per questo. Soffrivo per il dolore di Giuseppe. Anche il pensiero che egli mi accusasse, non mi turbava per me stessa. Soltanto mi spiaceva che egli potesse, insistendo nell’accusa, mancare alla carità. Quando lo vidi, il sangue mi andò tutto al cuore per questo. Era il momento in cui un giusto avrebbe potuto offendere la Giustizia, offendendo la Carità. E che un giusto mancasse, egli che non mancava mai, mi avrebbe dato dolore sommo. 
Se io non fossi stata umile sino al limite estremo, come ho detto a Giuseppe, non avrei meritato di portare in me Colui che, per cancellare la superbia nella razza, annichiliva Sé, Dio, all’umiliazione d’esser uomo. 
Ti ho mostrato questa scena, che nessun Vangelo riporta, perché voglio richiamare l’attenzione troppo sviata degli uomini sulle condizioni essenziali per piacere a Dio e ricevere la sua continua venuta in cuore. 
Fede: Giuseppe ha creduto ciecamente alle parole del messo celeste. Non chiedeva che di credere, perché era in lui convinzione sincera che Dio è buono e che a lui, che aveva sperato nel Signore, il Signore non avrebbe serbato il dolore d’esser un tradito, un deluso, uno schernito dal suo prossimo. Non chiedeva che di credere in me perché, onesto come era, non poteva pensare che con dolore che altri non lo fosse. Egli viveva la Legge e la Legge dice: ‘Ama il tuo prossimo come te stesso’. Noi ci amiamo tanto che ci crediamo perfetti anche quando non lo siamo. Perché allora disamare il prossimo pensandolo imperfetto? 
Carità assoluta. Carità che sa perdonare, che vuole perdonare. Perdonare in anticipo, scusando in cuor proprio le manchevolezze del prossimo. Perdonare al momento, concedendo tutte le attenuanti al colpevole. 
Umiltà assoluta come la carità. Sapere riconoscere che si è mancato anche col semplice pensiero, e non aver l’orgoglio, più nocivo ancora della colpa antecedente, di non voler dire: ‘Ho errato’. Meno Dio, tutti errano. Chi è colui che può dire: ‘Io non sbaglio mai’? E l’ancor più difficile umiltà: quella che sa tacere le meraviglie di Dio in noi, quando non è necessario proclamarle per dargliene lode, per non avvilire il prossimo che non ha tali doni speciali da Dio. Se vuole, oh! se vuole, Dio disvela Se stesso nel suo servo! Elisabetta mi ‘vide’ quale ero, lo sposo mio mi conobbe per quel che ero quando fu l’ora di conoscerlo per lui. 
Lasciate al Signore la cura di proclamarvi suoi servi. Egli ne ha un’amorosa fretta, perché ogni creatura che assurga a particolare missione è una nuova gloria aggiunta all’infinita sua, perché è testimonianza di quanto è l’uomo così come Dio lo voleva: una minore perfezione che rispecchia il suo Autore. Rimanete nell’ombra e nel silenzio, o prediletti della Grazia, per poter udire le uniche parole che sono di ‘vita’, per potere meritare di avere su voi e in voi il Sole che eterno splende. 
Oh! Luce Beatissima che sei Dio, che sei la gioia dei tuoi servi, splendi su questi servi tuoi e ne esultino nella loro umiltà, lodando Te, Te solo, che sperdi i superbi ma elevi gli umili, che ti amano, agli splendori del tuo Regno.”
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/