martedì 18 agosto 2015

Esame critico del « Novus Ordo Missæ »

MOLTI NON CONOSCONO AFFATTO QUESTO DOCUMENTO INTERESSANTISSIMO. LO RIPUBBLICHIAMO.

*

Breve esame critico del « Novus Ordo Missæ » Presentato al Pontefice Paolo VI dai Cardinali Ottaviani e Bacci


Lettera di presentazione a Paolo VI

Beatissimo Padre,
esaminato e fatto esaminare il Novus Ordo preparato dagli esperti del Consilium ad exquendam Constitutionem de Sacra Liturgia, dopo una lunga riflessione e preghiera sentiamo il dovere, dinanzi a Dio ed alla Santità Vostra, di esprimere le considerazioni seguenti:
  1. Come dimostra sufficientemente il pur breve esame critico allegato - opera di uno scelto gruppo di teologi, liturgisti e pastori d’anime - il Novus Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero.
  2. Le ragioni pastorali addotte a sostegno di tale gravissima frattura - anche se di fronte alle ragioni dottrinali avessero diritto di sussistere - non appaiono sufficienti. Quanto di nuovo appare nel Novus Ordo Missæ e, per contro, quanto di perenne vi trova soltanto un posto minore o diverso, se pure ancora ve lo trova, potrebbe dar forza di certezza al dubbio - già serpeggiante purtroppo in numerosi ambienti - che verità sempre credute dal popolo cristiano possano mutarsi o tacersi senza infedeltà al sacro deposito dottrinale cui la fede cattolica è vincolata in eterno. Le recenti riforme hanno dimostrato a sufficienza che nuovi mutamenti nella liturgia non porterebbero se non al totale disorientamento dei fedeli che già danno segni di insofferenza e di inequivocabile diminuzione di fede. Nella parte migliore del Clero ciò si concreta in una torturante crisi di coscienza di cui abbiamo innumerevoli e quotidiane testimonianze.
  3. Siamo certi che questa considerazioni, che possono giungere soltanto dalla viva voce dei pastori e del gregge, non potranno non trovare un’eco nel cuore paterno di Vostra Santità, sempre così profondamente sollecito dei bisogni spirituali dei figli della Chiesa. Sempre i sudditi, al cui bene è intesa una legge, laddove questa si dimostri viceversa nociva, hanno avuto, più che il diritto, il dovere di chiedere con filiale fiducia al legislatore l’abrogazione della legge stessa.
Supplichiamo perciò istantemente la Santità Vostra di non volerci togliere - in un momento di così dolorose lacerazioni e di sempre maggiori pericoli per la purezza della Fede e l’unità della Chiesa, che trovano eco quotidiana e dolente nella voce del Padre comune - la possibilità di continuare a ricorrere alla integrità feconda di quel Missale Romanum di San Pio V dalla Santità Vostra così altamente lodato e dall’intero mondo cattolico così profondamente venerato ed amato.

A. Card. Ottaviani
A. Card. Bacci
Corpus Domini 1969

BREVE ESAME CRITICO DEL «NOVUS ORDO MISSÆ»

I

Nell'ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a Roma, fu chiesto un giudizio sulla celebrazione sperimentale di una cosiddetta «messa normativa», ideata dal Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia. 

Tale messa suscitò le piú gravi perplessità tra i presenti al Sinodo, con una forte opposizione (43 non placet), moltissime e sostanziali riserve (62 juxta modum) e 4 astensioni, su 187 votanti. La stampa internazionale di informazione parlò di «rifiuto», da parte del Sinodo, della messa proposta. Quella di tendenze innovatrici ne tacque. E un noto periodico, destinato ai Vescovi ed espressione del loro insegnamento, cosí sintetizzò il nuovo rito:
«[vi] si vuol fare tabula rasa di tutta la teologia della Messa. In sostanza ci si avvicina alla teologia protestante che ha distrutto il sacrificio della Messa».
Nel Novus Ordo Missæ, testé promulgato dalla Costituzione Apostolica Missale romanum, ritroviamo purtroppo, identica nella sua sostanza, la stessa «messa normativa». Né sembra che le Conferenze Episcopali, almeno in quanto tali, siano mai state nel frattempo interpellate al riguardo.
Nella Costituzione Apostolica si afferma che l'antico messale, promulgato da S. Pio V il 19 luglio 1570 ma risalente in gran parte a Gregorio Magno e ad ancor più remota antichità (1) fu per quattro secoli la norma della celebrazione del Sacrificio per i sacerdoti di rito latino, e, portato in ogni terra, «innumeri præterea sanctissimi viri animorum suorum erga Deum pietatem, haustis ex eo... copiosus aluerunt». E tuttavia questa riforma, che lo pone definitivamente fuori uso, si sarebbe resa necessaria «ex quo tempore latius in christiana plebe increbescere et invalescere cœpit sacræ fovendæ liturgiæ studium».
Ci sembra evidente, in questa affermazione, un grave equivoco. Perché il desiderio del popolo, se fu espresso, lo fu quando - soprattutto per merito del grande S. Pio X - esso cominciò a scoprire gli autentici ed eterni tesori della sua liturgia. Il popolo non chiese assolutamente mai, onde meglio comprenderla, una liturgia mutata o mutilata. Chiese di meglio comprendere una liturgia immutabile e che mai avrebbe voluto si mutasse.

Il Messale Romano di San Pio V era religiosamente venerato e carissimo al cuore dei cattolici, sacerdoti e laici. Non si vede in che cosa l'uso di esso, con l'opportuna catechesi, potesse impedire una più piena partecipazione e una maggiore conoscenza della sacra liturgia e perché, con tanti eccelsi pregi che gli sono riconosciuti, non lo si sia stimato degno di continuare a nutrire la pietà liturgica del popolo cristiano.

Sostanzialmente rifiutata dal Sinodo Episcopale, quella stessa «messa normativa» oggi si ripresenta e si impone come Novus Ordo Missæ; il quale non è stato mai sottoposto al giudizio collegiale delle Conferenze; né è stata mai voluta dal popolo (e men che meno nelle missioni) una qualsiasi riforma della Santa Messa. Non si riesce dunque a comprendere i motivi della nuova legislazione, che sovverte una tradizione immutata nella Chiesa dal IV-V secolo, come la stessa Costituzione Missale Romanum riconosce. Non sussistendo dunque i motivi per appoggiare questa riforma, la riforma stessa appare priva di un fondamento razionale, che, giustificandola, la renda accettabile al popolo cattolico.

Il Concilio aveva espresso bensí, con il par. 50 della Costituzione Sacrosanctum Concilium, il desiderio che le varie parti della Messa fossero riordinate, «ut singularum partium propria ratio necnon mutua connexio clarius pateant». Vedremo subito come l'Ordo testé promulgato risponda a questi auspici, dei quali possiamo dire non resti, nel risultato, neppure la memoria.
Un esame particolareggiato del Novus Ordo rivela mutamenti di portata tale da giustificare per esso lo stesso giudizio dato per la «messa normativa». Quello, come questa, è tale da contentare, in molti punti, i protestanti più modernisti.

II

Cominciamo dalla definizione di Messa che si presenta al par. 7, vale a dire in apertura al secondo capitolo del Novus Ordo: «De structura Missæ».
«Cena dominica sive Missa est sacra synaxis seu congregatio populi Dei in unum convenientis, sacerdote præside, ad memoriale Domini celebrandum(2). Quare de sanctæ ecclesiæ locali congregatione eminenter valet promissio Christi “Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum” (Mt. 18, 20)».
La definizione di Messa è dunque limitata a quella di «cena», il che è poi continuamente ripetuto (n. 8, 48, 55d, 56); tale «cena» è inoltre caratterizzata dalla assemblea, presieduta dal sacerdote, e dal compiersi il memoriale del Signore, ricordando quel che Egli fece il Giovedì Santo.
Tutto ciò non implica: né la Presenza Reale, né la realtà del Sacrificio, né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né il valore intrinseco del Sacrificio eucaristico indipendentemente dalla presenza dell'assemblea (3). Non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici essenziali della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera definizione. Qui l'omissione volontaria equivale al loro «superamento», quindi, almeno in pratica, alla loro negazione (4).
Nella seconda parte dello stesso paragrafo si afferma - aggravando il già gravissimo equivoco - che vale «eminenter» per questa assemblea la promessa del Cristo: «Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum» (Mt. 18, 20). Tale promessa, che riguarda soltanto la presenza spirituale del Cristo con la sua grazia, viene posta sullo stesso piano qualitativo, salvo la maggiore intensità, di quello sostanziale e fisico della presenza sacramentale eucaristica.
Segue immediatamente (n. 8) una suddivisione della Messa in liturgia della parola e liturgia eucaristica, con l'affermazione che nella Messa è preparata la mensa della parola di Dio come del Corpo di Cristo, affinché i fedeli «instituantur et reficiantur»: assimilazione paritetica del tutto illegittima delle due parti della liturgia, quasi tra due segni di eguale valore simbolico, sulla quale torneremo piú tardi.

Di denominazioni della Messa ve ne sono innumerevoli: tutte accettabili relativamente, tutte da respingere se usate, come lo sono, separatamente e in assoluto. Ne citiamo alcune: Actio Christi et populi Dei, Cena dominica sive Missa, Convivium Paschale, Communis participatio mensæ Domini, Memoriale Domini, Precatio Eucharistica, Liturgia verbi et liturgia eucharistica, ecc.
Come è fin troppo evidente, l'accento è posto ossessivamente sulla cena e sul memoriale anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario. Anche la formula «Memoriale Passionis et Resurrectionis Domini»  è inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo Sacrificio, che è redentivo in sé stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto conseguente(5). Vedremo piú avanti con quale coerenza, nella stessa formula consacratoria e in generale in tutto il Novus Ordo, tali equivoci siano rinnovati e ribaditi.

III

E veniamo alle finalità della Messa.
  1. Finalità ultima.
  2. È il sacrificio di lode alla Santissima Trinità, secondo l'esplicita dichiarazione di Cristo nella intenzione primordiale della sua stessa Incarnazione: «Ingrediens mundum dicit: “Hostiam et oblationem noluisti: corpus autem aptasti mihi”» (Ps. XL, 7-9, in: Hebr. 10, 5). 
    Questa finalità è scomparsa:
    • dall'Offertorio, con la preghiera Suscipe, Sancta Trinitas,
    • dalla conclusione della Messa con il placeat tibi, Sancta Trinitas
    • e dal Prefazio, che nel ciclo domenicale non sara più quello della Santissima Trinità, riservato ora alla sola festa e che quindi sarà pronunziato una sola volta l'anno.
  3. Finalità ordinaria. È il Sacrificio propiziatorio. Anch'essa è deviata, perché anziché mettere l'accento sulla remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si mette sulla nutrizione e santificazione dei presenti (n. 54). Certo Cristo istituì il Sacramento nell'ultima Cena e si pose in stato di vittima per unirci al suo stato vittimale; questo però precede la manducazione e ha un antecedente e pieno valore redentivo, applicativo della immolazione cruenta, tanto è vero che il popolo assistendo alla Messa non è tenuto a comunicarsi sacramentalmente (6)
  4. Finalità immanente.
  5. Qualunque sia la natura del sacrificio è essenziale che sia gradito a Dio e da lui accettabile ed accettato. Nello stato di peccato originale nessun sacrificio avrebbe diritto di essere accettabile. Il solo sacrificio che ha diritto di essere accettato è quello di Cristo. Nel Novus Ordo si snatura l'offerta in una specie di scambio di doni tra l'uomo e Dio; l'uomo porta il pane e Dio lo cambia in «pane di vita»; l'uomo porta il vino e Dio lo cambia in «bevanda spirituale»: «Benedictus es, Domine, Deus universi, quia de tua largitate accepimus panem (o: vinum) quem tibi offerimus, fructum terræ (o: vitis) et manuum hominum, ex quo nobis fiet panis vitæ (o: potus spiritualis)»  (7).

    Superfluo notare l'assoluta indeterminatezza delle due formule «panis vitæ» e «potus spiritualis», che possono significare qualunque cosa. Ritroviamo qui l'identico e capitale equivoco della definizione della Messa: là il Cristo presente solo spiritualmente tra i suoi; qui pane e vino «spiritualmente» (e non sostanzialmente) mutati  (8). 
    Nella preparazione dell'offerta, un consimile gioco di equivoci è attuato con la soppressione delle due stupende preghiere. Il «Deus, qui humanæ substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti et mirabilius reformasti», era un richiamo all'antica condizione di innocenza dell'uomo e alla sua attuale condizione di riscattato dal sangue di Cristo: ricapitolazione discreta e rapida di tutta l'economia del Sacrificio, da Adamo all'attimo presente. La finale offerta propiziatoria del calice, affinché ascendesse «cum odore suavitatis» al cospetto della maestà divina, di cui si implorava la clemenza, ribadiva mirabilmente questa economia. Sopprimendo il continuo riferimento a Dio della prece eucaristica, non vi è più distinzione alcuna tra sacrificio divino e umano.Eliminando la chiave di volta bisogna costruire delle impalcature; sopprimendo le finalità reali se ne devono inventare di fittizie. Ed ecco i gesti che dovrebbero sottolineare l'unione tra sacerdote e fedeli, tra fedeli e fedeli; ecco la sovrapposizione, che immediatamente crollerà nel ridicolo, delle offerte per i poveri e per la chiesa all'offerta dell'Ostia da immolare. L'unicità primordiale di questa verrà del tutto obliterata: la partecipazione all'immolazione della Vittima diverrà una riunione di filantropi e un banchetto di beneficenza.

IV

Passiamo all'essenza del Sacrificio.

Il mistero della Croce non vi è piú espresso esplicitamente, ma in modo oscuro, velato, impercepibile dal popolo (9). Eccone le ragioni:
  1. Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta «Prex eucharistica» è: «ut tota congregatio fidelium se cum Christo coniungat in confessione magnalium Dei et in oblatione sacrificii». (n. 54, fine).
    Di quale sacrificio si tratta? Chi è l'offerente? Nessuna risposta a questi interrogativi.
    La definizione in limine della «Prex eucharistica» è questa: «Nunc centrum et culmen totius celebrationis initium habet, ipsa nempe Prex eucharistica, prex scilicet gratiarum actionis et sanctificationis» (n. 54, pr.).
    Gli effetti sono dunque sostituiti alle cause, di cui non si dice una sola parola. La menzione esplicita del fine dell'offerta, che era nel Suscipe, non è sostituita da nulla. Il mutamento di formulazione rivela il mutamento di dottrina.
  2. La causa di questa non-esplicitazione del Sacrificio è, né piú né meno, la soppressione del ruolo centrale della Presenza Reale, così lampante prima nella liturgia eucaristica. Ve ne è una sola menzione - unica citazione, in nota, dal Concilio di Trento - ed è quella che si riferisce alla Presenza Reale come nutrimento (n. 241, nota 63). Alla Presenza Reale e permanente di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità nelle Specie transustanziate non si allude mai. La stessa parola transustanziazione è totalmente ignorata.
    La soppressione della invocazione alla terza Persona della SS.ma Trinità (Veni sanctificator), onde scendesse sopra le oblate come già discese nel grembo della Vergine a compiervi il miracolo della Divina Presenza, si inserisce in questo sistema di tacite negazioni, di degradazioni a catena della Presenza Reale.
    L'eliminazione poi:
  • delle genuflessioni (non ne restano che tre del sacerdote e una, con eccezioni, del popolo, alla      Consacrazione);
  • della purificazione delle dita del sacerdote nel calice;
  • della preservazione delle stesse dita da ogni contatto profano dopo la Consacrazione;
  • della purificazione dei vasi, che può essere non immediata, e non fatta sul corporale;
  • della palla a protezione del calice;
  • della doratura interna dei vasi sacri;
  • della consacrazione dell'altare mobile;
  • della pietra sacra e delle reliquie nell'altare mobile e sulla «mensa», quando la celebrazione non avvenga in luogo sacro (la distinzione ci porta diritti alle «cene eucaristiche» in case private);
  • delle tre tovaglie d'altare, ridotte a una sola;
  • del ringraziamento in ginocchio (sostituito da un grottesco ringraziamento di preti e fedeli seduti, in cui la Comunione in piedi ha il suo aberrante compimento);
  • di tutte le antiche prescrizioni nel caso di caduta dell'Ostia consacrata, ridotte a un quasi sarcastico «reverenter accipiatur» (n. 239);
tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l'implicito ripudio della fede nel dogma della Presenza Reale. 
  1. La funzione assegnata all'altare (n. 262).
    L'altare è quasi costantemente chiamato mensa (10). «Altare, seu mensa dominica, quæ centrum est totius liturgiæ eucharisticæ» n. 49, (cfr. 262). Si specifica che l'altare deve essere staccato dalle pareti perché vi si possa girare intorno e la celebrazione possa farsi verso il popolo (n. 262); si precisa che esso deve essere il centro della congregazione dei fedeli cosí che l'attenzione si volga spontaneamente ad esso (ibid.).
    Ma il confronto fra i nn. 262 e 276 sembra escludere nettamente che il SS.mo Sacramento possa essere conservato su questo altare. Ciò segnerà una dicotomia irreparabile tra la presenza, nel celebrante, del Sommo ed Eterno Sacerdote e quella stessa Presenza realizzata sacramentalmente. Prima esse erano un'unica presenza (11).
    Ora si raccomanda di conservare il SS.mo in un luogo appartato, ove possa esplicarsi la devozione privata dei fedeli, quasi si trattasse di una qualsiasi reliquia, sicché entrando in chiesa non sarà più il Tabernacolo ad attirare immediatamente gli sguardi ma una mensa spoglia e nuda. Si oppone ancora una volta pietà privata a pietà liturgica, si drizza altare contro altare.
    Nella raccomandazione insistente di distribuire nella comunione le Specie Consacrate nella stessa Messa, anzi di consacrare un pane di grandi dimensioni (12), così che il sacerdote possa dividerlo con una parte almeno dei fedeli, è ribadito lo sprezzante atteggiamento verso il Tabernacolo come verso tutta la pietà eucaristica fuori della Messa: altro strappo violento alla fede nella Presenza Reale sinché durino le Specie consacrate (13).
  2. Le formule consacratorie. 
    L'antica formula della Consacrazione era una formula propriamente sacramentale, e non narrativa, indicata soprattutto da tre cose:
    1. il testo della Scrittura, non ripreso alla lettera; l'inserto paolino «mysterium fidei» era una confessione immediata di fede del sacerdote nel mistero realizzato dalla Chiesa per mezzo del suo sacerdozio gerarchico;
    2. la punteggiatura e il carattere tipografico; vale a dire il punto fermo e daccapo, che segnava il passaggio dal modo narrativo al modo sacramentale e affermativo, e le parole sacramentali in carattere piú grande, al centro della pagina e spesso di diverso colore, nettamente staccate dal contesto storico. Il tutto dava sapientemente alla formula un valore proprio, un valore autonomo;
    3. l'anamnesi («Haec quotiescumque feceritis in mei memoriam facietis», che in greco suona: «eis ten emou anamnesin» - «volti alla mia memoria»). Essa si riferiva al Cristo operante e non alla semplice memoria di lui o dell'evento: un invito a ricordare ciò che Egli fece («hæc... in mei memoriam facietis») e come Egli lo fece, e non soltanto la sua persona o la cena.
      La formula paolina oggi sostituita all'antica («Hoc facite in meam commemorationem») - proclamata come sarà quotidianamente nelle lingue volgari - sposterà irrimediabilmente, nella mente degli ascoltatori, l'accento sulla memoria del Cristo come termine dell'azione eucaristica, mentre essa ne è il principio. L'idea finale di commemorazione prenderà ben presto il posto dell'idea di azione sacramentale (14).
      Il modo narrativo è ora sottolineato dalla formula: «narratio institutionis» (n. 55d), e ribadito dalla definizione della anamnesi, dove si dice che «Ecclesia memoriam ipsius Christi agit» (n. 55c).
      In breve: la teoria proposta per l'epiclesi, la modificazione delle parole della Consacrazione e dell'anamnesi, hanno come effetto di modificare il modus significandi delle parole della Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal sacerdote come costituenti una narrazione storica e non più enunciate come esprimenti un giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona egli agisce: «Hoc est Corpus meum» (e non: «Hoc est Corpus Christi») (15).
      L'acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: («Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc.… donec venias») introduce, travestita di escatologismo, l'ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l'attesa della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull'altare: quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta.
      Ciò è ancor piú accentuato nella formula di acclamazione facoltativa n. 2 (Appendix): «Quotiescumque manducamus panem hunc, et calicem bibimus, mortem tuam annuntiamus, Domine, donec venias»; dove le diverse realtà di immolazione e manducazione, e quelle di Presenza Reale e secondo avvento del Cristo, raggiungono il massimo di ambiguità (16).
V

Veniamo ora alla realizzazione del Sacrificio.
I quattro elementi di esso erano, nell'ordine:
  1. il Cristo.
  2. il sacerdote;
  3. la Chiesa;
  4. i fedeli.
1) Nel Novus Ordo, la posizione attribuita ai fedeli è autonoma (ab-soluta), quindi totalmente falsa: dalla definizione iniziale: «Missa est sacra synaxis seu congregatio populi», al saluto del sacerdote al popolo, che esprimerebbe alla comunità riunita la «presenza» del Signore (n. 28): «Qua salutatione et populi responsione manifestatur ecclesiæ congregatæ mysterium».

Dunque vera presenza di Cristo, ma solo spirituale, e mistero della Chiesa, ma come pura assemblea che manifesta e sollecita tale presenza.
Ciò si ripete ovunque:

  • il carattere comunitario della Messa ossessivamente ribadito (nn. 74-152);
  • l'inaudita distinzione tra «Missa cum populo» e «Missa sine populo» (nn. 203-231);
  • la definizione della «oratio universalis seu fidelium» (n. 45), ove si sottolinea ancora una volta        l'«ufficio sacerdotale» del popolo («populus sui sacerdotii munus exercens») presentato in modo equivoco perché ne viene taciuta la subordinazione a quello del sacerdote; tanto più che questi si fa interprete, nella sua qualità di mediatore consacrato, di tutte le intenzioni del popolo nel Te igitur e nei due Memento.

Nella «Prex eucharistica III» («Vere sanctus», p. 123) è addirittura detto al Signore: «populum tibi congregare non desinis, ut a solis ortu usque ad occasum oblatio munda offeratur nomini tuo»: ove l'affinché fa pensare che l'elemento indispensabile alla celebrazione sia il popolo anziché il sacerdote; e poiché non è precisato neppure qui chi sia l'offerente (17) il popolo stesso appare investito di poteri sacerdotali autonomi.
Di questo passo non stupirebbe l'autorizzazione al popolo, tra qualche tempo, di congiungersi al sacerdote nella pronuncia delle formule consacratorie (ciò che del resto sembra già accada, qua e là).
2) La posizione del sacerdote è minimizzata, alterata, falsata.

Prima in funzione del popolo di cui egli è caratterizzato per lo piú come mero presidente o fratello anziché come ministro consacrato che celebra in persona Christi.
Poi in funzione della Chiesa come un «quidam de populo». Nella definizione della epiclesi (n. 55c) le invocazioni sono attribuite anonimamente alla Chiesa: il ruolo del sacerdote è dissolto.
Nel Confiteor divenuto collettivo egli non è piú giudice, testimone e intercessore presso Dio; è logico dunque che non gli sia piú dato di impartire l'assoluzione, che è stata infatti soppressa. Egli è «integrato» ai fratres. Persino il chierichetto lo chiama così nel Confiteor della «Missa sine populo».
Già prima di quest'ultima riforma era stata soppressa la significativa distinzione tra la Comunione del sacerdote - il momento in cui, per così dire, il Sommo ed Eterno Sacerdote e colui che agiva in sua persona si fondevano in intimissima unione (nella quale era il compimento del Sacrificio) - e quella dei fedeli.
Non piú una parola ormai sul suo potere di sacrificatore, sul suo atto consacratorio, sulla realizzazione per suo mezzo della Presenza eucaristica. Egli appare nulla più che un ministro protestante. 
La sparizione o l'uso facoltativo di molti paramenti (in certi casi alba e stola bastano - n. 298) vanificano ancor piú l'originale conformazione al Cristo: il sacerdote non è più rivestito di tutte le virtù di Lui; egli è un semplice «graduato» che uno o due segni distinguono appena dalla massa (18): («un po' più uomo degli altri» per citare la formula involontariamente umoristica di un moderno predicatore[19]).
Di nuovo, come nella opposizione degli altari, si separa ciò che Dio ha unito: l'unico Sacerdozio del Verbo di Dio.

3) Infine la posizione della Chiesa di fronte al Cristo. 
In un solo caso, quello della «Missa sine populo» ci si degna di ammettere che la Messa è «Actio Christi et Ecclesiæ» (n. 4, cfr. Presb. Ord. n. 13), mentre nel caso della «Missa cum populo» non si accenna che allo scopo di «far memoria di Cristo» e santificare i presenti. «Presbyter celebrans... populum... sibi sociat in offerendo sacrificio per Christum in Spiritu Sancto Deo Patri» (n. 60), anziché associare il popolo a Cristo che offre sé stesso «per Spiritum Sanctum Deo Patri».
S'inseriscono in questo contesto: 

  • la gravissima omissione delle clausole «Per Christum Dominum nostrum», garanzia di esaudimento data alla Chiesa di tutti i tempi (Io. 14, 13-14,. 15, 16; 16, 23-24);
  • l'ossessivo «paschalismo»: quasi che la comunicazione della grazia non presentasse altri aspetti altrettanto importanti;
  • l'escatologismo dubbio e maniaco, in cui la comunicazione di una realtà, la grazia, che è permanente ed eterna, è ricondotta  alla dimensione del tempo: popolo in marcia, chiesa peregrinante - non più militante, si badi, contro la Potestas tenebrarum - verso un futuro che non è più vincolato all'eterno (quindi anche all'eterno presente) ma a un vero e proprio avvenire temporale.
La Chiesa - Una, Santa, Cattolica, Apostolica - è umiliata come tale nella formula che, nella «Prex eucharistica IV», ha sostituito la preghiera del Canone romano «pro omnibus orthodoxis atque catholicæ et apostolicæ fidei cultoribus». Ora essi sono, né piú né meno: «omnium qui te quærunt corde sincero».
Cosí, nel Memento dei morti, questi non sono piú trapassati «cum signo fidei et dormiunt in somno pacis» ma semplicemente «obierunt in pace Christi tui»; ad essi si aggiunge, con nuovo e patente scapito del concetto di unitarietà e visibilità, la turba di «omnium defunctorum quorum fidem tu solus cognovisti».
In nessuna delle tre nuove preci, poi, vi è il minimo cenno, come già si è detto, allo stato di sofferenza dei trapassati, in nessuna la possibilità di un Memento particolare: il che, ancora una volta, snerva la fede nella natura propiziatoria e redentiva del Sacrificio (20).

Omissioni dissacranti avviliscono ovunque il Mistero della Chiesa. 

  • Esso è misconosciuto innanzi tutto come gerarchia sacra: Angeli e Santi sono ridotti all'anonimato nella seconda parte del Confiteor collettivo: sono scomparsi come testimoni e giudici, nella persona di Michele, dalla prima (21).
  • Scomparse anche le varie Gerarchie Angeliche (e ciò è senza precedenti) dal nuovo Prefazio della «Prex II».
  • Soppressa nel Communicantes la memoria dei Pontefici e dei Santi Martiri su cui la Chiesa di Roma è fondata, che furono senza dubbio i trasmettitori delle tradizioni apostoliche e le completarono in ciò che divenne, con S. Gregorio, la Messa romana.
  • Soppressa, nel Libera nos, la menzione della B. Vergine, degli Apostoli e di tutti i Santi: la sua e loro intercessione non è quindi più chiesta neppure nel momento del pericolo.
  • L'unità della Chiesa è compromessa fino all'intollerabile omissione, nell'intero Ordo, comprese le tre nuove «Preces» (e con la sola eccezione del Communicantes del Canone romano), dei nomi degli Apostoli Pietro e Paolo, fondatori della Chiesa di Roma, nonché dei nomi degli altri Apostoli, fondamento e segno della Chiesa unica e universale.
  • Chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi: la soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente, di tutte le salutationes e della benedizione finale; dell'Ite Missa est (22), poi, persino nella messa celebrata con l'inserviente.
  • Il doppio Confiteor mostrava come il prete, in veste di ministro di Cristo e in profonda inclinazione, riconoscendosi indegno dell'alta missione, del «tremendum mysterium» che andava a celebrare, e addirittura (nell'Aufer a nobis) di entrare nel Santo dei Santi, invocava ad intercessione (nell'Oramus te, Domine) i meriti dei martiri di cui l'altare racchiudeva le reliquie. Entrambe le preghiere sono state soppresse. Vale qui ciò che già è stato detto per il doppio Confiteor e la doppia Comunione.
  • Sono profanate le condizioni del Sacrificio come segno di una cosa sacra: vedi ad esempio la celebrazione fuori del luogo sacro nel qual caso l'altare può essere sostituito da una semplice «mensa» senza pietra consacrata né reliquie, con una sola tovaglia (nn. 260, 265). Anche qui vale quanto già detto a proposito della Presenza Reale: dissociazione del «convivium» e sacrificio della cena, dalla stessa Presenza Reale.
La desacralizzazione è perfezionata grazie alle nuove, grottesche modalità dell'offerta;
  • l'accenno al pane anziché all'azimo;
  • la facoltà, data persino ai chierichetti (nonché ai laici nella comunione sub utraque specie) di toccare i vasi sacri (n. 244d);
  • la inverosimile atmosfera che si creerà nella chiesa ove si alterneranno senza tregua sacerdote, diacono, suddiacono, salmista, commentatore (il sacerdote stesso par divenuto tale, continuamente incoraggiato com'è a «spiegare» ciò che sta per compiere), lettori (uomini e donne) chierici o laici che accolgono i fedeli alla porta e li accompagnano ai loro posti, fanno la colletta, portano e smistano offerte;
  • e, in tanto delirio scritturistico, la presenza antiveterotestamentaria, antipaolina della «mulier idonea» che, per la prima volta nella tradizione della Chiesa, sarà autorizzata a leggere le lezioni e adempiere anche ad altri «ministeria quae extra presbyterium peraguntur» (n. 70).
  • Infine la mania concelebratoria, che finirà di distruggere la pietà eucaristica del sacerdote e di obnubilare la figura centrale del Cristo, unico Sacerdote e Vittima, e dissolverla nella presenza collettiva dei concelebranti (23).

VI

Ci siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo, nelle sue deviazioni più gravi dalla teologia della Messa cattolica. Le osservazioni fatte sono soltanto quelle che hanno un carattere tipico. Una valutazione completa delle insidie, dei pericoli, degli elementi spiritualmente e psicologicamente distruttivi che il documento contiene, sia nei testi come nelle rubriche e nelle istruzioni, richiederebbe ben altra mole di lavoro.

Poiché furono criticati ripetutamente e autorevolmente nella loro forma e sostanza, abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il secondo(24) ha immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità. Di esso si è potuto scrivere, tra molte altre cose, che può essere celebrato in piena tranquillità di coscienza da un prete che non creda più né alla transustanziazione né alla natura sacrificale della Messa, e che quindi si presterebbe benissimo anche alla celebrazione da parte di un ministro protestante.

Il nuovo Messale fu presentato a Roma come «ampio materiale pastorale», «testo più pastorale che giuridico» su cui le Conferenze Episcopali avrebbero potuto operare secondo le circostanze e il genio dei vari popoli. Del resto, la I sezione della nuova Congregazione per il Culto Divino sarà responsabile «dell'edizione e della costante revisione dei libri liturgici».
Scrive l'ultimo bollettino ufficiale degli Istituti Liturgici di Germania, Svizzera, Austria (25):
«i testi latini dovranno ora esser tradotti nelle lingue dei vari popoli; lo stile “romano” dovrà essere adattato all'individualità delle Chiese locali; ciò che fu concepito al di fuori del tempo deve essere trasposto nel mutevole contesto di situazioni concrete, nel flusso costante della Chiesa universale e delle sue miriadi di congregazioni».

La Costituzione Apostolica stessa dà il colpo di grazia alla lingua universale (in contrasto con la volontà espressa nel Concilio Vaticano II) affermando senza equivoci che «in tot varietate linguarum una (?) eademque cunctorum precatio... quovis ture fragrantior ascendat».
La morte del latino è data dunque per scontata; quella del gregoriano, che pure il Concilio riconobbe «liturgiæ romanæ proprium» (Sacros. Conc. n. 116), ordinando che «principem locum obtineat» (ibid.), ne consegue logicamente, con la libera scelta, tra l'altro, dei testi dell'Introito e del Graduale.

Il nuovo rito è dato quindi in partenza come pluralistico e sperimentale, legato al tempo e al luogo.
Spezzata così per sempre l'unità di culto, in che cosa consisterà ormai quell'unità di fede che ne conseguiva e di cui sempre si parla come della sostanza da difendere senza compromissioni?
È evidente che il Novus Ordo non vuole più rappresentare la fede di Trento.
A questa fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno. 
Il vero cattolico è dunque posto, dalla promulgazione del Novus Ordo, in una tragica necessità di opzione.

VII

La Costituzione accenna esplicitamente a una ricchezza di pietà e di dottrina mutuata nel Novus Ordo dalle Chiese di Oriente. Il risultato appare tale da respingere inorridito il fedele di rito orientale, tanto lo spirito ne è, più che remoto, addirittura opposto.
A che si riducono queste scelte ecumeniche?
In sostanza
  • alla molteplicità delle anafore (non certo alla loro bellezza e complessità),
  • alla presenza del diacono e alla comunione sub utraque specie.

Per contro, pare si sia voluto eliminare deliberatamente tutto quanto, nella liturgia romana, era più prossimo all'orientale(26) e, rinnegando l'inconfondibile ed immemorabile carattere romano, abdicare a ciò che più gli era proprio e spiritualmente prezioso. Lo si è sostituito con elementi che soltanto a certi riti riformati (e nemmeno a quelli piú prossimi al cattolicesimo) lo avvicinano degradandolo, mentre vieppiù ne allontaneranno l'Oriente, come l'hanno già allontanato le ultime riforme.
In compenso, esso piacerà sommamente a tutti quei gruppi, vicini alla apostasia, che devastano la Chiesa inquinandone l'organismo, intaccandone l'unità dottrinale, liturgica, morale e disciplinare in una crisi spirituale senza precedenti.

VIII

S. Pio V curò l'edizione del Missale romanum affinché (come la stessa Costituzione ricorda) fosse strumento di unità tra i cattolici. In conformità alle prescrizioni del Concilio Tridentino esso doveva escludere ogni pericolo, nel culto, di errori contro la fede, insidiata allora dalla Riforma protestante.
Cosí gravi erano i motivi del Santo Pontefice che mai come in questo caso appare giustificata, quasi profetica, la sacra formula che chiude la Bolla di promulgazione del suo Messale:
«Si quis autem hoc attentare praesumpserit, indignationem Omnipotenti Dei ac beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit incursurum» (Quo primum, 19 luglio 1570)(27).

Si è avuto l'ardire di affermare, presentando ufficialmente il Novus Ordo alla Sala Stampa del Vaticano, che le ragioni del Tridentino non sussistono piú. Non solo esse sussistono ancora, ma ne esistono oggi, non esitiamo a dirlo, di infinitamente piú gravi. Proprio facendo fronte alle insidie che minacciavano di secolo in secolo la purezza del deposito ricevuto («depositum custodi, devitans profanas vocum novitates», I Tim. 6, 20), la Chiesa dovette erigergli intorno le difese ispirate delle sue definizioni dogmatiche e dei suoi pronunciamenti dottrinali. Essi ebbero ripercussione immediata nel culto, che divenne il monumento più completo della sua fede.
Volere ad ogni costo riportare questo culto all'antico, rifacendo freddamente, in vitro, quel che in antico ebbe la grazia della spontaneità primigenia, secondo quell'«insano archeologismo» cosí tempestivamente e lucidamente condannato da Pio XII (28), significa - come purtroppo si è visto - smantellarlo di tutte le sue difese teologiche oltre che di tutte le bellezze accumulate nei secoli(29), e proprio in uno dei momenti più critici, forse il più critico che la storia della Chiesa ricordi.

Oggi, non più all'esterno, ma all'interno stesso della cattolicità l'esistenza di divisioni e scismi è ufficialmente riconosciuta(30); l'unità della Chiesa è non più soltanto minacciata ma già tragicamente compromessa(31) e gli errori contro la fede s'impongono, più che insinuarsi, attraverso abusi ed aberrazioni liturgiche ugualmente riconosciute(32).
L'abbandono di una tradizione liturgica che fu per quattro secoli segno e pegno di unità di culto (per sostituirla con un'altra, che non potrà non essere segno di divisione per le licenze innumerevoli che implicitamente autorizza, e che pullula essa stessa di insinuazioni o di errori palesi contro la purezza della fede cattolica) appare, volendo definirlo nel modo piú mite, un incalcolabile errore.

Corpus Domini 1969
(1) - «Le preghiere del nostro Canone si trovano nel trattato De Sacramentis (fine del IV-V secolo) ... La nostra Messa risale, senza mutamento essenziale, all'epoca in cui si sviluppava per la prima volta dalla piú antica liturgia comune.
Essa serba ancora il profumo di quella liturgia primitiva, nei giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava di poter spegnere la fede cristiana; i giorni in cui i nostri padri si riunivano avanti l'aurora per cantare un inno a Cristo come a loro Dio [cfr. Pl. jr., Ep. 96] …
Non vi è, in tutta la cristianità, rito altrettanto venerabile quanto la Messa romana» (A. Fortescue). «Il Canone romano risale, tale e quale è oggi, a San Gregorio Magno. Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità! Agli occhi non solo degli ortodossi, ma degli anglicani e persino dei protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della tradizione, gettarlo a mare equivarrebbe, da parte della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai più la vera Chiesa Cattolica » (P. Louis Bouyer).
(2) - In nota, per una tale definizione, si rimanda a due testi del Concilio Vaticano II. Ma a leggere quei due testi non si trova nulla che giustifichi tale definizione. Il primo testo (decretoPresbyterorum Ordinis, n. 5) suona cosí: « ...I presbiteri sono consacrati a Dio mediante il ministero del vescovo, in modo che... nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di Colui che ininterrottamente esercita la funzione sacerdotale in favore nostro nella Liturgia... E soprattutto con la celebrazione della Messa offrono sacramentalmente il Sacrificio di Cristo».
Ed ecco l'altro testo cui si rimanda (Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 33): «Nella Liturgia Dio parla al suo popolo. Cristo annunzia ancora il suo Vangelo. Il popolo a sua volta risponde a Dio con i canti e con la preghiera. Anzi, le  preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che presiede l'assemblea nella persona di Cristo vengono dette a nome di tutto il popolo santo e di tutti gli astanti».
Non si spiega come da tali testi si sia potuto trarre la suddetta definizione.
Notiamo poi l'alterazione radicale, in questa definizione della Messa, di quella del Vaticano II (Presbyterorum Ordinis, 1254): «Est ergo Eucharistica Synaxis centrum congregationis fidelium...». Fatto sparire fraudolentemente il centrum, nel Novus Ordo la congregatio stessa ne ha usurpato il posto.
(3) - Cosí il Tridentino sancisce la Presenza Reale: «Principio docet Sancta Synodus et aperte et simpliciter profitetur in almo Sanctæ Eucharestiæ sacramento post panis et vini consacrationem Dominum nostrum Iesum Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac substantialiter [can. 1] sub specie illarum rerum sensibilium contineri». (DB, 874). Nella Sessione XXII, che ci interessa qui direttamente (De sanctissimo Missæ Sacrificio), la dottrina sancita (DB, nn. 937a fino a 956) e chiaramente sintetizzata in nove canoni:
1. La Messa è vero, visibile sacrificio - non simbolica rappresentazione - «quo cruentum illud semel in cruce peragendum repræsentaretur atque illius salutaris virtus in remissionem eorum, quæ a nobis quotidie committuntur peccatorum applicaretur» (DB, 938).
2. Gesú Cristo Nostro Signore «sacerdotem secundum ordinem Mechisedech se in æternum [Ps. 109, 4] constitutum declarans, corpus et sanguinem suum sub specibus panis et vini Deo Patri obtulit ac sub earundem rerum symbolis Apostolis (quos tunc Novi Testamenti sacerdotes constituebat), ut sumerent, tradidit, et eisdem eorumque in sacerdotio successoribus, ut offerent, præcepit per hæc verba: “Hoc facite in meam commemorationem” [Lc. 22, 19; I Cor. 11, 24] uti semper catholica Ecclesia intellexit et docuit». (DB, ibid.).
Il celebrante, l'offerente, il sacrificatore è il sacerdote, a ciò consacrato, non il popolo di Dio, l'assemblea. «Si quis dixerit, illis verbis: “Hoc facite” etc. Christum non instituisse Apostolos sacerdotes, aut non ordinasse, ut ipsi aliique sacerdotes offerent corpus et sanguinem suum: anathema sit» (Can. 2; DB, 949).
3. Il Sacrificio della Messa è un vero sacrificio propiziatorio e NON una «nuda commemorazione del sacrificio compiuto sulla croce». «Si quis dixerit; Missæ sacrificium tantum esse laudis et gratiarum actiones aut nudam commemorationem sacrificii in cruce peracti, non autem propitiatorium; vel soli prodesse sumenti, neque pro vivis et defunctis, pro peccatis, pœnis, satisfactionibus et aliis necessitatibus offeri debere, a.s.» (Can. 3; DB, 950).
Si ricorda inoltre il can. 6: «Si quis dixerit Canon Missæ errores continere ideoque abrogandum esse, a.s.»; (DB, 953) e il canone 8: «Si quis dixerit Missæ, in quibus solus sacerdos sacramentaliter communicat, illicitas esse, ideoque abrogandas, a.s.» (DB, 955).
(4) - Ora è superfluo asserire che, se venisse negato un solo dogma definito, crollerebbero ipso facto tutti i dogmi, in quanto crollerebbe il principio stesso della infallibilità del supremo solenne Magistero Gerarchico, papale o conciliare che sia.
(5) - Si dovrebbe aggiungere anche l'Ascensione ove si volesse riprendere l'Unde et memores, che d'altronde non accomuna ma nettamente e finemente distingue: ...«tam beatæ Passioni, nec non ab inferis Resurrectionis, sed et in cœlum gloriosæ Ascensionis».
(6) - Tale spostamento di accento è riscontrabile anche nella sorprendente eliminazione, nei tre nuovi canoni, del Memento dei morti e della menzione della sofferenza delle anime purganti, alle quali il Sacrificio satisfattorio era applicato.
(7) - Cfr. Mysterium Fidei, ove Paolo VI condanna sia gli errori del simbolismo che le nuove teorie della «transignificazione» e «transfinalizzazione». «...aut ratione signi... ita instare quasi symbolismus, qui nullo diffitente sanctissimæ Eucharistiæ certissime inest, totam exprimat et exhauriat rationem presentiæ Christi in hoc Sacramento... aut de transubstantiationis mysterio disserere quin de mirabili conversione totius substantiæ panis in corpus et totius substantiæ vini in sanguinem Christi, de qua lonquitur Concilium Tridentinum, mentio fiat, ita ut in sola “transignificatione” et “transfinalizatione”, ut aiunt, consistant» (A.A.S. LVII, 1965, p. 755).
(8) - L'introduzione di nuove formule, o di espressioni che, pur ricorrendo nei testi dei Padri e dei Concili e nei documenti del Magistero, vengono usate in senso univoco, non subordinato alla dottrina sostanziale con cui formano una inscindibile unità (p. es. «spiritualis alimonia», «cibus spiritualis», «potus spiritualis», ecc.) è ampiamente denunciata e condannata nella Mysterium Fidei. Paolo VI premette che: «servata Fidei integritate, aptus quoque modus loquendi servetur oportet, ne indisciplinatis verbis utentibus nobis falsæ, quod absit, de Fide altissimarum rerum suboriantur opiniones»; cita Sant'Agostino: «Nobis tamen ad certam regulam loqui fas est, ne verborum licentia etiam de rebus, quæ significantur impiam gignant opinionem» (De Civ. Dei, X, 23. PL, 41, 300); continua: «Regula ergo loquendi, quem Ecclesia longo sæculorum labore non sine Spiritus Sancti munimine induxit et Conciliorum auctoritate firmavit, quæque non semel tessera et vexillum Fidei orthodoxæ facta est, sancte servetur, neque eam quisquam pro lubitu vel prætextu novæ scientiæ immutare præsumat... Eodem modo ferendus non est quisquis formulis, quibus Concilium Tridentinum Mysterium Eucharisticum ad credendum proposuit, suo marte derogare velit» (A. A. S. LVII, 1965, p. 758).
(9) - In netta contraddizione con quanto prescrive (Sacros. Conc., n. 48) il Vaticano II.
(10) - Una volta (n. 259) è riconosciuta la sua funzione primaria: «Altare, in quo sacrificium crucis sub signis sacramentalibus præsens efficitur». Non sembra molto per eliminare gli equivoci dell'altra costante denominazione.
(11) - «Separare il Tabernacolo dall'altare equivale a separare due cose che in forza della loro natura debbono restare unite» (Pio XII, Allocuzione al Congresso Internazionale di Liturgia, Assisi - Roma 18-23 settembre 1956). Cfr. anche Mediator Dei, I, 5.
(12) - Raramente è usata, nel Novus Ordo, la parola «hostia», tradizionale nei libri liturgici con il suo preciso significato di «vittima». Ciò rientra nel sistema inteso a mettere in evidenza esclusivamente gli aspetti di «cena» e di «cibo».
(13) - Per il consueto fenomeno di sostituzione e di scambio di una cosa per l'altra, la Presenza Reale viene equiparata alla presenza nella parola (n. 7, 54). Ma questa è in verità di tutt'altra natura perché non ha realtà che in usu, mentre quella è, in modo stabile, obbiettivamente, indipendentemente dalla comunicazione che se ne fa nel Sacramento.
Tipicamente protestanti le formule: «Deus populum suum alloquitur... Christus per verbum suum in        medio fidelium præsens adest» (n. 33, , cfr. Sacros. Conc., nn. 33 e 7), cosa che, strettamente parlando, non ha senso perché la presenza di Dio nella parola è mediata, legata a un atto dello spirito, alla condizione spirituale dell'individuo e limitata nel tempo.
L'errore non è senza la più tragica conseguenza: l'affermazione, o l'insinuazione, che la Presenza Reale sia legata all'usus e finisca insieme con esso.
(14) - L'azione sacramentale della istituzione è puntualizzata come avvenuta nel dare Gesú agli Apostoli «a mangiare» il suo Corpo e Sangue sotto le specie del pane e del vino, e non nella azione della consacrazione e nella mistica separazione in essa compiuta del Corpo e del Sangue, essenza del Sacrificio eucaristico (cfr. l’intero capitolo I della Parte II - «Il Culto Eucaristico» - della Mediator Dei).
(15) - Le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel contesto del Novus Ordo, possono essere valide in virtù dell’intenzione del ministro. Possono non esserlo perché non lo sono piú ex vi verborum o più precisamente in virtù del modus significandi che avevano finora nella Messa. I sacerdoti, che, in un prossimo avvenire, non avranno ricevuto la formazione tradizionale e che si affideranno al Novus Ordo al fine di «fare ciò che fa la Chiesa» consacreranno validamente? È lecito dubitarne.
(16) - Non si dica, secondo il noto procedimento della critica protestante, che queste espressioni appartengono a quello stesso contesto scritturistico. La Chiesa ne ha sempre evitato la giustapposizione e sovrapposizione per rimuovere appunto la confusione delle diverse realtà che detti testi esprimono.
(17) - Di contro a luterani e calvinisti che affermavano come tutti i cristiani siano sacerdoti e perciò offerenti della cena v. A. Tanquerey: Synopsis theologiæ dogmaticæ, t. III, Desclee 1930: «Omnes et soli sacerdotes sunt, proprie loquendo, ministri secundarii sacrificii missæ. Christus est quidem principalis minister. Fideles mediate, non autem sensu stricto, per sacerdotes offerunt ». (Cfr. Cons. Trid. Sess. XXII, Can. 2).
(18) - Notiamo una innovazione impensabile e che sarà psicologicamente disastrosa: il Venerdí Santo in paramenti rossi anziché neri (n. 308b): la commemorazione cioè di un qualsiasi martire anziché il lutto della Chiesa tutta per il suo Fondatore. Cfr. Mediator Dei, I, 5 (v. p. 36, nota 28).
(19) - P. Roquet, O.P., alle Domenicane di Betania a Plesschenet.
(20) - In alcune traduzioni del Canone romano, il «locus refrigerii, lucis et pacis» veniva reso come un semplice stato («beatitudine, luce, pace»). Che dire, ora, della sparizione di ogni esplicito accenno alla Chiesa purgante?
(21) - In tanta febbre di decurtazione, un solo arricchimento: l'omissione, menzionata nell'accusa dei peccati al Confiteor...
(22) - Alla conferenza stampa in cui fu presentato l'Ordo, il P. Lecuyer, in una professione di pura fede razionalistica, parlò di convertire in «Dominus tecum», «Ora, frater», etc. le salutationesnella «Missa sine populo», «...perché non vi sia nulla che non corrisponda a verità ».
(23) - A questo proposito noteremo marginalmente che appare lecito, ai sacerdoti che siano costretti a celebrare da soli prima o dopo la concelebrazione, di comunicarsi di nuovo sub utraque specie durante questa.
(24) - Che si è voluto presentare come «canone di Ippolito» mentre di quel canone serba appena qualche reminiscenza verbale.
(25) - Gottesdienst, n. 9, 14 maggio 1969.
(26) - Si pensi, per ricordare solo la bizantina, alle preghiere penitenziali, lunghissime, istanti, ripetute; ai solenni riti di vestizione del celebrante e del diacono; alla preparazione, che è già un rito completo in sé stessa, delle offerte alla proscomidia; alla presenza costante, nelle orazioni e persino nelle offerte, della Beata Vergine, dei Santi e delle Gerarchie Angeliche (che, nell'Entrata col Vangelo sono addirittura evocate come invisibilmente concelebranti e con le quali si identifica il coro nel Cherubicon); alla iconostasi che nettamente separa santuario da tempio, clero da popolo alla consacrazione celata, evidente simbolo dell'Inconoscibile a cui l'intera Liturgia allude; alla posizione del celebrante versus ad Deum e mai versus ad populum; alla comunione amministrata sempre e solo dal celebrante; ai continui e
profondi segni di adorazione di cui sono fatte segno le Specie; all'atteggiamento essenzialmente contemplativo del popolo. 
Il fatto che tali liturgie, anche nelle forme meno solenni, durino piú di un'ora, e le costanti definizioni che vi si trovano («tremenda e inenarrabile liturgia», «tremendi, celesti, vivificanti misteri », ecc.) bastino a dir tutto.
Notiamo infine, sia nella Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo che in quella di San Basilio, come il concetto di «cena» o di «banchetto» appaia chiaramente subordinato a quello di sacrificio, così come lo era nella Messa romana.
(27) - Nella Sessione XIII (decreto sulla SS.ma Eucarestia), il Concilio di Trento manifesta la sua intenzione «ut stirpitus convelleret zizania execrabilium errorum et schismatum, quæ inimicus homo... in doctrina fidei usu et cultu Sacrosanctæ Eucharestiæ superseminavit (Mt. 13, 25 ss.)... quam alioqui Salvator noster in Ecclesia sua tamquam symbolum reliquit eius unitatis et caritatis, qua Christianos omnes inter se coniunctos et copulatos, esse voluit» (DB, 873).
(28) - «Ad sacræ liturgiæ fontes mente animoque redire sapiens perfecto ac laudabilissima res est, cum disciplinæ huius studium, ad eius origines remigrans, haud parum conferat ad festorum dierum significationem et ad formularum, quæ usurpantur, sacrarumque cæremoniarum sententiam altius dividentiusque pervestigandam: non sapiens tamen, non laudabile est omnia ad antiquitatem quovis modo reducere. Itaque, ut exemplis utamur, is ex recto aberret itinere, qui priscam altari velit mensæ formam restituere; qui liturgicas vestes velit nigro semper carere colore; qui sacras imagines ac statuas e templis prohibeat; qui divini Redemptoris in Crucem acti effigies ita conformari iubeat, ut corpus eius acerrimos non referat, quos passus est, cruciatus... Hæc enim cogitandi agendique ratio nimiam illam reviscere iubet atque insanam antiquitatum cupidinem, quam illegitimum excitavit Pistoriense concilium, itemque multiplices illos restituere enititur errores, qui in causa fuere, cur conciliabulum idem cogeretur, quique inde non sine magno animorum detrimento consecuti sunt, quosque Ecclesia, cum evigilans semper evistat “fidei depositi” custos sibi a Divino Conditore concrediti, iure meritoque reprobavit» (Mediator Dei, I, 5).
(29) - «...Non ci illuda il criterio di ridurre l'edificio della Chiesa, diventato largo e maestoso per la gloria di Dio, come un suo tempio magnifico, alle sue iniziali e minime proporzioni, quasi che quelle siano solo le vere, solo le buone...» (Paolo VI, Ecclesiam suam).
(30) - «Un fermento praticamente scismatico divide, suddivide, spezza la Chiesa» (Paolo VI, Omelia in Cena Domini, 1969).
(31) - «Vi sono anche tra noi quegli «schismata», quelle «scissuræ» che la prima lettera ai Corinzi di San Paolo, oggi nostra ammaestrante lettura, dolorosamente denuncia» (cfr. Paolo VI, ibid.).
(32) - È noto a tutti come il Concilio Vaticano II venga oggi rinnegato proprio da coloro che si vantarono di esserne i padri; coloro che - mentre il Sommo Pontefice, chiudendolo, dichiarava non aver esso mutato nulla - ne partirono decisi a «farne esplodere» il contenuto in sede di applicazione. Purtroppo la Santa Sede, con una fretta che ai più parve inesplicabile, ha consentito e quasi incoraggiato, attraverso il Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, una sempre crescente infedeltà al Concilio; che va dagli aspetti solo apparentemente formali (latino, gregoriano, soppressione di riti venerandi, ecc.) a quelli sostanziali consacrati dal Novus Ordo. Le terribili conseguenze, che abbiamo tentato di illustrare, si sono ripercosse, in modo psicologicamente forse ancora più catastrofico, nei campi della disciplina e del magistero ecclesiastico, scuotendo paurosamente, insieme con il prestigio, la docilità dovuta alla Sede Apostolica.

AMDG et BVM

lunedì 17 agosto 2015

Chiesa e post concilio: Roberto De Mattei. Nella vita si tratta di sceglie...

Chiesa e post concilio: Roberto De Mattei. Nella vita si tratta di sceglie...: Un doveroso ricordo di un grande testimone del nostro tempo ed anche un interessante e puntuale excursus sulla sofferta e vexata quaestio ...

HAEC QUOTIESCUMQUE FECERITIS 
IN MEI MEMORIAM FACIETIS. 

IL BEATO ANGELICO SMENTISCE Kasper


IL BEATO ANGELICO
 SMENTISCE KASPER
di Gloria Riva
Il Beato Angelico affresca una cella del convento fiorentino di San Marco con la comunione distribuita agli apostoli. […] Questa particolare versione dell’ultima cena è letta dall’Angelico in relazione alla celebrazione eucaristica. La tavola, infatti, è spoglia come una mensa d’altare e Cristo dispensa ai suoi pane e vino. Otto discepoli sono seduti a mensa, significando così gli invitati a nozze, quelli di cui parla anche il Vangelo di domenica scorsa, XXVIII del tempo ordinario. È il popolo dell’ottavo giorno che in profonda relazione con il mistero del Salvatore siede alla stessa mensa. 

Vi sono però quattro sgabelli vuoti, lasciati da altri quattro chiamati alla mensa, i quali aspettano pazientemente il loro momento stando in ginocchio, cioè in atto penitenziale. Questi quattro simboleggiano quell’umanità che vorrebbe accostarsi alla mensa del Signore, ma ancora non può. Tra questi quattro, nella medesima postura, nella medesima attesa, sta anche Giuda. Lo riconosciamo per l’aureola nera e per la posizione un po’ arretrata.
La posizione in ginocchio ci informa sulla qualità di questo cibo che vuole da noi un cuore perfetto e contrito. L’affresco fa meditare se confrontato con le tipologie di discorsi che si vanno facendo oggi sulla celebrazione eucaristica e il mistero in essa significato. Oggi ricevere la comunione è guardato, a mio avviso, con eccessiva scontatezza, come se l’eucaristia fosse il termine naturale della messa e non piuttosto il coronamento per coloro che sono degni di accostarsi alla mensa del Signore. 

La facilità con cui in questi anni i cristiani si sono avvicinati alla comunione, senza le dovute disposizioni e senza – spesso – essersi confessati ha generato una riduzione del mistero e del sacramento. Era senz’altro necessario correggere una certa eredità giansenista eccessivamente restrittiva e scrupolosa rispetto all’eucaristia ma, purtroppo come spesso accade nella storia, si è scivolati sul versante opposto senza avere modo di tenere il tutto in giusto equilibrio. […]
L’eucaristia è una iniezione di eternità, prepara e abitua l’uomo a stare con Cristo ma – come dicevano i Padri della Chiesa – essa è come il sale, conserva nello stato in cui sei. Se sei in grazia di Dio, sei conservato nel bene; se non sei in grazia di Dio si accelera il processo di corruzione. Lo dice appunto tutta la vicenda di Giuda che, dopo aver preso il boccone uscì e la sua uscita fu nefasta. Non solo tradì il suo Maestro con il quale aveva condiviso la mensa ma, e questo fu l’aspetto peggiore, disperò del suo perdono. Non ebbe la forza di pentirsi e di ritornare in seno alla comunità. Egli diede su di sé un giudizio inappellabile tale da togliersi la vita.
Troppo facilmente oggi si concede l’eucaristia anche a quelli che, regolarmente sposati o semplicemente fidanzati, si comunicano senza confessione; pertanto anche il discernimento sugli stati di vita irregolari, incompatibili con il sacramento della comunione col Cristo, è confuso e incerto.(1)
Siamo certi che è necessario un giudizio di misericordia, ma senza dimenticare la verità. Siamo certi che molte persone hanno bisogno di essere accompagnate dentro un cammino nuovo, di consapevolezza e santità, ma questo senza dimenticare i gesti posti precedentemente in atto nella vita.
(1) "Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna" (vv. 27-29).
*
POST SCRIPTUM – Nel pomeriggio di lunedì 13 ottobre “L’Osservatore Romano” ha fornito un primo pallido resoconto della battaglia campale scoppiata in mattinata nell’aula del sinodo dopo la lettura della “Relatio post disceptationem” redatta dal cardinale relatore Péter Erdö con la collaborazione – a tratti prevaricante, come lo stesso Erdö ha fatto capire nella conferenza stampa della mattina – del segretario speciale Bruno Forte.
Nel fuoco di fila di ben 41 interventi, hanno preso la parola tra gli altri i cardinali Pell, Ouellet, Filoni, Dolan, Vingt-Trois, Burke, Rylko, Müller, Scola, Caffarra, tutti contrari a un’apertura alle seconde nozze come prospettato dal cardinale Kasper, anche lui intervenuto.
Ma tra le proteste di cui ha dato conto “L’Osservatore Romano” ve n’erano anche che riguardavano i paragrafi (redatti da Forte) sull’omosessualità, sulla quale “è stata chiesta una formulazione che tenga conto delle persone ma che non contraddica in alcun modo la dottrina cattolica su matrimonio e famiglia”.
E ancora “è stata proposta una parola più forte sul dramma dell’aborto così come sulla questione della fecondità assistita”.
Ma “soprattutto è stato invocato un grande incoraggiamento profetico rivolto a tutte quelle famiglie che, anche a prezzo di enormi sacrifici, testimoniano ogni giorno la verità cristiana sul matrimonio. Insomma – è stato rilevato – sarebbe opportuna un’affermazione positiva dell’amore matrimoniale, come anche del valore sociale delle famiglie”.

"Chi dunque s'accosta al corpo e al sangue di Cristo, a memoria di lui che per noi è morto e risorto, non solo deve essere puro da ogni contaminazione di carne e di spirito per non mangiare e bere a propria condanna, ma deve anche mostrare efficacemente la memoria di colui che per noi è morto e risorto, con l'esser morto al peccato e al mondo e a se stesso, e col vivere per Dio, in Cristo Gesù nostro Signore" (S. Basilio Magno, Il battesimo; tr. U. Neri).

ADORO TE DEVOTE

"Fiducia e amore e ne uscirai vittoriosa"




I consigli di S. Rocco a Madre Speranza

Racconta la Madre, nel suo Diario, che la notte del 30 giu­gno 1942, vide in sogno il glorioso S. Rocco.

Questo santo, che tante sofferenze e assurde persecuzioni dovette sopportare nel corso della sua vita era forse la persona più qualificata per incoraggiare Madre Speranza in questo mo­mento particolare della sua travagliata esistenza.

Lo fece raccontando alcune vicende della sua vita.

Partito dalla città di Montpellier, nella Francia meridionale, si dirigeva in Italia, elemosinando di porta in porta finché ottenne di poter prestare la sua opera in un ospedale per amma­lati contagiosi. Qui si ammalò e dovette molto soffrire per l'ab­bandono di tutti, anche di quelli che aveva beneficato.

Il Signore in una visione gli manifestò il suo desiderio che ritornasse in patria, dove l'aspettavano altre sofferenze.

Per amore di Dio accettò con gioia questo comando. Guarì miracolosamente e intraprese il viaggio di ritorno. Arrivato in patria nessuno lo riconobbe, neppure i suoi parenti, anzi fu ritenuto una spia e rinchiuso in un carcere dove fu trattato duramente. Solo poche ore prima di morire fu rico­nosciuto e trattato dignitosamente.

"Il Signore - dice ancora S. Rocco alla Madre - accetta la tua sofferenza, ma devi stare anche molto attenta per evitare le ingiustizie che l'uomo pretende compiere nella sua cecità.
Il Vescovo di Tarazona vorrebbe portarti nella casa di Alfaro, dove pensa di isolarti... per evitare che tu possa ricor­rere al Santo Ufficio".

Infine S. Rocco dice alla Madre che se l'avviso di tornare in Spagna fosse volontà di Dio lo dovrebbe eseguire con gioia, accettando non solo di rimanere isolata, ma anche di finire in un lurido carcere. Però, trattandosi di una nuova persecuzione con la quale ne risulterebbe pregiudicata la Congregazione e ostacolata la fondazione dei Figli dell'Amore Misericordioso, dovrà non solo evitare di mettersi nelle loro mani, ma lottare per evitarli. E conclude: "Chiedi al Buon Gesù il suo aiuto ed Egli te lo darà. Fiducia e amore e ne uscirai vittoriosa".

Le previsioni di S. Rocco si rivelarono subito esatte e i suoi consigli tempestivi e puntuali. Chiamata, infatti, dall'Asses­sore del Sant'Ufficio, le venne chiesto se desiderava tornare in Spagna. Rispose che era pronta a compiere la volontà di Dio e dei Superiori, ma disse francamente che le costava molto tor­nare in Spagna mentre la Congregazione era diretta dal Vescovo di Tarazona. L'Assessore chiese allora alla Madre di mettere per iscritto le ragioni delle sue riserve: le avrebbe fatte pervenire al Santo Padre.

Quella stessa notte, 3 luglio 1942, il Buon Gesù permise che Madre Speranza in bilocazione si presentasse al Santo Padre. A lui, molto impressionato, la Madre raccontò quanto S. Rocco le aveva detto. Alla fine del racconto il Santo Padre si prostrò a terra esclamando: "Sia lodato il Signore!". "E io - afferma Madre Speranza - scomparvi".

Da allora non ci furono più pressioni perché tornasse in Spagna.

Recatasi dopo qualche giorno dal Cardinale Vicario che l'a­veva convocata, cadde quasi subito in estasi alla sua presenza e il... povero Cardinale, invece di esporre quanto aveva in mente, fu costretto ad ascoltare per circa due ore le confidenziali parole che Madre Speranza rivolgeva al Buon Gesù, il quale la confortava con queste espressioni: "Non soffrire, figlia mia, e tieni presente che nella sofferenza puoi contare con Dio che sarà tuo aiuto e difensore. È così che tu e la Congregazione uscirete vittoriose da questo combattimento come ne sei uscita da tutti gli altri: non ti scoraggiare!". 
"Non so cosa avrà pensato Sua Eminenza - afferma Madre Speranza - so dire solo che quando ritornai in me il Cardinale mi stava vicino e mi disse. “Tutto questo me lo poteva aver detto prima, senza il bisogno di arrivare dove è arrivata. Sono, comunque, contento di aver presenziato ad un atto per me molto utile”.

Sotto la guida del Vescovo di Tarazona

Nel 1941 il Vescovo di Tarazona, sua Ecc.za Mons. Nicanor Mutiloa era stato nominato dal Santo Ufficio Direttore dell'I­stituto delle Ancelle dell'Amore Misericordioso.
Rimarrà con questo incarico fino al 1946.

Iniziò con una visita canonica delle varie case, a cominciare da quella di Madrid. Si preoccupò della situazione giuridica della Congregazione, cercando di chiarire alcune questioni rimaste in sospeso. Fece una revisione delle Costituzioni, "cor­rette, ordinate e aumentate", consultando anche altri Vescovi spagnoli.

Madre Speranza si allarmò quando si rese conto di alcune modifiche. Con molta fermezza e determinazione supplicò il Vescovo perché tutto quello che era contrario al Diritto fosse tranquillamente corretto, ma non venisse cancellato, modifi­cato o cambiato nulla di quanto era scritto in esse, convinta come era che Colui che gliele aveva dettate non può sbagliare.

Quando nel 1946 le ebbe in mano si rese conto che esse contenevano alcune norme che non erano proprie della Congregazione delle Ancelle dell'Amore Misericordioso e quindi "difficili da compiere". Non accettava, per esempio, che fosse ristretto il fine della Congregazione solo alla fondazione di collegi per bambini o all'assistenza familiare delle persone inferme: esistevano, infatti, case dove già si svolgevano altre attività.

Il rapporto di Madre Speranza con il Prelato fu improntato ad una rispettosa obbedienza e ad un leale sforzo di collaborazione, ma questo non le impedì di precisare che il Vescovo era stato nominato "Direttore" della Congregazione e non "Padre Generale" come aveva fatto credere alle suore.


Quando nel 1944 l'Istituto passò sotto la diretta dipendenza della Congregazione dei Religiosi, il Vescovo, anche a causa delle sue precarie condizioni di salute, chiese di essere solle­vato dal suo incarico pur rimanendo ancora per un certo tempo Direttore della Congregazione.

AMDG et BVM

LA VERGINITA' DI MARIA, OGGI


La verginità di Maria, oggi 
...A modo di Prefazione. Introduzione. Limiti dell'argomento. Maria Santissima perfetta Vergine e perfetta Madre. Il concetto preciso della Verginità in genere. La formula ternaria della Verginità di Maria. Divisione della trattazione....

LA VERGINITA' DI MARIA, OGGI

 

A MODO DI PREFAZIONE

Ha scritto San Pietro Canisio, Dottore della Chiesa; "Come Abramo viene appellato Padre, perché è sopra tutti i padri; come Paolo viene appellato l'Apostolo, perché è sopra tutti gli apostoli; così Maria viene appellata, fra tutte, la Vergine, e viene predicata dalla Chiesa "Vergine tra le vergini" ("Virgo virginum") " (De Maria Virgine incomparabili et Dei Genitrice sacrosanta, L, II, Praef, presso Bourassé, Summa aurea, t. VIII, col. 792). Ella fu sempre, "Vergine di corpo, vergine di anima, vergine di professione ": " Virgo carne, virgo mente, virgo professione " (ibid. col. 794). Ella fu " il modello più completo della vergine ": " absolutum exemplar virginis " (ibid.), la " sola vergine insieme e madre ": " Madre di Cristo e Vergine di Cristo "; sola mater simul et virgo, Mater Christi et Virgo Christi " (ibid.).
Dopo questi elogi il S. Dottore fa una riflessione ." Satana - dice - " turpissimo e impurissimo principe delle tenebre ", non solo " non dorme ", " ma cerca tutti i modi per aggredire e per distruggere la somma purità di Maria e la verginità della medesima ". " Sotto la guida di un tale duce ", molti - dice il Santo Dottore - " si scagliano per impedire che il mondo riconosca costantemente e la Chiesa predichi che la Madre del Signore è rimasta incorrotta prima del parto, nel parto e dopo il parto" (ibid., col. 795). Questa amarissima constatazione del Santo Dottore, se era vera e opportuna per i suoi tempi, appare particolarmente vera e opportuna per i  nostri tempi. Allora infatti erano i nemici della Chiesa coloro dei quali si serviva l'immondo serpente infernale per combattere la perpetua verginità di corpo e di anima di Maria; oggi invece sono gli stessi cattolici coloro dei quali si serve Satana per lo stesso turpissimo scopo. Come si può ancora parlare, infatti, di verginità di corpo se si ammette (come è stato ammesso da alcuni che pur si dicono cattolici) che Gesù è il frutto non già dello Spirito Santo in Maria, ma delle sue relazioni sessuali con San Giuseppe? e che Gesù è nato da Maria come tutti gli altri bambini, ledendo la verginità corporale di sua Madre?... Come si può ancora parlare di verginità di mente, se si ammette che Maria, prima dell'annunziazione, non solo non ebbe il fermo proposito o voto di consacrarsi tutta (anima e corpo) a Dio, ma ebbe intenzione di consumare, come qualsiasi altra sposa, il suo matrimonio con San Giuseppe?... Tacere, dinanzi a simili aberrazioni che intaccano il dogma della perpetua verginità (di corpo e di anima) della Madre di Dio, equivarrebbe a un delitto. E' perciò dovere di ogni vero cattolico difendere con San Pietro Canisio la perpetua verginità di Maria " contro i nemici della Chiesa e contro i corruttori della parola di Dio " (ibid., col. 796).
Ci rendiamo pienamente conto della singolare delicatezza dell'argomento.
Nel luglio passato, ebbi l'agio di compiere una visita dettagliata all'incantevole Duomo di Siena, dedicato all'Assunzione. Mi colpì molto l'iscrizione posta proprio all'ingresso del Tempio:

" Castissimum Virginis templum caste ingredi memento "

Questo invito ad entrare " nel castissimo Tempio della Vergine " " in modo casto ", vale, in modo tutto particolare, per la questione sulla perpetua verginità di Maria. E' necessario parlare della " Vergine " per antonomasia con parole verginali. " L'uomo – ammonisce San Bonaventura - deve aver monde labbra nel trattare questa materia " (1). Labbra monde e, soprattutto, cuore mondo, verginizzato, poiché le parole riflettono il cuore.
Ce lo conceda l'Onnipotente, Mediatrice la sua Vergine-Madre!...
Roma, 25 marzo 1970
P. GABRIELE M. ROSCHINI O.S.M.
Professore della Pontificia Università Lateranense
Editrice "Cor unum " Figlie della Chiesa, Roma 1970

 

INTRODUZIONE

1. LIMITI DELL'ARGOMENTO

L'argomento preciso del nostro studio è stato formulato in questi termini:
La verginità di Maria, oggi. Non si tratta perciò di tutta la verginità di Maria in tutta la sua estensione, ma solo dinanzi agli errori di oggi. Si hanno negazioni o dubbi in tutte e tre le fasi della verginità di Maria: prima del parto (concepimento verginale di Cristo), nel parto (parto verginale) e dopo il parto (vita verginale). E ciò non solo da parte di acattolici, ma anche - non si vede con quale coerenza - da parte di alcuni cattolici.
Questo discredito della verginità mariana non è che una logica conseguenza del discredito della verginità in genere, proprio dei nostri tempi. Quanto più è apprezzata da Dio, tanto più è disprezzata dall'uomo.

 

2. MARIA SANTISSIMA PERFETTA VERGINE E PERFETTA MADRE

Maria SS. è la Vergine-Madre: perfetta vergine e perfetta madre, Verginità e Maternità: sono due termini esprimenti due realtà le quali, naturalmente, si escludono a vicenda, come il fiore esclude il frutto e il frutto esclude il fiore. Se si accentua troppo il concetto di verginità, si corre il rischio di compromettere il concetto di maternità; se, al contrario, si accentua troppo il concetto di maternità, si corre il rischio di compromettere il concetto di verginità. L'abbinamento e l'armonioso incontro di queste due grandi realtà (verginità perfetta e maternità perfetta) nella persona di Maria, per un miracoloso intervento divino, costituiscono appunto il mistero che l'ha resa, simultaneamente, vergine e madre, perfetta vergine e perfetta madre, come c'insegna la fede. " Buona parte - ha detto S. Bernardino da Siena - è a essere maritata e vivere nel santo matrimonio. Migliore parte è a vivere nella santa verginità! Ma l'ottima qual è? E' quella di Maria la quale elesse l'una e l'altra, d'essere vergine e madre... " (Prediche volgari, ed. L. Bianchi, 1880-1888, II, p. 406).
Il problema di armonizzare queste due grandi realtà è stato percepito in tutti i venti secoli dell'era cristiana. Nessuna meraviglia perciò se alcuni, per salvare la perfetta verginità, hanno negato la realtà della maternità (per es. gli Gnostici i quali negavano la realtà umana di Cristo: cfr. S. IRENEO, Adv. haer. I. 24, 2; 30, 12); e se altri, al contrario, per salvare la perfetta maternità, han negato la realtà della verginità (per es. gli Ebioniti, i quali soppressero, nel loro Vangelo, il cosiddetto " Vangelo dell'infanzia " ove si parla esplicitamente della verginità di Maria (cfr. S. IRENEO, Adv. haer. I, 26, 1).

 

3. IL CONCETTO PRECISO DELLA VERGINITÀ IN GENERE

La verginità teologicamente considerata perciò si può distinguere in verginità corporale e verginità spirituale: 1) la verginità corporale (o materiale) importa l'integrità del corpo e l'immunità del medesimo dalla soddisfazione venerea liberamente ammessa; 2) la verginità spirituale, invece, importa l'integrità dello spirito, ossia il fermo proposito di astenersi dalla soddisfazione venerea anche lecita, come si ha nel matrimonio.
Ciò premesso si può dare il caso che una donna sia vergine spiritualmente, non già corporalmente (per es. a causa di una operazione chirurgica che distrugga l'integrità corporale); e, al contrario, può anche darsi il caso che una donna sia corporalmente vergine, ma non lo sia più spiritualmente (peccando, per es., in diversi modi, contro la castità).
Secondo il Mitterer e i suoi seguaci, invece, la verginità comprenderebbe i seguenti quattro elementi, due psichici e due somatici:
a) l'astensione affettiva (la volontà di astenersi) dalla soddisfazione venerea;
b) l'astensione effettiva dalla soddisfazione venerea;
c) l'astensione da ogni atto sessuale con tutte le funzioni psicologiche che l'accompagnano;
d) che il germe vitale femminile non abbia alcun contatto col germe vitale maschile (cfr. A. MITTERER, Dogme und Biologie der heiligen Familiè nach dem Weltbild des hl. Thomas von Aquin und dem der Gegenwart, Wien, Herder, 1948, p. 106).
Secondo questa nuova teoria della verginità (fondata sui soli dati biologici, prescindendo dal Ministero e dalla Tradizione della Chiesa) la integrità corporale (la verginità corporale) non sarebbe necessaria per avere il concetto ed il fatto della verginità, per cui si potrebbe sostenere una verginità perfetta senza l'integrità corporale. Un tale concetto essi l'applicano a Maria SS., la quale, per loro, sarebbe sempre vergine, pur non avendo, a causa del parto, la verginità del corpo (ma solo quella dello spirito). Costoro, evidentemente, si mettono contro il Magistero e la Tradizione della Chiesa. Non è già la fede (la verità rivelata) che si deve conformare alla scienza, ma è la scienza che si deve conformare alla Fede, nel caso che Fede e scienza fossero in conflitto.

 

4. LA FORMOLA TERNARIA DELLA VERGINITÀ DI MARIA

II fatto (rivelato) della perpetua verginità di Maria è stato espresso dalla Chiesa (a cominciare dalla Costituzione " Cum quorundam " di Paolo IV, del 1555) con la formola ternaria chiara e popolare: Maria fu vergine prima del parto, nel parto e dopo il parto.
Questa triplice divisione - è bene rilevarlo subito – anziché una divisione scientifica, è piuttosto una divisione pratica, ordinata ad esprimere, in modo facile e popolare, la realtà della verginità o integrità, corporale e morale, di Maria in tutte le fasi della sua vita. Il fondamento, il perno di una tale divisione è la nascita di Cristo, la quale - secondo il concetto tradizionale - fu verginale, ossia, avvenne senza compromettere l'integrità corporale della Madre. Ciascuna delle tre parti della divisione - è bene rilevarlo - ha un suo proprio significato, parzialmente diverso da quello delle altre. Siccome l'espressione " sempre vergine " è generica, per questo è stata poi specificata dalla suddetta formola ternaria. Se non vi fosse qualcosa di intermedio tra la verginità prima del parto e dopo il parto, inutilmente si sarebbe introdotto un membro intermedio (la verginità " nel parto ") (2).

 

5. DIVISIONE DELLA TRATTAZIONE

Ciò premesso, di ciascuna delle tre fasi della verginità di Maria SS. (prima del parto, nel parto e dopo il parto) esporremo tre cose:
I     Il concetto preciso
II    Gli errori di oggi
III   La loro confutazione.
Note alla prima parte
(1) "Homo habere debet munda labia in hac materia" (S, BONAVENTURA, in Sent. III,
d. 4, a. 3, q. 1, ad 2; ed. Quaracchi, III, p. 1136).
(2) L'iconografia-bizantina suole esprimere le tre fasi della verginità di Maria dipingendo tre stelle sul capo e sulle spalle della Vergine col Bambino. Ciascuna di queste tre stelle ha il suo particolare splendore.


AVE MARIA!