TRE SOR GIOVANNI IN UNO
A Mark Twain
Caro Mark Twain,
Ella è stato uno degli autori preferiti della mia adolescenza.
Ho ancora nella mente le spassose Avventure di Tom Sawyer, che
sono poi le Sue avventure di infanzia, caro Twain. Ho raccontato
cento volte qualcuna delle Sue battute, ad esempio quella sul valore
dei libri. È un valore inestimabile – ha Ella risposto ad una
ragazzina, che l’aveva interpellata – ma vario. Un libro legato in
pelle è eccellente per affilare il rasoio; un libro piccolo, conciso –
come lo sanno scrivere i francesi – serve a meraviglia per la gamba
più corta di un tavolino; un libro grosso come un vocabolario
è un ottimo proiettile per tirare ai gatti; e finalmente un atlante,
coi fogli larghi, ha la carta più adatta per aggiustare i vetri.
I miei alunni si eccitavano, quando annunciavo: «Adesso ve
ne racconto un’altra di Mark Twain». Temo, invece, che i miei
diocesani si scandalizzino: «Un vescovo che cita Mark Twain!».
Forse bisognerebbe prima spiegare loro che, come sono vari i
libri, così sono vari i vescovi. Alcuni, infatti, rassomigliano ad
aquile, che planano con documenti magistrali di alto livello; altri
sono usignoli, che cantano le lodi del Signore in modo meraviglioso;
altri, invece, sono poveri scriccioli, che, sull’ultima rama
dell’albero ecclesiale, squittiscono soltanto, cercando di dire
qualche pensiero su temi vastissimi.
Io, caro Twain, appartengo all’ultima categoria. Perciò mi
faccio coraggio e racconto che una volta tu hai osservato: «L’uomo
è più complesso di quel che pare: ogni uomo adulto rinserra
in sé non uno, ma tre uomini diversi». «Come mai?», ti fu chiesto.
E tu: «Prendete un sor Giovanni qualunque. In esso c’è il
Giovanni Primo, cioè l’uomo che egli crede di essere; c’è il Giovanni
Secondo, quello che di lui pensano gli altri; e finalmente il
Giovanni Terzo, ciò ch’egli è nella realtà».
* * *
Quanta verità, Twain, nel tuo scherzo! Ecco, ad esempio, il
Giovanni Primo. Quando ci portano la fotografia del gruppo in
cui abbiamo posato, qual è la faccetta simpatica, attraente, che
andiamo a cercare? Duole il dirlo, ma è la nostra. Perché noi ci
vogliamo un bene sconfinato e ci preferiamo agli altri. Volendoci
tanto bene, succede che siamo portati a ingrandire i nostri
meriti, ad attenuare le nostre colpe, ad usare col prossimo pesi e
misure diverse che con noi. Meriti ingranditi? Li descrive il tuo
collega Trilussa:
«La lumachella de la Vanagloria
Ch’era strisciata sopra un obelisco,
Guardò la bava e disse: Già capisco
Che lascerò un’impronta ne la Storia».
Ecco come siamo, caro Twain, perfino un po’ di bava, se
nostra e perché nostra, ci fa ringalluzzire e montare la testa!
Difetti attenuati? «Bevo un bicchiere qualche rara volta» dice
lui. Gli altri assicurano, invece, ch’egli è una specie di spugna,
una Gola-sempre-secca, un autentico devoto di santa Bibiana,
col gomito sempre alzato. Dice lei: «Sono un po’ nervosetta,
qualche volta mi impressiono». Grazie, che «impressione»! La
gente asserisce che è grintosa, stizzosa e vendicativa, un carattere
impossibile, un’Arpia!
In Omero gli dèi girano il mondo ravvolti in una nuvola,
che li nasconde agli sguardi di tutti: noi abbiamo una nuvola che
ci nasconde agli occhi nostri.
Francesco di Sales, vescovo come me e umorista come te,
scriveva: «Accusiamo il prossimo per cose lievi, e scusiamo noi
stessi in cose grandi. Vogliamo vendere a carissimo prezzo, e acquistare invece a buon mercato. Vogliamo che si faccia giustizia
in casa degli altri, e che si usi misericordia in casa nostra. Vogliamo
che siano prese in buona parte le nostre parole, e facciamo i
delicati su quelle altrui.
Se qualcuno dei nostri inferiori non ha con noi buone maniere,
prendiamo in mala parte qualunque cosa faccia; invece,
se qualcuno ci è simpatico, lo scusiamo, qualsiasi cosa faccia.
I nostri diritti li esigiamo con rigore, e invece vogliamo che gli
altri siano discreti nell’esigere i loro... Quel che facciamo per gli
altri ci sembra sempre molto, quel che per noi fanno gli altri ci
pare nulla».
* * *
Per Giovanni Primo può bastare, veniamo a Giovanni Secondo.
Qui, caro Twain, mi pare che i casi siano due: Giovanni
desidera che la gente lo stimi, oppure si affligge perché la gente
lo ignora e disprezza. Nulla di male in ciò; cerchi solo di non
esagerare nell’uno o nell’altro senso. «Guai a voi – ha detto il
Signore – che ambite i primi seggi nelle sinagoghe e i salamelecchi
nelle piazze...; che tutte le vostre opere le compite per farvi
notare». Oggi si direbbe: che date la scalata ai posti e ai titoli a
furia di gomitate, di concessioni, di abdicazioni, che smaniate di
farvi mettere sui giornali.
Ma perché «Guai a voi»? Quando nel 1938 Hitler passò per
Firenze, la città fu coperta di croci uncinate e di scritte osannanti.
Bargellini disse a Dalla Costa: «Vede, Eminenza? Vede?».
«Non abbia paura! – rispose il Cardinale – la sorte è già segnata
nel Salmo 36: “Ho veduto l’iniquo imbaldanzire e dilatarsi come
albero rigoglioso. Passai di nuovo, e non era più; lo cercai e non
si trovò».
A volte il «Guai» non segna punizione divina, ma soltanto
ridicolo umano. Può capitare come al somaro che si coprì con la
pelle di un leone e tutti dicevano: «Che leone!». Uomini e bestie
fuggivano. Ma il vento soffiò, la pelle si sollevò e tutti videro
l’asino. E allora accorsero infuriati e caricarono la bestia di sacrosante legnate.
Lo diceva anche Shaw: «Com’è comica la verità!». E cioè:
vien da sorridere, quando si sa quanto poca cosa c’è sotto certi
titoli e certe celebrità!
E se succede il contrario? Se la gente pensa male, dove c’è
il bene? Qui c’è, in aiuto, un’altra parola di Cristo: «È venuto
Giovanni, che né mangiava, né beveva, e dissero: Ha il demonio
addosso. È venuto il Figlio dell’Uomo, che mangia e beve, e dicono:
Ecco qua un mangione e un beone, amico di pubblicani e
peccatori». Neppure Cristo è riuscito ad accontentare tutti. Non
prendiamocela troppo se non riusciamo noi.
* * *
Giovanni Terzo faceva il cuoco. Questo non lo racconti tu,
Twain, ma Tolstoj. Sulla soglia di cucina erano distesi i cani.
Giovanni uccise un vitello e gettò le viscere nel cortile. I cani
le presero, le mangiarono e dissero: «È un bravo cuoco, cucina
bene». Qualche tempo dopo, Giovanni sbucciava i piselli, mondava
le cipolle: le bucce le gettò nel cortile. I cani si precipitarono
sopra, ma, scostando il muso dall’altra parte, dissero: «Il cuoco
s’è guastato, ora non vale più nulla». Giovanni, però, non si
commosse affatto per questo giudizio e disse: «È il padrone che deve
mangiare e apprezzare i miei pranzi, non i cani. Mi basta essere
apprezzato dal padrone».
Bravo anche Tolstoj. Ma io mi chiedo: «Che gusti ha il Signore?
Che cosa gli piace in noi?». Un giorno, mentre predicava,
qualcuno gli disse: «Tua madre e i tuoi fratelli stanno di fuori, e
chiedono di parlarti». Egli protese la mano verso i suoi discepoli
e rispose: «Ecco qua la madre mia e i fratelli miei. Chiunque,
infatti, fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, quegli mi è
fratello, sorella e madre».
Ecco chi gli piace: chi fa la sua volontà. Gli piace che lo si
preghi, ma gli dispiace forte che le preghiere diventino un pretesto
per scansare la fatica delle buone opere. «Perché mi chiamate
Signore, Signore, e non fate quello che dico?». Fare quello che
dice!
Può essere una conclusione moralizzante. Tu – umorista –
non l’avresti tirata. La devo tirare io, che sono vescovo e che ai
miei fedeli raccomando: «Se vi capita di ripensare ai tre Giovanni,
ai tre Giacomi, alle tre Francesche che sono in ciascuno
di noi, tenete d’occhio specialmente il terzo: quello che piace a
Dio!».
Maggio 1971
Papa Luciani, Opera Omnia.
AMDG et DVM
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