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lunedì 26 giugno 2023

Papa Luciani - Opera Omnia

 LA CONFESSIONE SEICENTO ANNI FA

A Francesco Petrarca

Illustre poeta,

in Italia e fuori viene celebrato quest’anno il sesto centenario

della vostra morte (1374-1974).

Congressi, studi, pubblicazioni mettono in risalto questo o

quell’aspetto della vostra figura, questo o quell’aspetto della vostra

personalità o della immensa vostra opera letteraria.

Morto da tanto tempo, vi rivelate più vivo che mai, evitando

la curiosità e attirando l’attenzione degli uomini d’oggi sul letterato,

sullo psicologo finissimo, sull’uomo politico, sul turista appassionato,

sul cristiano sincero e insieme critico che siete stato

e su cent’altri aspetti.

Qualcuno parlerà anche di Voi, peccatore pentito ma recidivo,

cristiano assetato spesso di santità, ma incapace di fare un

taglio veramente netto dal peccato e di rinunciare a passioni e

passioncelle che vi erano care? Non lo so. Se sì, bisognerà parlare

anche del vostro atteggiamento di fronte alla confessione.

Perché Voi andavate a confessarvi, illustre Petrarca!

Scrivendo da Roma al vostro amico Giovanni Boccaccio, gli

raccontaste la disavventura toccatavi: un maiuscolo calcio di cavallo

sferrato al vostro prezioso ginocchio, con quindici giorni di

dolori acutissimi. «Ma accetto tutto in isconto dei miei peccati

– scriveste – in sostituzione di quella penitenza che il confessore,

troppo buono, non m’ha imposto».

Quale impegno abbiate messo nell’esaminare la vostra anima

fino nelle sue pieghe più riposte, appare dai vostri libri.

Quando scrivete di esservi troppo compiaciuto dell’ingegno,

dell’eloquenza, della cultura acquisita e perfino della prestanza

corporea. Quando vi rimproverate di essere assetato di onori,

comodità, ricchezza e di avere troppo spesso ceduto alla lussuria.

Voi gemete sui legami della passione, che non riuscite a spezzare,

sulla forza della «perversa abitudine», sull’«amarissimo gusto»

delle ricadute.

Scrivendo al fratello monaco, deplorate il vostro «desiderio

di elegantissime vesti», il «timore che un capello vada fuori po-

sto e un lieve vento scomponga la laboriosa acconciatura delle

chiome». Il ferro usato ad acconciare i capelli vi procura sonno

interrotto e dolori più atroci di quelli che infligge «un crudele

pirata», ma non ve la sentite di smettere. E ponete a sant’Agostino

– interlocutore immaginario – dei problemi inquietanti: «Il

cadere è stato mio, ma il giacere, il non rialzarmi non dipende da

me». «Dipende anche da te» risponde Agostino. Voi replicate:

«Ma vedete bene che io piango sulle mie miserie!». E Agostino:

«Non si tratta di piangere, ma di volere!».

Per fortuna, il principio giusto non vi è mai venuto meno:

«Dio può salvarmi», nonostante la mia debolezza. La misericordia

di Dio fuga i timori, risolve molti problemi.

A seicento anni di distanza noi, penitenti di oggi, siamo migliori

o peggiori di Voi? Ecco una questione che mi incuriosisce.

Minore, mi sembra, da parte nostra, la disposizione a riconoscere

le commesse mancanze. Diciamo spesso: «Santa Maria...

prega per noi peccatori», «Padre... rimetti i nostri debiti»,

«Agnello di Dio... abbi pietà di noi», ma molto superficialmente.

In pratica ci giustifichiamo con i pretesti più strani («siamo liberi,

autonomi, maturi»); ci appelliamo alle «esigenze della natura,

dell’istinto, della cultura, della moda».

La Bibbia, nel libro dei Proverbi, presenta così il caso di una

donna adultera: «Mangia e si pulisce la bocca e dice: “Non ho

fatto nulla di male”!». Quella donna, caro Petrarca, è una figura

emblematica: dipinge tale e quale buona parte della nostra cristiana

civiltà permissiva.

Come già a Voi, le lacrime non mancano neppure a noi: è il

volere che difetta. O meglio: arriviamo spesso a disvolere quello

che avevamo voluto col peccato, a disapprovare ciò che s’era

approvato, ma non arriviamo a quello che è più pratico: fuggire

le occasioni. Voi che, perfino nell’ascensione al monte Ventoux,

vi siete portato dietro il libro delle Confessioni di Agostino, avete

presente il caso di Alipio.

Uomo forte, capace di tener testa a senatori potentissimi,

venuto a Roma dall’Africa, aveva concepito «disgusto e odio» per

i combattimenti dei gladiatori, che si uccidevano l’un l’altro per

dare spettacolo al popolo. Alcuni amici gli proposero di assistere,

almeno una volta, al combattimento. Alipio rispose di no, poi

disse: «Vi sarò, ma come un assente e avrò vittoria di voi e dello

spettacolo».

Andò dunque per sfida; messosi difatti a sedere nell’anfiteatro,

chiuse gli occhi per neppur vedere. Purtroppo non chiuse

le orecchie: ad un certo punto un immenso urlo di popolo lo

fece sussultare. Aprì gli occhi per pura curiosità, ma «vedere quel

sangue e imbeversi di crudeltà fu tutt’uno: non solo non distolse

gli occhi dallo spettacolo, ma ve li fissò; respirava furore senza

accorgersene, prendeva gusto a quella lotta, ebbro di sanguinario

piacere. Non era più quello che era venuto: guardò, gridò, si

entusiasmò»; se ne venne via portando seco una febbre, che lo

spinse a tornarci, trascinatore di altri. Si corresse in seguito, ma

solo molto tempo dopo (Confessioni, cap. VIII).

Sulla linea della straordinaria debolezza di Alipio (poi vescovo

e santo) ci troviamo purtroppo un po’ tutti. Per questo, in

ogni confessione, siamo esortati a pregare: «propongo... di fuggire

le occasioni prossime di peccato», ma...

Temo che noi siamo più incompleti di Voi per quanto riguarda

la fiducia in Dio. D’accordo, Dio è il padre del figlio

prodigo; Gesù è il buon pastore, che riporta all’ovile la pecorella

smarrita, che ha perdonato l’adultera, Zaccheo, il buon ladrone.

Fin qua ci arrivano tutti o quasi.

Alcuni però concludono: «Io me la intenderò con Lui direttamente

» e non vi seguono fino al discorso del confessore, che

media tra Dio e il peccatore, in grazia delle parole di Gesù agli

apostoli: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi».

Essi non capiscono che al confessore non tocca solo dichiarare

la remissione dei peccati già avvenuta, ma di fare la remissione

con una sentenza.

E tale sentenza non può essere lasciata al puro capriccio («Tu

mi sei simpatico, ti assolvo!»), ma deve basarsi su elementi certi

e ben vagliati, che solo il penitente può fornire, appunto con la

propria confessione.

Voi avete trovato «troppo buono» il vostro confessore. Ai

nostri tempi, chi si confessa bene cerca confessori buoni, ma non

«troppo buoni».

Augusto Conti, illustre filosofo, ha dedicato un intero capitolo

pieno di affettuosa riconoscenza nel libro Le sveglie dell’anima

ai suoi confessori.

Santa Giovanna di Chantal e altri penitenti si sono dichiarati

contentissimi di san Francesco di Sales, che nella confessione

fu padre e medico abile soprattutto a infondere coraggio.

«La santità – diceva – consiste nel combattere i difetti, ma come

combatterli, se non ci sono? Come vincerli, se non li incontriamo?

Essere feriti qualche volta in questa battaglia non vuol dire

essere vinti. È vinto solo chi perde la vita o il coraggio, è vincitore

chiunque decida di continuare a combattere».

È il tipo di confessore che la gente oggi aspetta: fermo ma

delicato; amante di Dio ma che conosca i problemi degli uomini.

È vero però che oggi, per desiderio della chiesa, l’accento,

più che sull’accusa dei peccati, viene messo sulla conversione

presentata biblicamente come allontanamento dal peccato, ma

più ancora come avvicinamento a Dio e abbraccio amoroso con

lui. «Lasciatevi riconciliare a Dio» diceva san Paolo: oggi lo si

ripete e si auspica che la riconciliazione sia preceduta dalla parola

di Dio stesso letta e meditata. Noi infatti andiamo a Dio, se lui

prima ci chiama e ci parla. Si desidera anche che tale parola, possibilmente,

non ci investa a uno a uno, ma radunati in comunità.

Voi nel Medioevo, caro Petrarca, avete fatto della confessione

una cosa molto personale e segreta. Oggi si pensa con nostalgia

ai tempi antichi, quando, finita la quaresima, il vescovo dava

la mano al primo dei penitenti e questo alla lunga catena di tutti

gli altri, che venivano così introdotti in chiesa per la riconciliazione

solenne.

Non so con quale frequenza siate andato a confessarvi.

Nel vostro Medioevo si usava molta confessione e poca comunione.

Oggi pare succeda l’inverso: anche anime pie si rivelano

un po’ allergiche alla confessione frequente e di devozione.

Esse mi fanno pensare al domestico di Gionata Swift. Questi,

dopo aver pernottato in un’osteria, aveva chiesto, al mattino,

gli stivali e se li era visti portare ancora coperti di polvere. «Come

mai non li avete puliti?» aveva chiesto. «Ho pensato che era inu-

tile» aveva risposto il domestico; «tanto, dopo pochi chilometri

di viaggio, si impolverano di nuovo!». «Giusto, ma ora va’ a preparare

i cavalli per la partenza». Poco dopo i cavalli scalpitavano

fuori della scuderia e anche Swift era in pieno assetto di viaggio.

«Ma non possiamo partire senza colazione!», osservò il servo. «È

inutile, rispose Swift, tanto, dopo pochi chilometri di viaggio,

avresti fame di nuovo!».


Caro Petrarca, né Voi né io, penso, seguiamo la logica del

servo di Swift. L’anima si sporcherà di nuovo dopo la confessione?

È molto probabile. Tenerla adesso pulita però, non può fare

che bene. Anche perché la confessione non solo toglie la polvere

dei peccati, ma infonde una forza speciale per evitarli e rinsalda

l’amicizia con Dio.

Settembre 1974

giovedì 16 febbraio 2023

BRANI dai discorsi e dagli scritti di PAPA LUCIANI


«Io rischio di dire uno sproposito...


...ma lo dico. Il Signore ama tanto l’umiltà che a volte permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili». (Udienza generale, 6 settembre 1978).


Brani dai discorsi e dagli scritti di Luciani


Io sono la pura e povera polvere
«Non so che cosa abbia pensato il Signore, che cosa abbia pensato il Papa, che cosa abbia pensato la divina Provvidenza di me. Sto pensando in questi giorni che con me il Signore attua il suo vecchio sistema: prende i piccoli dal fango della strada e li mette in alto, prende la gente dai campi, dalle reti del mare, del lago e ne fa degli apostoli. È il suo vecchio sistema. Certe cose il Signore non le vuole scrivere né sul bronzo, né sul marmo, ma addirittura nella polvere, affinché se la scrittura resta, non scompaginata, non dispersa dal vento, sia bene chiaro che tutto è opera e tutto è merito del solo Signore. Io sono il piccolo di una volta, io sono colui che viene dai campi, io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto la dignità episcopale dell’illustre diocesi di Vittorio Veneto. Se qualche cosa mai di buono salterà fuori da tutto questo, sia ben chiaro fin da adesso: è solo frutto della bontà, della grazia, della misericordia del Signore».
(Omelia del 6 gennaio 1959, a Canale d’Agordo)


Il catechismo
«Messo da parte il catechismo non saprete che mezzi adoperare per fare buoni piccoli e grandi. Tirerete in campo la “dignità umana”? I piccoli non capiscono che cosa sia, i grandi se ne infischiano. Metterete avanti “l’imperativo categorico”? Peggio che peggio... Si dice che anche la filosofia e la scienza sono capaci di far buoni e nobili gli uomini. Ma non c’è neppure confronto col catechismo, che insegna in breve la sapienza di tutte le biblioteche, risolve i problemi di tutte le filosofie e soddisfa alle ricerche più penose e difficili dello spirito umano».
(Catechetica in briciole, 1949)


Da formule che sembravano aride, una fiammante santità
«Stiamo uniti nell’insegnare le stesse cose: non opinioni più o meno rispettabili, ma ciò che il Magistero della Chiesa propone... Il criterio del catechizzare è dunque il depositum custodi di san Paolo, non l’altro, talora usato: “Che cosa piace? che cosa è oggi alla moda? che cosa mi farà apparire aggiornato e brillante?”... Con il Papa, esorto a non nutrire troppi pregiudizi contro l’uso sapiente e moderato sia delle formule che della memorizzazione. D’accordo, sapere a memoria non è sapere... Tuttavia una formula capita e ricordata a memoria è come un attaccapanni al quale, nonostante il passare degli anni, restano appese le cognizioni religiose più importanti. Certe formule di chimica e di algebra, alcuni articoli fondamentali del codice, perché esigono precisione, sono appresi a memoria al liceo e all’università. Ora, c’è codice più impegnativo delle verità religiose e dei precetti morali? Sono aride, si dice, le formule. Anche il cerino sembra arido ma, strofinato, si fa fiamma. Qui nel Veneto, noi abbiamo il caso di santa Bertilla Boscardin, che conobbe quasi soltanto il catechismo a formule. Gliel’aveva dato il parroco, quand’era fanciulla; se l’è portato in convento; lo leggeva e rileggeva continuamente; lo trovarono nella tasca della sua veste dopo la morte. Era quasi consunto, ma la santa da quelle formule, che sembravano aride, aveva saputo far scaturire una fiammante santità».
(Omelia ai catechisti, Venezia, 29 ottobre 1977)


Marco sembra aver visto
«San Marco, come sintassi, vocabolario, costruzione e tornitura di periodo, è un povero scrittore. Ma è vivace, è pittoresco: per questo piace. Solo Marco riporta tali e quali, in aramaico, certe frasi pronunciate da Gesù. Questa per esempio: “Talitha qoum”, “Figliolina, alzati su!”. Quest’altra: “Eloi, lama sabacthani?”, “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Tutto ciò aiuta a vedere e sentire l’ambiente palestinese. Più che insegnare, Marco descrive: sembra aver visto».
(Omelia per la festa di san Marco, Venezia, 25 aprile 1974)


L’evidenza dei fatti
«Dice san Paolo: “Fu seppellito... risuscitò il terzo giorno... apparve a Cefa, quindi ai Dodici, poi apparve in una volta sola a più di cinquecento fratelli, dei quali i più rimangono sino ad oggi... Inoltre apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli; ultimo fra tutti apparve anche a me” (1 Cor 15, 4-9). Quattro volte qui Paolo adopera il verbo apparve, insistendo sulla percezione visiva; ora, l’occhio non vede qualcosa di interno, ma di esterno a noi, una realtà distinta da noi, che ci si impone dal di fuori. Ciò allontana la tesi di un’allucinazione, di cui, del resto, gli apostoli furono i primi ad aver paura. Essi pensarono infatti dapprima di vedere uno spirito, non il vero Gesù, tanto che questi li dovette rassicurare: “Perché siete sconvolti? Guardate le mie mani e i miei piedi, ché sono proprio io. Toccatemi e guardate, poiché uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che ho io!” (Lc 24, 38). Essi non credevano ancora e Gesù disse loro: “‘Avete qui qualcosa da mangiare?’. Gli misero davanti un pezzo di pesce arrostito. E davanti ai loro occhi lo prese e lo mangiò” (Lc 24, 41-43). L’incredulità iniziale, dunque, non fu del solo Tommaso, ma di tutti gli apostoli, gente sana, robusta, realista, allergica a ogni fenomeno di allucinazione, che s’è arresa solo davanti all’evidenza dei fatti.
Con un materiale umano siffatto era anche improbabilissimo il passare dall’idea di un Cristo meritevole di rivivere spiritualmente nei cuori all’idea di una risurrezione corporale a forza di riflessione e di entusiasmo. Tra l’altro, al posto dell’entusiasmo, dopo la morte di Cristo, c’era negli apostoli solo sconforto e delusione. Mancò poi il tempo: non è in quindici giorni che un forte gruppo di persone, non abituate a speculare, cambia in blocco mentalità senza il sostegno di solide prove!».
(Omelia per la veglia pasquale, Venezia, 21 aprile 1973)


Di vecchia gnosi si tratta
«“Teologia nuova?”. Ben venga! A volte, però, ci si illude: non di nuova teologia si tratta, ma di vecchia gnosi. Riemerge, infatti, spesso, la mentalità presuntuosa degli antichi gnostici: “Noi diamo spiegazioni a livello di altissima scienza; noi ce le mangiamo le povere, viete e superate spiegazioni del Magistero!”. Ritorna anche il metodo della gnosi: prendere cioè i temi ed i termini della fede cattolica, ma solo parzialmente, arrogandosi il diritto di setacciarli e selezionarli, di intenderli a modo proprio, di mescolarli a ideologie estranee e di fondare l’adesione alla fede non più sull’autorità divina, ma su motivi umani; per esempio, su questa o quella opzione filosofica, sul combaciare di un dato tema con determinate scelte politiche abbracciate in antecedenza».
(Omelia su Cristo liberatore, Venezia, 7 marzo 1973)


Quietismo e pelagianesimo
«...non ho nessun desiderio di fare l’eresiologo; a volte, tuttavia, è forte in me la tentazione di segnalare tracce di quietismo e di semiquietismo, di pelagianesimo e di semipelagianesimo in scritti e discorsi, che o descrivono il lavoro pastorale come tutto dipendesse dagli uomini o dalle tecniche sociologiche, o parlano di noi poveri uomini come non avessimo più nulla a che vedere con il peccato».
(Invito al clero per gli esercizi spirituali, Venezia, 5 agosto 1974)


L’amore alla Tradizione
«Lo studio e la lettura devota (che non è studio) della Bibbia non occorre raccomandarli oggi: per fortuna, l’uno e l’altra sono entrati nei cuori dopo il Concilio. Vi raccomando invece l’amore alla Tradizione: non siate di coloro che, abbagliati e accecati, più che illuminati, da qualche lampo, pensano che ora soltanto è nato il sole e vogliono tutto rovesciare e cambiare».
(Inizio d’anno del seminario, Venezia, 20 settembre 1977)


Solo Dio può toccare il cuore
«Uno dei più brillanti vescovi è stato san Paolo apostolo, il quale diceva della propria predicazione fatta a Corinto: “Io ho gettato il seme, ma nulla sarebbe successo se Dio non l’avesse sviluppato e fatto sbocciare”. Non è questione di correre; è questione soltanto di misericordia e di delicatezza di Dio. Io vescovo e i miei sacerdoti possiamo istruire, illuminare, convincere anche, ma non di più; solo Dio può toccare il cuore e convertirvi».
(Prima omelia in Cattedrale, Vittorio Veneto, 11 gennaio 1959)


Il peccato commesso diventa quasi un gioiello
«A Pasqua, Dio aspetta. Un disperso che ritorna gli procura più consolazione che novantanove rimasti fedeli; data la sua infinita misericordia, mentre un peccato ancora da commettere va evitato a costo di qualunque sacrificio, il peccato già commesso diventa nelle nostre mani quasi un gioiello, che gli possiamo regalare, per procurarGli la consolazione di perdonare. Proviamo! Si fa i signori. Quando si regalano i gioielli».
(Lettera ai fedeli di Vittorio Veneto, 7 febbraio 1959)


Il conclave
«Uno scritto di san Bernardo venne utilizzato una volta in un modo ben curioso. Avvenne durante un conclave per l’elezione del papa e i cardinali erano molto indecisi sulla scelta. Uno di essi domandò la parola e fece la seguente riflessione: “Cari colleghi, il criterio da usare in questo momento venne esposto già con chiarezza e limpidezza da san Bernardo nella lettera tale e tale. Vi si legge: ‘Se qualcuno è sapiente, ci dia buone lezioni; se ha pietà, preghi per noi; se è prudente, questi ci governi’. Inchiniamoci dunque davanti a quelli che tra noi sono sapienti e hanno pietà, ma eleggiamo colui che è dotato di prudenza”».
(Elogio della prudenza. Discorso all’Università Federale di Santa Maria, in Brasile, novembre 1975).


Roma e i poveri
«Alcune delle sue parole [del sindaco di Roma] m’hanno fatto venire in mente una delle preghiere che, fanciullo, recitavo con la mamma. Suonava così: “I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio, sono... opprimere i poveri, defraudare la giusta mercede agli operai”. A sua volta, il parroco mi interrogava alla scuola di catechismo: “I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, perché sono dei più gravi e funesti?”. Ed io rispondevo col catechismo di Pio X: “... perché direttamente contrari al bene dell’umanità e odiosissimi, tanto che provocano, più degli altri, i castighi di Dio”. 
Roma sarà una vera comunità cristiana, se Dio vi sarà onorato non solo con l’affluenza dei fedeli alle chiese, non solo con la vita privata vissuta morigeratamente, ma anche con l’amore ai poveri. Questi – diceva il diacono romano Lorenzo – sono i veri tesori della Chiesa; vanno, pertanto, aiutati da chi può, ad avere e ad essere di più senza venire umiliati ed offesi con ricchezze ostentate, con denaro sperperato in cose futili e non investito – quando possibile – in imprese di comune vantaggio».
(Basilica di San Giovanni in Laterano, 23 settembre 1978)

giovedì 29 dicembre 2022

Caro Mark Twain. Ecco chi gli piace: chi fa la sua volontà.



 TRE SOR GIOVANNI IN UNO

A Mark Twain

Caro Mark Twain,

Ella è stato uno degli autori preferiti della mia adolescenza.

Ho ancora nella mente le spassose Avventure di Tom Sawyer, che

sono poi le Sue avventure di infanzia, caro Twain. Ho raccontato

cento volte qualcuna delle Sue battute, ad esempio quella sul valore

dei libri. È un valore inestimabile – ha Ella risposto ad una

ragazzina, che l’aveva interpellata – ma vario. Un libro legato in

pelle è eccellente per affilare il rasoio; un libro piccolo, conciso –

come lo sanno scrivere i francesi – serve a meraviglia per la gamba

più corta di un tavolino; un libro grosso come un vocabolario

è un ottimo proiettile per tirare ai gatti; e finalmente un atlante,

coi fogli larghi, ha la carta più adatta per aggiustare i vetri.

I miei alunni si eccitavano, quando annunciavo: «Adesso ve

ne racconto un’altra di Mark Twain». Temo, invece, che i miei

diocesani si scandalizzino: «Un vescovo che cita Mark Twain!».

Forse bisognerebbe prima spiegare loro che, come sono vari i

libri, così sono vari i vescovi. Alcuni, infatti, rassomigliano ad

aquile, che planano con documenti magistrali di alto livello; altri

sono usignoli, che cantano le lodi del Signore in modo meraviglioso;

altri, invece, sono poveri scriccioli, che, sull’ultima rama

dell’albero ecclesiale, squittiscono soltanto, cercando di dire

qualche pensiero su temi vastissimi.

Io, caro Twain, appartengo all’ultima categoria. Perciò mi

faccio coraggio e racconto che una volta tu hai osservato: «L’uomo

è più complesso di quel che pare: ogni uomo adulto rinserra

in sé non uno, ma tre uomini diversi». «Come mai?», ti fu chiesto.

E tu: «Prendete un sor Giovanni qualunque. In esso c’è il

Giovanni Primo, cioè l’uomo che egli crede di essere; c’è il Giovanni

Secondo, quello che di lui pensano gli altri; e finalmente il

Giovanni Terzo, ciò ch’egli è nella realtà».

* * *

Quanta verità, Twain, nel tuo scherzo! Ecco, ad esempio, il

Giovanni Primo. Quando ci portano la fotografia del gruppo in

cui abbiamo posato, qual è la faccetta simpatica, attraente, che

andiamo a cercare? Duole il dirlo, ma è la nostra. Perché noi ci

vogliamo un bene sconfinato e ci preferiamo agli altri. Volendoci

tanto bene, succede che siamo portati a ingrandire i nostri

meriti, ad attenuare le nostre colpe, ad usare col prossimo pesi e

misure diverse che con noi. Meriti ingranditi? Li descrive il tuo

collega Trilussa:


«La lumachella de la Vanagloria

Ch’era strisciata sopra un obelisco,

Guardò la bava e disse: Già capisco

Che lascerò un’impronta ne la Storia».


Ecco come siamo, caro Twain, perfino un po’ di bava, se

nostra e perché nostra, ci fa ringalluzzire e montare la testa!

Difetti attenuati? «Bevo un bicchiere qualche rara volta» dice

lui. Gli altri assicurano, invece, ch’egli è una specie di spugna,

una Gola-sempre-secca, un autentico devoto di santa Bibiana,

col gomito sempre alzato. Dice lei: «Sono un po’ nervosetta,

qualche volta mi impressiono». Grazie, che «impressione»! La

gente asserisce che è grintosa, stizzosa e vendicativa, un carattere

impossibile, un’Arpia!

In Omero gli dèi girano il mondo ravvolti in una nuvola,

che li nasconde agli sguardi di tutti: noi abbiamo una nuvola che

ci nasconde agli occhi nostri.

Francesco di Sales, vescovo come me e umorista come te,

scriveva: «Accusiamo il prossimo per cose lievi, e scusiamo noi

stessi in cose grandi. Vogliamo vendere a carissimo prezzo, e acquistare invece a buon mercato. Vogliamo che si faccia giustizia

in casa degli altri, e che si usi misericordia in casa nostra. Vogliamo

che siano prese in buona parte le nostre parole, e facciamo i

delicati su quelle altrui.

Se qualcuno dei nostri inferiori non ha con noi buone maniere,

prendiamo in mala parte qualunque cosa faccia; invece,

se qualcuno ci è simpatico, lo scusiamo, qualsiasi cosa faccia.

I nostri diritti li esigiamo con rigore, e invece vogliamo che gli

altri siano discreti nell’esigere i loro... Quel che facciamo per gli

altri ci sembra sempre molto, quel che per noi fanno gli altri ci

pare nulla».

* * *

Per Giovanni Primo può bastare, veniamo a Giovanni Secondo.

Qui, caro Twain, mi pare che i casi siano due: Giovanni

desidera che la gente lo stimi, oppure si affligge perché la gente

lo ignora e disprezza. Nulla di male in ciò; cerchi solo di non

esagerare nell’uno o nell’altro senso. «Guai a voi – ha detto il

Signore – che ambite i primi seggi nelle sinagoghe e i salamelecchi

nelle piazze...; che tutte le vostre opere le compite per farvi

notare». Oggi si direbbe: che date la scalata ai posti e ai titoli a

furia di gomitate, di concessioni, di abdicazioni, che smaniate di

farvi mettere sui giornali.


Ma perché «Guai a voi»? Quando nel 1938 Hitler passò per

Firenze, la città fu coperta di croci uncinate e di scritte osannanti.

Bargellini disse a Dalla Costa: «Vede, Eminenza? Vede?».

«Non abbia paura! – rispose il Cardinale – la sorte è già segnata

nel Salmo 36: “Ho veduto l’iniquo imbaldanzire e dilatarsi come

albero rigoglioso. Passai di nuovo, e non era più; lo cercai e non

si trovò».

A volte il «Guai» non segna punizione divina, ma soltanto

ridicolo umano. Può capitare come al somaro che si coprì con la

pelle di un leone e tutti dicevano: «Che leone!». Uomini e bestie

fuggivano. Ma il vento soffiò, la pelle si sollevò e tutti videro

l’asino. E allora accorsero infuriati e caricarono la bestia di sacrosante legnate.

Lo diceva anche Shaw: «Com’è comica la verità!». E cioè:

vien da sorridere, quando si sa quanto poca cosa c’è sotto certi

titoli e certe celebrità!

E se succede il contrario? Se la gente pensa male, dove c’è

il bene? Qui c’è, in aiuto, un’altra parola di Cristo: «È venuto

Giovanni, che né mangiava, né beveva, e dissero: Ha il demonio

addosso. È venuto il Figlio dell’Uomo, che mangia e beve, e dicono:

Ecco qua un mangione e un beone, amico di pubblicani e

peccatori». Neppure Cristo è riuscito ad accontentare tutti. Non

prendiamocela troppo se non riusciamo noi.

* * *

Giovanni Terzo faceva il cuoco. Questo non lo racconti tu,

Twain, ma Tolstoj. Sulla soglia di cucina erano distesi i cani.

Giovanni uccise un vitello e gettò le viscere nel cortile. I cani

le presero, le mangiarono e dissero: «È un bravo cuoco, cucina

bene». Qualche tempo dopo, Giovanni sbucciava i piselli, mondava

le cipolle: le bucce le gettò nel cortile. I cani si precipitarono

sopra, ma, scostando il muso dall’altra parte, dissero: «Il cuoco

s’è guastato, ora non vale più nulla». Giovanni, però, non si 

commosse affatto per questo giudizio e disse: «È il padrone che deve

mangiare e apprezzare i miei pranzi, non i cani. Mi basta essere

apprezzato dal padrone».

Bravo anche Tolstoj. Ma io mi chiedo: «Che gusti ha il Signore?

Che cosa gli piace in noi?». Un giorno, mentre predicava,

qualcuno gli disse: «Tua madre e i tuoi fratelli stanno di fuori, e

chiedono di parlarti». Egli protese la mano verso i suoi discepoli

e rispose: «Ecco qua la madre mia e i fratelli miei. Chiunque,

infatti, fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, quegli mi è

fratello, sorella e madre».

Ecco chi gli piace: chi fa la sua volontà. Gli piace che lo si

preghi, ma gli dispiace forte che le preghiere diventino un pretesto

per scansare la fatica delle buone opere. «Perché mi chiamate

Signore, Signore, e non fate quello che dico?». Fare quello che

dice!

Può essere una conclusione moralizzante. Tu – umorista –

non l’avresti tirata. La devo tirare io, che sono vescovo e che ai

miei fedeli raccomando: «Se vi capita di ripensare ai tre Giovanni,

ai tre Giacomi, alle tre Francesche che sono in ciascuno

di noi, tenete d’occhio specialmente il terzo: quello che piace a

Dio!».

Maggio 1971

Papa Luciani, Opera Omnia.

AMDG et DVM

giovedì 24 novembre 2022

Papa LUCIANI - Oper Omnia




III
L’ALUNNO DEL CATECHISMO


1. È NECESSARIO CONOSCERE IL FANCIULLO

1. Cosa deve conoscere un maestro per insegnare il latino a un ragazzo?
— Il latino! – risponderebbe un tedesco.
— Il ragazzo! – rispose l’americano Stanley Hall.
E noi diciamo: deve conoscere l’uno e l’altro: il latino, ma anche il ragazzo.
E difatti: prima di seminare, il contadino non deve conoscere
solo il seme, ma anche la qualità della terra cui affida il seme.
E un falegname deve conoscere le varie qualità di legno: mai
adopererà il ciliegio, che è legno pregiato, per fare un manico di
badile o un paio di zoccoli.
Così il catechista: deve conoscere il fanciullo.

2. È un grosso sbaglio quello di credere il fanciullo in tutto
simile all’adulto, ma solo più piccolo, più ignorante, più inesperto.
Guardate un fanciullo col cannocchiale: apparirà grande come
un uomo; vedrete però che cammina, salta, ride in maniera
del tutto diversa da un uomo adulto.
Il fanciullo non impara come impariamo noi: non può sempre
far quel che noi facciamo: una cosa che a noi piace molto, a
lui non va affatto e viceversa.
Occorre conoscerlo, sapere quali sono i suoi gusti, le sue
possibilità per poterlo lavorare con intelligenza, adattargli i nostri
insegnamenti e sollecitare la sua collaborazione.

3. Un pescatore cui piacevano molto le fragole, andato al
fiume, mise sull’amo un bel fragolone, dicendo:
— Piace a me, piacerà anche ai pesci!
Ai pesci non piacevano i fragoloni, ma i vermicciuoli che,
invece, il pescatore non voleva neppure toccare. E così avvenne
che i pesci tirarono diritto e il pescatore restò a bocca asciutta.
Mettete al posto del pescatore il catechista, al posto dei pesci
i fanciulli, e avrete un’idea di quel che succede quando il catechista
non si preoccupa di conoscere i gusti dei suoi alunni per
adattarsi a loro.

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4. E bisogna conoscere i fanciulli non solo in generale, ma
uno per uno, perché tra loro non ce ne sono mai due perfettamente
eguali.
È stato detto: «Ogni fanciullo è un inedito, una parola di
Dio che non si ripete mai».
Bisogna aggiungere: ogni fanciullo ha anche diverse edizioni
di se stesso, e perciò non lo si è mai conosciuto abbastanza e non
si finisce mai di studiarlo.

5. Come vive un piccolo di pochi mesi? Si nutre, piange e
quasi tutto il resto del tempo lo impiega a dormire. Si dorme per
stanchezza, per fatica. Cosa ha fatto, dunque, questo piccolo, per
essere sempre stanco? Una cosa semplice: sta crescendo, sviluppandosi.
E questo lo stanca.
E quando sarà diventato un fanciullo, la fatica sarà maggiore,
perché al crescere s’aggiungeranno salti e sgambetti senza fine.
Il catechista deve tener presente che il fanciullo non ha solo
un’anima, ma anche un corpo che continuamente sta stancandosi,
per capire e compatire certi atteggiamenti dei fanciulli, per non
affaticarli troppo o troppo a lungo, per non pretendere da loro
quello che non possono dare.

6. Rousseau ha scritto: Il fanciullo è buono, un angelo. Lutero
prima di lui aveva detto: Il fanciullo è una bestia.
Più giusto, Lamartine scrisse.: È un angelo caduto dal cielo.
Un angelo, ma con le ali fracassate; volerà in alto, verso il bene,
ma con fatica, dopo che qualcuno lo avrà aiutato a mettersi a posto;
ha buone doti da sviluppare, ma anche cattive inclinazioni,
su cui dobbiamo tener gli occhi aperti.
7. E se il fanciullo è battezzato, oltre il corpo e l’anima, c’è
in lui un’altra realtà da tener presente: la grazia depositata nell’anima
dal battesimo con le virtù della fede, della speranza e della
carità.
Tutte cose che non vediamo, ma che esistono e aiutano dal
di dentro l’opera del catechista.
Qualcuno dice: «I piccoli non possono capire certe formule,
certi concetti».


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Si risponde: «Da soli, con i soli metodi naturali, no; ma con
l’aiuto della grazia e della fede, con la pedagogia soprannaturale,
sì».
8. Concludendo: conoscere il fanciullo è necessario; e lo si
deve conoscere non solo in generale, ma uno per uno; badando
non solo all’anima, ma anche al corpo; non solo agli elementi
visibili, ma anche a quelli invisibili, soprannaturali.

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2. COME CONOSCERE IL FANCIULLO

9. Anche noi siamo stati fanciulli; certe cose le abbiamo
provate, le ricordiamo benissimo. Ricordiamo ciò che ci spiaceva
o annoiava.
Star zitti, seduti, fermi per una mezz’ora era un tormento per
noi; tre minuti di preghiera, ci sembravano lunghi come mezz’ora;
invece mezze giornate di gioco, in piazza, sulla strada, ci volavano
via come minuti. Altrettanto succede ai fanciulli di oggi.
La prima via alla conoscenza del fanciullo è chinarci su noi
stessi, sul fanciullo di ieri, per capire il fanciullo di oggi.

10. La seconda via è costituita dai libri. Ci sono libri che
studiano e descrivono il fanciullo: testi di psicologia, di pedagogia,
ecc. Sono stati scritti per lo più da gente che ha passato la
vita in mezzo ai fanciulli. In essi il catechista può trovare molte
cose che da solo non avrebbe mai trovate o che troverebbe dopo
molto tempo.
Ci sono altri libri che descrivono la fanciullezza dei santi o di
grandi uomini. Anche la lettura di questi libri può riuscire molto
utile al catechista.

11. La terza via, e la migliore, è il fanciullo stesso. Basta
osservarlo.
Le pose, i gesti, le parole, le azioni, i silenzi ostinati, i pianti
dirotti, i giochi preferiti, i compagni frequentati sono tutte cose
che, osservate attentamente e ripensate con giudizio, devono
guidarci a conoscere i gusti, le tendenze, i capricci, le buone qualità,
il temperamento.
I momenti migliori per l’osservazione sono quelli in cui il
fanciullo non si sente osservato: nel gioco, per via, in una passeggiata,
nei momenti di entusiasmo, di abbattimento, ecc.

12. Occorre inoltre ascoltare il fanciullo. Parlando con noi,
egli fa due cose: si manifesta e ci istruisce.
Infatti noi abbiamo qualcosa da imparare dal fanciullo: il
suo modo di esprimersi, le sue frasi semplici. Sono queste che
poi dobbiamo adoperare, se vogliamo farci capire da lui e rendercelo
attento.


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13. Ma l’osservazione che facciamo sul fanciullo non è
completa se non si estende anche all’ambiente in cui egli vive: la
famiglia, la contrada, la scuola.
Il medico non guarda solo se i polmoni del cliente sono in
buono stato: vuol sapere che aria respirano.
Certi fanciulli sono dotati di buone qualità, ma in casa respirano
un’aria viziata, corrotta per le bestemmie e i discorsi che
sentono e i cattivi esempi che vedono. Il catechista deve tenerne
conto e sapersi regolare.

14. Chi volesse proprio studiare a fondo un fanciullo dovrebbe
ricordare la «piramide» di Nicola Pende.
Bisogna esaminare ciascuna delle quattro facce e poi la base.
Il fanciullo – ha detto Pende – è simile a una piramide: possiede
una base, che è il complesso di tendenze ereditate dai genitori, e
quattro facce che sono: 1) la forma esterna (aspetto morfologico);
2) gli umori interni (aspetto endocrinologico); 3) l’aspetto morale;
4) l’aspetto intellettivo.
Studiando quindi i genitori e la famiglia del fanciullo, se ne
possono conoscere un po’ le inclinazioni; studiando il corpo se
ne determina il temperamento; studiando l’anima si misura la
forza delle sue facoltà spirituali.
Ma pochi sono in grado di poter fare tutti questi studi, che
diventano complicati quando si tratta degli aspetti morfologico
e umorale e rivestirebbero un carattere troppo delicato, quando
si volessero esplorare segreti di famiglia.
Noi qui ci accontenteremo di pochissime nozioni facili e
pratiche che si riferiscono particolarmente ad una delle tappe
della vita del catechizzando: bambino (1-5 anni); fanciullo (6-10
anni); ragazzo (10-13 anni); adolescente (13-15 anni); giovane.
Qui parliamo soprattutto del «fanciullo».

 3. COS’È IL FANCIULLO


15. È tutto sensi. Ha occhi, mani, orecchie, lingua, gola che

vogliono intensamente vedere, toccare, udire, gustare, parlare. I

bei colori lo rapiscono, ma anche i suoni, e certi rumori o <<fracassi>>

che a noi grandi fanno venire il mal di testa, per lui sono

musica. E domanda spesso: «Perché questo? Perché quello? Come

mai così?».

Il bravo catechista deve tener conto di questa grande sensibilità:

è ai sensi del fanciullo ch’egli soprattutto deve rivolgersi:

faccia vedere oggetti religiosi, li faccia toccare, se si può, mostri

belle immagini, insegni bei canti, venga incontro alla curiosità

permettendo al fanciullo di interrogare, ecc.

16. Il fanciullo è tutto movimento e gioco. Argento vivo. Se

sta quieto, se fa la statuetta c’è da pensare che sia ammalato, perché

il fanciullo sano prova un bisogno incoercibile di muoversi

e di agitarsi.

Quindi: mobilitare al catechismo le energie motorie del fanciullo;

far muovere con intelligenza e varietà gli alunni ai fini del

catechismo.

Ci sono dei catechisti che quasi giocano ai 10 comandamenti,

ai 7 sacramenti, ai 5 precetti, ai 7 doni dello Spirito Santo...

coi loro fanciulli, identificando ciascuno di loro in un comandamento,

in un sacramento, facendoli muovere e parlare. Altri

fanno eseguire in classe un battesimo, una cresima, una scena del

Vangelo, ecc., fanno alzare in piedi gli alunni per una preghiera,

un canto, ecc.

«Questo è gioco – brontola qualcuno – non catechismo».

«Prego, è parvenza di gioco, in realtà è cosa seria e sapiente».

Il gioco è l’unica cosa che il fanciullo fa con impegno, buttandovisi

con tutta l’anima, più che noi grandi alle cose serie. Perché

sarà proibito dare alla lezione di catechismo l’aspetto del gioco,

se ciò le attira simpatia?

Ci sono dei catechismi che pretendono essere seri e sono

farsa. Ci sono dei catechismi che sembrano farsa e sono quanto

mai seri per i risultati.


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17. Il fanciullo è tutto cuore e sentimento. Spesso ride e spesso

piange! Ha tante piccole gioie e tanti piccoli dolori, un cuore che

sente molto e ha un grande bisogno di essere amato.

Il catechista si guardi dall’urtare il sentimento del fanciullo;

l’ironia, per esempio, non si usa con lui; il rimprovero e il castigo

si usano, ma nell’applicarli bisogna far sentire che sono dati per

fine di bene, per amore, con dispiacere.

I grandi educatori hanno tutti avuto tenerezza di madre verso

i piccoli: don Bosco, san Filippo Neri, ecc. Il vescovo Dupanloup

ammoniva i catechisti: «Siate padri, siate madri».


18. Il fanciullo è tutto fantasia. Le immagini vivaci lo impressionano

molto, lo spingono ad imitare subito ciò che ha visto

e gli fanno confondere talora ciò che è accaduto davvero con

quello che ha solamente immaginato.

È dunque importante dargli impressioni buone ed evitargli

le impressioni cattive, tenerlo lontano dalle scene paurose o immorali,

non raccontargli fatti orripilanti o stravaganti di spiriti

che appariscono e di persone portate via dal diavolo...


19. Il fanciullo ha una memoria strana. Anche i grandi hanno

modi diversi di ricordare: alcuni ricordano soprattutto ciò

che hanno visto, altri ciò che hanno udito o detto; alcuni fissano

bene le idee, altri i fatti; c’è chi ha simpatia e facilità per ritenere

numeri e date e chi invece ricorda solo cose concrete.

Il fanciullo ha la memoria a intermittenza: una cosa la ricorda

per un po’ poi la dimentica, poi la ricorda nuovamente. Ricorda

poco quando è mal nutrito, ammalato o è in convalescenza. Non

ricorda le idee astratte, ricorda invece oggetti, individui, suoni.

Nel fanciullo la memoria di solito non è fedele, perché congiunta

all’immaginazione e all’inventiva. Perciò prima di far

imparare a memoria una formula ai fanciulli, bisogna spiegarla

bene, e assicurarsi che l’abbiano capita. Altrimenti ne facciamo

dei pappagalli.

È utile unire un’idea difficile a un fatto o immagine; si è più

sicuri che sarà ricordato.

Bisogna ritornare spesso cui concetti principali del catechismo,

altrimenti sfuggono alla memoria. «Ripetere senza stancarsi

e senza stancare» e cioè dire le stesse cose ma in modo diverso

così che appaiano nuove.

AVE MARIA!

giovedì 27 aprile 2017

Martire d'amore incompreso e sottovalutato

EN ES FR IT PT ]


GIOVANNI PAOLO I
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 6 settembre 1978

La grande virtù dell'umiltà
Alla mia destra e alla mia sinistra ci sono Cardinali e Vescovi, miei fratelli nell'episcopato. Io sono soltanto il loro fratello maggiore. Il mio saluto affettuoso a loro e anche alle loro diocesi.

Giusto un mese fa, a Castelgandolfo, moriva Paolo VI, un grande Pontefice, che ha reso alla Chiesa, in 15 anni, servizi enormi. Gli effetti si vedono in parte già adesso, ma io credo che si vedranno specialmente nel futuro. Ogni mercoledì egli veniva qui e parlava alla gente. Nel Sinodo 1977 parecchi vescovi hanno detto: « I discorsi di Papa Paolo del mercoledì sono una vera catechesi adatta al mondo moderno ». Io cercherò di imitarlo, nella speranza di poter anch'io, in qualche maniera, aiutare la gente a diventare più buona. Per esser buoni, però, bisogna essere a posto davanti a Dio, davanti al prossimo e davanti a noi stessi. Davanti a Dio, la posizione giusta è quella di Abramo, che ha detto: « Sono soltanto polvere e cenere davanti a te, o Signore! ». Dobbiamo sentirci piccoli davanti a Dio. Quando io dico: Signore io credo; non mi vergogno di sentirmi come un bambino davanti alla mamma; si crede alla mamma; io credo al Signore, a quello che Egli mi ha rivelato. I comandamenti sono un po' più difficili, qualche volta tanto difficili da osservare; ma Dio ce li ha dati non per capriccio, non per suo interesse, bensì unicamente per interesse nostro. Uno, una volta, è andato a comperare un'automobile dal concessionario. Questi gli ha fatto un discorso: guardi che la macchina ha buone prestazioni, la tratti bene, sa? Benzina super nel serbatoio, e, per i giunti, olio, di quello fino. L'altro invece: Oh, no, per sua norma, io neanche l'odore della benzina posso sopportare, e neanche l'olio; nel serbatoio metterò spumante, che mi piace tanto e i giunti li ungerò con la marmellata. Faccia come crede; però non venga a lamentarsi, se finirà in un fosso, con la sua macchina! Il Signore ha fatto qualcosa di simile con noi: ci ha dato questo corpo, animato da un'anima intelligente, una buona volontà. Ha detto: questa macchina vale, ma trattala bene.

Ecco i comandamenti. Onora il Padre e la Madre, non uccidere, non arrabbiarti, sii delicato, non dire bugie, non rubare... Se fossimo capaci di osservare i comandamenti, andremmo meglio noi e andrebbe meglio anche il mondo. Poi c'è il prossimo... ma il prossimo è a tre livelli: alcuni sono sopra di noi, alcuni sono al nostro livello, altri sono sotto. Sopra ci sono i nostri genitori. Il catechismo diceva: rispettarli, amarli, obbedirli. Il Papa deve inculcare rispetto ed obbedienza dei figli per i genitori. Mi dicono che qua ci sono i chierichetti di Malta. Venga uno, per favore... I chierichetti di Malta, che, per un mese, hanno fatto servizio in San Pietro. Allora, tu come ti chiami? - James! - James. E, senti, sei mai stato ammalato, tu? - No. - Ah, mai? - No. - Mai stato ammalato? - No. - Neanche una febbre? - No. - Oh, che fortunato! Ma, quando un bambino è ammalato, chi è che gli porta un po' di brodo, un po' di medicina? Non è la mamma? Ecco. Dopo tu diventi grande, e la mamma diventa vecchia, e tu diventi un gran signore, e la mamma poverina sarà a letto ammalata. Ecco. E allora chi è che porterà alla mamma un po' di latte e la medicina? Chi è? - Io e i miei fratelli. - Bravo! Lui e i suoi fratelli, ha detto. E questo mi piace. Hai capito?
Ma non succede sempre. Io, vescovo di Venezia, andavo qualche volta, nelle case di ricovero. Una volta ho trovato un'ammalata, un' anziana: « Come va Signora? » - « Beh, da mangiare, bene! Caldo? Riscaldamento? Bene » - « Allora è contenta Signora? » - « No » - si è messa quasi a piangere. « Ma perché piange? » - « Mia nuora, mio figlio non vengono mai a trovarmi. Vorrei vedere i nipotini ». Non basta il caldo, il cibo, c'è un cuore; bisogna pensare anche al cuore dei nostri vecchi. Il Signore ha detto che i genitori devono essere rispettati e amati, anche quando sono vecchi. E oltre ai genitori c'è lo Stato, ci sono i Superiori. Può il Papa raccomandare l'obbedienza? Bossuet, che era un grande vescovo, ha scritto: « Dove nessuno comanda tutti comandano. Dove tutti comandano, nessuno più comanda, ma il caos ». Qualche volta si vede anche in questo mondo qualcosa del genere. Quindi rispettiamo quelli che sono superiori. 

Poi ci sono i nostri eguali. E qui, di solito, ci sono due virtù da osservare: la giustizia, la carità. Ma la carità è l'anima della giustizia. Bisogna voler bene al prossimo, il Signore ce l'ha raccomandato tanto. Io raccomando sempre non solo le grandi carità, ma le piccole carità. 

Ho letto in un libro, scritto da Carnegie, americano, intitolato « l'arte di far gli amici », questo piccolo episodio: una signora aveva quattro uomini in casa: il marito, un fratello, due figli grandi. Lei sola doveva fare le spese, lei la biancheria e stirare, lei la cucina, lei tutto. Una domenica vengono a casa. La tavola è preparata per il pranzo, ma sul piatto c'è solo un pugnetto di fieno. Oh! Gli altri protestano e dicono: cosa, fieno! e lei dice « no, è tutto preparato. Lasciate che vi dica: cambio i cibi, vi tengo puliti, faccio di tutto. Mai, mai una volta che abbiate detto: ci hai preparato un bel pranzetto. Ma dite qualche cosa! Non sono di sasso. Si lavora più volentieri, quando si è riconosciuti. Sono le piccole carità. In casa nostra abbiamo tutti qualcuno, che aspetta un complimento ». Ci sono i più piccoli di noi, ci sono i bambini, i malati, perfino i peccatori. 
Io sono stato molto vicino, come vescovo, anche a quelli che non credono in Dio. Mi son fatto l'idea che essi combattono, spesso, non Dio, ma l'idea sbagliata che essi hanno di Dio. Quanta misericordia bisogna avere! E anche quelli che sbagliano... Bisogna veramente essere a posto con noi stessi. 

Mi limito a raccomandare una virtù, tanto cara al Signore: ha detto: imparate da me che sono mite e umile di cuore. Io rischio di dire uno sproposito, ma lo dico: il Signore tanto ama l'umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo, pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli, quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili. Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra. Bassi, bassi: è la virtù cristiana che riguarda noi stessi.


Alle coppie di sposi novelli
La presenza di sposi novelli commuove particolarmente, perché la famiglia è una grande cosa. Io una volta ho scritto un articolo sul giornale e mi sono permesso di scherzare, citando Montaigne, uno scrittore francese, il quale diceva: « Il matrimonio è come una gabbia: quelli che son fuori, fanno di tutto per entrare, quelli che son dentro fan di tutto per uscire ». No no no. Però, però alcuni giorni dopo mi è capitata una lettera di un vecchio Provveditore agli studi, che aveva scritto libri e mi ha rimproverato dicendo: « Eccellenza, ha fatto male a citare Montaigne, io e mia moglie ci siamo uniti da 60 anni ed ogni giorno è come il primo giorno ». Anzi, mi ha citato un altro poeta francese, in francese, ma io lo dico in italiano: ti amo ogni giorno di più: oggi molto più di ieri, ma molto meno di domani. E faccio l'augurio che, a voi, succeda la stessa cosa.


Ai partecipanti al VII Convegno Internazionale organizzato dalla Società Internazionale dei Trapianti
Nous devons un salut particulier aux membres du septième Congrès international de la Société pour les transplantations d'organes. Nous sommes très touché de votre visite, qui est un hommage au Pape, et surtout de votre désir d'éclairer et d'approfondir les graves problèmes humains et moraux en jeu dans les recherches ou dans la technique chirurgicale qui sont votre lot. Nous vous encourageons, en ce domaine, à solliciter l'aide d'amis catholiques, experts en théologie et en morale et très au fait de vos problèmes, possédant une connaissance très sûre de la doctrine catholique et un sens profondément humain.
Nous nous contentons aujourd'hui de vous exprimer nos félicitations et notre confiance, pour l'immense travail que vous mettez au service de la vie humaine, afin de la prolonger dans les meilleures conditions. Tout le problème est d'agir dans le respect de la personne et de ses proches, qu'il s'agisse des donneurs d'organes ou des bénéficiaires, et de ne jamais transformer l'homme en objet d'expérience. Il y a le respect de son corps, il y a aussi le respect de son esprit. Nous prions Dieu, l'Auteur de la vie, de vous inspirer, de vous assister, dans ces magnifiques et redoutables responsabilités. Qu'il vous bénisse, avec tous ceux qui vous sont chers!

Adesso, se permettete, vorrei invitarvi ad unirvi alle mie preghiere, per una intenzione che mi sta molto a cuore. Voi avete saputo dalla stampa, dalla televisione, che, oggi, a Camp David, negli Stati Uniti, comincia una importante riunione tra i governanti di Egitto, Israele e Stati Uniti, per trovare una soluzione al conflitto del Medio Oriente. Questo conflitto, che da più di 30 anni si combatte sulla terra di Gesù, ha già causato tante vittime, tante sofferenze, sia fra gli arabi, sia fra gli israeliani, e come una brutta malattia ha contagiato i Paesi vicini. Pensate al Libano, un Libano martire, sconvolto dalle ripercussioni di questa crisi. Per questo, quindi, vorrei pregare, insieme, per la riuscita della riunione di Camp David: che queste conversazioni spianino la via ad una pace giusta e completa. Giusta, cioè con soddisfazione di tutte le parti in conflitto. Completa, senza lasciar irrisolta alcuna questione: il problema dei Palestinesi, la sicurezza d'Israele, la città Santa di Gerusalemme. Preghiamo il Signore di illuminare i responsabili di tutti i popoli interessati, perché siano lungimiranti e coraggiosi nel prendere le decisioni che devono portare la serenità e la pace in Terra Santa ed in tutto il mondo d'Oriente.

Chiediamo Loro di intercedere presso il Padre...
poiché dal Cielo... molto possono aiutarci i Santi.

JHS
MARIA!