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giovedì 16 febbraio 2023

BRANI dai discorsi e dagli scritti di PAPA LUCIANI


«Io rischio di dire uno sproposito...


...ma lo dico. Il Signore ama tanto l’umiltà che a volte permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili». (Udienza generale, 6 settembre 1978).


Brani dai discorsi e dagli scritti di Luciani


Io sono la pura e povera polvere
«Non so che cosa abbia pensato il Signore, che cosa abbia pensato il Papa, che cosa abbia pensato la divina Provvidenza di me. Sto pensando in questi giorni che con me il Signore attua il suo vecchio sistema: prende i piccoli dal fango della strada e li mette in alto, prende la gente dai campi, dalle reti del mare, del lago e ne fa degli apostoli. È il suo vecchio sistema. Certe cose il Signore non le vuole scrivere né sul bronzo, né sul marmo, ma addirittura nella polvere, affinché se la scrittura resta, non scompaginata, non dispersa dal vento, sia bene chiaro che tutto è opera e tutto è merito del solo Signore. Io sono il piccolo di una volta, io sono colui che viene dai campi, io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto la dignità episcopale dell’illustre diocesi di Vittorio Veneto. Se qualche cosa mai di buono salterà fuori da tutto questo, sia ben chiaro fin da adesso: è solo frutto della bontà, della grazia, della misericordia del Signore».
(Omelia del 6 gennaio 1959, a Canale d’Agordo)


Il catechismo
«Messo da parte il catechismo non saprete che mezzi adoperare per fare buoni piccoli e grandi. Tirerete in campo la “dignità umana”? I piccoli non capiscono che cosa sia, i grandi se ne infischiano. Metterete avanti “l’imperativo categorico”? Peggio che peggio... Si dice che anche la filosofia e la scienza sono capaci di far buoni e nobili gli uomini. Ma non c’è neppure confronto col catechismo, che insegna in breve la sapienza di tutte le biblioteche, risolve i problemi di tutte le filosofie e soddisfa alle ricerche più penose e difficili dello spirito umano».
(Catechetica in briciole, 1949)


Da formule che sembravano aride, una fiammante santità
«Stiamo uniti nell’insegnare le stesse cose: non opinioni più o meno rispettabili, ma ciò che il Magistero della Chiesa propone... Il criterio del catechizzare è dunque il depositum custodi di san Paolo, non l’altro, talora usato: “Che cosa piace? che cosa è oggi alla moda? che cosa mi farà apparire aggiornato e brillante?”... Con il Papa, esorto a non nutrire troppi pregiudizi contro l’uso sapiente e moderato sia delle formule che della memorizzazione. D’accordo, sapere a memoria non è sapere... Tuttavia una formula capita e ricordata a memoria è come un attaccapanni al quale, nonostante il passare degli anni, restano appese le cognizioni religiose più importanti. Certe formule di chimica e di algebra, alcuni articoli fondamentali del codice, perché esigono precisione, sono appresi a memoria al liceo e all’università. Ora, c’è codice più impegnativo delle verità religiose e dei precetti morali? Sono aride, si dice, le formule. Anche il cerino sembra arido ma, strofinato, si fa fiamma. Qui nel Veneto, noi abbiamo il caso di santa Bertilla Boscardin, che conobbe quasi soltanto il catechismo a formule. Gliel’aveva dato il parroco, quand’era fanciulla; se l’è portato in convento; lo leggeva e rileggeva continuamente; lo trovarono nella tasca della sua veste dopo la morte. Era quasi consunto, ma la santa da quelle formule, che sembravano aride, aveva saputo far scaturire una fiammante santità».
(Omelia ai catechisti, Venezia, 29 ottobre 1977)


Marco sembra aver visto
«San Marco, come sintassi, vocabolario, costruzione e tornitura di periodo, è un povero scrittore. Ma è vivace, è pittoresco: per questo piace. Solo Marco riporta tali e quali, in aramaico, certe frasi pronunciate da Gesù. Questa per esempio: “Talitha qoum”, “Figliolina, alzati su!”. Quest’altra: “Eloi, lama sabacthani?”, “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Tutto ciò aiuta a vedere e sentire l’ambiente palestinese. Più che insegnare, Marco descrive: sembra aver visto».
(Omelia per la festa di san Marco, Venezia, 25 aprile 1974)


L’evidenza dei fatti
«Dice san Paolo: “Fu seppellito... risuscitò il terzo giorno... apparve a Cefa, quindi ai Dodici, poi apparve in una volta sola a più di cinquecento fratelli, dei quali i più rimangono sino ad oggi... Inoltre apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli; ultimo fra tutti apparve anche a me” (1 Cor 15, 4-9). Quattro volte qui Paolo adopera il verbo apparve, insistendo sulla percezione visiva; ora, l’occhio non vede qualcosa di interno, ma di esterno a noi, una realtà distinta da noi, che ci si impone dal di fuori. Ciò allontana la tesi di un’allucinazione, di cui, del resto, gli apostoli furono i primi ad aver paura. Essi pensarono infatti dapprima di vedere uno spirito, non il vero Gesù, tanto che questi li dovette rassicurare: “Perché siete sconvolti? Guardate le mie mani e i miei piedi, ché sono proprio io. Toccatemi e guardate, poiché uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che ho io!” (Lc 24, 38). Essi non credevano ancora e Gesù disse loro: “‘Avete qui qualcosa da mangiare?’. Gli misero davanti un pezzo di pesce arrostito. E davanti ai loro occhi lo prese e lo mangiò” (Lc 24, 41-43). L’incredulità iniziale, dunque, non fu del solo Tommaso, ma di tutti gli apostoli, gente sana, robusta, realista, allergica a ogni fenomeno di allucinazione, che s’è arresa solo davanti all’evidenza dei fatti.
Con un materiale umano siffatto era anche improbabilissimo il passare dall’idea di un Cristo meritevole di rivivere spiritualmente nei cuori all’idea di una risurrezione corporale a forza di riflessione e di entusiasmo. Tra l’altro, al posto dell’entusiasmo, dopo la morte di Cristo, c’era negli apostoli solo sconforto e delusione. Mancò poi il tempo: non è in quindici giorni che un forte gruppo di persone, non abituate a speculare, cambia in blocco mentalità senza il sostegno di solide prove!».
(Omelia per la veglia pasquale, Venezia, 21 aprile 1973)


Di vecchia gnosi si tratta
«“Teologia nuova?”. Ben venga! A volte, però, ci si illude: non di nuova teologia si tratta, ma di vecchia gnosi. Riemerge, infatti, spesso, la mentalità presuntuosa degli antichi gnostici: “Noi diamo spiegazioni a livello di altissima scienza; noi ce le mangiamo le povere, viete e superate spiegazioni del Magistero!”. Ritorna anche il metodo della gnosi: prendere cioè i temi ed i termini della fede cattolica, ma solo parzialmente, arrogandosi il diritto di setacciarli e selezionarli, di intenderli a modo proprio, di mescolarli a ideologie estranee e di fondare l’adesione alla fede non più sull’autorità divina, ma su motivi umani; per esempio, su questa o quella opzione filosofica, sul combaciare di un dato tema con determinate scelte politiche abbracciate in antecedenza».
(Omelia su Cristo liberatore, Venezia, 7 marzo 1973)


Quietismo e pelagianesimo
«...non ho nessun desiderio di fare l’eresiologo; a volte, tuttavia, è forte in me la tentazione di segnalare tracce di quietismo e di semiquietismo, di pelagianesimo e di semipelagianesimo in scritti e discorsi, che o descrivono il lavoro pastorale come tutto dipendesse dagli uomini o dalle tecniche sociologiche, o parlano di noi poveri uomini come non avessimo più nulla a che vedere con il peccato».
(Invito al clero per gli esercizi spirituali, Venezia, 5 agosto 1974)


L’amore alla Tradizione
«Lo studio e la lettura devota (che non è studio) della Bibbia non occorre raccomandarli oggi: per fortuna, l’uno e l’altra sono entrati nei cuori dopo il Concilio. Vi raccomando invece l’amore alla Tradizione: non siate di coloro che, abbagliati e accecati, più che illuminati, da qualche lampo, pensano che ora soltanto è nato il sole e vogliono tutto rovesciare e cambiare».
(Inizio d’anno del seminario, Venezia, 20 settembre 1977)


Solo Dio può toccare il cuore
«Uno dei più brillanti vescovi è stato san Paolo apostolo, il quale diceva della propria predicazione fatta a Corinto: “Io ho gettato il seme, ma nulla sarebbe successo se Dio non l’avesse sviluppato e fatto sbocciare”. Non è questione di correre; è questione soltanto di misericordia e di delicatezza di Dio. Io vescovo e i miei sacerdoti possiamo istruire, illuminare, convincere anche, ma non di più; solo Dio può toccare il cuore e convertirvi».
(Prima omelia in Cattedrale, Vittorio Veneto, 11 gennaio 1959)


Il peccato commesso diventa quasi un gioiello
«A Pasqua, Dio aspetta. Un disperso che ritorna gli procura più consolazione che novantanove rimasti fedeli; data la sua infinita misericordia, mentre un peccato ancora da commettere va evitato a costo di qualunque sacrificio, il peccato già commesso diventa nelle nostre mani quasi un gioiello, che gli possiamo regalare, per procurarGli la consolazione di perdonare. Proviamo! Si fa i signori. Quando si regalano i gioielli».
(Lettera ai fedeli di Vittorio Veneto, 7 febbraio 1959)


Il conclave
«Uno scritto di san Bernardo venne utilizzato una volta in un modo ben curioso. Avvenne durante un conclave per l’elezione del papa e i cardinali erano molto indecisi sulla scelta. Uno di essi domandò la parola e fece la seguente riflessione: “Cari colleghi, il criterio da usare in questo momento venne esposto già con chiarezza e limpidezza da san Bernardo nella lettera tale e tale. Vi si legge: ‘Se qualcuno è sapiente, ci dia buone lezioni; se ha pietà, preghi per noi; se è prudente, questi ci governi’. Inchiniamoci dunque davanti a quelli che tra noi sono sapienti e hanno pietà, ma eleggiamo colui che è dotato di prudenza”».
(Elogio della prudenza. Discorso all’Università Federale di Santa Maria, in Brasile, novembre 1975).


Roma e i poveri
«Alcune delle sue parole [del sindaco di Roma] m’hanno fatto venire in mente una delle preghiere che, fanciullo, recitavo con la mamma. Suonava così: “I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio, sono... opprimere i poveri, defraudare la giusta mercede agli operai”. A sua volta, il parroco mi interrogava alla scuola di catechismo: “I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, perché sono dei più gravi e funesti?”. Ed io rispondevo col catechismo di Pio X: “... perché direttamente contrari al bene dell’umanità e odiosissimi, tanto che provocano, più degli altri, i castighi di Dio”. 
Roma sarà una vera comunità cristiana, se Dio vi sarà onorato non solo con l’affluenza dei fedeli alle chiese, non solo con la vita privata vissuta morigeratamente, ma anche con l’amore ai poveri. Questi – diceva il diacono romano Lorenzo – sono i veri tesori della Chiesa; vanno, pertanto, aiutati da chi può, ad avere e ad essere di più senza venire umiliati ed offesi con ricchezze ostentate, con denaro sperperato in cose futili e non investito – quando possibile – in imprese di comune vantaggio».
(Basilica di San Giovanni in Laterano, 23 settembre 1978)

venerdì 23 dicembre 2022

GRANDE MISSIONE

2. LE DOTI DEL CATECHISTA


Dipende soprattutto dal catechista che la sua missione riesca

o no. San Filippo Neri e san Giovanni Bosco catechizzavano i

ragazzi in qualche angolo di sacrestia, perfino sulla strada, senza

lusso di ambienti, senza mezzi, eppure incantavano come maghi

e trasformavano. Avevano quel che occorre più di tutto:

– doti religiose che fanno il cristiano;

– doti morali che fanno l’uomo;

– doti professionali, o del mestiere, che fanno il maestro;

– doti esterne che non fanno niente di nuovo, e non sono indispensabili,

ma danno pieno risalto alle doti precedenti e

permettono al catechista di brillare davanti ai ragazzi nella

luce completa di cristiano, uomo e maestro.


a) Doti religiose


5. Buona condotta. È una dote capitale. I fanciulli leggono

più sul catechista che sul catechismo; imparano più dalla condotta

che dalle parole, più cogli occhi che con le orecchie. Sono

come le spugne: assorbono soprattutto quello che vedono. E vedono

molto: hanno antenne finissime per captare tutto quello

che il catechista è interiormente. Se il catechista non è buono, la

sua voce può dire quello che vuole, ma cento altre voci escono da

lui a smentire ciò che le labbra pronunciano.

Non si riesce a insinuare nei fanciulli la dolcezza, il perdono,

quando lunghi pensieri di astio o di vendetta hanno dato una

piega dura al nostro volto.

Non si porta alla purezza con le belle parole, quando brutte

abitudini o pensieri cattivi oscurano la nostra anima.

Il catechista non può dare ciò che non possiede: anzi, egli

non insegna nemmeno ciò che ha, o ciò che sa, ma ciò che è.


6. Pietà. Dio ha riservato a sé solo di produrre nelle anime

la vita soprannaturale, ossia la grazia e le virtù. Il catechista è

soltanto uno strumento di cui Dio si serve: se resta unito a Dio,

vivendo in stato di grazia, farà del bene ai fanciulli; staccato da

Dio, col peccato mortale, la sua opera sarà sterile.

È come la lampadina elettrica: unita alla corrente, fa chiaro;

staccata dalla corrente, lascia all’oscuro.

Ci sono stati dei catechisti che, privi di doti esteriori, scarsi

di ingegno e di cultura, hanno tuttavia ottenuto frutti meravigliosi.

Avevano una pietà profonda che conquistava i fanciulli

più che tutta l’eloquenza di questo mondo.

Catechisti che non solo insegnavano Dio, ma lo mostravano

e facevano sentire, come il curato d’Ars, del quale si disse: «Andiamo

a vedere una trasparenza di Dio!».

Non si concepisce un catechista senza vera pietà.

Come può far amare il Signore se egli, per primo, non l’ama?

Come insegnerà a pregare, a frequentare i sacramenti, se non ha

gusto per la preghiera, per le funzioni, se non fa bene le genuflessioni,

il segno di croce, ecc.? E la pietà non è una maschera che

si mette e si leva: è un profumo che esce da un’anima desiderosa

di piacere a Dio e che i fanciulli riconoscono con una facilità

straordinaria.

Se i fanciulli si sentono amati, spalancano la porta del loro

cuore, si fidano, ascoltano, si lasciano persuadere e operano.

7. Convinzione profonda. Il catechista deve essere un entusiasta,

un convinto. Convinto che la sua missione è una cosa

grande, che le cose che insegna sono vere, che i fanciulli miglioreranno.

Queste convinzioni daranno anima, ali al suo apostolato;

con esse egli diventerà un artista del catechismo, senza di esse resterà

manovale del catechismo, incapace di edificare e trascinare.

Due alpinisti scalano una roccia: il primo, perché è di moda;

il secondo, per passione.

Sentiteli al ritorno: «Cosa ho veduto? – dice il primo. – Oh!

nulla di speciale: quattro corde, quattro alberi, dei torrenti, dei

prati, un cantoncino di cielo e nient’altro!». E sbadiglia.

Dice il secondo: «Cosa ho veduto? Non lo dimenticherò mai

più! Rocce, poi ancora rocce, e prati e torrenti e azzurro e sole

e cose meravigliose!». E mentre parla pare che tali meraviglie gli

ridano ancora nello sguardo e nell’anima.

Quei due dicono la stessa cosa, ma è il modo di dire, diverso.

Il primo non invoglia nessuno a tentare una scalata; il secondo

invece con il suo entusiasmo accenderà la passione della montagna

in altri e guiderà proseliti a nuove vette.

Così il catechista: non basta che dica, ma, dicendo, deve

invogliare, appassionare e trascinare.


b) Doti morali


8. Amare i fanciulli. Lacordaire ha scritto: «Dio volle che

nessun bene si facesse agli uomini fuor che amandoli». Ed è vero.

Se non si sentono amati, restano diffidenti, fanno per forza, o

non fanno affatto.

Il catechista stesso, se non vuol bene ai fanciulli, non troverà

mai la forza di superare gli insuccessi, le noie, le ingratitudini

inerenti al suo ufficio; tanto meno sarà capace di aver fiducia in

loro, di compatirli e di aver pazienza.


9. Pazienza. Perché la pazienza è necessaria al catechista.

«Con i fanciulli – dice san Francesco di Sales – occorre: un bicchierino

di sapienza, un barile di prudenza e un mare di pazienza».


E lo sanno tutti, tanto è vero che quando un maestro non riesce

con i fanciulli, il popolo dice senz’altro: «Non riesce perché

non ha pazienza». Quando invece un maestro è capace, virtuoso,

il popolo senz’altro esclama: «Quanta pazienza!».


10. Senso della giustizia. Il fanciullo non sopporta le parzialità

e le ingiustizie e, quando le vede o crede di vederle, soffre, si

allontana chiudendosi in se stesso.

In questa materia, cose che per noi sono sciocchezze, per

il fanciullo acquistano una importanza straordinaria. Bisogna

badare di evitarle, cercando di trattare tutti alla stessa maniera,

guardandosi da simpatie verso i più ricchi, i più intelligenti, i

meglio vestiti, ecc. Se qualche preferenza si può avere e mostrare

è verso i più poveri, i più ignoranti, i deficienti.


11. Rispetto della verità. Anche alla verità i fanciulli sono

sensibilissimi. Essi hanno una grande fiducia nel catechista.

Questi pertanto non deve mai permettersi, neppure per scherzo,

di dire cose non vere o di parlare con sottintesi e doppi sensi.

Non sarà mai troppa, a questo riguardo, la prudenza e la cura

di non perdere davanti al fanciullo il prestigio di essere uomini

di parola. Per esempio, si stia attenti quando si racconta, a non

cambiare i particolari. Il fanciullo, che ha memoria fedele soprattutto

per i particolari concreti, resta male se, nella seconda volta,

li trova diversi dalla prima; nel suo animo sorge il dubbio, che

poi passa con tutta facilità dai dettagli insignificanti alla sostanza

delle verità insegnate.


c) Doti professionali


12. Sapere. Per insegnare bisogna sapere: per insegnare uno,

bisogna sapere dieci: per insegnare bene, bisogna sapere benissimo.

Ed ecco una scala: chi sa benissimo, insegna bene; chi sa bene

insegna discretamente; chi sa appena passabilmente, insegna male.

Alle scuole elementari una maestra non insegna molte cose ed

esse sono più facili che le verità del catechismo, eppure si pretende

da lei che studi almeno tredici anni, che superi difficili esami.

Si dice: «Oh! si tratta poi di ragazzi!».

Tanto più è necessario sapere e avere idee chiare e precise. Se

no, non si può parlare con linguaggio facile e semplice.

Ecco cosa succede quando il catechista sa poco:

– nelle teste dei fanciulli entrano errori, dubbi e confusioni;

– il catechista parla e va avanti senza disinvoltura, senza brio e

fiducia in sé;

– i ragazzi si accorgono della sua poca scienza, e addio prestigio

di maestro!

13. Saper insegnare. Non è lo stesso che «sapere». Altro è

avere le idee nella testa propria e altro farle passare nella testa

degli altri.

Ci sono dei pozzi di scienza che non riescono a comunicarla

agli altri.

E ci sono degli oratori, bravissimi a parlare ai grandi, che

non riescono a fare stare attenti i piccoli.

E ci sono dei maestri capaci di insegnare bene ai fanciulli

storia e geografia, ma non sono capaci di insegnare il catechismo.

Un catechista quindi non solo deve sapere o avere la scienza;

ma deve avere l’abilità di comunicare ai piccoli la sua scienza con

la didattica, anzi, con la didattica catechistica.

14. Per arrivare al possesso di questa abilità, sono utilissimi:

Il senso di adattamento, cioè il saper proporzionare ciò che si

dice a chi ci ascolta. Si parla in maniera diversa ai bambini di età

diversa; e, se i bambini hanno la stessa età, in una maniera ai meno

intelligenti e in un’altra ai più intelligenti. Si cerca sempre di

dire cose facili e di dire in modo facile le cose difficili. Si devono

sempre presentare le cose sotto un aspetto simpatico che piaccia

ai fanciulli e le faccia amare.

La chiarezza: idee poche, ma colorite e incisive; meglio poco

e bene che tanto e confuso; parole facili, che i fanciulli già

conoscono e capiscono, concrete e, se possibile, accompagnate

da immagini. Non si dirà: «La sapienza divina», ma «Dio che è

tanto bravo». Non si dirà: «Pierino si vergognò», ma «Pierino è

diventato tutto rosso per la vergogna». Meglio ancora: «Pierino

per la vergogna è diventato rosso come un galletto».

Il saper raccontare: è una delle migliori risorse per riuscire

con i ragazzi, che sono desiderosi di racconti e bevono avidamente

le storie narrate con garbo e ampiezza.


d) Doti esterne


15. Il fanciullo è un caricaturista terribile: un minimo di

ridicolo che ci sia nel catechista, lo scopre subito.

Ma tutto ciò che è bravura vera, armonia, grazia, conquista

e incanta in fanciullo.

Basta poco per farsi beffeggiare da lui e basta poco per suscitare

il suo entusiasmo. Per questo bisogna che il catechista

sorvegli e controlli il suo esterno.

16. Stia attento all’espressione del volto. I fanciulli la osservano,

vi leggono i pensieri che la parola non è stata capace di dire,

ma soprattutto i sentimenti che il catechista nutre per loro.

Niente, quindi, sguardo truce. Niente tristezza esagerata. Il

fanciullo la prende per cattiveria. Se abbiamo dei crucci, dei malanni,

non facciamoli vedere agli alunni; e se fuori piove o tuona,

il nostro viso sia egualmente sereno, tranquillo, in modo che i

fanciulli dicano: il catechista è contento di essere con noi, egli è

buono, ci vuole bene.

17. Sorvegli lo sguardo. Ai fanciulli parla più l’occhio che la

bocca del catechista: nell’occhio essi vedono le sfumature della

parola. D’altra parte, è con l’occhio che il catechista li domina

e fa sentire che li vuol dominare. Un occhio vigile, penetrante,

acuto impressiona o soggioga i fanciulli.


18. Sorvegli il gesto. Un gesto naturale, sobrio rende più vivace

e attraente la parola, soprattutto coi piccoli, che sono abi-

tuati a supplire i vocaboli che mancano con la vivacissima mimica,

mettendo in moto occhi, mani, persona, tono di voce, testa,

tutto. Ma il gesto meccanico e goffo ci rende ridicoli e distrae.

19. Merita una cura speciale la voce. Il minimo che si domanda

è di articolare bene le parole, senza precipitare, senza

mangiar sillabe, senza ingarbugliarsi. Non gridare, assordando,

ma neanche parlar troppo basso o fra i denti in maniera che i

ragazzi non capiscano o facciano fatica a capire.

Cominciando, si parla piuttosto piano per attirare l’attenzione;

si prosegue facendo degli alto e dei basso, dei piano e dei

forte, rallentando in certi momenti e accelerando in altri.

Chi ha un bel timbro di voce, ne approfitti. Un bel timbro,

manifestando entusiasmo o pietà, può rendere seducenti anche

le cose più comuni.

Se il catechista ha qualche intercalare, ossia una parola o frase

che ripete con predilezione ogni tanto, si sorvegli, altrimenti

lo sorvegliano gli alunni che alla fine della lezione avranno contato

50 o 60 «insomma» o «non è vero» o altre simili perluzze.

20. Il portamento esterno ha pure la sua importanza. L’eleganza

esagerata, il profumo, la cipria, il rossetto della catechista

farebbero ridere i fanciulli, ma la trascuratezza, la sciatteria li

impressionerebbero male.

Andando a far catechismo si va a fare una cosa grande: il

vestito sia conveniente, la capigliatura composta, non manchino

la proprietà e il decoro. Lo meritano il catechismo e anche i

ragazzi.

21. E finalmente, se il catechista possiede delle abilità che

impressionano favorevolmente il ragazzo, non le nasconda, ma

le usi a favore dell’insegnamento. Il fatto che egli è un bravo

portiere, manda in visibilio gli alunni? E faccia il portiere nelle

partite, perché i fanciulli attaccano spesso la loro stima proprio

a queste bravure. La catechista ha una bella voce, fa dei bei disegni?

Esterni talvolta queste qualità, non per mettersi in mostra,

ma per far del bene.

Settembre 1972

Da Papa Luciani, OperaOmnia


AMDG et DVM

mercoledì 15 maggio 2019

Tutto sul PAPA DEL SORRISO: Giovanni Paolo I

Joseph Ratzinger e Albino Luciani


Fra questi due grandi uomini c'erano una stima ed un affetto particolari.
Ieri Benedetto XVI ha incontrato il Vescovo di Belluno-Feltre e
ha parlato della figura del suo predecessore.
Lo fece anche in altre occasioni che riportiamo di seguito.



Il Papa: «Luciani tra i miei maestri spirituali» 

A Lorenzago Joseph Ratzinger trascorrerà una vacanza in stile quasi monastico per dedicarsi allo studio e alla preghiera 

Cordialità e amicizia in un clima quasi informale e di grande serenità: così il vescovo della Diocesi Belluno-Feltre, Giuseppe Andrich -attraverso le parole dell'addetto diocesano alla comunicazione don Giuseppe Bratti- riassume l'incontro avuto a Roma con papa Benedetto XVI.Due i temi toccati dal vescovo durante il breve colloquio con il pontefice del 25 aprile scorso: papa Luciani e le ormai prossime vacanze di Joseph Ratzinger a Lorenzago di Cadore. In entrambi i casi papa Benedetto XIV non è stato parco di riflessioni: anzi.

A monsignor Andrich ha confidato anche che papa Albino Luciani è una figura di grande fede che egli stesso annovera fra le sue guide spirituali.
Sull'aspetto più puramente pratico della causa di beatificazione in corso per il papa di Canale d'Agordo, non sono invece emerse novità, nè da parte di Benedetto XIV, nè degli officiali della Congregazione per le cause dei santi, presenti all'incontro.
Il Santo Padre ha poi sfiorato l'argomento che ruota attorno alla sua presenza a Lorenzago di Cadore fra il 9 e il 28 luglio. Sarà una vacanza in stile quasi monastico -sono sempre le parole di don Bratti-. Papa Ratzinger intende dedicarsi rigorosamente allo studio e alla preghiera.

«E'stato un incontro contrassegnato da una cordialità che sconfina con l'amicizia». Così il vescovo di Belluno - Feltre, monsignor Giuseppe Andrich, riassume il clima affabile in cui si sono svolti a Roma i colloqui con papa Benedetto XVI. Due "a tu per tu" fra il pontefice e il vescovo. Uno ieri, come previsto dal protocollo settimanale all'interno della visita di tutti i vescovi del Triveneto ricevuti per l'appuntamento quinquennale "ad limina apostolorum", un altro - più breve ed improvvisato quanto affabile - mercoledì 25 aprile. Dopo l'udienza generale a cui in piazza San Pietro hanno partecipato i sessanta pellegrini bellunesi - fra i quali si notava un folto gruppo proveniente da Lorenzago di Cadore capeggiato dal parroco don Sergio De Martin, dal sindaco Mario Tremonti e dall'assessore provinciale Angelo Costola - monsignor Andrich si è intrattenuto per alcuni minuti con il Santo Padre: «Benedetto XVI ha spezzato con monsignor Andrich ogni formalità ed ha salutato in modo particolare la nostra diocesi ricordando spontaneamente quando nell'ottobre 2004, sei mesi prima dell'elezione al soglio pontificio, in veste di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede venne a Belluno e al Centro papa Luciani di Col Cumano», rifersce don Giuseppe Bratti, responsabile diocesano della comunicazione.

Nell'udienza di ieri, avvenuta in tarda mattinata, sono invece emerse considerazioni sulla presenza dal 9 al 28 luglio fra le Dolomiti: «Il pontefice ha confermato al nostro vescovo l'intenzione di trascorrere a Lorenzago una vacanza in stile quasi monastico, dedicandosi allo studio e alla preghiera» aggiunge Bratti. E sul possibile Angelus da tenersi in Nevegal? Ogni dettaglio sul soggiorno estivo pare debba essere ancora affrontato. Né sì, né no, insomma.

Altro tema saliente trattato durante l'incontro è stato quello intorno alla causa di beatificazione di Albino Luciani: «Monsignor Andrich ha chiesto, sia parlando con il papa che con gli officiali della Congregazione per le cause dei santi, se sia a buon punto l'iter del miracolo - è sempre don Bratti a relazionare - ma al momento non sono emerse novità. Sta di fatto che papa Ratzinger nei confronti di papa Luciani ha dimostrato, come in altre occasioni, un stima che rasenta una dimensione di preghiera». Per Benedetto XVI - a detta dello stesso monsignor Andrich - il pontefice di Canale d'Agordo «è figura di grande fede ed è annoverabile fra i suoi maestri spirituali».

Al Santo Padre è stato fatto poi il ritratto della diocesi di Belluno-Feltre, non solo attraverso numeri e dati statistici. Il vescovo nel documento presentato al pontefice ha sottolineato il rapporto con le altre religioni e la partecipazione alla messa, ma pure la situazione nel mondo del lavoro.

Daniela De Donà

Il Gazzettino del nordest, 28 aprile 2007

***

Il Signore sceglie la nostra povertà

Ratzinger racconta la sua nomina ad arcivescovo di Monaco e a cardinale da parte di Paolo VI nel 1977 e i due conclavi del 1978 

di Gianni Cardinale

Quella del 1978 non fu un’estate qualsiasi per la Chiesa cattolica. Nel giro di poche settimane i cardinali si ritrovarono per due volte riuniti in conclave per eleggere il successore di Pietro. Il 6 agosto, infatti, dopo quindici anni di pontificato, venne meno Paolo VI, che avrebbe compiuto 81 anni il successivo 26 settembre. Il 26 agosto, dopo un rapidissimo conclave – due giorni e quattro votazioni – venne eletto papa il patriarca di Venezia Albino Luciani, che prese il nome di Giovanni Paolo I. Avrebbe compiuto 66 anni il 17 ottobre. Ma non festeggiò quel compleanno. Il suo pontificato durò appena trentatré giorni. All’alba del 28 settembre il nuovo Pontefice venne trovato esanime nella sua camera da letto. Il Sacro Collegio quindi si riunì di nuovo per il conclave che il 16 ottobre – dopo otto votazioni in tre giorni – vide l’elezione dell’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla, 58 anni, che col nome di Giovanni Paolo II divenne il primo Papa polacco della storia, il primo non italiano dopo 456 anni.

Per ricordare, venticinque anni dopo, i drammatici avvenimenti di quell’estate, 30Giorni ha chiesto la testimonianza del cardinale Joseph Ratzinger, 76 anni, indubbiamente il più conosciuto tra i ventuno porporati dell’attuale Sacro Collegio che parteciparono ai due conclavi del 1978. Con il porporato bavarese abbiamo anche parlato dei suoi colloqui e dei suoi incontri con papa Montini e con Luciani tra il 1977 e il 1978.

Il cardinale Joseph Ratzinger non ha bisogno di molte presentazioni. Teologo famoso fin dall’epoca del Concilio Vaticano II, nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga e creato cardinale nel 1977 da Paolo VI, è attualmente l’unico porporato europeo creato da papa Montini che siederebbe in un eventuale conclave. Convocato a Roma da papa Wojtyla nel 1981, presiede da allora la Congregazione per la dottrina della fede, la Pontificia Commissione biblica e la Commissione teologica internazionale. Attualmente è il più longevo tra i capidicastero della Curia romana. Eletto vicedecano del Sacro Collegio nel novembre ’98, alla fine dello scorso anno è stato eletto decano.

Eminenza, il 24 marzo 1977 Paolo VI la nominò arcivescovo di Monaco, tre mesi dopo la creò cardinale… 

JOSEPH RATZINGER: Due o tre giorni dopo la mia consacrazione episcopale del 28 maggio venni informato della mia nomina a cardinale, che quindi coincideva quasi con l’ordinazione sacramentale. Fu per me una grande sorpresa. Non so ancora darmi una spiegazione di tutto questo. So comunque che Paolo VI teneva presente il mio lavoro come teologo. Tanto che alcuni anni prima, forse nel 1975, mi aveva invitato a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano. Ma non mi sentivo sufficientemente sicuro né del mio italiano né del mio francese per preparare e osare una tale avventura, e così avevo detto di no. Ma questa era una prova che il Papa mi conosceva. Forse una qualche parte in questa storia potrebbe averla avuta monsignor Karl Rauber, oggi nunzio in Belgio, allora stretto collaboratore del Sostituto Giovanni Benelli. Comunque, sta di fatto, mi hanno detto, che di fronte alla terna per la nomina a Monaco e Frisinga, il Papa avrebbe personalmente scelto la mia povertà.

Quello del 27 giugno 1977 fu un “miniconcistoro” con soli cinque neocardinali… 

RATZINGER: Sì, eravamo un piccolo gruppo, interessante e simpatico. C’era Bernardin Gantin, l’unico ancora in vita oltre il sottoscritto. E poi Mario Luigi Ciappi, il teologo della Casa pontificia, Benelli naturalmente, e Frantisek Tomasek che era stato nominato in pectore già l’anno prima e che ricevette la porpora insieme a noi.

Si racconta che fu Benelli, il quale era stato nominato arcivescovo di Firenze il 3 giugno, a “scegliere” i nomi di quel “miniconcistoro”… 

RATZINGER: Può darsi. Non ho mai avuto voglia, né ho voglia ora di esplorare queste cose. Rispetto la Provvidenza; quali fossero gli strumenti della Provvidenza non mi interessa.

Cosa ricorda di quella cerimonia? 

RATZINGER: Alla consegna del berretto nell’aula Paolo VI io ho avuto un grande vantaggio rispetto agli altri neocardinali. Nessuno degli altri quattro cardinali aveva con sé una grande famiglia. Benelli aveva lavorato per lungo tempo in Curia, e a Firenze non era molto conosciuto, quindi non erano tanti i fedeli provenienti dal capoluogo toscano; Tomasek – c’era ancora la cortina di ferro – non poteva avere accompagnatori; Ciappi era un teologo che aveva lavorato sempre, per così dire, nella sua isola; Gantin è del Benin e dall’Africa non è agevole venire a Roma. Io invece ho avuto tanta gente: l’aula era quasi piena di persone che venivano da Monaco e dalla Baviera.

Fece un figurone… 

RATZINGER: In un certo senso sì. Gli applausi per me furono maggiori che per gli altri. Si vedeva che Monaco era presente. E il Papa fu visibilmente compiaciuto di vedere in qualche modo confermata la sua scelta.

In quell’occasione ebbe modo di avere un colloquio personale col Papa? 

RATZINGER: Dopo la liturgia, nella quale il Papa ci aveva consegnato l’anello, mi fu detto che Paolo VI desiderava parlarmi in udienza privata. Io ero stato per tanti anni un semplice professore, molto lontano dai vertici della gerarchia e non sapevo come comportarmi, mi sentivo un po’ a disagio in quel contesto. Non osavo parlare con il Papa perché mi sentivo ancora troppo semplice, ma lui fu molto buono e mi incoraggiò. Si trattò di un colloquio senza intenzioni specifiche, voleva conoscermi da vicino, dopo che forse Benelli gli aveva parlato di me.

Cosa ricorda dell’ultimo anno del pontificato di Paolo VI?

RATZINGER: In quel periodo, insieme agli altri vescovi della Baviera, venni a Roma per la visita ad limina. E in quella occasione ci fu un bell’incontro col Papa. Paolo VI cominciò a parlare in tedesco, lo faceva abbastanza bene, ma poi preferì passare all’italiano con cui era più facile comunicare. Parlò col cuore della sua vita e del suo primo incontro con la nostra terra. Ricordò che quando era stato a Monaco, da giovane sacerdote, si era trovato un po’ disorientato e aveva trovato tante persone che lo avevano aiutato. Fu un colloquio personale, senza grandi discorsi: si vedeva che il suo cuore si era aperto e voleva semplicemente condividere alcuni momenti con alcuni suoi confratelli nell’episcopato. Si trattò di un incontro molto simpatico.

Venne a Roma altre volte con Paolo VI papa? 

RATZINGER: Sì, per il suo ottantesimo compleanno [il 26 settembre 1977, ndr]. Il 16 ottobre celebrò una messa solenne a San Pietro. In quella occasione mi ha impressionato per come ha citato il verso della Divina Commedia in cui Dante parla di «quella Roma onde Cristo è romano» [Purgatorio, XXXII, 102, ndr]. Paolo VI era considerato un po’ un intellettuale che aveva difficoltà ad essere caldo con gli altri. In quel momento aveva manifestato un calore inaspettato proprio per Roma. Io non conoscevo o non mi ricordavo di queste parole di Dante. Mi impressionarono molto. Con queste parole Paolo VI voleva esprimere il suo amore per Roma che è divenuta la città del Signore, il centro della Sua Chiesa.

Come seppe della scomparsa di papa Montini? 

RATZINGER: Ero andato in vacanza in Austria. Venni informato la mattina stessa del 6 agosto che il Santo Padre si era sentito improvvisamente male. Chiamai il vicario generale di Monaco per dirgli di invitare subito tutta la diocesi a pregare per il Papa. Poi feci una piccola gita e quando tornai mi telefonarono per dirmi che il Papa si era aggravato e poco dopo mi chiamarono di nuovo per comunicarmi che era morto. Allora decisi che la mattina successiva sarei tornato a Monaco, e quella sera stessa venne la tv per intervistarmi. Dopo aver scritto una lettera alla diocesi partii per Roma.

Dove assistette ai funerali del Papa. 

RATZINGER: Mi colpì l’assoluta semplicità della bara con il Vangelo posato sopra. Questa povertà, che il Papa aveva voluto, mi aveva quasi scioccato. Mi impressionò anche la messa funebre celebrata dal cardinale Carlo Confalonieri, che essendo ultraottantenne, non avrebbe partecipato al conclave: fece un’omelia molto bella. Come fu bella quella pronunciata in un’altra messa dal cardinale Pericle Felici, che sottolineò come durante il funerale le pagine del Vangelo posto sopra la bara del Papa fossero state sfogliate dal vento. Ritornai poi a Monaco per celebrare una messa in suffragio: il duomo era molto affollato. Quindi tornai a Roma per il conclave.

Lei era un cardinale “novello”… 

RATZINGER: Ero tra i più giovani ma, siccome ero vescovo diocesano, appartenevo all’ordine dei presbiteri e quindi, nel protocollo, venivo prima di molti cardinali curiali che appartenevano all’ordine dei diaconi. Così non ero agli ultimi posti. Ricordo che al pranzo, anche in questo contesto venivano rispettate le precedenze, mi trovavo tra i cardinali Silvio Oddi e Felici, due porporati italianissimi.

Ebbe realmente un ruolo importante in quel conclave? 

RATZINGER: È vero che con alcuni cardinali germanofoni ci siamo visti qualche volta. A questi incontri partecipavano Joseph Schröffer, già prefetto dell’Educazione cattolica, Joseph Höffner di Colonia, il grande Franz König di Vienna – che vive ancora –, Alfred Bengsch di Berlino; c’erano inoltre Paulo Evaristo Arns e Aloísio Lorscheider, brasiliani di origine tedesca. Si trattava di un piccolo gruppo. Non volevamo assolutamente decidere niente, ma solo parlare un po’. Io mi sono lasciato guidare dalla Provvidenza, ascoltando i nomi, e vedendo come si è formato finalmente un consenso sul patriarca di Venezia.

Lo conosceva? 

RATZINGER: Sì, lo conoscevo personalmente. Durante le vacanze estive del ’77, ad agosto, mi trovavo nel seminario diocesano di Bressanone e Albino Luciani venne a farmi visita. L’Alto-Adige fa parte della regione ecclesiastica del Triveneto e lui, che era un uomo di una squisita gentilezza, come patriarca di Venezia si sentì quasi in obbligo di recarsi a trovare questo suo giovane confratello. Mi sentivo indegno di una tale visita. In quella occasione ho avuto modo di ammirare la sua grande semplicità, e anche la sua grande cultura. Mi raccontò che conosceva bene quei luoghi, dove da bambino era venuto con la mamma in pellegrinaggio al santuario di Pietralba, un monastero di Serviti di lingua italiana a mille metri di quota, molto visitato dai fedeli del Veneto. Luciani aveva tanti bei ricordi di quei luoghi e anche per questo era contento di tornare a Bressanone.

Prima non l’aveva mai conosciuto di persona? 

RATZINGER: No. Io ero vissuto, come ho già detto, nel mondo accademico, molto lontano dalle gerarchie, e non conoscevo di persona i vertici ecclesiastici.

Poi lo incontrò di nuovo? 

RATZINGER: No, mai prima del conclave del ’78.

In quell’occasione scambiò delle parole con lui? 

RATZINGER: Qualcuna, perché ci conoscevamo, ma non molte. C’era molto da fare e da meditare.

Che impressione fece la sua elezione? 

RATZINGER: Io sono stato molto felice. Avere come pastore della Chiesa universale un uomo con quella bontà e con quella fede luminosa era la garanzia che le cose andavano bene. Lui stesso era rimasto sorpreso e sentiva il peso della grande responsabilità. Si vedeva che soffriva un po’ di questo colpo. Non si aspettava questa elezione. Non era un uomo che cercava la carriera, ma concepiva gli incarichi che aveva avuto come un servizio e anche una sofferenza.

Quale fu il suo ultimo colloquio con lui? 

RATZINGER: Il giorno del suo insediamento, il 3 settembre. L’arcidiocesi di Monaco e Frisinga è gemellata con le diocesi dell’Ecuador e per quel mese di settembre a Guayaquil era stato organizzato un Congresso mariano nazionale. L’episcopato locale aveva chiesto che venissi nominato delegato pontificio per questo Congresso. Giovanni Paolo I aveva già letto la richiesta e deciso positivamente in merito; così, durante il tradizionale omaggio dei cardinali, parlammo del mio viaggio e lui invocò molte benedizioni su di me e su tutta la Chiesa ecuadoregna.

Lei andò in Ecuador? 

RATZINGER: Sì, e proprio quando ero lì mi raggiunse la notizia della morte del Papa. In un modo un po’ strano. Dormivo nell’episcopio di Quito. Non avevo chiuso la porta perché nell’episcopio mi sento come nel seno di Abramo. Era notte fonda quando entrò nella mia stanza un fascio di luce e si affacciò una persona con un abito da carmelitano. Rimasi un po’ sbigottito da questa luce e da questa persona vestita in maniera lugubre che sembrava messaggera di notizie infauste. Non ero sicuro se fosse sogno o realtà. Infine scoprii che era un vescovo ausiliare di Quito (Alberto Luna Tobar, oggi arcivescovo emerito di Cuenca, ndr), il quale mi comunicò che il Papa era morto. E così seppi di questo avvenimento tristissimo e imprevisto. Nonostante questa notizia, riuscii a dormire in grazia di Dio e la mattina dopo celebrai messa con un missionario tedesco, il quale nella preghiera dei fedeli pregò «per il nostro papa morto Giovanni Paolo I». Alla funzione assisteva anche il mio segretario laico, il quale alla fine venne da me e mi disse costernato che il missionario aveva sbagliato nome, che avrebbe dovuto pregare per Paolo VI e non per Giovanni Paolo I. Lui ancora non sapeva della morte di Albino Luciani.

Lei aveva visto il Papa al conclave. Nel rendergli omaggio le sembrava un uomo che nel giro di un mese potesse morire? 

RATZINGER: Mi sembrava che stesse bene. Certo non appariva un uomo di grande salute. Ma tanti sembrano fragili e poi vivono cento anni. A me appariva di buona salute. Non sono un medico, ma mi sembrava un uomo che, come me, non pareva avere una salute molto forte. Ma queste persone sono poi quelle che hanno di solito una maggiore aspettativa di vita.

Quindi fu per lei una morte inaspettata? 

RATZINGER: Assolutamente inaspettata.

Ebbe qualche dubbio quando cominciarono a girare voci su una morte violenta del Papa? 

RATZINGER: No.

Il vescovo di Belluno-Feltre, il salesiano Vincenzo Savio, ha annunciato di aver ricevuto, lo scorso 17 giugno, il nulla osta della Congregazione delle cause dei santi affinché si possa procedere alla causa di beatificazione del Servo di Dio Albino Luciani. Cosa pensa a riguardo? 

RATZINGER: Personalmente sono convintissimo che era un santo. Per la sua grande bontà, semplicità, umiltà. E per il suo grande coraggio. Perché aveva anche il coraggio di dire le cose con grande chiarezza, anche andando contro le opinioni correnti. E anche per la sua grande cultura di fede. Non era solo un semplice parroco che per caso era diventato patriarca. Era un uomo di grande cultura teologica e di grande senso ed esperienza pastorale. I suoi scritti sulla catechesi sono preziosi. Ed è bellissimo il suo libro Illustrissimi, che lessi subito dopo l’elezione. Sì, sono convintissimo che è un santo.

Pur avendolo incontrato in non più di tre occasioni? 

RATZINGER: Sì, è stato sufficiente perché la sua figura luminosa irradiasse in me questa convinzione.

Quando vi incontraste per il secondo conclave del 1978 quale era la sensazione dominante nel Collegio cardinalizio? 

RATZINGER: Dopo questa morte improvvisa eravamo tutti un po’ depressi. Era stato un colpo forte. Certo, anche dopo la morte di Paolo VI c’era tristezza. Ma quella di Montini era stata una vita completa, che aveva avuto un epilogo naturale. Lui stesso aspettava la morte, parlava della sua morte. Dopo un pontificato così grande c’era stato un nuovo inizio, con un Papa di tipo diverso ma in piena continuità. Ma che la Provvidenza avesse detto di no alla nostra elezione fu veramente un colpo duro. Benché l’elezione di Luciani non fu un errore. Quei trentatré giorni di pontificato hanno avuto una funzione nella storia della Chiesa.

Quale? 

RATZINGER: Non fu solo la testimonianza di bontà e di una fede gioiosa. Ma quella morte improvvisa aprì anche le porte ad una scelta inaspettata. Quella di un Papa non italiano.

Nel primo conclave del 1978 era stata presa in considerazione questa ipotesi? 

RATZINGER: Si parlò anche di questo. Ma non era un’ipotesi molto reale, anche perché c’era la bella figura di Albino Luciani. Dopo si pensò che c’era bisogno di qualcosa di assolutamente nuovo. 

Trenta giorni, 2003
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PAROLE DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI AL TERMINE DELLA PROIEZIONE DEL FILM "PAPA LUCIANI: IL SORRISO DI DIO"

LETTERA DI GIOVANNI PAOLO I AL CARDINALE RATZINGER, ARCIVESCOVO DI MONACO E FRISINGA, LEGATO PONTIFICIO AL CONGRESSO MARIANO IN EQUADOR (in portoghese)


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Poco più di trent'anni fa 
Albino Luciani diventò il Papa del sorriso


Eletto il 26 agosto 1978, stupì e incantò per semplicità e umiltà Morì di infarto dopo soli 33 giorni di pontificato: aveva 65 anni

Francesco Gerace

ROMA

Trent'anni fa il Papa del sorriso. Era il 26 agosto 1978, quando i 111 cardinali riuniti in conclave scelsero Albino Luciani, all'epoca patriarca di Venezia, quale successore di Papa Paolo VI, morto il 6 agosto dopo 15 anni di pontificato.


Ma quella di Luciani fu una meteora. Il nuovo Papa, che aveva preso il nome Giovanni Paolo I, morì improvvisamente dopo 33 giorni, colto da infarto la notte fra il 28 e il 29 settembre.
Avrebbe compiuto 66 anni il 17 ottobre.


Ma la sua semplicità e il suo sorriso sono rimasti impressi nella memoria di tutti.
Appena eletto, Papa Luciani si presentò al mondo confessando la sua paura di fronte al grande compito cui era stato chiamato, per il quale si sentiva inadeguato. Arrossì davanti alla folla che in piazza San Pietro lo salutava e applaudiva. Parlò di sé in prima persona; disse io, con semplicità, abrogando senza colpo ferire il plurale maiestatis di secolare memoria.


Si mostrò rispettoso e umile verso i predecessori, e spiegò di aver scelto di chiamarsi Giovanni Paolo in ossequio a Giovanni XXIII, di cui venerava la memoria, e a Paolo VI di cui ammirava la sapienza.
Fin da subito si capì che sarebbe stato un Papa diverso, dopo il severo e tormentato Paolo VI.
Luciani era sorridente e allegro, parlava in modo semplice, perfino troppo semplice secondo alcuni. In uno dei suoi primi discorsi suscitò stupore affermando che Dio è padre ma anche madre.
Benché il suo pontificato sia durato un niente, Luciani diventerà famoso come il Papa del sorriso e dell'umiltà (humiltas, era scritto sul suo stemma papale).


Prima ancora che Papa, era una specie di parroco della Chiesa universale. Memore dell'infanzia poverissima vissuta con la famiglia, il futuro Papa, nato nel 1912 a Forno di Canale (Belluno), oggi Canale d'Agordo, e prete dal 1935, condusse sempre una vita molto sobria, attenta all'essenziale.
Conobbe sofferenza e malattia, finì in sanatorio, subì 8 operazioni. E proprio la salute stava per costargli la nomina a vescovo: Giovanni XXIII, che stimava quel parroco bellunese, un giorno chiese come mai Luciani non venisse mai proposto per la promozione, e gli fu detto che era malaticcio. Si racconta che Papa Giovanni replicò: allora vuol dire che lo faremo morire vescovo. E così nel 1958 finalmente don Albino diventa vescovo e nel 1973 cardinale.


Luciani fu eletto a tempo di record: dall'«extra omnes» alla fumata bianca passarono solo 25 ore e 48 minuti. Solo 4 votazioni per trovare l'accordo. Il cardinal Felici annunciò l'Habemus Papam alle 19,19. Pochi minuti dopo il nuovo Papa si affacciò dalla loggia di San Pietro per salutare e dare la benedizione ai 25.000 presenti e al mondo collegato via tv.
L'elezione fu tanto rapida che colse in contropiede anche il cerimoniale, e il Papa dovette affacciarsi di nuovo più tardi per il rituale saluto alle guardie svizzere e a un battaglione dell'esercito italiano, nel frattempo schieratisi.


Si disse che Luciani era stato scelto quasi per caso, una sorta di figura minore, a metà strada fra le personalità sostenute da chi voleva un nuovo Papa conservatore e da chi lo voleva modernista. Alla vigilia del conclave non era ritenuto fra i papabili, benché la sua figura fosse tutt'altro che secondaria. Uomo di vasta cultura e preparazione teologica, era fermissimo in materia dottrinale; coniugava tali caratteristiche con la semplicità e la partecipazione, con la passione per le persone e il loro destino.


Si ricorda la sua attenzione per i problemi delle famiglie e di quelle povere in particolare, si battè contro il divorzio, si interrogò sugli anticoncezionali. Quando Paolo VI pubblicò l'Humanae vitae, la sua lealtà al Papa fu assoluta. Negli ambienti ecclesiastici, oltre che fra i fedeli, godeva di molta stima.

Qualche anno fa, l'allora cardinal Ratzinger disse alla rivista «30 Giorni» lche il nome di Luciani era affiorato in un incontro fra cardinali di lingua tedesca e brasiliani (Schröffer, Koenig, Hoeffner, Bengsch, Arns e Lorscheider): «Non volevamo decidere niente, ma solo parlare un po'. Mi sono lasciato guidare dalla Provvidenza ascoltando i nomi, e vedendo come si è formato finalmente un consenso sul patriarca di Venezia. Ne fui molto felice. Avere come pastore della Chiesa universale un uomo con quella bontà e con quella fede luminosa era la garanzia che le cose andavano bene».
L'improvvisa morte di Albino Luciani sollevò interrogativi e sospetti, qualcuno scrisse addirittura che il Papa era stato avvelenato. Ma una commissione medica ne accertò la morte per cause naturali. Per Giovanni Paolo I è in corso la causa di beatificazione.

I più vecchi ricorderanno senz'altro questo papa, che era l'incarnazione della bontà e dell'umiltà... e, forse, proprio per questo durò così poco, a voler dar retta ai pettegolezzi secondo i quali fu avvelenato. Papa Luciani bastava guardarlo per amarlo... e, anche se il suo fu uno dei pontificati più brevi della storia della Chiesa (durò soli 33 giorni), l'impronta che ha lasciato nella memoria collettiva rimane indelebile...

© Copyright Eco di Bergamo, 23 agosto 2008



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