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giovedì 11 maggio 2023

La Lingua propria della Santa Chiesa

=  X P = CRISTUS


 "UNA VOCE"

di Cristina Campo

 

Esistono ormai in vari paesi associazioni così chiamate, "Una voce", il cui scopo è di salvare la liturgia tradizionale, latina e gregoriana. Esse sono nate non perché sia stata imposta una liturgia volgare ma perché è stata tolta nei luoghi dove era capita e amata quella tradizionale. Perché tanta instancabile insistenza? Perché, se le Costituzioni conciliari non lo esigono, anzi, espressamente prescrivono il mantenimento delle tradizioni?

 

Il latino

È ben difficile condividere l'atteggiamento di chi procede a una abolizione di celebri cori (come la "Paulist" di Chicago) e quindi a un'opera di smantellamento di istituzioni liturgico-musicali che forse non si potranno ricostituire mai. È, né più né meno, come se si cominciasse ad alterare le cattedrali, da Chartres a Compostella, per "rammodernarle", anzi, come se addirittura si demolissero, con la scusa che i fedeli per lo più non sono in grado di valutare il significato delle statue ed i pregi architettonici.

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Forse che il fedele comune "capisce" i quadri celebri?

Dopo la costituzione dell'associazione "Una voce" in Francia (con sede in rue de Grenelle 109, Parigi VII) altre se ne sono aggiunte: la "Latin Mass Society" in Inghilterra, la "Una voce Bewegung" in Germania, una branca scozzese, una svizzera, una austriaca, una belga ed ora una italiana.

È uscita in Francia presso le edizioni Spes un'opera di Bernadette Lécureux, Le latin langue d'Église, dove sono esposti i princìpi ai quali questi vari movimenti si ispirano. Essa porta come epigrafi:

"Il latino, per diritto e merito acquisiti, dev'essere chiamato ed è la lingua propria della Chiesa" (san Pio X, Vehementer sane, 1° luglio 1908).

"Sarebbe superfluo rammentare ancora una volta che la Chiesa ha dei gravi motivi di mantenere fermamente nel rito latino l'obbligo incondizionato per il celebrante di usare la lingua latina" (Pio XII, allocuzione del 22 settembre 1956).

"Abbiamo deciso di prendere le misure opportune affinché l'uso antico e ininterrotto del latino sia mantenuto pienamente e ristabilito dove sia caduto in desuetudine" (Giovanni XXIII, Costituzione Veterum sapientia, 22 febbraio 1962).

Ci vengono anche alla mente le parole del regnante Pontefice. "... Desiderosi come siamo di avere sempre nella nobile e santa Famiglia benedettina la custode fedele e gelosa dei tesori della tradizione cattolica, e soprattutto la scuola e l'esempio della preghiera liturgica... nelle sue forme più pure, nel suo canto sacro e genuino, e per il nostro ufficio divino nella sua lingua tradizionale, il nobile latino" (SS. Papa Paolo VI nell'occasione della consacrazione della chiesa dell'Archicenobio di Montecassino, 24 ottobre 1964).

Chi voglia rileggersi "L'Osservatore Romano" del marzo 1962 potrà vedere come Giovanni XXIII facesse proprie le parole di Pio XI : "La Chiesa che raggruppa

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nel suo seno tutti i popoli e che è chiamata a durare fino alla fine dei secoli e che esclude dal proprio reggimento ogni demagogia, esige per sua natura una lingua che sia universale, immutevole e non volgare".

La Costituzione conciliare ribadisce che l'uso del latino è la norma.

http://www.unavoce-ve.it/12-02-51.htm

AMDG et DVM

domenica 4 febbraio 2018

UNA LINGUA SACRA APPARTIENE AL LINGUAGGIO SIMBOLICO... AIUTA A PERCEPIRE IL SENSO DEL MISTERO DI DIO

L’attualità immortale del latino di Ilaria Pisa

latino
Abbiamo avuto il privilegio di intervistare don Roberto Spataro sdb, sacerdote e docente presso la Università Pontificia Salesiana, esperto di Patristica, di didattica delle lingue classiche e di Teologia dogmatica e Segretario del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis.
A novembre 2012, don Spataro è stato nominato primo Segretario della Pontificia Academia Latinitatis, in accordo con Latina Lingua, la Lettera Apostolica emanata da Benedetto XVI in forma di Motu Proprio a tutela della dignità, dell’impiego e dello studio del Latino, in particolare all’interno delle istituzioni formative cattoliche.
Oggi si usa qualificare il Latino come “lingua morta”. Sappiamo che Lei non concorda affatto con tale definizione. Perché?
Io preferisco affermare che il latino è una lingua immortale. Mi permetta di citare, a tal proposito, le parole del professor Luigi Miraglia, uno dei migliori latinisti contemporanei: “Il latino, morendo, è diventato immortale. Esso, non soggetto più alla trasformazione delle lingue vive, ma fisso nelle sue forme e incrementato quasi solo nel lessico, ha vinto la maledizione di Babele non con un miracolo pentecostale, ma creando per il mondo occidentale un mezzo di comunicazione che superasse insieme le barriere dello spazio e quelle del tempo”. Con la conoscenza del latino, possiamo entrare in dialogo, per fare solo alcuni nomi, con Cicerone, Seneca, Agostino, Tommaso d’Aquino, Erasmo da Rotterdam, Spinoza, e riflettere sui pensieri nobili ed alti che essi alimentano.
Tra la Chiesa cattolica e la lingua latina sembra esserci “da sempre” un rapporto privilegiato. È vero? Per quali motivi?
I Sommi Pontefici, da sempre grandi promotori dell’uso vivo della lingua latina, hanno indicato sostanzialmente tre motivi. Primo: la Chiesa Cattolica, in quanto istituzione universale, non può usare un idioma appartenente ad un bacino linguistico-culturale specifico, ma ha bisogno di una lingua sovranazionale. Ed il latino ha svolto sempre ed ottimamente questa funzione. In secondo luogo, certe caratteristiche della lingua latina, come la sua sobrietà e la sua chiarezza logica, la rendono particolarmente appropriata per esprimere l’insegnamento ufficiale della Chiesa in materia dogmatica, liturgica e giuridica. Infine, la Chiesa vive di Tradizione, raccoglie un patrimonio di fede e lo riconsegna di generazione in generazione: una parte cospicua di questo patrimonio è stato espresso in lingua latina.
I grandi maestri della teologia cattolica hanno composto in Latino le loro opere. Ma per un teologo nostro contemporaneo, sapere il Latino è davvero necessario?
La teologia elabora razionalmente i dati di fede che vengono dalle fonti. Gran parte di queste fonti sono in lingua latina, per esempio le opere dei grandi dottori del Medioevo, i pronunciamenti del Magistero. le editiones typicae dei libri liturgici, e in lingua greca, come le opere dei Padri greci. Un professionista della teologia non può perciò affidarsi a quelle “mediazioni culturali” che sono le traduzioni. Insomma, per un teologo latino e greco sono “ferri del mestiere”. Inoltre, la conoscenza e l’uso della lingua latina abilitano ad un rigore concettuale e ad una sobrietà lessicale di cui – a mio avviso – molta produzione teologica contemporanea difetta.
L’impiego del Latino liturgico viene sovente criticato in quanto “allontanerebbe” il fedele dal Mistero, menomandone la comprensione. Come confutare questa e simili critiche?
Penso che sia proprio il contrario: una lingua “sacra”, diversa da quella profana e quotidiana, aiuta a percepire il senso del Mistero di Dio in modo più adeguato. Inoltre, credo che ci sia un equivoco: il Mistero di Dio rimane sempre oltre la capacità di una completa comprensione razionale e, dunque, di essere comunicato in modo del tutto intellegibile, anche se si usa una lingua vernacolare. La comprensione delle “cose di Dio” è affidata non solo alla ragione ma anche al “cuore” che si nutre di simboli. Ed una lingua “sacra” appartiene al linguaggio simbolico, quello più appropriato alla liturgia. Del resto, fino alla Riforma liturgica postconciliare, generazioni e generazioni di santi hanno partecipato fruttuosamente alla liturgia anche se non “capivano” tutto quello che si diceva. In realtà, capivano molto bene che nella Liturgia avviene qualcosa di bello e grande: la presenza e l’azione di Dio.
AMDG et DVM