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giovedì 11 maggio 2023

LA LEZIONE di S.E.Rev.ma Albino Luciani, Vescovo



1. PREPARAZIONE ALLA LEZIONE

1. È necessaria. Non si fa una casa senza prima stabilire e

disegnare quanto dev’essere grande, quante stanze, quante porte,

quante finestre deve avere. Una lezione è una piccola casa; prima

di costruirla bisogna pensarci su, vedere quanto deve durare,

quante parti deve avere, quali ornamenti bisogna metterci dentro,

quali frutti deve portare. Una lezione non preparata sarà una

cosa confusa, noiosa, insipida, senza risultati. Solo la lezione preparata

con amore e diligenza, con le sue parti chiare ed evidenti,

con i suoi esempi, riesce bene.

2. Non basta dare un’occhiata al libro negli ultimi dieci minuti.

Ci sono dei catechisti che cominciano il lunedì a pensare al

catechismo della domenica e passano tutta la settimana nell’attesa

gioiosa della lezione, meditandone con amore il soggetto,

riempiendosene la mente e il cuore. In questa maniera, oltre le

idee chiare, portano alla lezione un’anima che vibra e fa vibrare.

Il minimo che ogni catechista deve fare è:

a) trovare nel testo la lezione che tocca, studiarla in modo da

saperla bene, ripassare la risposta a memoria;

b) consultare la guida e qualche altro buon libro, sapendo scegliere

quello che piacerà e farà bene ai fanciulli, lasciando

quello che non possono capire.

c) stabilire quali esempi, quali paragoni raccontare, quali immagini

e oggetti mostrare;

d) fissare il compito e la buona opera da suggerire;

e) prevedere le principali domande da rivolgere, tener in serbo

qualche esempio in più per il caso che i fanciulli fossero stanchi

o disattenti.

3. I fanciulli sono come gli uccellini: vogliono saltare di palo

in frasca, cambiare. Sarà quindi bene cercare di avere per ogni

lezione qualche cosa di nuovo, che faccia piacere. Non cominciar

sempre alla stessa maniera, non far sempre le stesse domande.

Almeno ogni tanto tenere una lezione brillante, e ogni lezione

avere almeno uno spunto felice, attraente.

4. E pregare. Far bene la lezione, anche se ci si è preparati

con diligenza, è sempre una grazia del Signore, che bisogna umilmente

implorare.


2. ITINERARIO DELLA LEZIONE

5. Chi dice «itinerario» dice percorso o serie di tappe successive.

Enumeriamo le varie tappe della lezione del catechismo

parrocchiale:

1. il catechista si trova (con testo, guida e registro. all’ora precisa

nel luogo della lezione;

2. raccoglie e mette in fila gli alunni;;

3. entra con loro in silenzio nell’aula o nel locale della lezione;

4. attende che si mettano a posto e li aiuta a mettersi a posto;

5. preghiera (eventualmente canto.;

6. appello;

7. interrogazioni sulla lezione antecedente;

8. spiegazione della lezione nuova;

9. riepilogo della lezione nuova;

10. applicazioni pratiche;

11. assegnazione del compito;

12. preghiera;

13. uscita di classe.


6. Alcune annotazioni:

1. i fanciulli non possono balzare di punto in bianco da un gioco

vivacissimo, da una baruffa, alla preghiera e alla lezione: il

catechista si preoccupi che il passaggio avvenga dolcemente,

calmi con un canto, con due o tre minuti di attesa silenziosa

fuori dall’aula;

2. la preghiera non si comincia finché tutti non sono quieti e

sereni;

3. il registro funzioni bene sia nell’appello che nelle interrogazioni

sulla lezione studiata. Esso mette sempre un po’ di soggezione

ai fanciulli e dà un po’ il tono di scuola.

7. Dopo la lezione, rimasto solo o tornato a casa, il catechista

preghi il Signore, ringraziandolo di essersi servito di lui, chiedendo

che gli alunni mettano in pratica le cose imparate. Buona

cosa, se farà un po’ di esame con relativi propositi, sul come la

lezione è andata, sui pregi e i difetti. Cosa migliore, se avrà un

diario sul quale segnare prima della lezione la preparazione o una

traccia e, dopo, le osservazioni.


3. DISCIPLINA ALLA LEZIONE

Idee da tenere sulla disciplina

Una nazione possiede ordine e disciplina se ci sono queste

due cose: leggi precise e chiare (potere legislativo) e forza per

farle eseguire (potere esecutivo e punitivo).

In una classe di catechismo ci sarà disciplina quando si danno

ordini ben chiari e si riesce con la presenza, con l’interessamento

insistente, con la persuasione o, alla peggio, con un po’ di

castigo, a farli osservare.

Se gli ordini non si danno, o non sono capiti da tutti, o

nessuno li esegue, o li fa eseguire, abbiamo confusione, disobbedienza,

anarchia, tutto il contrario di disciplina.

a) ... Circa il «potere legislativo»

8. Esser chiari e precisi nel dar ordini. Spesso il fanciullo non

ha eseguito perché non aveva capito o non si era ricordato. Per

assicurarsi che ha capito l’ordine e per farglielo ricordare, farsi

ripetere l’ordine («Hai compreso quel che ho detto? Dimmelo,

su... Hai trovato la pagina che devi studiare? Fammela vedere,

segnala»).

Non dare ordini mentre i fanciulli sono in moto; dare pochi

comandi, non cambiarli, ma ripeterli spesso.

Non comandar mai una cosa quando si è sicuri che non sarà

fatta.

E tener duro ai dinieghi. Quando s’è detto di no, e le circostanze

sono ancora quelle, non si deve cambiare. Perché, di

solito, il papà si fa ubbidire più della mamma? Perché tien fermo

e non cede e i figli lo sanno.

E niente prediche quando si danno ordini; più parlate e più

fate vedere ai fanciulli che avete paura di non esser ubbiditi; poche

parole incisive (non amare e ironiche) sono molto più energiche

ed efficaci delle lungaggini.


b) ... Circa il «potere esecutivo»

9. La disciplina nostra non è disciplina dura («O fai questi o

son bastonate»); essa non vuole soltanto portare il fanciullo a fare

quella tal cosa, ma vuole portarlo a far volentieri, di buon animo,

la tale cosa; non soffoca la libertà del fanciullo, ma la educa e

alimenta facendo sì che egli stesso, spontaneamente, voglia quello

che noi gli ordiniamo.

10 Attenti, però: «volentieri», «spontaneamente» non significa

«senza sforzo», «senza fatica». Nessun educatore educherà

mai fanciulli e giovani, se non domanda e ottiene da loro sforzi

e sacrifici.

Un catechista dice: «Voglio risparmiare ai miei fanciulli

qualsiasi sforzo». Non ha capito nulla di educazione, nulla della

vita. Un giorno, fatti grandi, i fanciulli troveranno pure il duro,

l’aspro e l’amaro. Bisogna dunque prepararli adesso! D’altra parte,

senza fatica, non c’è nulla di grande a questo mondo. Deve

dire invece: «Voglio che si sforzino, che si abituino al sacrificio: il

riso, il gioco, la giocondità sono un aiuto, e niente più».

11. La disciplina di cui parliamo presuppone nel catechista

certe qualità indispensabili. Prima, il prestigio. Lo si ha, quando il

fanciullo prova verso il catechista un senso di riverenza e di stima

per la sua bontà, per la scienza, per la capacità di fare. Il fanciullo

ha bisogno di vedere nel capo che lo guida un uomo più forte,

più capace, più bravo di lui. Altrimenti non lo segue.

12. Altra qualità, la bontà... purché non sia troppo. «Uomo

buono», e non «buon uomo», «dar confidenza», non lasciar che

«prendano confidenza!». I fanciulli devono vedere che il catechista

è buono e li ama, ma insieme devono provare una certa

soggezione di lui.

13. Terza qualità, la fiducia in se stesso. I fanciulli devono avere

l’impressione che noi siamo provetti, sicuri, capaci e devono

sentir ciò dal nostro sguardo, dal tono della voce, dal contegno,

dalle mosse. Guai, se ci vedono timidi, malsicuri, impacciati.

14. Qualità forse principale, però, è quella di riuscire interessanti.

Il più delle volte i ragazzi sono indisciplinati perché non

li sappiamo interessare, diciamo loro cose che non li interessano

o in un modo inadatto, o non ci siamo preparati alla lezione.


15. La disciplina che noi intendiamo considera ottimi mezzi

i premi e l’emulazione. Il più facile di tutti i premi è la lode;

data con prudenza, a tempo opportuno, incoraggia, sprona allo

studio. Quanto agli altri premi, siano grandi o piccoli, non è il

darli che conta, ma il modo con il quale sono stati dati, le parole

che li accompagnano.

Il voto, se adoperato bene, dà ottimi risultati per la disciplina.

Lo sa adoperare il catechista che gli dà importanza davanti

ai fanciulli; che usa il voto soprattutto per incoraggiare («Hai saputo

benino, più dell’altra volta, otto; e se continui così arriverai

anche al nove»), che sa regalare talvolta qualche punto.

c) ... Circa il «potere punitivo»

16. Il catechista impari dalla natura che somministra continuamente

alle cose la luce e il calore del sole, spesso la pioggia e

il vento, di rado fulmini e tuoni.

Il catechista deve continuamente ai suoi alunni affetto e premura,

spesso raccomandazioni ed esortazioni, di rado interverrà

con rimproveri e castighi.

17. I castighi devono essere dati con molta prudenza, se si

vuole che siano efficaci.

a) Cominciare dal poco (mostrarsi non contenti, meno benevoli,

occhiata severa; richiamo; minaccia di castigo); arrivare

al castigo vero e proprio solo con i pertinaci, che, nonostante

avvisi e richiami, sono già alla terza o quarta mancanza; non

infliggere punizioni corporali, ma piuttosto privare di qualche

cosa, cui i fanciulli tengono.

b) Non è il castigo in sé che corregge il fanciullo, ma il dispiacere

e il desiderio di vederlo migliorare che il catechista

esprime nel castigare.

c) Non castigare, se non si è sicuri della mancanza; lasciate che

il fanciullo si difenda: se lo si trova innocente, mostrare dispiacere

di averlo punito e contentezza per averlo trovato

innocente.

d) Non castigare mentre si è agitati; mai arrabbiarsi.

e) Correggere possibilmente in privato; non costringere un

fanciullo a comparire davanti ai compagni con il viso rosso e

in lacrime per rimproveri subiti.

f ) Se il fanciullo si emenda prima del castigo, perdonarlo.


Accorgimenti pratici per la disciplina

18 Adoperare bene gli occhi per far sentire ai fanciulli che li

osserviamo e che sono visti in ogni loro movimento. Per questo

le classi siano poco numerose e quando si usano le panche,

queste non siano disposte a linee parallele, ma a semicerchio o a

ferro di cavallo. Così tutti gli alunni sono visti completamente

e a nessuno capita la tentazione dalla seconda o terza panca di

disturbare coi piedi o con le gambe i compagni della prima o

della seconda.

19. Procurare che entrino in classe con ordine e in silenzio;

assegnare i posti in modo che non si trovino insieme due disturbatori;

e i posti siano fissi, in modo che non ci sia, entrando,

la gara e la corsa per trovare il posto. Tener presente che essere

deboli all’inizio della lezione vuol dire aver battaglia perduta per

tutta la lezione.

20. Non cominciare mai la lezione con il rimproverare coloro

che fanno rumore nel mettersi a posto. Il rimprovero messo in

principio getta una luce poco simpatica su tutta la lezione. Invece

si loda chi si è già messo a posto, si aspetta con calma, invitando

con lo sguardo, che si mettano a posto gli altri, e si comincia la

preghiera solo quando s’è fatta l’attenzione col relativo silenzio.

21. Essere un po’ furbi e presentare la disciplina sotto una

luce bella e simpatica. Non dite: «In questa classe io voglio disciplina!

Farò rigar diritti tutti quanti e castigherò gli indisciplinati!

». Mostrereste la disciplina in un aspetto duro e spingereste

i fanciulli a sbarazzarsi di lei. Dite, invece, così: «Voi conoscete

bravi calciatori, aviatori, alpinisti... Brava gente che signoreggia i

campi, i cieli, le montagne. Ma sapete come hanno fatto a diventare

così in gamba? Si sono sottoposti alla disciplina. Anche noi

faremo un po’ di “disciplina”». È probabile che si abbia un effetto

migliore che nel primo caso.

22. Non bisogna moltiplicare proibizioni e divieti: «Quello

non si può, questo neanche, lì non dovete andare...», il fanciullo

si sentirebbe soffocato e sentirebbe che la disciplina è un peso,

mentre bisogna farla apparire leggera; certe cose fargliele prima

amare e poi proporgliele; certe altre farle apparire come premio

mentre sono necessarie.


23. E saper comprendere. I fanciulli sono sempre fanciulli:

certe indisciplinatezze sono irrequietezza, non cattiveria. Non

andar dietro le minuzie e concedere un respiro quando è ragionevole.

Sbuca un topo di sotto un armadio: tutta la classe è in

piedi... Cosa volete fare? Sarebbe esagerato alzare la voce, rimproverare.

Cercate di portare alla calma con la bontà.

24. Siete mai saliti in groppa ad un puledro? Sì? Allora sapete

che ogni tanto bisogna allentare le redini e lasciargli un po’

di respiro. Non abbandonate però le redini sulla cavezza, se no vi

possono capitare dei guai. Così con la classe: ogni tanto un po’

di respiro, un racconto, qualcosa che sollevi; ma non far ridere

troppo, lasciando scoppiare l’ilarità; pochi son maghi da riportare

con un colpo di bacchetta magica l’ordine interrotto.

25. Provate ad abbassare la voce, quando i fanciulli cominciano

a distrarsi o a parlare. Subito, tutte le teste si alzano, gli

occhi, fissandovi, interrogano: Cosa farà adesso? Cosa vuole con

questa voce dolce e sommessa? Niente. Solo che stiate attenti,

perché il catechista sa che per far tacere non si grida, ma si parla

piano e si tace.

26. Qualche volta parlar piano non basta: i fanciulli sono

stanchi. Ecco pronto un bel fatto, un cartellone a colori. Oppure

si invitano ad alzarsi in piedi: una preghiera, un canto sommesso;

si è introdotta una nota più vivace, si son fatti muovere e si

può riprendere. I vari elementi dell’attività sono anche aiuti per

la disciplina.

27. Quando un fanciullo è mancato alla lezione, ci si informi

del motivo, ci si interessi passando a casa sua. Quando un

ragazzo non sa, perché tardo, pregare qualcuno di casa o una persona

vicina che se ne occupi. Nel caso poi di qualche disturbatore

incorreggibile, è forse opportuno farlo dimettere dal parroco.


AMDG et DVM

giovedì 29 dicembre 2022

Caro Mark Twain. Ecco chi gli piace: chi fa la sua volontà.



 TRE SOR GIOVANNI IN UNO

A Mark Twain

Caro Mark Twain,

Ella è stato uno degli autori preferiti della mia adolescenza.

Ho ancora nella mente le spassose Avventure di Tom Sawyer, che

sono poi le Sue avventure di infanzia, caro Twain. Ho raccontato

cento volte qualcuna delle Sue battute, ad esempio quella sul valore

dei libri. È un valore inestimabile – ha Ella risposto ad una

ragazzina, che l’aveva interpellata – ma vario. Un libro legato in

pelle è eccellente per affilare il rasoio; un libro piccolo, conciso –

come lo sanno scrivere i francesi – serve a meraviglia per la gamba

più corta di un tavolino; un libro grosso come un vocabolario

è un ottimo proiettile per tirare ai gatti; e finalmente un atlante,

coi fogli larghi, ha la carta più adatta per aggiustare i vetri.

I miei alunni si eccitavano, quando annunciavo: «Adesso ve

ne racconto un’altra di Mark Twain». Temo, invece, che i miei

diocesani si scandalizzino: «Un vescovo che cita Mark Twain!».

Forse bisognerebbe prima spiegare loro che, come sono vari i

libri, così sono vari i vescovi. Alcuni, infatti, rassomigliano ad

aquile, che planano con documenti magistrali di alto livello; altri

sono usignoli, che cantano le lodi del Signore in modo meraviglioso;

altri, invece, sono poveri scriccioli, che, sull’ultima rama

dell’albero ecclesiale, squittiscono soltanto, cercando di dire

qualche pensiero su temi vastissimi.

Io, caro Twain, appartengo all’ultima categoria. Perciò mi

faccio coraggio e racconto che una volta tu hai osservato: «L’uomo

è più complesso di quel che pare: ogni uomo adulto rinserra

in sé non uno, ma tre uomini diversi». «Come mai?», ti fu chiesto.

E tu: «Prendete un sor Giovanni qualunque. In esso c’è il

Giovanni Primo, cioè l’uomo che egli crede di essere; c’è il Giovanni

Secondo, quello che di lui pensano gli altri; e finalmente il

Giovanni Terzo, ciò ch’egli è nella realtà».

* * *

Quanta verità, Twain, nel tuo scherzo! Ecco, ad esempio, il

Giovanni Primo. Quando ci portano la fotografia del gruppo in

cui abbiamo posato, qual è la faccetta simpatica, attraente, che

andiamo a cercare? Duole il dirlo, ma è la nostra. Perché noi ci

vogliamo un bene sconfinato e ci preferiamo agli altri. Volendoci

tanto bene, succede che siamo portati a ingrandire i nostri

meriti, ad attenuare le nostre colpe, ad usare col prossimo pesi e

misure diverse che con noi. Meriti ingranditi? Li descrive il tuo

collega Trilussa:


«La lumachella de la Vanagloria

Ch’era strisciata sopra un obelisco,

Guardò la bava e disse: Già capisco

Che lascerò un’impronta ne la Storia».


Ecco come siamo, caro Twain, perfino un po’ di bava, se

nostra e perché nostra, ci fa ringalluzzire e montare la testa!

Difetti attenuati? «Bevo un bicchiere qualche rara volta» dice

lui. Gli altri assicurano, invece, ch’egli è una specie di spugna,

una Gola-sempre-secca, un autentico devoto di santa Bibiana,

col gomito sempre alzato. Dice lei: «Sono un po’ nervosetta,

qualche volta mi impressiono». Grazie, che «impressione»! La

gente asserisce che è grintosa, stizzosa e vendicativa, un carattere

impossibile, un’Arpia!

In Omero gli dèi girano il mondo ravvolti in una nuvola,

che li nasconde agli sguardi di tutti: noi abbiamo una nuvola che

ci nasconde agli occhi nostri.

Francesco di Sales, vescovo come me e umorista come te,

scriveva: «Accusiamo il prossimo per cose lievi, e scusiamo noi

stessi in cose grandi. Vogliamo vendere a carissimo prezzo, e acquistare invece a buon mercato. Vogliamo che si faccia giustizia

in casa degli altri, e che si usi misericordia in casa nostra. Vogliamo

che siano prese in buona parte le nostre parole, e facciamo i

delicati su quelle altrui.

Se qualcuno dei nostri inferiori non ha con noi buone maniere,

prendiamo in mala parte qualunque cosa faccia; invece,

se qualcuno ci è simpatico, lo scusiamo, qualsiasi cosa faccia.

I nostri diritti li esigiamo con rigore, e invece vogliamo che gli

altri siano discreti nell’esigere i loro... Quel che facciamo per gli

altri ci sembra sempre molto, quel che per noi fanno gli altri ci

pare nulla».

* * *

Per Giovanni Primo può bastare, veniamo a Giovanni Secondo.

Qui, caro Twain, mi pare che i casi siano due: Giovanni

desidera che la gente lo stimi, oppure si affligge perché la gente

lo ignora e disprezza. Nulla di male in ciò; cerchi solo di non

esagerare nell’uno o nell’altro senso. «Guai a voi – ha detto il

Signore – che ambite i primi seggi nelle sinagoghe e i salamelecchi

nelle piazze...; che tutte le vostre opere le compite per farvi

notare». Oggi si direbbe: che date la scalata ai posti e ai titoli a

furia di gomitate, di concessioni, di abdicazioni, che smaniate di

farvi mettere sui giornali.


Ma perché «Guai a voi»? Quando nel 1938 Hitler passò per

Firenze, la città fu coperta di croci uncinate e di scritte osannanti.

Bargellini disse a Dalla Costa: «Vede, Eminenza? Vede?».

«Non abbia paura! – rispose il Cardinale – la sorte è già segnata

nel Salmo 36: “Ho veduto l’iniquo imbaldanzire e dilatarsi come

albero rigoglioso. Passai di nuovo, e non era più; lo cercai e non

si trovò».

A volte il «Guai» non segna punizione divina, ma soltanto

ridicolo umano. Può capitare come al somaro che si coprì con la

pelle di un leone e tutti dicevano: «Che leone!». Uomini e bestie

fuggivano. Ma il vento soffiò, la pelle si sollevò e tutti videro

l’asino. E allora accorsero infuriati e caricarono la bestia di sacrosante legnate.

Lo diceva anche Shaw: «Com’è comica la verità!». E cioè:

vien da sorridere, quando si sa quanto poca cosa c’è sotto certi

titoli e certe celebrità!

E se succede il contrario? Se la gente pensa male, dove c’è

il bene? Qui c’è, in aiuto, un’altra parola di Cristo: «È venuto

Giovanni, che né mangiava, né beveva, e dissero: Ha il demonio

addosso. È venuto il Figlio dell’Uomo, che mangia e beve, e dicono:

Ecco qua un mangione e un beone, amico di pubblicani e

peccatori». Neppure Cristo è riuscito ad accontentare tutti. Non

prendiamocela troppo se non riusciamo noi.

* * *

Giovanni Terzo faceva il cuoco. Questo non lo racconti tu,

Twain, ma Tolstoj. Sulla soglia di cucina erano distesi i cani.

Giovanni uccise un vitello e gettò le viscere nel cortile. I cani

le presero, le mangiarono e dissero: «È un bravo cuoco, cucina

bene». Qualche tempo dopo, Giovanni sbucciava i piselli, mondava

le cipolle: le bucce le gettò nel cortile. I cani si precipitarono

sopra, ma, scostando il muso dall’altra parte, dissero: «Il cuoco

s’è guastato, ora non vale più nulla». Giovanni, però, non si 

commosse affatto per questo giudizio e disse: «È il padrone che deve

mangiare e apprezzare i miei pranzi, non i cani. Mi basta essere

apprezzato dal padrone».

Bravo anche Tolstoj. Ma io mi chiedo: «Che gusti ha il Signore?

Che cosa gli piace in noi?». Un giorno, mentre predicava,

qualcuno gli disse: «Tua madre e i tuoi fratelli stanno di fuori, e

chiedono di parlarti». Egli protese la mano verso i suoi discepoli

e rispose: «Ecco qua la madre mia e i fratelli miei. Chiunque,

infatti, fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, quegli mi è

fratello, sorella e madre».

Ecco chi gli piace: chi fa la sua volontà. Gli piace che lo si

preghi, ma gli dispiace forte che le preghiere diventino un pretesto

per scansare la fatica delle buone opere. «Perché mi chiamate

Signore, Signore, e non fate quello che dico?». Fare quello che

dice!

Può essere una conclusione moralizzante. Tu – umorista –

non l’avresti tirata. La devo tirare io, che sono vescovo e che ai

miei fedeli raccomando: «Se vi capita di ripensare ai tre Giovanni,

ai tre Giacomi, alle tre Francesche che sono in ciascuno

di noi, tenete d’occhio specialmente il terzo: quello che piace a

Dio!».

Maggio 1971

Papa Luciani, Opera Omnia.

AMDG et DVM