LA CONFESSIONE SEICENTO ANNI FA
A Francesco Petrarca
Illustre poeta,
in Italia e fuori viene celebrato quest’anno il sesto centenario
della vostra morte (1374-1974).
Congressi, studi, pubblicazioni mettono in risalto questo o
quell’aspetto della vostra figura, questo o quell’aspetto della vostra
personalità o della immensa vostra opera letteraria.
Morto da tanto tempo, vi rivelate più vivo che mai, evitando
la curiosità e attirando l’attenzione degli uomini d’oggi sul letterato,
sullo psicologo finissimo, sull’uomo politico, sul turista appassionato,
sul cristiano sincero e insieme critico che siete stato
e su cent’altri aspetti.
Qualcuno parlerà anche di Voi, peccatore pentito ma recidivo,
cristiano assetato spesso di santità, ma incapace di fare un
taglio veramente netto dal peccato e di rinunciare a passioni e
passioncelle che vi erano care? Non lo so. Se sì, bisognerà parlare
anche del vostro atteggiamento di fronte alla confessione.
Perché Voi andavate a confessarvi, illustre Petrarca!
Scrivendo da Roma al vostro amico Giovanni Boccaccio, gli
raccontaste la disavventura toccatavi: un maiuscolo calcio di cavallo
sferrato al vostro prezioso ginocchio, con quindici giorni di
dolori acutissimi. «Ma accetto tutto in isconto dei miei peccati
– scriveste – in sostituzione di quella penitenza che il confessore,
troppo buono, non m’ha imposto».
Quale impegno abbiate messo nell’esaminare la vostra anima
fino nelle sue pieghe più riposte, appare dai vostri libri.
Quando scrivete di esservi troppo compiaciuto dell’ingegno,
dell’eloquenza, della cultura acquisita e perfino della prestanza
corporea. Quando vi rimproverate di essere assetato di onori,
comodità, ricchezza e di avere troppo spesso ceduto alla lussuria.
Voi gemete sui legami della passione, che non riuscite a spezzare,
sulla forza della «perversa abitudine», sull’«amarissimo gusto»
delle ricadute.
Scrivendo al fratello monaco, deplorate il vostro «desiderio
di elegantissime vesti», il «timore che un capello vada fuori po-
sto e un lieve vento scomponga la laboriosa acconciatura delle
chiome». Il ferro usato ad acconciare i capelli vi procura sonno
interrotto e dolori più atroci di quelli che infligge «un crudele
pirata», ma non ve la sentite di smettere. E ponete a sant’Agostino
– interlocutore immaginario – dei problemi inquietanti: «Il
cadere è stato mio, ma il giacere, il non rialzarmi non dipende da
me». «Dipende anche da te» risponde Agostino. Voi replicate:
«Ma vedete bene che io piango sulle mie miserie!». E Agostino:
«Non si tratta di piangere, ma di volere!».
Per fortuna, il principio giusto non vi è mai venuto meno:
«Dio può salvarmi», nonostante la mia debolezza. La misericordia
di Dio fuga i timori, risolve molti problemi.
A seicento anni di distanza noi, penitenti di oggi, siamo migliori
o peggiori di Voi? Ecco una questione che mi incuriosisce.
Minore, mi sembra, da parte nostra, la disposizione a riconoscere
le commesse mancanze. Diciamo spesso: «Santa Maria...
prega per noi peccatori», «Padre... rimetti i nostri debiti»,
«Agnello di Dio... abbi pietà di noi», ma molto superficialmente.
In pratica ci giustifichiamo con i pretesti più strani («siamo liberi,
autonomi, maturi»); ci appelliamo alle «esigenze della natura,
dell’istinto, della cultura, della moda».
La Bibbia, nel libro dei Proverbi, presenta così il caso di una
donna adultera: «Mangia e si pulisce la bocca e dice: “Non ho
fatto nulla di male”!». Quella donna, caro Petrarca, è una figura
emblematica: dipinge tale e quale buona parte della nostra cristiana
civiltà permissiva.
Come già a Voi, le lacrime non mancano neppure a noi: è il
volere che difetta. O meglio: arriviamo spesso a disvolere quello
che avevamo voluto col peccato, a disapprovare ciò che s’era
approvato, ma non arriviamo a quello che è più pratico: fuggire
le occasioni. Voi che, perfino nell’ascensione al monte Ventoux,
vi siete portato dietro il libro delle Confessioni di Agostino, avete
presente il caso di Alipio.
Uomo forte, capace di tener testa a senatori potentissimi,
venuto a Roma dall’Africa, aveva concepito «disgusto e odio» per
i combattimenti dei gladiatori, che si uccidevano l’un l’altro per
dare spettacolo al popolo. Alcuni amici gli proposero di assistere,
almeno una volta, al combattimento. Alipio rispose di no, poi
disse: «Vi sarò, ma come un assente e avrò vittoria di voi e dello
spettacolo».
Andò dunque per sfida; messosi difatti a sedere nell’anfiteatro,
chiuse gli occhi per neppur vedere. Purtroppo non chiuse
le orecchie: ad un certo punto un immenso urlo di popolo lo
fece sussultare. Aprì gli occhi per pura curiosità, ma «vedere quel
sangue e imbeversi di crudeltà fu tutt’uno: non solo non distolse
gli occhi dallo spettacolo, ma ve li fissò; respirava furore senza
accorgersene, prendeva gusto a quella lotta, ebbro di sanguinario
piacere. Non era più quello che era venuto: guardò, gridò, si
entusiasmò»; se ne venne via portando seco una febbre, che lo
spinse a tornarci, trascinatore di altri. Si corresse in seguito, ma
solo molto tempo dopo (Confessioni, cap. VIII).
Sulla linea della straordinaria debolezza di Alipio (poi vescovo
e santo) ci troviamo purtroppo un po’ tutti. Per questo, in
ogni confessione, siamo esortati a pregare: «propongo... di fuggire
le occasioni prossime di peccato», ma...
Temo che noi siamo più incompleti di Voi per quanto riguarda
la fiducia in Dio. D’accordo, Dio è il padre del figlio
prodigo; Gesù è il buon pastore, che riporta all’ovile la pecorella
smarrita, che ha perdonato l’adultera, Zaccheo, il buon ladrone.
Fin qua ci arrivano tutti o quasi.
Alcuni però concludono: «Io me la intenderò con Lui direttamente
» e non vi seguono fino al discorso del confessore, che
media tra Dio e il peccatore, in grazia delle parole di Gesù agli
apostoli: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi».
Essi non capiscono che al confessore non tocca solo dichiarare
la remissione dei peccati già avvenuta, ma di fare la remissione
con una sentenza.
E tale sentenza non può essere lasciata al puro capriccio («Tu
mi sei simpatico, ti assolvo!»), ma deve basarsi su elementi certi
e ben vagliati, che solo il penitente può fornire, appunto con la
propria confessione.
Voi avete trovato «troppo buono» il vostro confessore. Ai
nostri tempi, chi si confessa bene cerca confessori buoni, ma non
«troppo buoni».
Augusto Conti, illustre filosofo, ha dedicato un intero capitolo
pieno di affettuosa riconoscenza nel libro Le sveglie dell’anima
ai suoi confessori.
Santa Giovanna di Chantal e altri penitenti si sono dichiarati
contentissimi di san Francesco di Sales, che nella confessione
fu padre e medico abile soprattutto a infondere coraggio.
«La santità – diceva – consiste nel combattere i difetti, ma come
combatterli, se non ci sono? Come vincerli, se non li incontriamo?
Essere feriti qualche volta in questa battaglia non vuol dire
essere vinti. È vinto solo chi perde la vita o il coraggio, è vincitore
chiunque decida di continuare a combattere».
È il tipo di confessore che la gente oggi aspetta: fermo ma
delicato; amante di Dio ma che conosca i problemi degli uomini.
È vero però che oggi, per desiderio della chiesa, l’accento,
più che sull’accusa dei peccati, viene messo sulla conversione
presentata biblicamente come allontanamento dal peccato, ma
più ancora come avvicinamento a Dio e abbraccio amoroso con
lui. «Lasciatevi riconciliare a Dio» diceva san Paolo: oggi lo si
ripete e si auspica che la riconciliazione sia preceduta dalla parola
di Dio stesso letta e meditata. Noi infatti andiamo a Dio, se lui
prima ci chiama e ci parla. Si desidera anche che tale parola, possibilmente,
non ci investa a uno a uno, ma radunati in comunità.
Voi nel Medioevo, caro Petrarca, avete fatto della confessione
una cosa molto personale e segreta. Oggi si pensa con nostalgia
ai tempi antichi, quando, finita la quaresima, il vescovo dava
la mano al primo dei penitenti e questo alla lunga catena di tutti
gli altri, che venivano così introdotti in chiesa per la riconciliazione
solenne.
Non so con quale frequenza siate andato a confessarvi.
Nel vostro Medioevo si usava molta confessione e poca comunione.
Oggi pare succeda l’inverso: anche anime pie si rivelano
un po’ allergiche alla confessione frequente e di devozione.
Esse mi fanno pensare al domestico di Gionata Swift. Questi,
dopo aver pernottato in un’osteria, aveva chiesto, al mattino,
gli stivali e se li era visti portare ancora coperti di polvere. «Come
mai non li avete puliti?» aveva chiesto. «Ho pensato che era inu-
tile» aveva risposto il domestico; «tanto, dopo pochi chilometri
di viaggio, si impolverano di nuovo!». «Giusto, ma ora va’ a preparare
i cavalli per la partenza». Poco dopo i cavalli scalpitavano
fuori della scuderia e anche Swift era in pieno assetto di viaggio.
«Ma non possiamo partire senza colazione!», osservò il servo. «È
inutile, rispose Swift, tanto, dopo pochi chilometri di viaggio,
avresti fame di nuovo!».
Caro Petrarca, né Voi né io, penso, seguiamo la logica del
servo di Swift. L’anima si sporcherà di nuovo dopo la confessione?
È molto probabile. Tenerla adesso pulita però, non può fare
che bene. Anche perché la confessione non solo toglie la polvere
dei peccati, ma infonde una forza speciale per evitarli e rinsalda
l’amicizia con Dio.
Settembre 1974