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lunedì 26 giugno 2023

Papa Luciani - Opera Omnia

 LA CONFESSIONE SEICENTO ANNI FA

A Francesco Petrarca

Illustre poeta,

in Italia e fuori viene celebrato quest’anno il sesto centenario

della vostra morte (1374-1974).

Congressi, studi, pubblicazioni mettono in risalto questo o

quell’aspetto della vostra figura, questo o quell’aspetto della vostra

personalità o della immensa vostra opera letteraria.

Morto da tanto tempo, vi rivelate più vivo che mai, evitando

la curiosità e attirando l’attenzione degli uomini d’oggi sul letterato,

sullo psicologo finissimo, sull’uomo politico, sul turista appassionato,

sul cristiano sincero e insieme critico che siete stato

e su cent’altri aspetti.

Qualcuno parlerà anche di Voi, peccatore pentito ma recidivo,

cristiano assetato spesso di santità, ma incapace di fare un

taglio veramente netto dal peccato e di rinunciare a passioni e

passioncelle che vi erano care? Non lo so. Se sì, bisognerà parlare

anche del vostro atteggiamento di fronte alla confessione.

Perché Voi andavate a confessarvi, illustre Petrarca!

Scrivendo da Roma al vostro amico Giovanni Boccaccio, gli

raccontaste la disavventura toccatavi: un maiuscolo calcio di cavallo

sferrato al vostro prezioso ginocchio, con quindici giorni di

dolori acutissimi. «Ma accetto tutto in isconto dei miei peccati

– scriveste – in sostituzione di quella penitenza che il confessore,

troppo buono, non m’ha imposto».

Quale impegno abbiate messo nell’esaminare la vostra anima

fino nelle sue pieghe più riposte, appare dai vostri libri.

Quando scrivete di esservi troppo compiaciuto dell’ingegno,

dell’eloquenza, della cultura acquisita e perfino della prestanza

corporea. Quando vi rimproverate di essere assetato di onori,

comodità, ricchezza e di avere troppo spesso ceduto alla lussuria.

Voi gemete sui legami della passione, che non riuscite a spezzare,

sulla forza della «perversa abitudine», sull’«amarissimo gusto»

delle ricadute.

Scrivendo al fratello monaco, deplorate il vostro «desiderio

di elegantissime vesti», il «timore che un capello vada fuori po-

sto e un lieve vento scomponga la laboriosa acconciatura delle

chiome». Il ferro usato ad acconciare i capelli vi procura sonno

interrotto e dolori più atroci di quelli che infligge «un crudele

pirata», ma non ve la sentite di smettere. E ponete a sant’Agostino

– interlocutore immaginario – dei problemi inquietanti: «Il

cadere è stato mio, ma il giacere, il non rialzarmi non dipende da

me». «Dipende anche da te» risponde Agostino. Voi replicate:

«Ma vedete bene che io piango sulle mie miserie!». E Agostino:

«Non si tratta di piangere, ma di volere!».

Per fortuna, il principio giusto non vi è mai venuto meno:

«Dio può salvarmi», nonostante la mia debolezza. La misericordia

di Dio fuga i timori, risolve molti problemi.

A seicento anni di distanza noi, penitenti di oggi, siamo migliori

o peggiori di Voi? Ecco una questione che mi incuriosisce.

Minore, mi sembra, da parte nostra, la disposizione a riconoscere

le commesse mancanze. Diciamo spesso: «Santa Maria...

prega per noi peccatori», «Padre... rimetti i nostri debiti»,

«Agnello di Dio... abbi pietà di noi», ma molto superficialmente.

In pratica ci giustifichiamo con i pretesti più strani («siamo liberi,

autonomi, maturi»); ci appelliamo alle «esigenze della natura,

dell’istinto, della cultura, della moda».

La Bibbia, nel libro dei Proverbi, presenta così il caso di una

donna adultera: «Mangia e si pulisce la bocca e dice: “Non ho

fatto nulla di male”!». Quella donna, caro Petrarca, è una figura

emblematica: dipinge tale e quale buona parte della nostra cristiana

civiltà permissiva.

Come già a Voi, le lacrime non mancano neppure a noi: è il

volere che difetta. O meglio: arriviamo spesso a disvolere quello

che avevamo voluto col peccato, a disapprovare ciò che s’era

approvato, ma non arriviamo a quello che è più pratico: fuggire

le occasioni. Voi che, perfino nell’ascensione al monte Ventoux,

vi siete portato dietro il libro delle Confessioni di Agostino, avete

presente il caso di Alipio.

Uomo forte, capace di tener testa a senatori potentissimi,

venuto a Roma dall’Africa, aveva concepito «disgusto e odio» per

i combattimenti dei gladiatori, che si uccidevano l’un l’altro per

dare spettacolo al popolo. Alcuni amici gli proposero di assistere,

almeno una volta, al combattimento. Alipio rispose di no, poi

disse: «Vi sarò, ma come un assente e avrò vittoria di voi e dello

spettacolo».

Andò dunque per sfida; messosi difatti a sedere nell’anfiteatro,

chiuse gli occhi per neppur vedere. Purtroppo non chiuse

le orecchie: ad un certo punto un immenso urlo di popolo lo

fece sussultare. Aprì gli occhi per pura curiosità, ma «vedere quel

sangue e imbeversi di crudeltà fu tutt’uno: non solo non distolse

gli occhi dallo spettacolo, ma ve li fissò; respirava furore senza

accorgersene, prendeva gusto a quella lotta, ebbro di sanguinario

piacere. Non era più quello che era venuto: guardò, gridò, si

entusiasmò»; se ne venne via portando seco una febbre, che lo

spinse a tornarci, trascinatore di altri. Si corresse in seguito, ma

solo molto tempo dopo (Confessioni, cap. VIII).

Sulla linea della straordinaria debolezza di Alipio (poi vescovo

e santo) ci troviamo purtroppo un po’ tutti. Per questo, in

ogni confessione, siamo esortati a pregare: «propongo... di fuggire

le occasioni prossime di peccato», ma...

Temo che noi siamo più incompleti di Voi per quanto riguarda

la fiducia in Dio. D’accordo, Dio è il padre del figlio

prodigo; Gesù è il buon pastore, che riporta all’ovile la pecorella

smarrita, che ha perdonato l’adultera, Zaccheo, il buon ladrone.

Fin qua ci arrivano tutti o quasi.

Alcuni però concludono: «Io me la intenderò con Lui direttamente

» e non vi seguono fino al discorso del confessore, che

media tra Dio e il peccatore, in grazia delle parole di Gesù agli

apostoli: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi».

Essi non capiscono che al confessore non tocca solo dichiarare

la remissione dei peccati già avvenuta, ma di fare la remissione

con una sentenza.

E tale sentenza non può essere lasciata al puro capriccio («Tu

mi sei simpatico, ti assolvo!»), ma deve basarsi su elementi certi

e ben vagliati, che solo il penitente può fornire, appunto con la

propria confessione.

Voi avete trovato «troppo buono» il vostro confessore. Ai

nostri tempi, chi si confessa bene cerca confessori buoni, ma non

«troppo buoni».

Augusto Conti, illustre filosofo, ha dedicato un intero capitolo

pieno di affettuosa riconoscenza nel libro Le sveglie dell’anima

ai suoi confessori.

Santa Giovanna di Chantal e altri penitenti si sono dichiarati

contentissimi di san Francesco di Sales, che nella confessione

fu padre e medico abile soprattutto a infondere coraggio.

«La santità – diceva – consiste nel combattere i difetti, ma come

combatterli, se non ci sono? Come vincerli, se non li incontriamo?

Essere feriti qualche volta in questa battaglia non vuol dire

essere vinti. È vinto solo chi perde la vita o il coraggio, è vincitore

chiunque decida di continuare a combattere».

È il tipo di confessore che la gente oggi aspetta: fermo ma

delicato; amante di Dio ma che conosca i problemi degli uomini.

È vero però che oggi, per desiderio della chiesa, l’accento,

più che sull’accusa dei peccati, viene messo sulla conversione

presentata biblicamente come allontanamento dal peccato, ma

più ancora come avvicinamento a Dio e abbraccio amoroso con

lui. «Lasciatevi riconciliare a Dio» diceva san Paolo: oggi lo si

ripete e si auspica che la riconciliazione sia preceduta dalla parola

di Dio stesso letta e meditata. Noi infatti andiamo a Dio, se lui

prima ci chiama e ci parla. Si desidera anche che tale parola, possibilmente,

non ci investa a uno a uno, ma radunati in comunità.

Voi nel Medioevo, caro Petrarca, avete fatto della confessione

una cosa molto personale e segreta. Oggi si pensa con nostalgia

ai tempi antichi, quando, finita la quaresima, il vescovo dava

la mano al primo dei penitenti e questo alla lunga catena di tutti

gli altri, che venivano così introdotti in chiesa per la riconciliazione

solenne.

Non so con quale frequenza siate andato a confessarvi.

Nel vostro Medioevo si usava molta confessione e poca comunione.

Oggi pare succeda l’inverso: anche anime pie si rivelano

un po’ allergiche alla confessione frequente e di devozione.

Esse mi fanno pensare al domestico di Gionata Swift. Questi,

dopo aver pernottato in un’osteria, aveva chiesto, al mattino,

gli stivali e se li era visti portare ancora coperti di polvere. «Come

mai non li avete puliti?» aveva chiesto. «Ho pensato che era inu-

tile» aveva risposto il domestico; «tanto, dopo pochi chilometri

di viaggio, si impolverano di nuovo!». «Giusto, ma ora va’ a preparare

i cavalli per la partenza». Poco dopo i cavalli scalpitavano

fuori della scuderia e anche Swift era in pieno assetto di viaggio.

«Ma non possiamo partire senza colazione!», osservò il servo. «È

inutile, rispose Swift, tanto, dopo pochi chilometri di viaggio,

avresti fame di nuovo!».


Caro Petrarca, né Voi né io, penso, seguiamo la logica del

servo di Swift. L’anima si sporcherà di nuovo dopo la confessione?

È molto probabile. Tenerla adesso pulita però, non può fare

che bene. Anche perché la confessione non solo toglie la polvere

dei peccati, ma infonde una forza speciale per evitarli e rinsalda

l’amicizia con Dio.

Settembre 1974