martedì 29 aprile 2014

San Giovanni Climaco e La scala del paradiso, VII secolo. Del sonno e dell’orazione e della salmodia delle congregazioni.


GRADO XIX


Del sonno e dell’orazione e 
della salmodia delle congregazioni.


Il sonno è una parte del sentimento dell’anima e radunamento e ricoglimento delle virtudi sue, ed è una imagine di morte ed oziosità delle sensora. 

Essendo una cosa il sonno, ae molti principii e molte cagioni come la concupiscenzia, e in prima la sua cagione e principio è la natura comunemente; dopo sono le speciali cagioni di molto dormire: in alcuni a cagione dalla complessione corporale, in alcuni dalli cibi, in alcuni dalle demonia, in alcuni dal molto e smisurato digiuno, per lo quale essendo la carne estenuata ed infermata, si vuole ristorare per lo sonno. Siccome il molto bere si toglie per l’uso contrario, così il molto dormire; però dal principio del rinunziamento della vita mondana ci conviene di combattere contra il sonno, però ch’è forte cosa e dura di sanare una lunga e mala usanza. 

Poniamoci a mente, e troveremo che come sonando la tromba spirituale, cioè la campana all’ore, gli frati si ragunano visibilmente, così s’adunano le demonia invisibilmente contr’a loro, ed alcuni stanno al letto a combattere che non si lievino, e poi che ne siamo levati, ci sforzano che ci richiniamo ancora sopra lo letto. «Giacete, dicono, ancora infine che siano compiuti gli inni, che si dicono nel principio dell’ufficio, e poi intrerrete nella chiesa.»

 Alcuni altri, stando noi in orazione, ci sommergono nel sonno; alcuni altri disordinatamente fuori dell’usanza con dolori ci tormentano il corpo; alcuni altri ci ammoniscono che nel santo tempo e luogo d’orazione facciamo li parlamenti; alcuni altri sottraggono la mente nelle laide e sozze cogitazioni; alcuni altri ci confortano, che come deboli ed attenuati ci appoggiamo alle pareti, ed alcuni altri ci assaliscono ed assedianci cogli molti aprimenti di bocca e cogli molti prostendimenti; e sono alcuni di loro, che si studiano di trarci e di conducerci a riso con alcuni ricordamenti nel tempo dell’orazione, acciò che per quello riso provochiamo Iddio ad indegnazione contra di noi. 

Alcuni altri nel dire gli salmi ci sforzano di farci affrettare per negligenza; alcuni altri ci ammoniscono che noi gli diciamo molto morosamente per amore e per piacimento di vana delettazione, ed è alcuna fiata che si pongono alla bocca per farla stare chiusa, e perchè ci sia malagevole ad aprirla. Ma quegli che sta dinanzi a Dio in orazione ed in sentimento di cuore, come una colonna ferma si truova immobile, non essendo ingannato di niuna delle predette cose. 

Quegli che è verace obediente, stando in orazione, spesse fiate tutto diventa allegro e luminoso, però ch’egli era innanzi come buono combattitore infocato e riscaldato per legitima amministrazione dell’opere della santa obedienzia. Ad ogni persona d’ogni stato è possibile d’orare colla moltitudine, e a molti è convenevole d’orare con uno solo, il quale sia d’uno animo con lui; ma l’orazione singolare sanza sollazzo di compagnia, questa è di pochi. Cantando l’ufficio e li salmi colla moltitudine, non potrai orare immaterialmente (1).


Non si conviene a neuno, stando in orazione, tenere in mano opera da lavorare, però che questo è prevaricazione; ancora è destruzione dell’orazione, secondo che l’angelo di Dio amaestroe il grande Antonio.

 Secondo che ‘l camino disamina e prova l’oro, così lo stato dell’orazione dimostra la carità che ae il monaco a Dio, e la sollicitudine che à verso la salute dell’anima sua.




Nota:

1. Cioè spiritualmente e mentalmente, però ch’è mestiere d’accordarsi con gli altri; ma all’operazione della mente v’è aggiunta la contemplazione degl’inni cantati dopo la finita stanzia e verso del salmo, meditando fissamente ed intellettualmente nel verso, che morosamente dice il prossimo.

NB.
*Papa Benedetto XVI parla di san Giovanni Climaco QUI

*http://www.sannicolao.it/Percorsi_culturali/Storia_Chiesa/BenedettoXVI-I_grandi_scrittori_medievali_della_Chiesa.pdf

AMDG et BVM

23 aprile 2014 – Non permetterò che quelli tra voi che entrano nel Mio Nuovo Paradiso soffrano il dolore della morte fisica

Te amamus ex toto corde nostro,

ex tota anima nostra,
et ex totis viribus nostris.

23 aprile 2014 – Non permetterò che quelli tra voi che entrano nel Mio Nuovo Paradiso soffrano il dolore della morte fisica


Mia amata figlia prediletta, molte persone credono erroneamente che i Miei Avvertimenti all’umanità creino un senso di disperazione e inutili preoccupazioni. Ciò è comprensibile, ma sappiate questo. Il futuro del mondo che verrà è meraviglioso, Glorioso in tutti i sensi. Il Paradiso che è stato preparato per voi, vi riempirebbe di stupore, di entusiasmo e di un grande senso di eccitazione, se Io vi rivelassi anche solo uno scorcio di esso. Poiché l’uomo ha paura dell’ignoto e manca di fiducia verso la Mia Promessa di portare a ciascuno di voi la Vita Eterna, molti che cercano di prepararsi per il Mio Regno si trovano in difficoltà.
Miei cari discepoli, Miei piccoli cari, sappiate che non permetterò che quelli tra voi che entrano nel Mio Nuovo Paradiso soffrano il dolore della morte fisica: questo è il Mio Dono per questa generazione benedetta. Questa transizione dal mondo in cui vivete oggi al Mio Nuovo Paradiso, avverrà in un batter d’occhio; tale è il Mio Grande Amore per voi. Prima di quel Gran Giorno, Io vi devo preparare, in modo che tutti voi ereditiate il Mio Regno. Non vorrei sottoporvi a queste prove che sopportate ora e a quelle ancora da venire – è vero. Tuttavia devo preparare molte persone che danno la Mia Parola e la Mia Misericordia per scontate. Come posso purificarvi, se non vi ricordo la Verità? Solo la Verità vi farà liberi dalle catene che vi legano al maligno, che vi trascina via da Me alla minima occasione. Egli sa che vincerà, se voi non rispondete al Mio Appello per garantire la vostra legittima eredità nel Mio Regno. Allora voi, essendo stati ingannati da lui, non riuscirete più a riconciliare la vostra anima con la Mia Divina Misericordia.
Solo chi segue Me, passo dopo passo, fino al Paradiso, riuscirà ad ottenere la Salvezza Eterna. Vi chiedo di essere pazienti. Prestate attenzione alla Mia Chiamata. Non respingetemi, quando cerco di raggiungervi attraverso questi messaggi. Imparate ad avere fiducia in Me, attraverso la Mia Santa Parola che già avete conosciuto nel Libro di Mio Padre.
Quando parlo del male, Io vi rivelo semplicemente l’inganno che dovrete affrontare. Il problema con l’inganno è che esso vi rende ciechi alla Verità e vi fa deviare fino a credere in una fede che vi risucchierà in una falsa dottrina. Se in questa nuova dottrina non sono Io, Gesù Cristo, ad essere venerato, allora potete esser certi che essa non è dettata dallo Spirito Santo.
Lasciate che i vostri cuori siano tranquilli, che la vostra fiducia sia come quella di un bambino e amatemi semplicemente come Io vi amo. Non opponete mai resistenza alla Mia Misericordia, non abbiate paura di Me, non provate rabbia verso di Me, e in modo particolare quando soffrite in questa vita. Perché presto vi porterò a casaAppena arriverà l’alba del Grande Giorno, il mondo nascerà, e una nuova e meravigliosa vita attenderà voi e tutti i vostri cari. Tutti voi sarete legati a Me, senza un nemico in vista – senza paura, pericoli o sofferenze di qualsiasi tipo. Allora perché temere il Mio Regno? Esso vi porterà la felicità e l’amore che avete cercato per tutta la vostra vita sulla Terra, ma che non avete mai veramente realizzato per quanto vi siate sforzati di anticipare questi doni.
Il Mio più grande Dono per voi è la Vita Eterna. Attendete il Mio Dono senza paura. Attendete piuttosto con amore e anticipazione il Mio Nuovo Regno, perché lo dovete aspettare con impazienza.
Il vostro Gesù

Santa Caterina da Siena

30 APRILE
SANTA CATERINA DA SIENA, VERGINE*

La Mistica.
Chi oserebbe intraprendere la narrazione dei meriti di Caterina, o anche solo di enumerare i titoli di gloria di cui si circonda il suo nome? Ella occupa uno dei primi posti tra le spose di Gesù: Vergine fedele, si unisce allo Sposo divino fin dai suoi primi anni. La sua vita, consacrata da un sì nobile voto, si svolge in seno alla famiglia, affinché sia in grado di adempiere le missioni sublimi che la Provvidenza le aveva destinato. Ma il Signore, che voleva nondimeno glorificare in lei lo stato religioso, le ispira, per mezzo della professione nel Terz'Ordine, di unirsi ai Frati Predicatori. Ne veste l'abito e per tutta la vita ne segue le regole.
Fin dagli inizi si può riconoscere dal portamento di quella ancella del Signore, qualche cosa di celestiale; come se un angelo si fosse obbligato a venire ad abitare la terra per condurvi corporalmente una vita umana. La sua corsa verso Dio sembra irresistibile, dando l'idea di quello slancio che deve trascinare verso il Sommo Bene le anime glorificate, agli occhi delle quali egli già si mostra e si mostrerà per sempre. Il peso della carne minaccia invano di trattenere il suo volo: l'intensità delle penitenze la macera, la rende dolce e leggera. In questo corpo trasformato, sembra che la sola anima viva. Per sostenersi le basta il solo alimento dell'Eucaristia; e l'unione con Cristo diviene così completa, che le sue sacratissime piaghe s'imprimono sulle membra della vergine, facendola partecipare ai dolori della Passione.
Pur vivendo ad altezze così sublimi, Caterina non resta estranea a nessuna della miserie dei suoi fratelli. Il suo zelo è di fuoco per le anime loro, la sua compassione per le loro infermità corporali è tenera come quella di una madre. Dio ha messo a sua disposizione la sorgente dei prodigi, che ella dispensa a piene mani tra gli uomini. La morte e le malattie cedono al suo impero, ed i miracoli si moltiplicano intorno a lei.
Fin dai primi anni ha cominciato a godere comunicazioni divine, e l'estasi è divenuta il suo stato quasi abituale. I suoi occhi hanno visto spesso il nostro Redentore risorto, che le prodigava carezze e attenzioni. I misteri più grandi sono discesi alla sua portata, ed una scienza, che non ha niente di terrestre, illumina la sua intelligenza. Questa figliola, senza istruzione, detterà scritti sublimi, nei quali la penetrazione più profonda della dottrina celeste viene esposta con una precisione ed una eloquenza sovrumana, e con un accento che anche oggi penetra le anime.

L'azione politica.
Ma il cielo non vuole che tante meraviglie restino sepolte in un angolo dell'Italia. I santi sono l'appoggio della Chiesa; e se la loro opera è spesso misteriosa e nascosta, qualche volta invece si rivela agli sguardi degli uomini. Allora si scorgono in piena luce quei mezzi, con l'aiuto dei quali Dio governa il mondo. Alla fine del secolo XIV si trattava di restituire alla città eterna la presenza del Vicario di Cristo, assente dalla sua cattedra da più di sessant'anni. Nel segreto della presenza di Dio, un'anima santa poteva, per mezzo dei suoi meriti e della sua preghiera, determinare questo ritorno che desiderava tutta la Chiesa. E il Signore volle che tutto ciò si compisse in piena luce.
In nome della Chiesa abbandonata, in nome del suo divin Sposo, che è pure Sposo della Chiesa, Caterina attraversa le Alpi, e si presenta a quel Pontefice che non aveva mai visto Roma e di cui Roma ignorava le fattezze del volto. La Profetessa gl'intima rispettosamente il dovere ch'egli deve compiere; e, per garanzia della missione che assolve, gli rivela un segreto, di cui lui solo poteva aver coscienza. Gregorio XI è conquistato, e la Città eterna rivede finalmente il suo Pastore e padre. Ma, alla morte del Pontefice, uno scisma, presago di grandi disgrazie, porta una lacerazione nel grembo della Chiesa. Caterina lotta ancora contro la tempesta fino alla sua ultima ora; ha compiuto il trentatreesimo anno, ed il Signore Gesù non vuole che sorpassi quell'età già consacrata nella sua persona. Adesso è venuta l'ora in cui la vergine andrà a continuare in cielo la sua opera d'intercessione per quella Chiesa che ha tanto amato, e per le anime riscattate dal sangue di Cristo.

VITA. - Santa Caterina nacque a Siena il 25 luglio 1347. All'età di sette anni fece voto di castità perpetua. Dopo una viva opposizione, la madre le permise di ricevere l'abito delle Suore di san Domenico, ma restando nel mondo. La sua vita, allora, trascorse nella cura dei malati, l'estinzione degli odi che dividevano le famiglie, la conversione dei peccatori, attraverso le sue preghiere e le sue esortazioni. Scrisse al legato del Papa in Italia per domandargli la riforma del clero, il ritorno del Papato da Avignone a Roma e l'organizzazione di una crociata contro gl'infedeli. Nel 1376, inviatavi dai Fiorentini, partì per Avignone per patrocinare, presso il Sommo Pontefice la causa di Firenze in rivolta, che il Papa aveva dovuto colpire d'interdetto. Ne profittò per supplicare di nuovo Gregorio XI di ritornare a Roma. All'inizio del grande scisma, sostenne con ardore la causa di Urbano VI, senza pertanto riuscire a farla trionfare. Favorita delle più insigni grazie spirituali, dettò, durante le estasi, il "Dialogo" che contiene tutta la sua dottrina mistica, e, infine, mori a Roma nel 1380. Il suo corpo riposa nella Chiesa di S. Maria sopra Minerva. Il Papa Pio II la canonizzò nel 1461 e Pio IX nel 1865 la dichiarò compatrona di Roma.

Preghiera per tutti.
Presa completamente dalle gioie della Risurrezione, la Chiesa si rivolge a te, Caterina; a te, che segui l'Agnello, ovunque egli vada (Ap 14,4). In questo luogo di esilio, ove Egli non si fermerà più a lungo, ella non gode che ad intervalli della sua presenza; ti domanda, dunque: "Avresti veduto l'amato del mio cuore?" (Ct 3,3). Tu sei la sua Sposa, e lo è lei pure; ma per te non esistono più né separazioni né quel velo che impedisce la vista, mentre per lei il godimento è raro e rapido, e la luce ancora offuscata dalle ombre.
Ma quale vita è stata la tua, o Caterina! ha unito la più profonda compassione verso i dolori di Gesù alle delizie più vibranti della sua vita glorificata. Tu puoi iniziarci ai misteri del Calvario, e alla magnificenza della Risurrezione. Siamo nel tempo pasquale e in questa novella vita veglia su noi, affinché la vita divina non si spenga mai nelle anime nostre, ma vi sia invece accresciuta da quell'amore di cui tutta la tua esistenza celestiale ci offre l'ammirabile modello.

... per la Chiesa.
Rendici partecipi, o Vergine, di quel tuo attaccamento filiale alla santa Chiesa che ti fece intraprendere cose così grandi. Tu ti affliggevi delle sue afflizioni, e ti rallegravi delle sue gioie, quale figlia devota. Noi pure vogliamo amare la Madre nostra, confessare sempre quel vincolo che ci unisce a lei, difenderla contro i suoi nemici, guadagnarle nuovi figli generosi e fedeli.
Il Signore si servì del tuo debole braccio, o donna ispirata, per rimettere sulla sua cattedra il Pontefice, di cui Roma rimpiangeva l'assenza. Fosti più forte degli elementi umani che si agitano per prolungare una situazione disastrosa per la Chiesa. Le ceneri di Pietro, in Vaticano, quelle di Paolo sulla via Ostiense, le altre di Lorenzo, di Sebastiano, di Cecilia, di Agnese e di tante migliaia di martiri trasalirono nelle loro tombe, quando il carro trionfale che riconduceva Gregorio XI entrò nella Città. Per merito tuo Caterina, avevano termine in quel giorno i settant'anni di quella desolante cattività; e Roma, tornava alla vita.

... per l'Italia.
Prega pure per l'Italia che ti ha tanto amata, che fu così fiera delle tue glorie e di cui tu sei la Padrona. L'empietà e l'eresia oggi vi circolano liberamente; si bestemmia il nome del tuo Sposo, si propagano le dottrine più perverse ad un popolo smarrito, gli s'insegna a maledire tutto ciò che esso aveva venerato; la Chiesa è spesso oltraggiata, la fede, affievolita da un pezzo, minaccia di spegnersi: ricordati della tua patria, Caterina! è ora di accorrere in suo aiuto e di strapparla dalle mani dei suoi mortali nemici. Tutta la Chiesa spera in te per la salvezza di questa illustre provincia del suo impero: calma la tempesta, e salva la fede, in questo naufragio che minaccia di inghiottire tutto.

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 585-588

*  Paolo VI dichiarò santa Caterina da Siena dottore della Chiesa universale il 4 ottobre 1970 (NdR).


Biografia


Agostino Carracci, Estasi di Santa Caterina da Siena. Galleria Borghese Roma.
Caterina nacque a Siena, nel rione di Fontebranda, nella Contrada dell'Oca nel 1347, figlia del tintore di panni Jacopo Benincasa e di sua moglie Lapa Piacenti. Quando Caterina raggiunse l'età di dodici anni, sua madre pensò che era giunto il momento che questa sua figlia trovasse uno sposo. Lei all'inizio sembrò accondiscendere, ma poi pentitasi dichiarò espressamente che si era votata al Signore e che non intendeva ritirare la parola data. Bisogna tuttavia tenere presente che, nel Medioevo, se una donna voleva prendere i voti, l'unica strada che poteva percorrere era quella di entrare in un monastero e versare ad esso una dote.
Caterina non aveva questa possibilità perché non possedeva una dote nuziale nei termini richiesti. Però non cedette, pur non sapendo come avrebbe realizzato il suo sogno. Fu allora “messa in quarantena” dalla sua stessa famiglia. Ma un giorno il padre la sorprese in preghiera e, secondo la tradizione, a tale vista Jacopo si rese conto che l’atteggiamento della figlia non proveniva da umana leggerezza e dette ordine che nessuno più la ostacolasse nel suo desiderio. Caterina scese così nel concreto pensando di entrare fra le Terziarie Domenicane, che a Siena si chiamavano Mantellate per il mantello nero che copriva la loro veste bianca. La giovane senese aveva da poco passato i sedici anni ed era quindi troppo giovane per garantire la perseveranza sotto la Regola dell’Ordine. Quindi Monna Lapa, spinta dalle insistenze della figlia, si decise ad andare a parlare alla priora delle “Sorelle della penitenza di san Domenico”, ma ne ebbe un rifiuto perché esse non erano solite ammettere le vergini all'abito, bensì solo vedove o donne in età matura e di buona fama. Caterina da Siena fu poco dopo colpita da una malattia: altissime febbri e penosissime pustole ne sfigurarono il volto, facendola sembrare più anziana e meno aggraziata di quello che era. Allora Caterina...

lunedì 28 aprile 2014

San Massimiliano Kolbe il 28 aprile 1918 venne ordinato sacerdote.


Nato con il nome di Raimondo Kolbe, in una famiglia dalle condizioni economiche modeste in una zona polacca sotto il controllo della Russia. A tredici anni cominciò a frequentare la scuola media dei francescani a Leopoli. Il 4 settembre1910 vestì come novizio l'abito francescano assumendo il nome di Massimiliano. L'anno successivo venne inviato a Cracovia e quindi a Roma per continuare gli studi in filosofia e teologia.
Casa natale di Kolbe a Zduńska Wola.
Nei primi tre anni trascorsi alla Pontificia Università Gregoriana, si dedicò alle scienze e alla matematica, compresa la trigonometria, la fisica e la chimica, poi allo studio della filosofia e della teologia, grazie alle quali conseguì due lauree, una nella sede dell’università stessa e l’altra al Collegio Serafico Internazionale. Nel 1914 professò i voti perpetui. Lo stesso anno il padre, ufficiale nelle legioni polacche, venne fatto prigioniero dai russi e probabilmente fucilato. La madre invece si ritirò a una vita in convento[1].
Il 28 aprile 1918 venne ordinato sacerdote nella basilica di Sant'Andrea della Valle, a Roma, e il giorno successivo celebrò la sua prima messa nella vicina basilica di Sant'Andrea delle Fratte. Nel 1919, conseguito il dottorato in teologia presso la Facoltà Teologica di san Bonaventura, ritornò subito in patria, a Cracovia[1].
Ritratto ligneo di Kolbe a Wislica.
Durante gli anni della formazione, Massimiliano Kolbe, favorito da un carattere molto socievole, riuscì facilmente a creare rapporti di amicizia con la maggioranza dei suoi compagni di seminario, tra i quali Ladislao Dubaniowski e Bronislao Stryczny. Secondo quest'ultimo - che vivrà come Kolbe l'esperienza dell'internamento nei campi di sterminio nazista, sopravvivendo alla prigionia nel lager di Dachau - Massimiliano si distingueva in collegio per il suo impegno e la capacità di lavoro[2].
Nel ricordo di Ladislao Dubaniowski, Kolbe negli anni di seminario era inoltre animato da un forte ottimismo ("La prossima volta tutto andrà meglio", ripeteva di fronte ai problemi) e da una notevole intensità nella pratica religiosa, in particolare nella recita delrosario e nell'adorazione del Santissimo Sacramento[3].
Durante la permanenza in Italia, Kolbe maturò e approfondì uno dei tratti essenziali della sua esperienza spirituale, legato alla venerazione di Maria, che caratterizzerà poi il suo impegno pastorale. Nel 1917, sulla scia dell'impegno teologico e intellettuale che i francescani avevano speso nei secoli per promuovere il riconoscimento dell'Immacolata Concezione di Maria, fondò assieme ad alcuni confratelli la "Milizia dell'Immacolata". L'obiettivo era dare continuità anche sul fronte esistenziale e pastorale al legame dei Frati Minori Conventuali con Maria, diffondendone nel mondo la devozione anche attraverso i mezzi offerti dalle tecnologie del tempo, quali la stampa e, successivamente, la radio. Kolbe era infatti consapevole di doversi impegnare in un periodo storico difficile, caratterizzato dall'emergere di ideologie totalitarie e dalle sfide sociali poste dall'industrializzazione, dal materialismo e, appunto, dallo sviluppo dei mass-media. Studiò quindi tutto, per vedere gli aspetti positivi di ogni realtà e costruire poi su queste basi.
Negli anni vissuti a Roma, Kolbe contrasse la tubercolosi che, tra alti e bassi, lo accompagnò per il resto della vita. Dall'esperienza di studio in Italia trasse anche una buona conoscenza dell'italiano, lingua nella quale redasse molti suoi scritti[4]. Continua a leggere...

I Sette dormienti di Efeso



I Sette dormienti di Efeso > Jacopo da Varazze, Legenda aurea CI, XIII secolo

Jacopo da Varazze (o da Varagine; 1228?-1298) fu un frate domenicano scrittore in latino di leggende e cronache. Dal 1265 al 1285 fu nominato superiore provinciale per la “Lombardia”, un nome che all’epoca indicava quasi tutta l’Italia settentrionale, e dal 1292 arcivescovo di Genova. Una tradizione gli attribuisce una delle prime traduzioni in volgare della Bibbia, ma non se ne hanno manoscritti. La sua opera più famosa è la Legenda aurea (o Legenda sanctorum), raccolta di vite di santi compilata in latino a partire dalla metà del XIII secolo e che ebbe una grandissima diffusione e influenza sulla seguente letteratura religiosa.
Nel 1816 papa Pio VII ne confermò il culto come beato.


I Sette Dormienti nacquero nella città di Efeso. Quando l’imperatore Decio perseguitava i cristiani andò a Efeso e fece edificare dei templi in mezzo alla città, perché tutti si unissero a lui per sacrificare agli dèi. Fece cercare tutti i cristiani e li fece mettere in catene, obbligandoli a scegliere se sacrificare agli dèi o morire: tale era il terrore che l'amico rinnegava l’amico, il padre il figlio e il figlio il padre. C’erano in quella città sette cristiani, che si chiamavano Massimiano, Malco, Marciano, Dionisio, Giovanni, Serapione e Costantino. Essendo i primi ufficiali del palazzo e disprezzando i sacrifici offerti agli idoli, si rammaricavano molto e stavano nascosti nella loro casa, dedicandosi ai digiuni e alle orazioni.

Accusati e tradotti dinanzi a Decio, fu dimostrato che erano realmente cristiani e si diede loro il tempo di ravvedersi e furono rilasciati fino al ritorno dell’imperatore. Ma essi approfittarono di questo tempo, distribuirono tutti i loro averi ai poveri e presero la decisione di ritirarsi sul monte Celion, dove sarebbero potuti rimanere nascosti. Così rimasero a lungo, mentre uno di loro procurava ciò che era necessario e ogni volta che entrava in città si travestiva da mendicante.

Quando Decio ritornò a Efeso, ordinò di cercare i sette per obbligarli a sacrificare. Malco, che serviva loro, ritornò spaventato dai suoi compagni e riferì la furia dell’imperatore. Essi furono afferrati dalla paura e allora Malco dette loro i pani che aveva portato, affinché, rifocillati, acquistassero più forze per la battaglia. Dopo aver cenato, si sedettero e si misero a parlare tra loro con lamenti e pianti e, per volontà di Dio, si addormentarono. Quando fu la mattina, li cercarono ma non li trovarono, e Decio si dolse di aver perduto tali valorosi giovani. 

Furono poi accusati di essere nascosti fino allora sul monte Celion, di persistere nei loro convincimenti e di aver distribuito i loro beni ai poveri. Decio, dunque, ordinò di far comparire i loro genitori, minacciandoli di morte se non avessero dichiarato tutto ciò che sapevano. Anche i loro genitori li accusarono come gli altri e si lamentarono che le ricchezze erano state tutte date ai poveri. 

Allora Decio rifletté su cosa fare di loro e, per ispirazione di Dio, fece chiudere l’ingresso della caverna con un muro di pietre, affinché i sette, rinchiusi là dentro, morissero di fame e di stenti. Si eseguì l’ordine e due cristiani, Teodoro e Rufino, descrissero il loro martirio e, per precauzione, nascosero lo scritto tra le pietre.

Quando Decio e tutta la sua generazione furono morti, dopo trecentosettantadue anni, nel trentesimo anno d’impero di Teodosio, si diffuse l’eresia di coloro che negavano la resurrezione dei morti. Teodosio, che era un imperatore molto cristiano, fu molto rattristato nel vedere la fede così indignamente attaccata. Egli indossò un cilicio e ogni giorno si ritirava in un luogo appartato del suo palazzo per piangere.

Dio, vedendo tutto ciò, volle consolare questi afflitti e confermare la speranza della resurrezione dei morti; aprì il tesoro della sua pietà e risvegliò i sette martiri nel modo seguente. Mise in mente a un cittadino di Efeso l’idea di far costruire sul monte Celion degli ovili per i pastori. Dopo che i muratori ebbero aperto la grotta, i santi si svegliarono e si salutarono, convinti di aver dormito una sola notte; poi, ricordandosi delle pene del giorno precedente, chiesero a Malco, che li serviva, che cosa aveva deciso Decio sulla loro sorte. Ma egli rispose la stessa cosa che aveva risposto la sera prima: “Ci è stato richiesto di sacrificare agli idoli: ecco cosa vuole da noi l’imperatore”. Massimiano rispose: “Dio sa che non sacrificheremo”.

Dopo avere incoraggiato i suoi compagni, ordinò a Malco di scendere in città a comperare il pane, raccomandandogli di prenderne un po’ di più del giorno precedente, e di tornare a riferire le disposizioni dell’imperatore. Marco prese cinque soldi, uscì dalla spelonca, vide le pietre ammassate, se ne stupì, ma pensando ad altro, non vi dette molto peso.

Quando arrivò, non senza apprensione, alla porta della città, si meravigliò molto di vederla sormontata dal segno della croce; allora andò a un’altra porta e vide lo stesso segno della croce, e si stupì sempre più vedendo la croce sopra tutte le porte e trovando la città cambiata. Si fece il segno di croce e ritornò alla prima porta pensando di aver sognato. Infine si riassicurò, si nascose il viso, entrò in città e sentì i venditori di pane che parlavano tutti di Cristo, e, al colmo dello stupore esclamò: “Com'è che ieri nessuno osava neppur nominare Cristo, e oggi tutti proclamano il suo nome? Forse questa non è la città di Efeso, perché è diversa: ma non conosco altre città fatte così”.

Si informò e gli fu risposto che si trattava veramente di Efeso. Credendosi preso in giro, pensò di tornare dai suoi compagni, ma poi entrò dai venditori di pane. Quando tirò fuori le sue monete d’argento, i venditori stupiti credettero che il ragazzo avesse trovato un antico tesoro. Malco, vedendoli parlare sottovoce tra di loro, pensò che volessero condurlo dall’imperatore, e, in preda alla paura, li implorò di lasciarlo andare e di tenersi i pani e il resto del denaro. Ma quelli lo trattennero e gli dissero: “Di dove sei? Se hai trovato dei tesori degli antichi imperatori, diccelo, e divideremo con te. Ti terremo nascosto, altrimenti tutti lo sapranno”.
Per la paura, Malco non seppe cosa rispondere e allora i commercianti, vedendo che se ne stava zitto, gli misero una fune al collo e lo trascinarono per le strade fino in centro alla città. Intanto si diffuse la voce che un giovane aveva scoperto dei tesori.
Tutti si accalcavano attorno a lui, e Malco voleva convincerli di non aver trovato nulla, guardava attorno ma nessuno lo riconosceva, e lui pure, guardando la folla, cercava di scorgere qualche suo parente – che credeva in buona fede fosse ancora in vita – e non trovando nessuno stava in mezzo alla gente della città come un ebete.
Quando il vescovo san Martino e il proconsole Antipatro, appena giunto in città, seppero l’accaduto, essi dettero disposizione di portare loro, con cautela, quell’uomo e le sue monete. 

Mentre Malco veniva condotto alla chiesa dalle guardie, pensava che lo stessero portando dall’imperatore. Il vescovo e il proconsole, sorpresi dalle monete d’argento, gli chiesero dove avesse trovato quel tesoro sconosciuto, ma lui rispose che quei soldi venivano dalla borsa dei suoi genitori. Gli chiesero allora da quale città venisse ed egli rispose: “Sono di questa città, se questa è Efeso”. “Fai venire i tuoi genitori, - disse allora il proconsole, - in modo che possano giustificarti”. Quando però disse i loro nomi, nessuno li conosceva, e pensarono che stesse mentendo per poi poter scappare. E il procuratore gli disse: “Come facciamo a credere che questi soldi sono dei tuoi genitori, se la scritta che c’è sopra dice che hanno più di trecentosettantasette anni? Risalgono ai primi anni di Decio imperatore e sono del tutto diversi dalle monete d’argento dei nostri giorni. E com’è possibile che i tuoi genitori siano così vecchi e tu così giovane? Vuoi forse prenderti gioco dei sapienti di Efeso? Ti affiderò alla Giustizia, fino a che non confesserai cosa hai trovato”.
Malco allora si gettò ai loro piedi e disse: “Signori, per carità di Dio, ditemi ciò che vi chiedo, e io vi aprirò il mio cuore. L’imperatore Decio, che è stato in questa città, dove è ora?”
“Non c'è più ai giorni nostri – rispose il vescovo – un imperatore di nome Decio; ce ne fu uno molto tempo fa”.
“Mio signore, è questo che mi stupisce, e nessuno mi crede, ma seguitemi e vi farò vedere i miei compagni, che sono nel monte Celion, e a loro crederete. So di certo che siamo scappati dal cospetto di Decio, e io proprio ieri sera l’ho visto entrare in questa città sempre che questa città sia proprio Efeso”.

Il vescovo pensieroso disse al proconsole: “Dio vuol mostrarci una qualche prodigiosa visione attraverso questo ragazzo”.
Dunque lo seguirono, e con loro venne una gran folla di gente dalla città. Entrò per primo Malco dai suoi compagni, poi il vescovo, che vide fra le pietre la lettera con due sigilli d’argento. Chiamata la folla attorno la lesse, e tutti quelli che l’ascoltavano erano pieni di meraviglia. Vedendo i santi di Dio seduti nella grotta freschi come rose, si gettarono a terra a glorificare il Signore. 

Il vescovo e il proconsole mandarono a dire a Teodosio di venire presto a vedere il grande prodigio compiuto da Dio in quei giorni. Subito alzandosi dal sacco su cui giaceva a terra piangendo, venne da Costantinopoli a Efeso rendendo grazie a Dio. E tutti quelli che gli si facevano intorno andarono con lui alla grotta. Appena i santi videro l’imperatore, i loro volti risplendettero, e l’imperatore si gettò ai loro piedi rendendo gloria a Dio; poi si rialzò, li abbracciò e pianse su ciascuno di loro dicendo: “Vi guardo ed è come se vedessi il Signore che resuscita Lazzaro”.
Allora san Massimiano disse: “Credici, è per causa tua che il Signore ci ha resuscitati proprio alla vigilia della festa della Resurrezione, affinché crediate che la resurrezione dei morti è una verità. Noi siamo veramente risorti e viviamo, e, come un bambino sta nel seno della madre senza sentire urti, così anche noi fummo vivi, giacendo addormentati, senza sentire alcuno stimolo”.
Pronunciate queste parole sotto gli occhi di tutti reclinarono nuovamente il capo a terra, addormentandosi e rendendo lo spirito, come Dio volle.
L’imperatore si rialzò e si gettò su di loro piangendo e baciandoli. Avendo l’imperatore deciso di farli riporre in sepolcri d’oro, la notte stessa apparvero all’imperatore dicendo che, come sino a poc’anzi erano giaciuti in terra e dalla terra erano risorti, così li lasciasse, sino a che il Signore non concedesse una seconda resurrezione. L’imperatore allora dispose che quella località fosse adornata di pietre dorate, e che tutti i vescovi che professavano la fede nella resurrezione fossero prosciolti.
Che essi abbiano dormito trecentosettantadue anni, come si è detto, è cosa dubbia, perché essi resuscitarono l’anno del Signore 448. Ma, Decio regnò soltanto un anno e tre mesi, nell’anno 252. Così non dormirono che centonovantasei anni.



Storia
La storia dei Sette Dormienti – presente sia nella religione cristiana che in quella islamica – è considerata dai più una leggenda, non la descrizione di un fatto accaduto. Tuttavia, sia per l’elevato significato contenuto, sia per i numerosi manoscritti pervenutici che testimoniano un culto antico e diffuso dalla Scandinavia ai Paesi islamici, per la Chiesa il racconto «non può essere negato che su chiari elementi di prova e argomenti di completa certezza».

Sette giovani cristiani di Efeso si rifugiarono in una grotta per sfuggire alla persecuzione dell’imperatore romano Decio (III secolo), il quale, scoperto il nascondiglio, li fece murare vivi. I Sette, però, caddero in un sonno miracoloso e si svegliarono quasi due secoli dopo, quando il cristianesimo era diventato la religione dominante. Ignaro del tempo trascorso, uno di loro pagò l’acquisto di un po’ di pane con alcune monete recanti l’effigie di Decio, cosicché il miracolo fu rivelato e i Sette, compiuta la loro testimonianza sulla realtà della resurrezione dei morti, morirono.
Nel tempo le varianti a questo “canovaccio” furono numerosissime, sì da renderlo profondamente differente da un luogo all’altro.

fare clic per ingrandire
fare clic per ingrandire
fare clic per ingrandire
fare clic per ingrandire
fare clic per ingrandire
fare clic per ingrandire

In Occidente, il racconto è stato tramandato da Gregorio, vescovo di Tours dal 573 al 594, che scrisse la Passio sanctorum septem dormientium, un adattamento in latino di un’omelia metrica di Giacomo di Sarug (Mesopotamia) che fu vescovo della Siria dal 519 al 521. La leggenda era tuttavia già nota da almeno un secolo nel Medio Oriente, come testimoniato da antichi manoscritti in greco, latino, siriaco, aramaico e copto. 

La prima narrazione greca è ascritta a Simeone Metafraste (X secolo) che scrisse una Vita dei Santi e collocò la festa dei Sette nel mese di luglio. In latino, un altro importante riferimento è contenuto nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono, pseudonimo di Paolo di Varnefrido (720-799), un religioso e storico longobardo morto a Montecassino.

In seguito, molte regioni dell’impero romano furono sottomesse dagli Arabi e il racconto si diffuse tra i musulmani e fu raccolta da Maometto, probabilmente in un viaggio in Siria. Esso si trova infatti citato nel Corano, nella sura XVIII intitolata “al Kahf”, la caverna, la cui ambiguità indica chiaramente che il racconto non fu rivelato a Maometto, ma fu questi a trasmettere quanto sapeva, stabilendo «una corrispondenza tra i sette dormienti e gli intercessori degli ultimi tempi (abdàl) per la cui venuta Abramo aveva supplicato Dio a Mamre. Tale venuta precede la venuta di Gesù e il regno dei giusti (mahdi) in una vera e propria “apocalisse”».

In Russia la leggenda fu conosciuta all’inizio del XII secolo, quando l’igumeno Daniil tornò dopo aver veduto le reliquie dei Sette in Terra Santa.