lunedì 5 febbraio 2018

Peggio della gramigna è il razionalismo


Le parabole di Gesù
(003)
Parabola del seminatore (179.5 - 179.6)

"Udite e forse capirete meglio come possano esservi diversi frutti ad una stessa opera.

Un seminatore andò a seminare. 

I suoi campi erano molti e di diversa razza. 
Ce ne erano alcuni che egli aveva ereditati dal padre, sui quali la sua sbadataggine aveva lasciato proliferare piante spinose. 
Altri erano un suo acquisto: li aveva comperati così come erano da un negligente, e tali li aveva lasciati. 
Altri ancora erano stati intersecati da strade, perchè l'uomo era una grande comodista e non voleva fare molta strada per andare da un luogo all'altro. 
Infine ce ne erano alcuni, i più prossimi alla casa, sui quali egli aveva vegliato per avere un aspetto piacevole davanti alla dimora. 
Questi erano ben mondi di sassaia, di spine, di gramigne e così via.

L'uomo dunque prese il suo sacchetto di grano da seme, il migliore dei grani, e iniziò la semina. Il seme cadde nel buon terreno soffice, arato, mondato, concimato, dei campi prossimi alla casa. Cadde nei campi intersecati da vie e viette che li spezzettavano tutti, portando inoltre bruttura di polvere arida sulla terra fertile. Altro seme cadde sui campi dove l'inettitudine dell'uomo aveva lasciato proliferare le piante spinose. Ora l'aratro le aveva travolte, pareva non ci fossero più, ma c'erano, perchè solo il fuoco, la radicale distruzione della male piante, impedisce il loro rinascere.

L'ultimo seme cadde sui campi comperati da poco e che egli aveva lasciati così come erano, senza dissodarli in profondità e mondarli da tutte le pietre sprofondate nel suolo a fare un pavimento duro sul quale non avevano presa le tenere radici.

E poi, sparso tutto il seme, se ne tornò a casa e disse: "Oh! bene! Ora non c'è che da attendere la raccolta". E si beava perché col passare dei mesi vedeva spuntare fitto il grano nei campi davanti alla casa, e crescere....oh! che soffice tappeto! e spighire.... oh! che mare! e imbiondire e cantare, battendo spiga a spiga, l'osanna del sole.
L'uomo diceva: "Come questi campi, tutti! Prepariamo la falce e i granai. Quanto pane! Quanto oro!" E si beava....

Segò il grano dei campi più vicini e poi passò a quelli ereditati dal padre, ma lasciati inselvatichire. E restò di stucco. Grano e grano era nato, perchè i campi erano buoni e la terra bonificata dal padre era grassa e fertile. Ma la stessa fertilità aveva agito anche sulle piante spinose, travolte ma non sterilite.
Esse erano rinate ed avevano fatto un vero soffitto di ramaglie irte di rovi, attraverso i quali il grano non aveva potuto emergere che con le rare spighe ed era morto soffocato quasi tutto.

L'uomo disse: "Sono stato negligente in questo posto. Ma altrove non erano rovi, e andrà meglio."

E passò ai campi di recente acquisto. Il suo stupore crebbe in pena. Sottili, e ormai dissecate, foglie di grano giacevano come fieno secco sparse per ogni dove. Fieno secco. "Ma come? Ma come?" gemeva l'uomo. "Eppure qui non sono spine! Eppure il grano era lo stesso! Lo si vede dalle foglie ben formate e numerose. Perché allora tutto è morto senza fare spiga?"

E con dolore si dette a scavare il suolo per vedere se trovava nidi di talpe o altri flagelli. Insetti e roditori no, non ce ne erano. Ma quanti, quanti sassi! Una pietraia! I campi erano letteralmente selciati di scaglie di pietra e la poca terra che li copriva era un inganno. Oh! se avesse approfondito l'aratro quando era tempo! Oh! se avesse scavato, prima di accettare quei campi e comperarli per buoni! Oh! se almeno, dopo lo sbaglio fatto di acquistare quando gli veniva proposto senza persuadersi della sua bontà, li avesse resi buoni a fatica di reni! Ma ormai era tardi ed era inutile rammarico.

L'uomo si alzò in piedi avvilito e andò ai campi intersecati di stradette per comodità.... E si strappò le vesti dal dolore. Qui non c'era nulla, assolutamente nulla.... La terra scura del campo era coperta da un leggero strato di polvere bianca.... L'uomo si accasciò al suolo gemendo: "Ma qui perché? Qui non spine e non sassi perché sono campi nostri. L'avo, il padre, io, li abbiamo sempre avuti e in lustri e lustri li abbiamo fatti fertili. Io vi ho aperto le strade, avrò levato del terreno al campo, ma ciò non può averlo fatto sterile così...."

Piangeva ancora quando ebbe la risposta al suo dolore da un fitto sciame d'uccelli che si accanivano dai sentieri sul campo e da questo ai sentieri per cercare, cercare, cercare semi, semi, semi.... Il campo, divenuto una rete di stradette sui bordi delle quali era caduto il grano, aveva attirato molti uccelli, e questi prima avevano mangiato il grano caduto sulla via e poi quello del campo, fino all'ultimo chicco.

Così il seme, uguale per tutti i campi, aveva dato dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta, dove il nulla. 

Chi ha orecchie da intendere intenda. Il seme è la Parola: uguale per tutti. I luoghi dove cade il seme: i vostri cuori. Ognuno applichi e comprenda. La pace sia con voi."

*

SEGUE
Spiegazione
Spiegazione della parabola di Gesù
(003)
Parabola del seminatore (179.5 - 179.6)

Dice la parabola che  una parte del seme cadde sulla via e fu beccata dagli uccelli. 

La seconda parte cadde sulla pietra e mise radiche, ma subito seccò per mancanza di umori. 

La terza cadde fra i rovi e morì soffocata. 

La quarta, caduta in buon terreno, fruttò in maniera diversa.


La Parola di Dio è seme di vita eterna. Ma la Parola è molto insidiata e da molte cose. Lascio queste molte cose e parlo unicamente di una cosa, direi micidiale quanto, forse più, del peccato stesso. E non si scandalizzi nessuno spirito pusillo se dico che è forse più micidiale del peccato. E’ verità.
Il peccatore la cui mente non è corrosa dall’acido del razionalismo, ha novanta probabilità di saper accogliere la Parola e ritrovare la Vita. Il razionalista ha solo dieci probabilità e anche meno, di conservarsi capace di salvezza attraverso la Parola.

Peggio della gramigna è il razionalismo. Quando si vedrà la sua opera, nel momento    in cui tutto della terra e degli uomini sarà cognito, si vedrà che questa eresia è stata la più perniciosa perché la più sottile e la più penetrante. E’ come un gas. Lo assorbite e vi uccide, ma non lo vedete, talora neppure ne sentite l’odore, oppure, esso odore essendo gradevole, viene da voi aspirato con piacere. Ugualmente è il razionalismo. (…)

Il razionalismo  penetra inavvertito anche là dove si crede non possa entrare. Entra per mille forami, come un serpe. Si veste di vesti lecite, anzi ammirevoli e agisce sotto di esse ma contro di esse. E’ un virus. Quando uno se ne accorge lo ha già diffuso nel sangue e difficilmente se ne libera.

La reazione del peccato è violenta sotto il raggio della mia Misericordia. Ma quella del razionalismo è nulla. Come uno specchio ustorio, esso rende la via impraticabile alla grazia e la respinge. Anzi se ne fa un ardore nocivo per finire di darsi la propria condanna.
Il razionalista fa servire le cose di Dio al suo fine. Non se stesso al fine di Dio. Piega, spiega, usa la Parola al lume, povero lume, della sua mente turbata e come un pazzo che non conosce più il valore delle cose e delle parole, dà ad esse significati quali solo possono uscire da uno che l’opera astutissima di Satana ha sterilito.

Vi sono razionalisti e razionalisti. 
Inizierò dai più grandi. 

I “superuomini”. I negatori di Dio. Vogliono spiegare la creazione, il miracolo, la divinità secondo i loro concetti pieni di orgoglio umano. (…)

La seconda categoria sono gli umanamente colti. Questi non negano Dio. Ma sulla semplicità divina, che si è fatta tale perché anche i più umili la possano capire alla luce dell’amore,  mettono tutta una boscaglia di erudizione umana. (…)
Manca ad essi l’amore che è nervo all’ala per volare verso Iddio a che è corda alla cetra per benedire Iddio. La Parola scende su loro  e mette radice. Ma poi muore perché essi la infrondano e soffocano sotto le foglie inutili delle loro cognizioni umane. (…)

Terza categoria, coloro che hanno selciato con le pietre dell’altrui razionalismo il proprio cuore per renderlo meno ignorante. Sono gli adoratori degli idoli umani. Non sanno adorare Dio con tutto loro stessi, ma sanno rimanere estatici davanti ad un povero uomo che si atteggia a superuomo. Chiudono con  la diffidenza la porta al Verbo divino, ma accettano le spiegazioni di un simile a loro che abbia fama di dotto.
Basterebbe che chiedessero umilmente alla Grazia di illuminarli ed istruirli sul valore di quelle note e la Grazia farebbe loro vedere come quelle spiegazioni, quelle dottrine, si reggono su puntelli corrosi alla base da tarli e muffe e come quelle voci sono stonate e dissidenti da quelle di Dio. (…)
Uno è il frutto che vi fa dei, o uomini. Quello che pende dalla mia Croce.
Uno è Colui che dice alla vostre menti: “Effeta”. Il Cristo.
Uno è ciò che feconda il mistico suolo del vostro cuore perché il seme vi nasca. Il mio Sangue.
Uno è il sole che scalda e fa crescere in voi la spiga di vita eterna. L’Amore.
Una è la scienza che come vomere apre e dissoda la vostra gleba e la rende atta a ricevere il seme. La Scienza mia.
Uno è il Maestro: Io, il Cristo. Venite a Me se volete esser istruiti nella Verità

Quarta categoria è quella degli imprudenti. Sono vie aperte dove tutto passa. Non si circondano di una santa difesa di fede e di fedeltà al loro Dio. Accolgono la Parola con molta gioia, si aprono a riceverla, ma si aprono anche a ricevere qualsiasi dottrina con lo specioso pretesto che bisogna essere condiscendenti.
Si. Tanto condiscendenti verso i fratelli. Non sprezzare nessuno. Ma severi per le cose di Dio. Pregare per i fratelli, istruire i fratelli, perdonare i fratelli, difenderli contro loro stessi con un vero amore soprannaturale. Ma non rendersi complici dei loro errori. Rimanere granito contro lo sgretolamento delle dottrine umane. Nulla passa senza lasciare una traccia. Ed è imprudenza grande porre una punta contro il cuore. Potrebbe levarvi la vita o segnarvi ferite che a fatica guariscono e sempre lasciano una cicatrice.

Beati quelli che sono unicamente terreno di Dio e tali restano con vigilanza assidua. 
Beati quelli che, morbidi come zolla testé smossa, non hanno pietre per i fratelli né sassi per la Parola. 
L’amore li fa anime adoranti la Parola e anime pietose verso gli sviati lungi dalla Parola.
Ma l’amore è la loro più bella difesa e nessuna opera di male può ledere il loro spirito in cui cresce come spiga opulenta la Parola della Vita. 
Tanto più vi cresce, dando frutto dove di  trenta, dove di cinquanta, dove di cento, quanto più in essi l’amore è vasto. 

A chi lo possiede in modo assoluto, la Parola diviene loro stessa parola, poiché essi più non sono, ma sono uni con Dio loro amore.10.11.43

AMDG et DVM


Ritratto di un papa tedesco. Un rivuluzionario






50 minuti per raccontare la fatica di essere Ratzinger
La Famiglia la Tradizione e la Fede

AMDG et DVM

domenica 4 febbraio 2018

UN VERO GAUDIO

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Il più santo e il più amato dai giovani
il più ispirato e combattivo tra i Santi
vero figlio prediletto della Madre di Dio e nostra Maria Santissima 
Nostra Signora di Guadalupe


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Era il 29 di giugno del 1985


MESSA NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Sabato, 29 giugno 1985

“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16).

1. Queste parole pronunziate nei pressi di Cesarea di Filippo, questa confessione della verità su Gesù di Nazaret, che per un figlio dell’antica alleanza non era facile da pronunziare, segnano il momento della nascita di Pietro!
Possiamo dire che egli è nato in questa confessione.
Prima era conosciuto come figlio di Giona, come Simone. Era pescatore, come suo fratello Andrea; era stato Andrea a condurlo da Gesù sulle sponde del lago di Genesaret. Già allora Gesù disse: “Ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)” (Gv 1, 42), ma questo fu soltanto un preannunzio.
Pietro - Cefa - pietra - roccia.
Nel momento in cui Simone figlio di Giona confessa che Cristo - il Messia - è il figlio di Dio, quel preannunzio diventa realtà. E Cristo dice a Simone: “Tu sei Pietro” - roccia.
Così dunque la confessione fatta nei pressi di Cesarea di Filippo è, in realtà, il momento della nascita di Pietro.
È nato mediante la fede nella figliolanza divina di Cristo. In questa fede si è rivelato il Padre, il Dio dell’alleanza come Padre. E Dio-Padre ha rivelato a Simone il suo figlio: “Né la carne, né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli!” (Mt 16, 17).

2. Questa nuova nascita di Simone, figlio di Giona - la nascita di Pietro - permette a Cristo di concretizzare la prospettiva del regno di Dio, che egli ha proclamato sin dall’inizio della sua missione messianica in Israele.
Cristo dice: “Edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16, 18).
Nell’annunzio di Cristo, la Chiesa viene legata a Pietro, e Pietro viene inserito nella Chiesa come roccia, cioè Cefa. In questo modo si spiega il mistero del nome, che Gesù di Nazaret ha proclamato a Simone già durante il primo incontro.
“Io ti dico: tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la mia Chiesa”.
Le parole sono chiare e univoche. Colui che costruisce la Chiesa è Cristo stesso. Pietro deve essere una particolare “materia”, un elemento particolare della costruzione. Deve esserlo mediante la fedeltà alla sua professione fatta presso Cesarea di Filippo, in forza delle parole: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.

3. La nascita di Pietro nei pressi di Cesarea di Filippo ha, come si vede, un duplice carattere: cristologico ed ecclesiologico. Pietro nasce dalla fede nella divinità, nella figliolanza divina di Cristo. Nasce insieme nella Chiesa e per la Chiesa. Nasce per un particolare servizio, al quale corrisponde un particolare carisma. Il servizio di Pietro e il carisma di Pietro.
Cristo dice: “A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terrà sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16, 19).
La Chiesa ha il suo inizio in Dio: nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Nella santissima Trinità essa ha anche il suo destino definitivo.
La vocazione e missione della Chiesa si compiranno in modo definitivo nel regno di Dio. Sulla strada verso questo regno la Chiesa deve “legare e sciogliere”, deve quindi tenere “le chiavi del regno”, e Pietro è il primo depositario di questo potere, che è un servizio (di questo servizio che è un potere).

4. Oggi la Chiesa romana, i cui inizi sono collegati al servizio di Pietro-apostolo, ricorda con affettuosa venerazione il martirio della sua “roccia”. Dal giorno della morte di Pietro guarda - mediante le letture liturgiche - verso la sua nascita. E cerca di ricordare anche le principali tappe della via, che da Cesarea di Filippo lo condusse proprio a Roma.
In particolare ricorda il periodo gerosolimitano, quando il Signore strappò miracolosamente Pietro “dalla mano di Erode” (At 12, 11).
È noto che dopo aver lasciato Gerusalemme e prima di venire a Roma, San Pietro dette altresì inizio alla Chiesa di Antiochia.
In tutte queste tappe sono rimaste determinanti le parole di Cristo, mediante le quali Simone, figlio di Giona, nacque come Pietro. Parole riconfermate dopo la risurrezione, quando Cristo stabilì Pietro nell’amore e gli affidò il servizio pastorale: “Pasci i miei agnelli . . . pasci le mie pecorelle” (Gv 21, 15-17).
E allora gli predisse “con quale morte egli avrebbe glorificato Dio” (Gv 21, 19).

5. Oggi la Chiesa romana ricorda proprio il giorno di questa morte beata, da martire. Essa ha unito al termine della via i due apostoli: Pietro e Paolo. Sant’Agostino ne parla così nell’odierna liturgia delle ore: “Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli.
Amiamone la fede, la vita, le fatiche, le sofferenze, le testimonianze e la predicazione” (S. Agostino, Sermo 295PL 38,1352).

6. La Chiesa romana unisce ambedue gli apostoli nel comune ricordo della loro morte di martiri.
La liturgia dedica un altro giorno al ricordo della nascita di Paolo. È il 25 gennaio, che celebra la sua miracolosa conversione davanti alle porte di Damasco. Colui che si è convertito, era prima un nemico mortale del nome di Cristo e persecutore dei cristiani. E il suo nome era Saulo. Saulo di Tarso.
Sulla strada verso Damasco la potenza di Dio lo fece cadere a terra. E Cristo gli domandò: “Perché mi perseguiti?” (At 9, 4).
A Simone, Gesù rivolse la domanda: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” (Mt 16, 13).
E a Paolo: “Perché mi perseguiti?”.
E come dalla risposta di Simone è nato Pietro, così dalla risposta a Cristo, data da Saulo vicino a Damasco, è nato Paolo. L’apostolo Paolo, che ha detto di essere “infimo” perché ricordava di aver perseguitato, una volta, “la Chiesa di Dio” (1 Cor 15, 9), è nato dalla fede in Gesù risorto, la cui potenza ha sperimentato davanti alle mura di Damasco. E l’ha sperimentata poi su tutte le vie della sua missione apostolica.
E anche nella nascita spirituale di Paolo, Cristo ha inscritto il mistero della propria Chiesa. Già da allora, quando gli domandò: “Perché mi perseguiti?”, egli parla della Chiesa.
Saulo infatti perseguitava la Chiesa. Quindi, già da quella volta, Paolo poté vedere con gli occhi della fede Cristo nella Chiesa e la Chiesa in Cristo. La Chiesa, corpo di Cristo.

7. Oggi, nel giorno in cui si rende omaggio alla morte beata di ambedue gli apostoli a Roma, ambedue sembrano parlare a noi che siamo la Chiesa: “Celebrate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome” (Sal 34, 4).
E contemporaneamente la Chiesa risponde ai due apostoli con lo stesso versetto del salmo: “Celebrate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Lo fa in particolare la Chiesa romana: “O Roma felix, quae tantorum principum / es purpurata pretioso sanguine, / non laude tua, sed ipsorum meritis / excedis omnem mundi pulchritudinem” (“Primi Vespri”).

8. La Chiesa di Roma ha la gioia di salutare la delegazione ortodossa presieduta dal metropolita Chrysostomos di Mira, che il patriarca ecumenico Dimitrios I ha inviato a Roma per questa festa dei santi Pietro e Paolo.
È per noi cara la presenza di tale delegazione, nel giorno solenne dedicato a Simone, figlio di Giona. Pietro infatti fu chiamato per mezzo del fratello Andrea, il quale è venerato, in modo particolare, dalla Chiesa di Costantinopoli, di cui è patrono. Ringraziamo pertanto i rappresentanti di questa Chiesa che si sono uniti alla nostra celebrazione.
Il dialogo aperto tra le nostre Chiese sulla comune fede apostolica ci condurrà alla piena unità e, finalmente, a poter celebrare insieme l’Eucaristia del Signore. A questo scopo invito tutti a pregare sempre e particolarmente quest’oggi.

9. La Chiesa romana gioisce anche della presenza dei nuovi metropoliti che riceveranno il pallio qui presso la tomba di San Pietro. Sono undici metropoliti, provenienti da varie parti del mondo.
Come sappiamo, il pallio è simbolo di una speciale comunione con la Sede di Pietro. Esso è titolo d’onore ma anche richiamo a una più alta responsabilità, a un più generoso spirito di servizio e di sacrificio nella fedeltà e nella comunione col vicario di Cristo per l’unità, la santificazione e la crescita del corpo mistico e la salvezza del mondo. L’augurio che vi rivolgo, allora, cari confratelli, è che il vostro amore a Cristo e alla Chiesa non venga mai meno, e siate pronti, per questo amore, ad affrontare ogni prova, partecipando del coraggio apostolico dei santi che oggi festeggiamo.

10. Così, dunque, venerabili fratelli nell’Episcopato, e anche voi, cari fratelli e sorelle del popolo di Dio! Rallegriamoci nella solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo.
Mediante la loro vocazione e il servizio ai misteri di Cristo, Figlio di Dio, tale solennità è stata inscritta, una volta per sempre, nella storia del regno di Dio sulla terra. E i due apostoli, nascendo da questo mistero, hanno costruito la Chiesa nelle sue fondamenta.
Beato te, Simone figlio di Giona!
Beato te, Paolo di Tarso!
“Per crucem alter, alter ense triumphans / vitae senatum laureati possident” (“Inno dei primi Vespri”).
La Chiesa romana celebra con grande gratitudine il giorno della vostra nascita al regno dei cieli: per l’eternità in Dio. Amen.

© Copyright 1985 - Libreria Editrice Vaticana


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Histórica presentación del legendario director austriaco Herbert von Karajan junto a la Orquesta Filarmónica de Vienna, la Wiener Singverein, Kathleen Battle, Trudeliese Schmidt, Ferruccio Furlanetto y Gosta Winbergh interpretando la Misa de Coronación de Wolfgang Amadeus Mozart durante la Santa Misa celebrada por S.S. Juan Pablo II en la Basílica de San Pedro de la Ciudad del Vaticano, el 29 de Junio de 1985.
Historical presentation of the legendary austrian conductor Herbert von Karajan with the Vienna Philharmonic Orchestra, the Vienna Singverein, Kathleen Battle, Trudeliese Schmidt, Ferruccio Furlanetto and Gosta Winbergh interpreting the Coronation Mass by Wolfgang Amadeus Mozart during the High Mass celebrated by H.H. Pope John Paul II in St. Peter's Basilica at Vatican City on June 29, 1985.
03:32 Kyrie 07:02 Gloria 16:16 Credo 29:36 Sanctus 31:45 Benedictus 40:36 Agnus Dei (C) ALL their respective owners. There's a very-little-tiny personal work here (JUST making color and sound better).

UNA LINGUA SACRA APPARTIENE AL LINGUAGGIO SIMBOLICO... AIUTA A PERCEPIRE IL SENSO DEL MISTERO DI DIO

L’attualità immortale del latino di Ilaria Pisa

latino
Abbiamo avuto il privilegio di intervistare don Roberto Spataro sdb, sacerdote e docente presso la Università Pontificia Salesiana, esperto di Patristica, di didattica delle lingue classiche e di Teologia dogmatica e Segretario del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis.
A novembre 2012, don Spataro è stato nominato primo Segretario della Pontificia Academia Latinitatis, in accordo con Latina Lingua, la Lettera Apostolica emanata da Benedetto XVI in forma di Motu Proprio a tutela della dignità, dell’impiego e dello studio del Latino, in particolare all’interno delle istituzioni formative cattoliche.
Oggi si usa qualificare il Latino come “lingua morta”. Sappiamo che Lei non concorda affatto con tale definizione. Perché?
Io preferisco affermare che il latino è una lingua immortale. Mi permetta di citare, a tal proposito, le parole del professor Luigi Miraglia, uno dei migliori latinisti contemporanei: “Il latino, morendo, è diventato immortale. Esso, non soggetto più alla trasformazione delle lingue vive, ma fisso nelle sue forme e incrementato quasi solo nel lessico, ha vinto la maledizione di Babele non con un miracolo pentecostale, ma creando per il mondo occidentale un mezzo di comunicazione che superasse insieme le barriere dello spazio e quelle del tempo”. Con la conoscenza del latino, possiamo entrare in dialogo, per fare solo alcuni nomi, con Cicerone, Seneca, Agostino, Tommaso d’Aquino, Erasmo da Rotterdam, Spinoza, e riflettere sui pensieri nobili ed alti che essi alimentano.
Tra la Chiesa cattolica e la lingua latina sembra esserci “da sempre” un rapporto privilegiato. È vero? Per quali motivi?
I Sommi Pontefici, da sempre grandi promotori dell’uso vivo della lingua latina, hanno indicato sostanzialmente tre motivi. Primo: la Chiesa Cattolica, in quanto istituzione universale, non può usare un idioma appartenente ad un bacino linguistico-culturale specifico, ma ha bisogno di una lingua sovranazionale. Ed il latino ha svolto sempre ed ottimamente questa funzione. In secondo luogo, certe caratteristiche della lingua latina, come la sua sobrietà e la sua chiarezza logica, la rendono particolarmente appropriata per esprimere l’insegnamento ufficiale della Chiesa in materia dogmatica, liturgica e giuridica. Infine, la Chiesa vive di Tradizione, raccoglie un patrimonio di fede e lo riconsegna di generazione in generazione: una parte cospicua di questo patrimonio è stato espresso in lingua latina.
I grandi maestri della teologia cattolica hanno composto in Latino le loro opere. Ma per un teologo nostro contemporaneo, sapere il Latino è davvero necessario?
La teologia elabora razionalmente i dati di fede che vengono dalle fonti. Gran parte di queste fonti sono in lingua latina, per esempio le opere dei grandi dottori del Medioevo, i pronunciamenti del Magistero. le editiones typicae dei libri liturgici, e in lingua greca, come le opere dei Padri greci. Un professionista della teologia non può perciò affidarsi a quelle “mediazioni culturali” che sono le traduzioni. Insomma, per un teologo latino e greco sono “ferri del mestiere”. Inoltre, la conoscenza e l’uso della lingua latina abilitano ad un rigore concettuale e ad una sobrietà lessicale di cui – a mio avviso – molta produzione teologica contemporanea difetta.
L’impiego del Latino liturgico viene sovente criticato in quanto “allontanerebbe” il fedele dal Mistero, menomandone la comprensione. Come confutare questa e simili critiche?
Penso che sia proprio il contrario: una lingua “sacra”, diversa da quella profana e quotidiana, aiuta a percepire il senso del Mistero di Dio in modo più adeguato. Inoltre, credo che ci sia un equivoco: il Mistero di Dio rimane sempre oltre la capacità di una completa comprensione razionale e, dunque, di essere comunicato in modo del tutto intellegibile, anche se si usa una lingua vernacolare. La comprensione delle “cose di Dio” è affidata non solo alla ragione ma anche al “cuore” che si nutre di simboli. Ed una lingua “sacra” appartiene al linguaggio simbolico, quello più appropriato alla liturgia. Del resto, fino alla Riforma liturgica postconciliare, generazioni e generazioni di santi hanno partecipato fruttuosamente alla liturgia anche se non “capivano” tutto quello che si diceva. In realtà, capivano molto bene che nella Liturgia avviene qualcosa di bello e grande: la presenza e l’azione di Dio.
AMDG et DVM

Attenzione a inganni e veleni, con buona pace delle donne innocenti


La lussuria 


La temperanza genera l'assennatezza, mentre la gola È madre della sfrenatezza; l'olio alimenta il lume della lucerna e la frequentazione delle donne attizza la fiaccola del piacere. 

La violenza dei flutti infuria contro il mercantile mal zavorrato come il pensiero della lussuria sulla mente intemperante. 

La lussuria accoglierà come alleata la sazietà, la congederà, starà con gli avversari e combatterà alla fine con i nemici. 

Rimane invulnerabile alle frecce nemiche colui che ama la tranquillità, chi invece si mescola alla folla riceve in continuazione percosse. 

Vedere una femmina È come un dardo velenoso, ferisce l'anima, vi intrude il tossico e quanto più perdura , tanto più alligna la sepsi [ La Sepsi o la setticemia è una malattia pericolosa che può accadere quando il corpo intero reagisce ad un'infezione]

Chi intende difendersi da queste frecce sta lontano dalle affollate riunioni pubbliche e non gironzola a bocca aperta nei giorni di festa; È infatti assai meglio starsene a casa passando il tempo a pregare piuttosto che compiere l'opera del nemico credendo di onorare le feste. 

Evita la dimestichezza con le donne se desideri essere saggio e non dar loro la libertà di parlare e neppure fiducia. Infatti all'inizio hanno o simulano una certa cautela, ma in seguito osano di tutto spudoratamente: al primo abboccamento tengono gli occhi bassi, pigolano dolcemente, piangono commosse, l'atteggiamento È grave, sospirano con amarezza, pongono domande sulla castità e ascoltano attentamente; le vedi una seconda volta e alzano un poco il capo; la terza volta si avvicinano senza troppo pudore; hai sorriso e quelle si sono messe a ridere sguaiatamente; in seguito si fanno belle e ti si mostrano con ostentazione, cambia il loro sguardo annunciando l'ardenza, sollevano le sopracciglia e ruotano gli occhi, denudano il collo e abbandonano l'intero corpo al languore, pronunciano frasi ammollite nella passione e ti sfoggiano una voce fascinosa ad udirsi finché non espugnano completamente l'anima. 

Accade che questi ami ti adeschino alla morte e queste reti intrecciate ti trascinino alla perdizione; e dunque non farti neppure ingannare da quelle che si servono di discorsi ammodo: in costoro infatti si occulta il maligno veleno dei serpenti. 

(Evagrio Pontico - Antirrhetikos - GLI OTTO SPIRITI MALVAGI) 


AMDG et DVM