giovedì 5 marzo 2015

"È impossibile descrivere ciò che provai"

Beata Mirjam di Gesù Crocifisso

SICUREZZA IN DIO. IL BIMBO NEL GREMBO MATERNO

Signore, custodiscimi sempre nel tuo amore, come il bambino è custodito nel grembo di sua madre. Là non gli manca nulla. Non ha bisogno né di mangiare né di bere. È al sicuro da qualunque pericolo. Possiede tutto ciò che è necessario alla vita. Anch'io, Signore, non manco di nulla, quando tu mi tieni nel tuo amore... Custodiscimi, Signore, nel grembo del tuo amore.

I PULCINI SOTTO LE ALI DELLA CHIOCCIA


Oggi e ieri ho cantato un cantico al Signore.
«Signore, sono come un piccolo pulcino su di cui lo sparviero si è precipitato. Gli ha beccato la testa e lo ha colpito quasi a morte. Il piccolo però si è nascosto sotto le ali protettrici di sua madre per mettersi al sicuro.
Anch'io vivevo in angoscia, tristezza e dolore. Le mie ossa erano slogate, il corpo ricoperto di lividi. Rivolsi lo sguardo a mio padre. Egli mi ha guardata ed io sono guarita. Le mie gambe si rinforzarono, e io mi tenni diritta come una ragazza. di quindici anni. Tutto il mio corpo, tutta la mia anima trasalivano di gioia.
Corsi da mio padre, dal mio sovrano. Egli mi venne incontro e io ero come il piccolo pulcino sotto le ali di sua madre. Da sotto le ali di mio padre, del mio re scrutavo i miei nemici, senza angoscia, perché sapevo che ero salva.
Ed io andavo e venivo con il Re. I miei nemici vedendomi dicevano stupiti: "No, non è lei, è un'altra".
Ma non ero affatto un'altra. L'Altissimo mi proteggeva. Io andavo e venivo con il mio Re. I miei nemici mi videro e allora la loro forza svanì. Le loro ginocchia divennero deboli. Caddero a terra, diritti e distesi e io camminai sulla loro testa.
È impossibile descrivere ciò che provai».  

AVE MARIS STELLA




AVE
MARIS STELLA




ALLA RADICE

L’ultima puntata della rubrica “Fuori moda” ha suscitato un buon numero di interventi sul tema della Messa, solo accennato nella risposta al signor Astolfi. Questo è un buon segno perché dimostra che i lettori hanno colto il problema dei problemi, la radice alla quale chiunque affronti sinceramente la crisi della Chiesa deve arrivare.
di Alessandro Gnocchi
.
zzsmvoA questo proposito vorrei prendere un po’ di spazio, e molta della vostra pazienza, perché ritengo necessario fornire gli elementi fondamentali a una riflessione compiuta, che non possono essere lasciati a una semplice osservazione inserita in uno scritto colloquiale.
L’osservazione, che riporto dalla mia risposta al signor Astolfi, è la seguente: “la  rinascita della fede cattolica passa solo attraverso la restaurazione della liturgia cattolica, che non è quella inventata a tavolino da Annibale Bugnini e promulgata da papa Paolo VI, ma quella che ci è stata consegnata da secoli e secoli di tradizione. Mi rendo conto che non è sempre facile trovare una Messa in rito antico, ma, quando è possibile, conviene sforzarsi di farlo anche a costo di macinare chilometri a fatica: ne va della gloria che dobbiamo tributare a Dio e della salvezza della nostra anima”.
A questo punto, procederei in modo schematico precisando “quello che non ho detto”, “quello che ho detto”, “quello che un semplice laico può dire a chi chiede un parere”. Poi, per dare sostanza a queste precisazioni, riporto una lunga sezione del capitolo sulla riforma liturgica di Paolo VI che avevo scritto per “La Bella addormentata”, il libro sulla crisi generata dal Vaticano II, pubblicato con Mario Palmaro.
Quello che non ho detto. Non ho detto che la Messa Novus Ordo, la Messa nuova, non è valida. Non ho detto che chi partecipa alla Messa Novus Ordo non assolve il precetto festivo. Non ho suggerito se e come surrogare la mancata partecipazione alla Messa Vetus Ordo, la Messa tradizionale. La frase della risposta al signor Astolfi mi pare chiara e non ha bisogno di modifiche, dunque la riporto così com’è: “Mi rendo conto che non è sempre facile trovare una Messa in rito antico, ma, quando è possibile, conviene sforzarsi di farlo anche a costo di macinare chilometri e fatica”.
Quello che ho detto. Parto dalla frase che, nella risposta ad Astolfi, segue quella appena riportata: “ne va della gloria che dobbiamo tributare a Dio e della salvezza della nostra anima”. Perché, salvo la consacrazione, deve essere ben chiaro che la Messa Novus Ordo non è la stessa cosa della Messa in Vetus Ordo. Tutto ciò che viene prima e dopo la consacrazione è radicalmente diverso. Perciò ho anche detto: “la liturgia cattolica, che non è quella inventata a tavolino da Annibale Bugnini e promulgata da papa Paolo VI, ma quella che ci è stata consegnata da secoli e secoli di tradizione”.
 Le ragioni di questa affermazioni le trovate nel capitolo della “Bella addormentata” che trovate di seguito.
Quello che un semplice laico può dire a chi chiede un parere. La Messa è il cuore della fede: la Lex orandi si accompagna alla Lex credendi, perché si prega come si crede. Osservando onestamente i due riti è difficile immaginare che esprimano la stessa fede. E non mi riferisco al confronto tra il rito antico e le degenerazioni di quello nuovo che vanno sempre più diffondendosi, ma mi riferisco al confronto tra i due messali.  È vero che ci sono buoni sacerdoti che tentano di “cattolicizzare” la Messa nuova, ma questo tentativo dimostra un deficit evidente di cattolicità. Non si può affermare che il Novus Ordo celebrato bene valga quanto il Vetus Ordo poiché si tratta di riti diversi: portando alle estreme conseguenze il ragionamento allo scopo di farsi capire, il Vetus Ordo celebrato male è sempre meglio del Novus Ordo celebrato bene. Altro errore da non commettere è quello di valutare una Messa in base all’omelia: una Messa Novus Ordo con una buona omelia è sicuramente edificante per chi vi assiste, ma, a causa della impostazione antropocentrica, perde di vista l’atto essenziale: tributare a Dio il culto che Lui chiede agli uomini. L’eventuale coesistenza dei due riti, laddove quello antico non viene negato, può essere una necessità di fatto, ma è deleterio come scelta di principio: non può esserci travaso da uno all’altro perché il Novus Ordo è stato concepito per cancellare dalla memoria il Vetus Ordo.
Per quanto riguarda i fedeli che non hanno materiale possibilità di partecipare al rito antico, rimane il fatto che, attraverso quello nuovo, possono accedere alla Comunione sacramentale e questo è un fatto importante. Ma bisogna tenere presente che la Messa è, prima di tutto, un atto di culto dovuto dall’uomo a Dio, un diritto di Dio di essere adorato come Lui stesso chiede, e non un diritto dell’uomo.
Infine, per quanto riguarda l’esito ultimo della riforma liturgica, non ho dubbi nell’affermare che sia la distruzione della fede cattolica. Per comprenderlo suggerisco la lettura di un libro di Michael Davies, “La riforma liturgica anglicana”, di cui Cristina Siccardi ha scritto una splendida recensione per “Riscossa Cristiana”. Questo lavoro mostra come, mutando la liturgia, nell’Inghilterra anglicana si sia mutata la fede. Ma ciò che inquieta il lettore di oggi è che la riforma liturgica promulgata d Paolo VI somiglia tragicamente da vicino a quella inglese e, dunque, può portare solo a esiti simili, come dimostrano i fatti e non le teorie.
I fedeli che partecipano alla nuova liturgia e mantengono la fede cattolica ci riescono nonostante quella liturgia e non in virtù di essa, come invece dovrebbero essere. Sono destinatari di una grazia particolare di cui devono essere particolarmente grati al Signore e che sono chiamati a far fruttare nel luogo e nel tempo in cui si trovano.
Qui mi fermo perché non intendo, così come non intende “Riscossa Cristiana”, prendere le parti della guida spirituale che indica pubblicamente al prossimo come comportarsi in una materia tanto grave e in una situazione tanto confusa. In ogni caso mi metto a disposizione per parlarne individualmente in amicizia e spiegare, per esempio, come mi regolo personalmente. Chi voglia contattarmi può farlo scrivendo a “Riscossa Cristiana”, info@riscossacristiana.it, oppure, se lo ha già, al mio indirizzo e-mail personale o, ancora, telefonandomi se ha il mio numero.
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Da “La Bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II la 
Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà”
(…)
Per uscire da tale cortocircuito teoretico, bisogna compiere un banale ragionamento da storici. Basta considerare i fatti con mente sgombra e porsi una semplice domanda: se si pensa a una Messa qualsiasi di una chiesa qualsiasi degli Anni Cinquanta e poi la si confronta con una Messa qualsiasi di una chiesa qualsiasi dell’anno di Grazia 2011, si può onestamente dire che nulla sia cambiato? (…)
La Croce e il mistero pasquale
(…) Questo fenomeno è dovuto a una teologia che ha assorbito il concetto classico di Redenzione in quello di mistero pasquale. In tal modo, nella nozione di Redenzione passano in secondo piano la necessità di soddisfare la giustizia divina, la Passione di Gesù e la cooperazione dell’uomo, mentre vengono esaltati l’amore, l’iniziativa di Dio e la nuova vita della Resurrezione. Una delle sintesi più efficaci di questa impostazione si trova nel saggio Qu’est-ce le mystère pascal (Cos’è il mistero pasquale) pubblicato nel 1961 da Aimon-Marie Roguet, che poi sarà membro del Consilium per l’attuazione della riforma: “Come un’offesa infinita può essere può essere soddisfatta? Come l’innocente può pagare per il colpevole? È da deplorare che per molti dei nostri contemporanei, la Redenzione si presenti in questi termini. Certi, infatti, ne sono scandalizzati nel loro senso di giustizia e trovano nella Redenzione così presentata un’obiezione insuperabile contro la bontà di Dio. Se fosse veramente Padre, sarebbe un Dio contabile così esigente e trasferirebbe la sua collera sul suo Figlio diletto? Nella presentazione del mistero pasquale, invece, non si incontrano questi scogli. Infatti, in esso la nostra salvezza appare operata da un atto vitale e gratuito, una libera iniziativa di Dio, uscita totalmente dal suo amore misericordioso”.
Una nuova concezione di peccato
In questa luce, non avendo più lo scopo di soddisfare la giustizia divina, la Passione e la Croce di Nostro Signore sbiadiscono fino a perdere di senso. Perché soffrire, se è inutile? Ma se la Redenzione è opera di un amore che ignora la giustizia, se è Dio ad andare in cerca dell’uomo senza che l’uomo vada in cerca di Dio, è evidente che cambia la nozione di peccato.
Il ragionamento che sostiene questa tesi parte da una premessa formalmente giusta, ma non sufficiente: come l’omaggio di una creatura nulla aggiunge a Dio, così l’offesa nulla Gli toglie. A corollario di tale teorema si pone in evidenza che il peccato porta pregiudizio solo all’uomo peccatore. La premessa, vera sul piano formale, veicola una volontaria ambiguità perché omette di spiegare che, se il peccato non lede la natura di Dio, lede il suo diritto a essere adorato e obbedito. La teologia classica ha sempre spiegato che il peccato è un’ingiuria all’onore di Dio misurata in base alle esigenze della maestà divina piuttosto che in base ai danni causati al peccatore stesso. Siccome Dio ha creato tutto per la propria gloria, l’uomo deve ordinare ogni sua azione a tale fine e, ove non lo faccia, si costituisce peccatore e contrae un debito di giustizia.
Secondo la nuova visione teologica, invece, il peccatore porta pregiudizio solo a se stesso e alla società, ma solo indirettamente a Dio. In quest’ottica, come scrisse Emile Mersch in Cristo, l’uomo e l’universo. Prolegomeni alla teologia del Corpo mistico, la redenzione “non ha lo scopo di restituire qualcosa a Dio, ma di restituire Dio all’uomo”.
L’evidente natura antropocentrica di tale prospettiva va contro l’insegnamento di San Paolo, secondo cui il peccato comporta la collera di Dio, che si esprime già su questa terra con delle pene, ma si manifesterà soprattutto nell’ultimo giudizio.
Fenomenologia di un capovolgimento
Dall’affermazione che l’opera redentrice di Cristo ha come scopo la sola rivelazione dell’amore del Padre, conseguono due cambiamenti radicali nella teologia della Redenzione. Il primo consiste nell’attribuire quest’opera più a Dio Padre che a Cristo come uomo. Quest’ultimo diverrebbe solo il “luogo” nel quale Dio salva l’umanità manifestando il proprio amore. Il secondo cambiamento consiste nel trasferimento dell’atto principale della Redenzione dalla morte di Cristo alla sua Resurrezione e Ascensione. “Chi parla di Redenzione” dice Roguet nel suo saggio sul mistero pasquale “pensa anzi tutto alla Passione e poi alla Resurrezione come ad un completamento. Chi parla di Pasqua pensa anzi tutto a Cristo resuscitato. La Resurrezione non appare più come un epilogo, ma come un termine e il fine nel quale si riassume il mistero della salvezza”.
La sintesi mostra il capovolgimento di orizzonte. La teologia classica, secondo l’insegnamento di San Paolo, non eclissava il ruolo della Resurrezione, ma come spiega Roguet, la subordinava alla Passione e alla Croce. Pochi anni prima del Concilio, nel 1956, Papa Pio XII la sintetizzava nell’enciclica Haurietis Aquas: “Il Mistero della Divina Redenzione, infatti, è propriamente e naturalmente un mistero di amore: un mistero, cioè, di amore giusto da parte di Cristo verso il Padre celeste, cui il sacrificio della Croce, offerto con animo amante ed obbediente, presenta una soddisfazione sovrabbondante ed infinita per le colpe del genere umano (…). Pertanto il Divin Redentore — nella sua qualità di legittimo e perfetto Mediatore nostro — avendo, sotto lo stimolo di una accesissima carità per noi, conciliato perfettamente i doveri e gli impegni del genere umano con i diritti di Dio, è stato indubbiamente l’autore di quella meravigliosa conciliazione tra la divina giustizia e la divina misericordia, che costituisce appunto l’assoluta trascendenza del mistero della nostra salvezza, così sapientemente espressa dall’Angelico Dottore in queste parole: ‘Giova osservare che la liberazione dell’uomo, mediante la passione di Cristo, fu conveniente sia alla sua misericordia che alla sua giustizia. Alla giustizia anzitutto, perché con la sua passione Cristo soddisfece per la colpa del genere umano: e quindi per la giustizia di Cristo l’uomo fu liberato. Alla misericordia, poi, poiché, non essendo l’uomo in grado di soddisfare per il peccato inquinante tutta l’umana natura, Dio gli donò un riparatore nella persona del Figlio suo. Ora questo fu da parte di Dio un gesto di più generosa misericordia, che se Egli avesse perdonato i peccati senza esigere alcuna soddisfazione. Perciò sta scritto: Dio, ricco di misericordia, per il grande amore che ci portava pur essendo noi morti per le nostre colpe, ci richiamò a vita in Cristo’”.
Il culto del pubblicano e il culto del fariseo
In opposizione a un magistero limpidissimo, nel periodo preconciliare la nuova teologia del mistero pasquale, che ebbe nel benedettino Odon Casel uno dei più efficaci propagandisti, trovò sostenitori tra teologi e liturgisti come  Henry Pinard de La Boullaye, Emile Mersch, Yves de Montcheuil, Adalbert Hamman, Edouard Schillebeeckx, Annibale Bugnini, Jean Gaillard, Cipriano Vagaggini: quasi tutti nomi che, a vario titolo, portarono il loro decisivo contributo nei lavori per la riforma liturgica.
Il risultato più evidente fu l’oscuramento dell’aspetto sacrificale nel messale promulgato da Papa Paolo VI, vieppiù smarrito nel corso del tempo a causa della creatività dei celebranti. L’attiva partecipazione auspicata dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium, in realtà, si è tradotta nel protagonismo dell’uomo che è andato a sostituire la centralità di Dio.
Così, mentre nella Messa preconciliare centrata sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario, l’uomo è chiamato a partecipare alla Passione di Cristo per meritare, anche se indegno, di essere glorificato con Lui, in quella postconciliare diviene commensale di Dio al banchetto in cui celebra la propria gloria fondata sulla libertà. Nel primo caso il cristiano è chiamato a compatire con Cristo, nel secondo è invitato a collaborare con Dio. Se prima adorava, chiedeva perdono e offriva il proprio nulla davanti al Figlio di Dio sacrificato, ora si limita a rendere grazie della libertà che lo rende somigliante a Dio.
Non è un caso se tra le molte parti della Messa antica eliminate nel nuovo messale c’è quella in cui, prima di salire all’altare, il sacerdote si inchina a chiedere perdono come il pubblicano della parabola del Vangelo di San Luca. Alla luce del cambiamento non ve n’è più ragione. Qualsiasi uomo raggiunga la consapevolezza di non dover scontare pena alcuna per i suoi peccati può stare ritto come il fariseo e rendere grazie: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano”.
Ci vuole un seme
L’abbandono dell’atteggiamento del pubblicano davanti a Dio ha prodotto indifferenza alla Croce, all’eucaristia e alla Presenza Reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino. Pochi anni orsono, per citare solo un esempio, la diocesi di Bergamo consegnò ai giovani inviati in missione tra i loro coetanei un Crocifisso alla base del quale era stato aggiunto un seme come segno di speranza: la Croce, evidentemente, non lo è più. Oggi si arriva anche a costruire tabernacoli a due posti per la conservazione dell’eucaristia, scritta in minuscolo, e della Parola, scritta in maiuscolo. Nei ritiri per sacerdoti sta diventando pratica comune l’ora di adorazione della Bibbia invece che del Santissimo Sacramento. Oppure capita pure che, se durante la distribuzione della comunione non bastano le particole, il sacerdote ne mandi a prendere altre in sacrestia e le metta nella pisside continuando tranquillamente il suo lavoro: come se la consacrazione avvenisse per contatto, o come se, c’è da temere, il sacerdote abbia più di qualche dubbio sulla Presenza Reale.
A proposito di queste deragliamenti, nel suo saggio Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, monsignor Brunero Gherardini riporta con comprensibile scandalo un brano della relazione tenuta a Madrid nel 2004 da padre Timothy Radcliffe durante le “Giornate nazionali di pastorale giovanile vocazionale” della Conferenza dei religiosi spagnoli. La relazione di padre Racliffe, che è stato maestro generale dell’ordine domenicano dal 1992 al 2001, ha come titolo “Sessualità ed eucaristia: il dono del corpo” e comincia così: “Voglio parlare di Ultima Cena e sessualità. Può sembrare un po’ strano, ma pensateci un momento. Le parole centrali dell’Ultima Cena sono state: ‘Questo è il mio corpo, offerto per voi’. L’eucaristia, come il sesso, è centrata sul dono del corpo. Vi rendete conto che la prima lettera di san Paolo ai Corinzi si muove fra due temi, la sessualità e l’eucaristia? Ed è così perché Paolo sa che abbiamo bisogno di capire l’una alla luce dell’altra. Comprendiamo l’eucaristia alla luce della sessualità e la sessualità alla luce dell’eucaristia”.
Non sarebbe stato necessario citare questo brano già riportato da monsignor Gherardini se non vi fosse da aggiungere una notazione: un testo capace di scandalizzare un teologo di lungo corso ha incontrato invece l’entusiasmo e l’approvazione dei prenovizi domenicani di Bergamo, che lo hanno riportato con grande enfasi nel loro blog vitaefratrum.blogspot.com.
Evidentemente, aveva ragione Marshall McLuhan quando mostrava le conseguenze della celebrazione con il sacerdote rivolto verso il popolo. Lo faceva nel 1974 con il saggio “La liturgia e il microfono”, tradotto in italiano nel 2003 nella raccolta La luce e il mezzo. Un “(…) nuovo e intenso impulso visivo” scrive lo studioso canadese “favorì il posizionamento dell’officiante di fronte alla congregazione, separata da una tavola/altare. Questa pratica fu accettata dalle chiese della Riforma e respinta da Roma. L’esperienza visiva, naturalmente, esclude la metamorfosi e la transustanziazione, perché lo spazio visivo o euclideo è il solo canale sensoriale statico conosciuto dall’uomo”.
In altri termini, lo sguardo diretto sulla tavola/altare induce i fedeli a dubitare della transustanziazione poiché le specie del pane e del vino non mutano visibilmente sotto i loro occhi nell’atto della consacrazione. Vale la pena di notare che, nel 1974, McLuhan parlava di un tale effetto attribuendolo alla rivoluzione protestante. E’ inquietante notare che, solo qualche decennio dopo l’introduzione della riforma liturgica, lo stesso ragionamento vale per la grande maggioranza delle celebrazioni cattoliche. →
25 Responses to Alla radice del problema. Messa Vetus Ordo e Novus Ordo – di Alessandro Gnocchi

In hoc signo vinces


O Crux, ave, spes unica: 

dunque la Messa della Tradizione.



  Lo scorso mese, parlando della solennità del Corpus Domini, ricordavamo il pericolosissimo oblio del carattere sacrificale della Messa cattolica. Oblio che conduce lentamente ma inesorabilmente all'eresia. Su questo punto non dovremmo mai dimenticare il grande lavoro di Michael Davies sulla Riforma anglicana, che sottolinea il pericolo dei “taciuti” in liturgia: la riforma anglicana di Cranmer, togliendo dalla Messa tutti i riferimenti espliciti al Sacrificio propiziatorio, introdusse vincente, nel giro di una generazione, il Protestantesimo in Inghilterra, portandola definitivamente all'eresia.

  Ma nel mese scorso ci spingevamo più in là dicendo che, col dimenticare che la Messa è il Sacrificio di Cristo sulla Croce, si perde inesorabilmente la coscienza della Presenza sostanziale di Cristo nella Santissima Eucarestia: se non c'è più la Vittima, non c'è nemmeno più la Presenza di Gesù Cristo, perché Cristo si rende presente nell'Eucarestia come Vittima. Una Messa percepita sempre più come ricordo dell'Ultima Cena rischia veramente di non essere più la Messa cattolica. Innegabilmente l'ultima riforma della messa, quella del 1969, l'ha fatta assomigliare sempre più alla Santa Cena protestante, anglicana o luterana che sia.

  C'è però di più: una Messa sempre più protestantizzata, ha protestantizzato il popolo cristiano con la sua missione, tanto da farlo assomigliare ogni giorno di più ad un insieme di congregazioni protestanti impegnate nella loro presenza in mezzo al mondo.



  Se non c'è più la Vittima, non c'è nemmeno più la Presenza di Cristo. È vero per la Messa, per il Santissimo Sacramento, ma è vero anche per tutta l'opera della Chiesa. Se al centro di tutta la predicazione dottrinale, se al centro di tutta la pastorale della Chiesa non c'è più Cristo Crocifisso, tutta la missione della Chiesa rischia di essere spaventosamente vuota. Mai come in questi ultimi decenni si sono moltiplicati gli sforzi pastorali, si sono affinate le tecniche per un annuncio efficace, mai si è parlato come in questi ultimi cinquant'anni di missione, e si è raccolto quasi nulla. Si è andati verso il mondo annunciando e annunciando ancora, e si è registrata la sua inesorabile scristianizzazione.

  Chi avrebbe mai pensato, tra i Padri del Concilio, che la fede cattolica sarebbe quasi scomparsa nel giro di mezzo secolo? Chi avrebbe mai pensato, tra i vescovi del Vaticano II, all'avvento di una società così anti-cattolica e immorale come quella di oggi, dove ogni legge sembra fatta apposta per essere contro il disegno di Dio sull'uomo?

  Eppure, ed è innegabile, questo disastro è sotto i nostri occhi.

  Se non c'è più Gesù-Vittima, non c'è nemmeno più Gesù-presente.
  Sì, una Chiesa che entusiasticamente, a partire dagli anni '60, è andata incontro al mondo mettendo in secondo piano la Croce di Cristo, ha perso Cristo stesso e non ha portato nulla o quasi alla società. Sì perché, occorre dirlo con chiarezza, senza la centralità della Croce, senza la centralità di Cristo crocifisso, tu perdi Cristo stesso. È terribile l'illusione di chi vuol parlare di Gesù senza la sua Croce, senza anzi la centralità della sua Croce. Chi mette la Croce di Cristo “tra le tante cose” della vita di Gesù, ma non ne considera la centralità, in verità non parla nemmeno di Cristo. Parla di un Gesù “confezionato” apposta per il mondo moderno che, come i giudei e i gentili di San Paolo, giudicavano Cristo Crocifisso scandalo o stoltezza.

  Si è voluti andare al mondo per dialogare amichevolmente con esso, evitando le condanne della Chiesa del passato; per dialogare amichevolmente si sono dovuti “velare” o “nascondere” la Croce e il Sacrificio di Cristo, perché il dialogo con la società moderna, con le sue religioni, restasse sereno e amichevole; con il risultato doppiamente tragico di non aver portato nulla agli uomini del tempo e, peggio, di aver devastato il santuario della presenza di Dio che è la Chiesa.


  Non c'è niente da fare, per primi dobbiamo accettare e abbracciare lo scandalo della Croce, riconoscerlo come il contenuto centrale della dottrina, della vita e della missione della Chiesa, e allora, non calcolando gli esiti, ma fiduciosi nell'infinita potenza della grazia di Dio, andare verso il mondo, perché dalla Croce di Cristo sia convertito e sanato.

  Guai a quei Cristiani, guai a quella Chiesa che voglia portare un altro Gesù, senza la Croce, guai! Perderà la sua essenza, perderà la sua forza, perderà la sua anima, perderà l'efficacia unica della grazia. E risulterà sempre più inutile e insopportabile al quel mondo che voleva raggiungere. Odiosamente insopportabile al mondo è una Chiesa senza il Sacrificio e la Croce.
E il mondo, una Chiesa così vuota, è già pronto ad azzannarla.

  In hoc signo vinces, non è solo il ricordo di una storia passata, è la verità di ogni istante: la vittoria è della Croce e di chi, la Croce, la porta e la mostra al mondo, senza calcolo umano.

  O Crux, ave, spes unica, salve o Croce, unica speranza: se non si tornerà a questa chiarezza in tutto, veramente in tutto nella Chiesa, il disastro sarà inevitabile.

  Ma questo ritorno inizia dal Santo Sacrificio della Messa.
  Se di fronte a questo quadro di devastante confusione ci sentiamo impotenti; se impotenti ci domandiamo cosa fare e soprattutto da dove iniziare, ricordiamoci che la riedificazione della Chiesa partirà sempre dal Santo Sacrificio della Messa. Non facciamo calcoli umani, non commettiamo l'errore degli anni '60, non andiamo al mondo, nemmeno per riedificare la Tradizione, con le nostre tecniche, ma ri-iniziamo dalla Messa.

  Torniamo subito alla Messa della Tradizione, lo diciamo ai sacerdoti prima e poi ai fedeli. Torniamo al corretto rito del Santo Sacrificio della Messa e da lì ripartiamo per un lavoro paziente di riedificazione della fede. Non commettiamo l'errore di fare l'inverso, prima il lavoro pastorale, poi il ritorno alla Messa di sempre, sarebbe in fondo un nascondere ancora la Croce di Cristo, attendendo tempi migliori, così come fecero gli illusi missionari degli anni post-conciliari.

  La verità invece è Cristo.

 La verità è invece il fatto del suo Sacrificio redentore, perpetuato dalla Messa cattolica. Primo compito dei sacerdoti è celebrarla. Primo compito di tutti è vivere di essa, perché la vita, quella vera, continui.

AMDG et BVM
Editoriale "Radicati nella fede" - Anno VII n° 7 - Luglio 2014

«La terra ha dato il suo frutto»


OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Solennità della B.V.M. di Guadalupe (12.XII)


Cari fratelli e sorelle,

«La terra ha dato il suo frutto» (Sal 67, 7). In questa immagine del salmo che abbiamo ascoltato, nella quale s’invitano tutti i popoli e le nazioni a lodare con gioia il Signore che ci salva, i Padri della Chiesa hanno saputo riconoscere la Vergine Maria e Cristo, suo Figlio: 

«La terra è santa Maria, la quale viene dalla nostra terra, dal nostro lignaggio, da questa creta, da questo fango, da Adamo [...]. La terra ha dato il suo frutto: prima produsse un fiore [...]; poi questo fiore si trasformò in frutto, affinché potessimo mangiarlo, affinché mangiassimo la sua carne. Volete sapere qual è questo frutto? Ė il Vergine che procede dalla Vergine; il Signore, dalla schiava; Dio, dall’uomo; il Figlio, dalla Madre; il frutto, dalla terra» (San Girolamo, Breviarum in Psalm. 66; PL 26, 1010-1011). 
Anche noi oggi, esultando per il frutto di questa terra diciamo «Ti lodino i popoli, Dio, ti lodino i popoli tutti» (Sal 67, 4). Proclamiamo il dono della redenzione ottenuta da Cristo e in Cristo riconosciamo il suo potere e la sua maestà divina.

Animato da questi sentimenti, saluto con affetto fraterno i signori cardinali e vescovi che ci accompagnano, le diverse rappresentanze diplomatiche, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, come pure i gruppi di fedeli riuniti in questa Basilica di San Pietro per celebrare con gioia la solennità di Nostra Signora di Guadalupe, Madre e Stella dell’Evangelizzazione in America.

Tengo presenti anche tutti coloro che si uniscono spiritualmente e che pregano Dio con noi nei diversi Paesi dell’America Latina e dei Caraibi, molti dei quali in questo tempo festeggiano il Bicentenario della loro indipendenza, e che, al di là degli aspetti storici, sociali e politici degli eventi, rinnovano all’Altissimo la loro gratitudine per il grande dono della fede ricevuta, una fede che annuncia il Mistero redentore della morte e della resurrezione di Gesù Cristo, affinché tutti i popoli della terra in Lui abbiano vita. Il Successore di Pietro non poteva lasciar passare questa ricorrenza senza tener presente la gioia della Chiesa per i copiosi doni che Dio nella sua infinità bontà ha elargito in questi anni a queste amatissime nazioni, che dal più profondo invocano Maria Santissima.

La venerata immagine della Morenita del Tepeyac, dal volto dolce e sereno, impressa sul mantello dell’indio san Juan Diego, si presenta come «la sempre Vergine Maria, Madre del vero Dio per il quale si vive» (De la lectura del Oficio. Nicán Mopohua, 12 ed., Città del Messico, df, 1971, 3-19). Ricorda la «donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta» (Ap 12, 1-2) e indica la presenza del Salvatore alla sua popolazione indigena e meticcia. Ci conduce sempre al suo divino Figlio, il quale si rivela come fondamento della dignità di tutti gli esseri umani, come un amore più forte delle forze del male e della morte, essendo anche fonte di gioia, fiducia filiale, consolazione e speranza.

Il Magnificat, che proclamiamo nel Vangelo, è «il cantico della Madre di Dio e quello della Chiesa, cantico della Figlia di Sion e del nuovo Popolo di Dio, cantico di ringraziamento per la pienezza di grazie elargite nell’Economia della salvezza, cantico dei “poveri”, la cui speranza si realizza mediante il compimento delle promesse fatte “ai nostri padri”» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2619). In un gesto di riconoscenza al suo Signore e di umiltà della sua serva, la Vergine Maria leva a Dio la lode per tutto quello che Egli ha fatto a favore del suo popolo, Israele. Dio è Colui che merita tutto l’onore e la gloria, l’Onnipotente che fa meraviglie per la sua fedele servitrice e che oggi continua a mostrare il suo amore per tutti gli uomini, in particolare per quanti affrontano dure prove.

«Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino» (Zc 9, 9), abbiamo ascoltato nella prima lettura. Dall’incarnazione del Verbo, il Mistero divino si rivela nell’evento di Gesù Cristo, che è contemporaneo a ogni persona umana in qualsiasi tempo e luogo per mezzo della Chiesa, della quale Maria è Madre e modello. Per questo, noi oggi possiamo continuare a lodare Dio per le meraviglie che ha compiuto nella vita dei popoli latinoamericani e del mondo intero, manifestando la sua presenza nel Figlio e nell’effusione del suo Spirito come novità di vita personale e comunitaria. Dio ha nascosto queste cose «ai sapienti e agli intelligenti», facendole conoscere ai piccoli, agli umili, ai puri di cuore (cfr. Mt 11, 25).


Con il suo «sì» alla chiamata di Dio, la Vergine Maria manifesta fra gli uomini l’amore divino. In tal senso, con semplicità e cuore di madre, continua a indicare l’unica Luce e l’unica Verità: suo Figlio Gesù Cristo, che è «la risposta definitiva alla domanda sul senso della vita, agli interrogativi fondamentali che assillano anche oggi tanti uomini e donne del Continente americano» (Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in America, n. 10). Allo stesso modo, Lei «con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci i doni che ci assicurano la nostra salvezza eterna. Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata» (Lumen gentium, n. 62).

Al momento attuale, mentre si commemora in diversi luoghi dell’America Latina il Bicentenario della loro indipendenza, il cammino dell’integrazione in questo amato continente prosegue, e contemporaneamente si avverte il suo nuovo protagonismo emergente a livello mondiale. In queste circostanze è importante che i suoi diversi popoli salvaguardino il loro ricco tesoro di fede e il loro dinamismo storico-culturale, mostrandosi sempre difensori della vita umana dal suo concepimento fino al suo termine naturale, e promotori della pace; devono altresì tutelare la famiglia nella sua autentica natura e missione, intensificando allo stesso tempo una vasto e capillare lavoro educativo che prepari rettamente le persone e le renda consapevoli delle proprie capacità, di modo che affrontino in modo degno e responsabile il loro destino. 
Sono chiamati anche a promuovere sempre più iniziative adeguate e programmi concreti che propizino la riconciliazione e la fraternità, incrementino la solidarietà e la tutela dell’ambiente, intensifichino gli sforzi per superare la miseria, l’analfabetismo e la corruzione e per sradicare ogni ingiustizia, violenza, criminalità, insicurezza civile, narcotraffico ed estorsione.

Mentre la Chiesa si preparava a ricordare il quinto centenario della plantatio della Croce di Cristo nella buona terra del continente americano, il beato Giovanni Paolo II formulò sul suo suolo, per la prima volta, il programma di un’evangelizzazione nuova, nuova «nel suo ardore, nei suoi metodi, nella sua espressione» (cfr. Discorso all’Assemblea del Celam, 9 marzo 1983, III; AAS 75, 1983, 778). 
A partire dalla mia responsabilità di confermare nella fede, anch’io desidero incoraggiare lo zelo apostolico che attualmente anima e pretende la «missione continentale», promossa ad Aparecida, affinché «la fede cristiana si radichi più profondamente nel cuore delle persone e dei popoli latinoamericani come evento fondante e incontro vivificante con Cristo» (V Conferenza Generale dell’Episcopato dell’America Latina e dei Caraibi, Documento conclusivo, n. 13). Così si moltiplicheranno gli autentici discepoli e missionari del Signore e si rinnoverà la vocazione dell’America Latina e dei Caraibi alla speranza. 
Che la luce di Dio risplenda, quindi, sempre più sul volto di ognuno dei figli di questa amata terra e che la sua grazia redentrice orienti le loro decisioni, affinché continuino a progredire senza perdersi d’animo nella costruzione di una società fondata sullo sviluppo del bene, sul trionfo dell’amore e sulla diffusione della giustizia. 
Con questi vivi propositi, e sostenuto dall’aiuto della provvidenza divina, ho intenzione d’intraprendere un viaggio apostolico prima della santa Pasqua in Messico e a Cuba, per proclamare lì la Parola di Cristo e per rafforzare la convinzione che questo è un tempo prezioso per evangelizzare con fede vigorosa, speranza viva e carità ardente.

Affido tutti questi propositi all’amorevole mediazione di Santa Maria di Guadalupe, nostra Madre del cielo, come pure gli attuali destini delle nazioni latinoamericane e caraibiche e il cammino che stanno percorrendo verso un domani migliore. Invoco inoltre su di esse l’intercessione di tanti santi e beati che lo Spirito ha suscitato in tutta la storia di questo continente, offrendo modelli eroici di virtù cristiane nella diversità delle condizioni di vita e di ambienti sociali, affinché il loro esempio favorisca sempre più una nuova evangelizzazione sotto lo sguardo di Cristo, Salvatore dell’uomo e forza della sua vita. Amen.

Basilica Vaticana
Lunedì, 12 dicembre 2011

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