giovedì 16 maggio 2019

I topi abbandonano la nave solo quando sta per affondare!


E' un Potere

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22 aprile 2006

JNSR:    Dio mio, parlami per tutti i miei fratelli.

GESÙ:    Figlia Mia, Io ti parlo nel tuo cuore che soffre per il mondo in guerra. Nessuno si pente dei crimini commessi nel proprio paese. Occhio per occhio, dente per dente, questa regola continua sempre. La guerra è nei cuori più che nelle armi.

Io ti rispondo: Io posso spezzare le pietre per quanto dure esse siano, ma la più dura è circondata da centinaia di altre altrettanto dure, e che la sostengono. Queste si credono protette perché sono meno in vista. Io spezzerò il loro orgoglio. Cosi annientati, vedranno la loro sventura. È un Potere. Sono gli Scribi e i Farisei, quelli che Mi hanno giudicato come usurpatore, essi sono ancora qui per difendere il loro potere effimero. Questo Potere che cerca di riformare la Mia Chiesa e trasformarla in un tribunale che giudica l'innocente e lo condanna in anticipo perché difende la Giustizia, l'Innocenza, la Verità.

L’innocente difende la Santa Legge di Dio che respinge l'accusatore, perché introduce la sua legge perfida e insolente nel seno della Mia Chiesa, cercando di gettare la Purezza di Dio sul sagrato e di introdurre delle leggi sataniche nel cuore della Mia Chiesa. Non vedi, dunque, che nulla si può costruire su basi marce, e che i topi abbandonano la nave solo quando sta per affondare !

Io te lo dico: non temere, questa nave deve affondare. Essa protegge una falsa società, un'assemblea di falsi testimoni di Cristo, e tutto ciò che Io ti chiedo, è di non aver paura di dirlo. Io sono con te.

I Miei Mi riconoscono e, come un tempo, Io sono pronto a prendere la frusta per scacciare fuori dal Tempio del Padre Mio questi fautori di leggi umane che hanno attraversato il Tempo: eccoli più insolenti di prima, perché usano parole che appoggiano, in questo Tempo della Fine, coloro che pagano le loro leggi perverse per avere un trono nella Chiesa stessa di Dio.

Fuori, quelli che rinnegano Dio e la Sua Legge!

Io non ostacolo nessuno. Se qualcuno si sente ostacolato vuol dire che non è con Me. Ti chiedo, quindi, di scrivere e di diffondere questo. Io ti proteggerò, perché la Mia Croce si eleverà dopo la pulizia di questi impostori. Essi se ne andranno, tutti soli, con il loro spirito di dittatura.

La Chiesa è l'assemblea dei Miei fedeli di cuore, Io li conosco, essi sono con Me e con te. Dio è la Rettitudine in tutto.

Le  "riverenze"  vanno con questa falsa legge, che introduce nella Mia Chiesa coloro che vengono ad usurpare la Legge del Signore, per farne una caverna che protegge quelli che non sono né per Dio né per i poveri.

La Mia Croce si eleverà dopo questo, come ti ho promesso. Io ti mostrerò dove sta l'impostura. Insieme voi la scoprirete. Verrà fuori da sola quando vi avvicinerete. Dio sarà il Primo Testimone di questa riuscita perché Io la sto già organizzando. Coloro che dubitano di questo, lo vedranno presto. Io ti prometto la Mia Croce dopo la pulizia di questa insolente prostituzione che si é formata nella Mia Santa Chiesa.

JNSR:  Posso diffondere ciò che Mi stai dicendo, Signore?

GESÙ:     Lo devi, figlia Mia: Dio è Amore ma è anche Giustizia. Io spazzerò bene l'aia dove trebbiare il Mio Buon Grano. Fuori la zizzania, la paglia e le polveri! Non temere, tutto si mette a posto.

Non occorre coraggio per scacciare la menzogna e la falsificazione, non serve altro che la Verità di Dio, ed Io te la dono. Non temere nulla: colui che si sente implicato uscirà dal cerchio dei Miei amici senza voltarsi indietro. Allora si eleverà la Mia Croce. Questa sarà l'epurazione della Mia Santa Chiesa. Questo Tempo sta già arrivando: é la Purificazione.

Dio benedice la Sua Armata di Salvezza 
GESÙ Cristo Salvatore degli uomini.
†  †


AMDG et DVM

mercoledì 15 maggio 2019

Tutto sul PAPA DEL SORRISO: Giovanni Paolo I

Joseph Ratzinger e Albino Luciani


Fra questi due grandi uomini c'erano una stima ed un affetto particolari.
Ieri Benedetto XVI ha incontrato il Vescovo di Belluno-Feltre e
ha parlato della figura del suo predecessore.
Lo fece anche in altre occasioni che riportiamo di seguito.



Il Papa: «Luciani tra i miei maestri spirituali» 

A Lorenzago Joseph Ratzinger trascorrerà una vacanza in stile quasi monastico per dedicarsi allo studio e alla preghiera 

Cordialità e amicizia in un clima quasi informale e di grande serenità: così il vescovo della Diocesi Belluno-Feltre, Giuseppe Andrich -attraverso le parole dell'addetto diocesano alla comunicazione don Giuseppe Bratti- riassume l'incontro avuto a Roma con papa Benedetto XVI.Due i temi toccati dal vescovo durante il breve colloquio con il pontefice del 25 aprile scorso: papa Luciani e le ormai prossime vacanze di Joseph Ratzinger a Lorenzago di Cadore. In entrambi i casi papa Benedetto XIV non è stato parco di riflessioni: anzi.

A monsignor Andrich ha confidato anche che papa Albino Luciani è una figura di grande fede che egli stesso annovera fra le sue guide spirituali.
Sull'aspetto più puramente pratico della causa di beatificazione in corso per il papa di Canale d'Agordo, non sono invece emerse novità, nè da parte di Benedetto XIV, nè degli officiali della Congregazione per le cause dei santi, presenti all'incontro.
Il Santo Padre ha poi sfiorato l'argomento che ruota attorno alla sua presenza a Lorenzago di Cadore fra il 9 e il 28 luglio. Sarà una vacanza in stile quasi monastico -sono sempre le parole di don Bratti-. Papa Ratzinger intende dedicarsi rigorosamente allo studio e alla preghiera.

«E'stato un incontro contrassegnato da una cordialità che sconfina con l'amicizia». Così il vescovo di Belluno - Feltre, monsignor Giuseppe Andrich, riassume il clima affabile in cui si sono svolti a Roma i colloqui con papa Benedetto XVI. Due "a tu per tu" fra il pontefice e il vescovo. Uno ieri, come previsto dal protocollo settimanale all'interno della visita di tutti i vescovi del Triveneto ricevuti per l'appuntamento quinquennale "ad limina apostolorum", un altro - più breve ed improvvisato quanto affabile - mercoledì 25 aprile. Dopo l'udienza generale a cui in piazza San Pietro hanno partecipato i sessanta pellegrini bellunesi - fra i quali si notava un folto gruppo proveniente da Lorenzago di Cadore capeggiato dal parroco don Sergio De Martin, dal sindaco Mario Tremonti e dall'assessore provinciale Angelo Costola - monsignor Andrich si è intrattenuto per alcuni minuti con il Santo Padre: «Benedetto XVI ha spezzato con monsignor Andrich ogni formalità ed ha salutato in modo particolare la nostra diocesi ricordando spontaneamente quando nell'ottobre 2004, sei mesi prima dell'elezione al soglio pontificio, in veste di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede venne a Belluno e al Centro papa Luciani di Col Cumano», rifersce don Giuseppe Bratti, responsabile diocesano della comunicazione.

Nell'udienza di ieri, avvenuta in tarda mattinata, sono invece emerse considerazioni sulla presenza dal 9 al 28 luglio fra le Dolomiti: «Il pontefice ha confermato al nostro vescovo l'intenzione di trascorrere a Lorenzago una vacanza in stile quasi monastico, dedicandosi allo studio e alla preghiera» aggiunge Bratti. E sul possibile Angelus da tenersi in Nevegal? Ogni dettaglio sul soggiorno estivo pare debba essere ancora affrontato. Né sì, né no, insomma.

Altro tema saliente trattato durante l'incontro è stato quello intorno alla causa di beatificazione di Albino Luciani: «Monsignor Andrich ha chiesto, sia parlando con il papa che con gli officiali della Congregazione per le cause dei santi, se sia a buon punto l'iter del miracolo - è sempre don Bratti a relazionare - ma al momento non sono emerse novità. Sta di fatto che papa Ratzinger nei confronti di papa Luciani ha dimostrato, come in altre occasioni, un stima che rasenta una dimensione di preghiera». Per Benedetto XVI - a detta dello stesso monsignor Andrich - il pontefice di Canale d'Agordo «è figura di grande fede ed è annoverabile fra i suoi maestri spirituali».

Al Santo Padre è stato fatto poi il ritratto della diocesi di Belluno-Feltre, non solo attraverso numeri e dati statistici. Il vescovo nel documento presentato al pontefice ha sottolineato il rapporto con le altre religioni e la partecipazione alla messa, ma pure la situazione nel mondo del lavoro.

Daniela De Donà

Il Gazzettino del nordest, 28 aprile 2007

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Il Signore sceglie la nostra povertà

Ratzinger racconta la sua nomina ad arcivescovo di Monaco e a cardinale da parte di Paolo VI nel 1977 e i due conclavi del 1978 

di Gianni Cardinale

Quella del 1978 non fu un’estate qualsiasi per la Chiesa cattolica. Nel giro di poche settimane i cardinali si ritrovarono per due volte riuniti in conclave per eleggere il successore di Pietro. Il 6 agosto, infatti, dopo quindici anni di pontificato, venne meno Paolo VI, che avrebbe compiuto 81 anni il successivo 26 settembre. Il 26 agosto, dopo un rapidissimo conclave – due giorni e quattro votazioni – venne eletto papa il patriarca di Venezia Albino Luciani, che prese il nome di Giovanni Paolo I. Avrebbe compiuto 66 anni il 17 ottobre. Ma non festeggiò quel compleanno. Il suo pontificato durò appena trentatré giorni. All’alba del 28 settembre il nuovo Pontefice venne trovato esanime nella sua camera da letto. Il Sacro Collegio quindi si riunì di nuovo per il conclave che il 16 ottobre – dopo otto votazioni in tre giorni – vide l’elezione dell’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla, 58 anni, che col nome di Giovanni Paolo II divenne il primo Papa polacco della storia, il primo non italiano dopo 456 anni.

Per ricordare, venticinque anni dopo, i drammatici avvenimenti di quell’estate, 30Giorni ha chiesto la testimonianza del cardinale Joseph Ratzinger, 76 anni, indubbiamente il più conosciuto tra i ventuno porporati dell’attuale Sacro Collegio che parteciparono ai due conclavi del 1978. Con il porporato bavarese abbiamo anche parlato dei suoi colloqui e dei suoi incontri con papa Montini e con Luciani tra il 1977 e il 1978.

Il cardinale Joseph Ratzinger non ha bisogno di molte presentazioni. Teologo famoso fin dall’epoca del Concilio Vaticano II, nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga e creato cardinale nel 1977 da Paolo VI, è attualmente l’unico porporato europeo creato da papa Montini che siederebbe in un eventuale conclave. Convocato a Roma da papa Wojtyla nel 1981, presiede da allora la Congregazione per la dottrina della fede, la Pontificia Commissione biblica e la Commissione teologica internazionale. Attualmente è il più longevo tra i capidicastero della Curia romana. Eletto vicedecano del Sacro Collegio nel novembre ’98, alla fine dello scorso anno è stato eletto decano.

Eminenza, il 24 marzo 1977 Paolo VI la nominò arcivescovo di Monaco, tre mesi dopo la creò cardinale… 

JOSEPH RATZINGER: Due o tre giorni dopo la mia consacrazione episcopale del 28 maggio venni informato della mia nomina a cardinale, che quindi coincideva quasi con l’ordinazione sacramentale. Fu per me una grande sorpresa. Non so ancora darmi una spiegazione di tutto questo. So comunque che Paolo VI teneva presente il mio lavoro come teologo. Tanto che alcuni anni prima, forse nel 1975, mi aveva invitato a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano. Ma non mi sentivo sufficientemente sicuro né del mio italiano né del mio francese per preparare e osare una tale avventura, e così avevo detto di no. Ma questa era una prova che il Papa mi conosceva. Forse una qualche parte in questa storia potrebbe averla avuta monsignor Karl Rauber, oggi nunzio in Belgio, allora stretto collaboratore del Sostituto Giovanni Benelli. Comunque, sta di fatto, mi hanno detto, che di fronte alla terna per la nomina a Monaco e Frisinga, il Papa avrebbe personalmente scelto la mia povertà.

Quello del 27 giugno 1977 fu un “miniconcistoro” con soli cinque neocardinali… 

RATZINGER: Sì, eravamo un piccolo gruppo, interessante e simpatico. C’era Bernardin Gantin, l’unico ancora in vita oltre il sottoscritto. E poi Mario Luigi Ciappi, il teologo della Casa pontificia, Benelli naturalmente, e Frantisek Tomasek che era stato nominato in pectore già l’anno prima e che ricevette la porpora insieme a noi.

Si racconta che fu Benelli, il quale era stato nominato arcivescovo di Firenze il 3 giugno, a “scegliere” i nomi di quel “miniconcistoro”… 

RATZINGER: Può darsi. Non ho mai avuto voglia, né ho voglia ora di esplorare queste cose. Rispetto la Provvidenza; quali fossero gli strumenti della Provvidenza non mi interessa.

Cosa ricorda di quella cerimonia? 

RATZINGER: Alla consegna del berretto nell’aula Paolo VI io ho avuto un grande vantaggio rispetto agli altri neocardinali. Nessuno degli altri quattro cardinali aveva con sé una grande famiglia. Benelli aveva lavorato per lungo tempo in Curia, e a Firenze non era molto conosciuto, quindi non erano tanti i fedeli provenienti dal capoluogo toscano; Tomasek – c’era ancora la cortina di ferro – non poteva avere accompagnatori; Ciappi era un teologo che aveva lavorato sempre, per così dire, nella sua isola; Gantin è del Benin e dall’Africa non è agevole venire a Roma. Io invece ho avuto tanta gente: l’aula era quasi piena di persone che venivano da Monaco e dalla Baviera.

Fece un figurone… 

RATZINGER: In un certo senso sì. Gli applausi per me furono maggiori che per gli altri. Si vedeva che Monaco era presente. E il Papa fu visibilmente compiaciuto di vedere in qualche modo confermata la sua scelta.

In quell’occasione ebbe modo di avere un colloquio personale col Papa? 

RATZINGER: Dopo la liturgia, nella quale il Papa ci aveva consegnato l’anello, mi fu detto che Paolo VI desiderava parlarmi in udienza privata. Io ero stato per tanti anni un semplice professore, molto lontano dai vertici della gerarchia e non sapevo come comportarmi, mi sentivo un po’ a disagio in quel contesto. Non osavo parlare con il Papa perché mi sentivo ancora troppo semplice, ma lui fu molto buono e mi incoraggiò. Si trattò di un colloquio senza intenzioni specifiche, voleva conoscermi da vicino, dopo che forse Benelli gli aveva parlato di me.

Cosa ricorda dell’ultimo anno del pontificato di Paolo VI?

RATZINGER: In quel periodo, insieme agli altri vescovi della Baviera, venni a Roma per la visita ad limina. E in quella occasione ci fu un bell’incontro col Papa. Paolo VI cominciò a parlare in tedesco, lo faceva abbastanza bene, ma poi preferì passare all’italiano con cui era più facile comunicare. Parlò col cuore della sua vita e del suo primo incontro con la nostra terra. Ricordò che quando era stato a Monaco, da giovane sacerdote, si era trovato un po’ disorientato e aveva trovato tante persone che lo avevano aiutato. Fu un colloquio personale, senza grandi discorsi: si vedeva che il suo cuore si era aperto e voleva semplicemente condividere alcuni momenti con alcuni suoi confratelli nell’episcopato. Si trattò di un incontro molto simpatico.

Venne a Roma altre volte con Paolo VI papa? 

RATZINGER: Sì, per il suo ottantesimo compleanno [il 26 settembre 1977, ndr]. Il 16 ottobre celebrò una messa solenne a San Pietro. In quella occasione mi ha impressionato per come ha citato il verso della Divina Commedia in cui Dante parla di «quella Roma onde Cristo è romano» [Purgatorio, XXXII, 102, ndr]. Paolo VI era considerato un po’ un intellettuale che aveva difficoltà ad essere caldo con gli altri. In quel momento aveva manifestato un calore inaspettato proprio per Roma. Io non conoscevo o non mi ricordavo di queste parole di Dante. Mi impressionarono molto. Con queste parole Paolo VI voleva esprimere il suo amore per Roma che è divenuta la città del Signore, il centro della Sua Chiesa.

Come seppe della scomparsa di papa Montini? 

RATZINGER: Ero andato in vacanza in Austria. Venni informato la mattina stessa del 6 agosto che il Santo Padre si era sentito improvvisamente male. Chiamai il vicario generale di Monaco per dirgli di invitare subito tutta la diocesi a pregare per il Papa. Poi feci una piccola gita e quando tornai mi telefonarono per dirmi che il Papa si era aggravato e poco dopo mi chiamarono di nuovo per comunicarmi che era morto. Allora decisi che la mattina successiva sarei tornato a Monaco, e quella sera stessa venne la tv per intervistarmi. Dopo aver scritto una lettera alla diocesi partii per Roma.

Dove assistette ai funerali del Papa. 

RATZINGER: Mi colpì l’assoluta semplicità della bara con il Vangelo posato sopra. Questa povertà, che il Papa aveva voluto, mi aveva quasi scioccato. Mi impressionò anche la messa funebre celebrata dal cardinale Carlo Confalonieri, che essendo ultraottantenne, non avrebbe partecipato al conclave: fece un’omelia molto bella. Come fu bella quella pronunciata in un’altra messa dal cardinale Pericle Felici, che sottolineò come durante il funerale le pagine del Vangelo posto sopra la bara del Papa fossero state sfogliate dal vento. Ritornai poi a Monaco per celebrare una messa in suffragio: il duomo era molto affollato. Quindi tornai a Roma per il conclave.

Lei era un cardinale “novello”… 

RATZINGER: Ero tra i più giovani ma, siccome ero vescovo diocesano, appartenevo all’ordine dei presbiteri e quindi, nel protocollo, venivo prima di molti cardinali curiali che appartenevano all’ordine dei diaconi. Così non ero agli ultimi posti. Ricordo che al pranzo, anche in questo contesto venivano rispettate le precedenze, mi trovavo tra i cardinali Silvio Oddi e Felici, due porporati italianissimi.

Ebbe realmente un ruolo importante in quel conclave? 

RATZINGER: È vero che con alcuni cardinali germanofoni ci siamo visti qualche volta. A questi incontri partecipavano Joseph Schröffer, già prefetto dell’Educazione cattolica, Joseph Höffner di Colonia, il grande Franz König di Vienna – che vive ancora –, Alfred Bengsch di Berlino; c’erano inoltre Paulo Evaristo Arns e Aloísio Lorscheider, brasiliani di origine tedesca. Si trattava di un piccolo gruppo. Non volevamo assolutamente decidere niente, ma solo parlare un po’. Io mi sono lasciato guidare dalla Provvidenza, ascoltando i nomi, e vedendo come si è formato finalmente un consenso sul patriarca di Venezia.

Lo conosceva? 

RATZINGER: Sì, lo conoscevo personalmente. Durante le vacanze estive del ’77, ad agosto, mi trovavo nel seminario diocesano di Bressanone e Albino Luciani venne a farmi visita. L’Alto-Adige fa parte della regione ecclesiastica del Triveneto e lui, che era un uomo di una squisita gentilezza, come patriarca di Venezia si sentì quasi in obbligo di recarsi a trovare questo suo giovane confratello. Mi sentivo indegno di una tale visita. In quella occasione ho avuto modo di ammirare la sua grande semplicità, e anche la sua grande cultura. Mi raccontò che conosceva bene quei luoghi, dove da bambino era venuto con la mamma in pellegrinaggio al santuario di Pietralba, un monastero di Serviti di lingua italiana a mille metri di quota, molto visitato dai fedeli del Veneto. Luciani aveva tanti bei ricordi di quei luoghi e anche per questo era contento di tornare a Bressanone.

Prima non l’aveva mai conosciuto di persona? 

RATZINGER: No. Io ero vissuto, come ho già detto, nel mondo accademico, molto lontano dalle gerarchie, e non conoscevo di persona i vertici ecclesiastici.

Poi lo incontrò di nuovo? 

RATZINGER: No, mai prima del conclave del ’78.

In quell’occasione scambiò delle parole con lui? 

RATZINGER: Qualcuna, perché ci conoscevamo, ma non molte. C’era molto da fare e da meditare.

Che impressione fece la sua elezione? 

RATZINGER: Io sono stato molto felice. Avere come pastore della Chiesa universale un uomo con quella bontà e con quella fede luminosa era la garanzia che le cose andavano bene. Lui stesso era rimasto sorpreso e sentiva il peso della grande responsabilità. Si vedeva che soffriva un po’ di questo colpo. Non si aspettava questa elezione. Non era un uomo che cercava la carriera, ma concepiva gli incarichi che aveva avuto come un servizio e anche una sofferenza.

Quale fu il suo ultimo colloquio con lui? 

RATZINGER: Il giorno del suo insediamento, il 3 settembre. L’arcidiocesi di Monaco e Frisinga è gemellata con le diocesi dell’Ecuador e per quel mese di settembre a Guayaquil era stato organizzato un Congresso mariano nazionale. L’episcopato locale aveva chiesto che venissi nominato delegato pontificio per questo Congresso. Giovanni Paolo I aveva già letto la richiesta e deciso positivamente in merito; così, durante il tradizionale omaggio dei cardinali, parlammo del mio viaggio e lui invocò molte benedizioni su di me e su tutta la Chiesa ecuadoregna.

Lei andò in Ecuador? 

RATZINGER: Sì, e proprio quando ero lì mi raggiunse la notizia della morte del Papa. In un modo un po’ strano. Dormivo nell’episcopio di Quito. Non avevo chiuso la porta perché nell’episcopio mi sento come nel seno di Abramo. Era notte fonda quando entrò nella mia stanza un fascio di luce e si affacciò una persona con un abito da carmelitano. Rimasi un po’ sbigottito da questa luce e da questa persona vestita in maniera lugubre che sembrava messaggera di notizie infauste. Non ero sicuro se fosse sogno o realtà. Infine scoprii che era un vescovo ausiliare di Quito (Alberto Luna Tobar, oggi arcivescovo emerito di Cuenca, ndr), il quale mi comunicò che il Papa era morto. E così seppi di questo avvenimento tristissimo e imprevisto. Nonostante questa notizia, riuscii a dormire in grazia di Dio e la mattina dopo celebrai messa con un missionario tedesco, il quale nella preghiera dei fedeli pregò «per il nostro papa morto Giovanni Paolo I». Alla funzione assisteva anche il mio segretario laico, il quale alla fine venne da me e mi disse costernato che il missionario aveva sbagliato nome, che avrebbe dovuto pregare per Paolo VI e non per Giovanni Paolo I. Lui ancora non sapeva della morte di Albino Luciani.

Lei aveva visto il Papa al conclave. Nel rendergli omaggio le sembrava un uomo che nel giro di un mese potesse morire? 

RATZINGER: Mi sembrava che stesse bene. Certo non appariva un uomo di grande salute. Ma tanti sembrano fragili e poi vivono cento anni. A me appariva di buona salute. Non sono un medico, ma mi sembrava un uomo che, come me, non pareva avere una salute molto forte. Ma queste persone sono poi quelle che hanno di solito una maggiore aspettativa di vita.

Quindi fu per lei una morte inaspettata? 

RATZINGER: Assolutamente inaspettata.

Ebbe qualche dubbio quando cominciarono a girare voci su una morte violenta del Papa? 

RATZINGER: No.

Il vescovo di Belluno-Feltre, il salesiano Vincenzo Savio, ha annunciato di aver ricevuto, lo scorso 17 giugno, il nulla osta della Congregazione delle cause dei santi affinché si possa procedere alla causa di beatificazione del Servo di Dio Albino Luciani. Cosa pensa a riguardo? 

RATZINGER: Personalmente sono convintissimo che era un santo. Per la sua grande bontà, semplicità, umiltà. E per il suo grande coraggio. Perché aveva anche il coraggio di dire le cose con grande chiarezza, anche andando contro le opinioni correnti. E anche per la sua grande cultura di fede. Non era solo un semplice parroco che per caso era diventato patriarca. Era un uomo di grande cultura teologica e di grande senso ed esperienza pastorale. I suoi scritti sulla catechesi sono preziosi. Ed è bellissimo il suo libro Illustrissimi, che lessi subito dopo l’elezione. Sì, sono convintissimo che è un santo.

Pur avendolo incontrato in non più di tre occasioni? 

RATZINGER: Sì, è stato sufficiente perché la sua figura luminosa irradiasse in me questa convinzione.

Quando vi incontraste per il secondo conclave del 1978 quale era la sensazione dominante nel Collegio cardinalizio? 

RATZINGER: Dopo questa morte improvvisa eravamo tutti un po’ depressi. Era stato un colpo forte. Certo, anche dopo la morte di Paolo VI c’era tristezza. Ma quella di Montini era stata una vita completa, che aveva avuto un epilogo naturale. Lui stesso aspettava la morte, parlava della sua morte. Dopo un pontificato così grande c’era stato un nuovo inizio, con un Papa di tipo diverso ma in piena continuità. Ma che la Provvidenza avesse detto di no alla nostra elezione fu veramente un colpo duro. Benché l’elezione di Luciani non fu un errore. Quei trentatré giorni di pontificato hanno avuto una funzione nella storia della Chiesa.

Quale? 

RATZINGER: Non fu solo la testimonianza di bontà e di una fede gioiosa. Ma quella morte improvvisa aprì anche le porte ad una scelta inaspettata. Quella di un Papa non italiano.

Nel primo conclave del 1978 era stata presa in considerazione questa ipotesi? 

RATZINGER: Si parlò anche di questo. Ma non era un’ipotesi molto reale, anche perché c’era la bella figura di Albino Luciani. Dopo si pensò che c’era bisogno di qualcosa di assolutamente nuovo. 

Trenta giorni, 2003
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PAROLE DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI AL TERMINE DELLA PROIEZIONE DEL FILM "PAPA LUCIANI: IL SORRISO DI DIO"

LETTERA DI GIOVANNI PAOLO I AL CARDINALE RATZINGER, ARCIVESCOVO DI MONACO E FRISINGA, LEGATO PONTIFICIO AL CONGRESSO MARIANO IN EQUADOR (in portoghese)


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Poco più di trent'anni fa 
Albino Luciani diventò il Papa del sorriso


Eletto il 26 agosto 1978, stupì e incantò per semplicità e umiltà Morì di infarto dopo soli 33 giorni di pontificato: aveva 65 anni

Francesco Gerace

ROMA

Trent'anni fa il Papa del sorriso. Era il 26 agosto 1978, quando i 111 cardinali riuniti in conclave scelsero Albino Luciani, all'epoca patriarca di Venezia, quale successore di Papa Paolo VI, morto il 6 agosto dopo 15 anni di pontificato.


Ma quella di Luciani fu una meteora. Il nuovo Papa, che aveva preso il nome Giovanni Paolo I, morì improvvisamente dopo 33 giorni, colto da infarto la notte fra il 28 e il 29 settembre.
Avrebbe compiuto 66 anni il 17 ottobre.


Ma la sua semplicità e il suo sorriso sono rimasti impressi nella memoria di tutti.
Appena eletto, Papa Luciani si presentò al mondo confessando la sua paura di fronte al grande compito cui era stato chiamato, per il quale si sentiva inadeguato. Arrossì davanti alla folla che in piazza San Pietro lo salutava e applaudiva. Parlò di sé in prima persona; disse io, con semplicità, abrogando senza colpo ferire il plurale maiestatis di secolare memoria.


Si mostrò rispettoso e umile verso i predecessori, e spiegò di aver scelto di chiamarsi Giovanni Paolo in ossequio a Giovanni XXIII, di cui venerava la memoria, e a Paolo VI di cui ammirava la sapienza.
Fin da subito si capì che sarebbe stato un Papa diverso, dopo il severo e tormentato Paolo VI.
Luciani era sorridente e allegro, parlava in modo semplice, perfino troppo semplice secondo alcuni. In uno dei suoi primi discorsi suscitò stupore affermando che Dio è padre ma anche madre.
Benché il suo pontificato sia durato un niente, Luciani diventerà famoso come il Papa del sorriso e dell'umiltà (humiltas, era scritto sul suo stemma papale).


Prima ancora che Papa, era una specie di parroco della Chiesa universale. Memore dell'infanzia poverissima vissuta con la famiglia, il futuro Papa, nato nel 1912 a Forno di Canale (Belluno), oggi Canale d'Agordo, e prete dal 1935, condusse sempre una vita molto sobria, attenta all'essenziale.
Conobbe sofferenza e malattia, finì in sanatorio, subì 8 operazioni. E proprio la salute stava per costargli la nomina a vescovo: Giovanni XXIII, che stimava quel parroco bellunese, un giorno chiese come mai Luciani non venisse mai proposto per la promozione, e gli fu detto che era malaticcio. Si racconta che Papa Giovanni replicò: allora vuol dire che lo faremo morire vescovo. E così nel 1958 finalmente don Albino diventa vescovo e nel 1973 cardinale.


Luciani fu eletto a tempo di record: dall'«extra omnes» alla fumata bianca passarono solo 25 ore e 48 minuti. Solo 4 votazioni per trovare l'accordo. Il cardinal Felici annunciò l'Habemus Papam alle 19,19. Pochi minuti dopo il nuovo Papa si affacciò dalla loggia di San Pietro per salutare e dare la benedizione ai 25.000 presenti e al mondo collegato via tv.
L'elezione fu tanto rapida che colse in contropiede anche il cerimoniale, e il Papa dovette affacciarsi di nuovo più tardi per il rituale saluto alle guardie svizzere e a un battaglione dell'esercito italiano, nel frattempo schieratisi.


Si disse che Luciani era stato scelto quasi per caso, una sorta di figura minore, a metà strada fra le personalità sostenute da chi voleva un nuovo Papa conservatore e da chi lo voleva modernista. Alla vigilia del conclave non era ritenuto fra i papabili, benché la sua figura fosse tutt'altro che secondaria. Uomo di vasta cultura e preparazione teologica, era fermissimo in materia dottrinale; coniugava tali caratteristiche con la semplicità e la partecipazione, con la passione per le persone e il loro destino.


Si ricorda la sua attenzione per i problemi delle famiglie e di quelle povere in particolare, si battè contro il divorzio, si interrogò sugli anticoncezionali. Quando Paolo VI pubblicò l'Humanae vitae, la sua lealtà al Papa fu assoluta. Negli ambienti ecclesiastici, oltre che fra i fedeli, godeva di molta stima.

Qualche anno fa, l'allora cardinal Ratzinger disse alla rivista «30 Giorni» lche il nome di Luciani era affiorato in un incontro fra cardinali di lingua tedesca e brasiliani (Schröffer, Koenig, Hoeffner, Bengsch, Arns e Lorscheider): «Non volevamo decidere niente, ma solo parlare un po'. Mi sono lasciato guidare dalla Provvidenza ascoltando i nomi, e vedendo come si è formato finalmente un consenso sul patriarca di Venezia. Ne fui molto felice. Avere come pastore della Chiesa universale un uomo con quella bontà e con quella fede luminosa era la garanzia che le cose andavano bene».
L'improvvisa morte di Albino Luciani sollevò interrogativi e sospetti, qualcuno scrisse addirittura che il Papa era stato avvelenato. Ma una commissione medica ne accertò la morte per cause naturali. Per Giovanni Paolo I è in corso la causa di beatificazione.

I più vecchi ricorderanno senz'altro questo papa, che era l'incarnazione della bontà e dell'umiltà... e, forse, proprio per questo durò così poco, a voler dar retta ai pettegolezzi secondo i quali fu avvelenato. Papa Luciani bastava guardarlo per amarlo... e, anche se il suo fu uno dei pontificati più brevi della storia della Chiesa (durò soli 33 giorni), l'impronta che ha lasciato nella memoria collettiva rimane indelebile...

© Copyright Eco di Bergamo, 23 agosto 2008



AMDG et DVM

LA PRIMA E LA PRINCIPALE




ROSA SECONDA

[10] Il santo Rosario, essendo sostanzialmente composto della
preghiera di Cristo Gesù e della salutazione angelica - il Pater e l'Ave -
e della meditazione dei misteri di Gesù e di Maria, è senza dubbio la
prima e la principale devozione in uso presso i fedeli, dal tempo degli
Apostoli e dei primi discepoli, dì secolo in secolo giunta fino a noi.

[11] Tuttavia, nella forma e nel metodo in cui è recitato attualmente,
fu ispirato alla Chiesa e suggerito dalla Vergine a san Domenico per
convertire gli Albigesi e i peccatori, soltanto nel 1214, nel modo che
sto per dire, così come lo riferisce il beato Alano della Rupe nel suo
celebre libro De Dignitate psalterii.

San Domenico, constatando che i peccati degli uomini erano di
ostacolo alla conversione degli Albigesi, si ritirò in una foresta presso
Tolosa e vi restò tre giorni e tre notti in continua preghiera e
penitenza. 

E tali furono i suoi gemiti e i suoi pianti, le sue penitenze a
colpi di disciplina per placare la collera di Dio che cadde svenuto. 

La Vergine santa, allora gli apparve accompagnata da tre principesse del
cielo e gli disse: "Sai tu, caro Domenico, di quale arma si servì la SS.
Trinità per riformare il mondo?" 

- "Signora mia - le rispose - voi lo
sapete meglio di me: dopo il figliolo vostro Gesù voi foste lo strumento
principale della nostra salvezza". 

Ella soggiunse: "Sappi che l'arma più 
efficace è stato il Salterio angelico, che è il fondamento della Nuova
Alleanza; perciò se tu vuoi conquistare a Dio quei cuori induriti,
predica il mio salterio".

Il Santo si ritrovò consolato e ardente di zelo per la salvezza di quelle
popolazioni, andò nella cattedrale di Tolosa. 

Immediatamente le
campane, mosse dagli angeli, suonarono a distesa per radunare gli
abitanti. 

All'inizio della sua predica si scatenò un furioso temporale; il
suolo sussultò, il sole si oscurò, tuoni e lampi continui fecero
impallidire e tremare tutto l'uditorio. 

Il loro spavento crebbe quando
videro una effige della Vergine, esposta in luogo ben visibile, alzare
per tre volte le braccia al cielo e chiedere la vendetta di Dio su di loro
qualora non si convertissero e non ricorressero alla protezione della
santa Madre di Dio. 

Questo prodigio del cielo infuse la più alta stima
per la nuova devozione del Rosario e ne estese la conoscenza.

Il temporale finalmente cessò per le preghiere di san Domenico, che
proseguì il discorso spiegando l'eccellenza del santo Rosario con tanto
fervore ed efficacia da indurre quasi tutti gli abitanti di Tolosa ad
abbracciarne la pratica e a rinunciare ai propri errori. 

In breve tempo
si notò nella città un grande cambiamento di costumi e di vita.

http://www.parrocchiasantalessandro.it/Avvisi/Avvisi%20Maggio%202014/IL%20SEGRETO%20AMMIRABILE%20DEL%20SANTO%20ROSARIO.pdf

AVE MARIA PURISSIMA!

Testimonianza d'oro che deve farci aprire gli occhi ancora oggi...

AUTOBIOGRAFIA  

Maria Valtorta

CAPITOLO 8


Il dolore di Papà.

   Quando ero bimba, ma non più puerile, vidi piangere mio padre. Quelle lacrime mi sono tutte sul cuore.
   Egli, intelligentissimo, aveva fatto invenzioni e modifiche ad armi usate nel nostro Esercito. Questo per amor di Patria, poiché amava intensamente la Patria sua e m'ha trasfuso questo suo amore, e poi perché si studiava di sempre più aumentare la agiatezza familiare per amore mio e di mia madre. In casa sono ancora i brevetti, gli encomi, gli studi fatti da lui… studi notturni, pazienti, perfetti. Infine la riuscita, la soddisfazione, la gioia. E poi… e poi il tradimento.
   Come è costume nell'Esercito, ogni scoperta bellica deve essere sottoposta a studio di alti ufficiali di artiglieria. Fra questi mio padre trovò il suo Giuda. Una piccola modifica e la corruzione mediante denaro del proprietario della fabbrica d'armi, presso cui papà aveva fatto costruire gli esemplari da sottoporre al Ministero, furono il trabocchetto. Mio padre, inferiore di grado e non volendo dimettersi dall'Esercito e vendere la sua scoperta al Belgio, alla Francia, all'Austria che gliela avevano chiesta offrendo fior di quattrini, si trovò in condizioni di inferiorità.
   Erano, occorre ricordarlo, tempi in cui protezioni oscure tutelavano gli affiliati a organizzazioni speciali. E mio padre non era e non volle mai aver nulla a che fare con dette congreghe. Perciò… perse. Il Ministero, i generali, la stampa parlarono di lui con parole d'elogio. Ma il brevetto andò all'altro, al traditore, e l'utile ugualmente.
   Ma, come sempre, questo denaro del tradimento dette frutto di maledizione. Il Glisenti, colui che per denaro testimoniò il falso, fu colpito da paralisi e vegetò per anni e anni come un bruto. Il traditore, ufficiale d'artiglieria, dopo aver goduto i milioni frutto del suo tradire per breve tempo, morì, sparandosi con la pistola usurpata un colpo in bocca; sua moglie e sua figlia conobbero la miseria assoluta al punto di dover servire…
   Ma che mi importa dell'altrui male? Quello che mi fa ancora soffrire è il dolore di papà mio… E questo sarebbe stato già di per sé grande, immeritato da quell'uomo retto, lavoratore, buono. Ma fosse stato dolore unico egli l'avrebbe sopportato meglio e non si sarebbe in esso logorato. Invece…

   Mi duole dovere sempre suonare due campane, l'una dal suono forte e buono e l'altra dalla nota stridula e penosa. Ma la vita è così e io devo dire la mia vita come fu in me e in chi era intorno a me.
   Mia mamma, dopo la morte di sua madre, era divenuta addirittura intrattabile. Un poco il mal di fegato e, dopo anche la miglioria di questo, e molto la famosa malattia femminile — di quelle fra le donne però che, per bontà altrui, se la possono coltivare — del nervoso,l'avevano resa un tormento, una calamità familiare. Se avesse avuto una diecina di figli, pochi mezzi finanziari, nessuna persona di servizio e necessità perciò di rimboccarsi le maniche da mane a sera e sgobbare per tenere in ordine la baracca, gli isterismi non li avrebbe avuti, glielo assicuro. Ci sono delle infelici realmente ammalate di nervi e sono da compiangere. Ma mia mamma non era di queste. E lo dimostra il suo essere arrivata felicemente alla più tarda età mentre tutti i parenti di allora sono morti da un pezzo. Aveva solo il suo io malato di egoismo, di superbia, di prepotenza.
   Mia nonna, durante i primi dieci anni di vita coniugale, aveva posto un freno agli estri di sua figlia e un balsamo sul cuore ferito del genero che l'amava come una madre amatissima. Erano due buoni e si amavano. Morta lei, era venuto l'inferno.

   Mia mamma non ha mai voluto e non vuole, da nessuno, osservazioni. Lei è la perfezione e l'infallibilità. La sua parola è legge, il suo desiderio è comandamento. Mio papà, per amor di pace, non ha mai reagito a simili autoincensazioni… Per amore di pace, per amore della moglie alla quale ha voluto un bene fedele, perfetto, che meritava ben altro compenso! E anche non reagiva per… incapacità. Non era prepotente mio padre, non era brutale. Per domare mia mamma ci voleva uno più prepotente di lei, uno che all'occorrenza sapesse scrollarla un pochino… Sarebbe bastata una volta sola. Invece è sempre così! Nell'unione coniugale uno dei due è il tiranno e l'altro è la vittima. In casa mia la vittima era papà.
   Avrebbe dovuto essere adorato quest'uomo senza vizi, lavoratore, paziente, sano, bello, buono, che aveva dato ricchezza, vita comoda, superfluo a quel pezzettino di donna che era mia madre, levandola all'insegnamento dove avrebbe dovuto prosciugarsi per tutta la vita; e invece fu tormentato, fu abbeverato di sgarbi, di male parole, di ripulse…
   Cominciarono le scene per la parentela…
   Mio papà aveva due sorelle e un fratello. Il fratello e una sorella erano a Bergamo e perciò davano meno al naso di mamma, che però non mancava di parlare di loro con uno sprezzo che a papà era dolore. Quando zio Agostino veniva, uscivamo io, papà e lui per poter parlare in pace. Mamma restava a casa di puntiglio a rodersi di rabbia… Poi era la scena. Io, anche se avevo visto papà dare bigliettoni di banca, grossi, a zio, non parlavo. Avevo capito molto per tempo che vi sono cose da dire e cose da tacere… La prudenza mi deve essere stata infusa col Battesimo.

   L'altra sorella di papà, dopo esser stata in Argentina per degli anni, si era stabilita con il marito e una figlia maritata a Milano. Io non faccio il processo a nessuno né l'apologia di nessuno. Perciò dico che zia Angela avrà avuto i suoi difetti. Ma chi senza difetti fuorché Dio? Ah, no! sbaglio. Fuorché mia mamma? Questa zia, vedendo l'autoritarietà materna, osò intervenire in mio favore. Fu l'inizio delle ostilità. Una guerra continua che faceva soffrire babbo il quale, per la sua giustizia, non vedeva la sorella colpevole di tutte le colpe che mamma le appioppava, ed era sempre seccato da tutti i dispetti che a getto continuo partivano dalla moglie verso la sorella.
   Poi, non bastando questo, le cose degenerarono ancora. Che inferno! Mi chiedo ancora dove mamma trovasse forza, argomento, appiglio, veleno, in così ampia misura, per tormentare papà… Penso a Salomone dove dice1 che sono tre le cose che cacciano l'uomo fuori di casa: il camino che fa fumo, il tetto che fa acqua e la donna litigiosa. Per il fumo e l'acqua ci pensò il progresso a eliminarlo, e papà non ebbe a soffrire di queste due noie casalinghe, meglio: edilizie. Ma riguardo alla moglie litigiosa…Povero papà! Fu più bravo del saggio re Salomone, perché la sopportò senza fuggire, senza perdere la pazienza, ma anzi continuando ad amarla. Mentre ne soffrì moltissimo.

   Infatti niente ci ferisce più di quel che non ci ferisca il vederci misconosciuti dai nostri più prossimi, ai quali diamo tesori di affetto. Papà dava tesori di affetto a sua moglie… ma questi tesori furono usati come un'arma per ferirlo di più. Sicura del potere, dello strapotere che essa esercitava su lui, sicura che la bontà e la pazienza del marito erano perfette, sicura della perfezione d'amore con cui egli l'amava, invece di fare di queste sicurezze una unica arma di bene per sé, per lui e per me, se ne faceva uno strumento di devastazione morale.
   Durante la settimana, papà essendo via di casa dalle 6 antimeridiane alle 12, dalle 14 alle 19, e avendo dopo cena spesso amici in conversazione, non c'era male. Non era certo un vivere ideale, ma insomma era sopportabile. Ma alla domenica!!!… Vuole sapere cosa fosse la nostra domenica, alla quale papà ci teneva tanto come al suo giorno di festa da passarsi fra noi due che adorava? Eccola servito.
   Dopo la morte di nonna io dormivo in stanza coi miei, così fino al mio decimo anno. La mattina di domenica papà rimaneva a letto un poco più del solito ed io scivolavo dal mio lettino e mi arrampicavo sul suo lettone a prendere la mia parte di carezze.
  Mamma, che si era già alzata ed era di là a tormentare la donna di servizio, ci scopriva così, felici, l'una nelle braccia dell'altro, e sentiva il bisogno di avvelenarci la felicità. Ogni più piccola cosa era di pretesto per iniziare l'attacco. Frasi innocue come queste: «Questa notte hai dormito bene. Oggi, già che è una bella giornata, potresti uscire anche tu. Hai un bel colore oggi. La cameriera sta meglio con il suo raffreddore? Andiamo oggi a trovare Angelina (sorella di papà)?», bastavano a suscitare la scena. E su, e su, e su con un crescendo maligno, crudele, ingiusto, selvaggio. Rimproveri, accuse, minacce: di tutto. E niente poneva freno e termine a quella odiosa scena domenicale.

   Io, mi par di vedermi, ritta in piedi nel mio lungo camicione da notte, ritta sul letto matrimoniale a implorare piangendo pietà; mamma che, dopo aver vilipeso con le più false accuse quel sant'uomo di mio padre, minacciava di separarsi coniugalmente; mio padre esasperato che diceva: «Ma io mi sparo, così non ci resisto!». E poi lei che se ne andava altrove, per la casa, e io fra le braccia di papà che piangeva e diceva: «Oh! Maria! La mamma non mi vuole più bene, non ci vuole più bene…».
   Ho perdonato tanto, tanto, tanto a chi mi ha trafitto la vita. Ma ho perdonato il mio dolore causatomi per pura malvagità. Ma queste lacrime di mio padre… no, non le perdono. Mentirei se dicessi che posso perdonare a chi le fece scorrere. Perdono i miei spaventi di bimba… Sa che paura, che paura che papà si suicidasse? Quando tardava a rientrare in casa per qualche motivo io pensavo subito che si fosse ucciso… Il mio cuore ha cominciato allora ad ammalarsi… Perdono le mie feste sciupate dopo aver fatto tutto il mio dovere di scolara per sei giorni ripromettendomi la gioia domenicale. Perdono il crollo delle mie speranze, delle mie illusioni così tenaci a morire. Perdono di aver ucciso la mia serenità fin dalla fanciullezza, il mio sorriso, perdono d'avermi fatto intridere di pianto, di sconforto, di pessimismo il mio giorno fin dalle sue prime ore, tanto perdono, tutto perdono di quanto mi venne ingiustamente dato di male e egoisticamente levato di bene, del mio bene; ma quelle lacrime no. Le lacrime di mio padre, no. Mi appartengono come la più preziosa delle reliquie paterne e stanno chiuse nel mio cuore che fu rigato da esse come da stille di piombo rovente fin dall'infanzia, ma non mi appartengono al punto che io le possa perdonare. Esse anzi dal chiuso dove vivono, esse anzi dalla cicatrice che il loro cadere ha lasciato in me, gridano, gridano con voce di pianto, con voce d'amore, con voce di preghiera: «Ricòrdati e sii giusta». Ricordo e sono giusta.

   Ho continuato ad amare mia madre perché avevo il cuore di mio padre… Avessi avuto un altro cuore, non so se l'avrei potuta amare dopo aver visto come lei ha tormentato quell'uomo. L'ho continuata ad amare per naturale tendenza dunque e per dovere… Oh! triste cosa essere amati per dovere! Ma mio padre, il padre mio l'ho amato per me e per lei con amore, con quanto amore… Vedrà come ci amammo fino alla fine…
   Abbozzo su questo argomento perché è troppo doloroso per me. Sento — poiché ho la sensazione che i nostri morti siano in contatto con noi, roteanti intorno a noi, veglianti su noi — sento le braccia di mio papà ancora intorno al mio corpo scosso dai singulti e la sua voce dirmi: «Oh! Maria! La mamma non ci vuole bene!…». È una lama che mi si torce nel cuore…
   …Così erano le mie, le nostre feste; eppure, da quei tenaci ottimisti che eravamo, durante tutta la settimana accumulavamo tesori di buona grazia, di gentilezze, nella speranza che la prossima domenica fosse migliore dell'ultima così infelice… Illusioni…
   Quando poi venivano le grandi feste, e io e papà ci tenevamo: Natale, Pasqua, S. Giuseppe, S. Anna (onomastico di mamma), il compleanno mio, di papà, l'anniversario delle nozze, allora, di prammatica, la «luna» aveva inizio prima e tramontava a festa superata, rovinando tutto.
   Quando io leggo il Vangelo, fra i molti miracoli di Gesù, mi fermo ammirando alla guarigione dei lunatici. Altro che lebbrosi mondati, ciechi risanati, morti risuscitati! Questo è un miracolo!!! Perché, se tutte le sventure sono sventure, questa d'esser cattivi e di torturare chi vive seco noi è la più grande sventura. È lebbra che corrode l'anima, è cecità che accieca, è sordità che rende sordi alle voci del cuore, è morte al bene, è delitto verso sé stessi e verso il prossimo, è offesa a Dio.

   Colui che è cattivo è peggio di una calamità naturale, dalla quale non ci si può sottrarre perché voluta da leggi eterne, ma che appunto perché voluta da leggi eterne è molto distanziata, nelle sue crisi, nel tempo. Ci si rassegna perciò alle sventure che vengono a noi dalla natura e dal corso inesorabile degli eventi dei popoli. Forse questo dipende dal fatto che, essendo cose decretate in eterno dall'Eterno e facenti parte della nostra esistenza di viventi sul globo, sono rese sopportabili da una grazia speciale di Dio. Ho visto risorgere la vita sui paesi devastati dai terremoti, dalle eruzioni vulcaniche, ho visto sulle rovine e sulle lave sbocciare nuovamente i fiori, gli uccelli intessere il loro nido, le donne cantare ninnando una cuna, l'uomo tornare cantando dal lavoro, la speranza e l'amore risorgere come fenice dalle ceneri del disastro.
   Ma la disperazione che un essere umano porta ad altri esseri simili a lui, che per legami di sangue o d'affetto non si possono, non si vogliono ribellare, è tremenda. Frutto di un cuore preda del demone dell'egoismo, della prepotenza, dell'orgoglio, dà una amarezza che accompagna come tossico per tutta la vita. Una amarezza e una vista speciale, che ci potenzia la facoltà di vedere dietro le bugiarde quinte delle convenienze sociali. Sterilisce tutto in cuore la pena che ci viene da un essere che vive per tormentare, preda come è del proprio io malato per non dire colpevole. Sul suo percorso muoiono le speranze, crollano i sogni, si polverizzano tutti i lavori di bene. Rullo compressore dell'umanità che lo circonda, un cuore non buono stende e stritola tutto nella polvere e nel fango: intelligenza, salute, affetti, e lede persino la fede nei cuori, che vengono a dubitare di Dio stesso che non interviene a por fine a tanto male.

   Guai a scoprire, e in giovane età, la potenza della malvagità umana. L'amara disperazione che provoca in noi la conoscenza di quanto può un nostro simile di male verso i suoi simili è tale che senza un aiuto superno non lo potremmo sopportare e fatalmente saremmo portati al disgusto totale di tutto e di tutti. Fortunatamente Iddio interviene e allora l'anima, pur restando ferita, non muore. Ma muore la salute, qualche volta l'intelletto, sempre la gioia.
   In mio padre morirono tutte e tre le cose e questo non lo posso perdonare. Fui orfana dell'anima di mio padre, della sua intelligenza, a dodici anni; di lui mi sopravvisse un corpo tornato bambino, e questo lo devo dimenticare? No. Non posso. Se avesse avuto solo il dispiacere del vedersi tradito da un estraneo, mio padre non sarebbe morto nella sua psiche così presto. Sono state le ore familiari, corrodenti come un acido, limanti come uno smeriglio, che me lo hanno distrutto. No. Non lo posso dimenticare. Non sarebbe giusto neppure.
   Mia mamma è quasi otto anni che è vedova e ancora non sa darsi pace. Ma perché? Perché questo tormento che la pungola e la martoria? Non è ansia d'amore, Padre. È rimorso.
   Quando la morte ci leva uno amato è ben diversa la reazione che provoca nei cuori. Dolore maestoso, placido pur nella sua veemenza, se il nostro dolore non è venato da rimorso alcuno. Dolore inquieto, dolore smanioso che fa rimprovero ad altri, a Dio per il primo, di quanto è accaduto (perché in realtà il rimprovero è in noi, contro di noi) quando abbiamo molto che rimorde verso l'estinto. Oh! dolce cosa poter guardare al cielo e dire a colui che è lassù, in Dio: «Io non ti ho mai fatto piangere!».
  

   Ho detto: «Non posso perdonare». Lei sa cosa intendo io per perdono. Ci siamo già intesi su ciò. Perdono vuol dire per me: dimenticare il male ricevuto.
   Ora io sono arrivata, per amore di Dio, a dimenticare il male che ho ricevuto io, perché quel male mi ha gettata, come palla violentemente scagliata al suolo, a rimbalzare in braccio a Gesù, e perciò quel male è divenuto per me bene. Ma non posso, non è mio diritto2, dimenticare il male che ricevette mio padre. E quello, non dimenticandolo, non lo perdono. Tutto quello che posso fare è di non rimproverarlo a colei che lo fece e di far conto che non l'abbia compiuto, continuando a rispettarla come fosse stata una compagna perfetta per lo sposo che Dio le aveva concesso, e basta. Più di così, non posso. E non voglio per venerazione di mio padre.
   Dal 1904 al 1935 sono 31 anni. Un tempo pur lungo! E per tutto questo tempo mio papà ha sofferto per questo. Calpestato il suo cuore, trafitto il suo sentire, sprezzato il suo affetto, distrutta la sua salute, lesionata la sua intelligenza, mortificata fino all'ultima ora la sua dignità di uomo…
   Ah! che somma di dolore filiale ho a pesarmi sul cuore! Solo posandola sulle spalle di Gesù, mio divino Cireneo, riesco a trascinare questa montagna d'assenzio che ha sempre schiacciato la mia sensibilità di figlia e spremuto dalle mie fibre lacrime di sangue.
   In questa malattia così tormentosa, così lunga, così avvilente, Lei vede come sono serena… Ma quello che Lei non conosce, perché allora Ella non sapeva neppure che io esistessi, è il mio dolore straziante che per poco mi fa impazzire quando mio padre morì… Ma quello che Lei non vede, perché nessuno fuorché Dio e il mio angelo lo vede, è il mio anelito continuo a papà, la mia nostalgia di papà, il mio chiamare papà, il mio pensare a papà…
   Quando penso come, cosa soffrì, è come se l'aculeo non straziasse le mie carni ma penetrasse nel mio cuore. E quando vengo a mia volta calpestata, Lei sa come, due sono i nomi che invoco: «Gesù - Papà». I miei due amori, i miei due conforti, le mie due calamite per cui facile mi è il Bene e dolce la Morte che mi aprirà la via per unirmi a Loro…
 

   dice, per esempio e con una certa approssimazione, in: Proverbi 19,13; 27,15.

   2 non è mio diritto, poiché, se perdonare il male ricevuto è per il cristiano un dovere, che Maria Valtorta spinge fino

 alla dimenticanza, perdonare il male fatto ad altri sarebbe come arrogarsi un diritto: le "lacrime di mio padre… non mi

 appartengono al punto che io le possa [= le debba] perdonare".

MV a 9 anni

 

AMDG et DVM