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martedì 3 dicembre 2013

Duplice umiltà



San Bernardo –(1090-1153) – discorso 4 sull’Avvento 1. 3-4

Dono dell’Avvento
 Fratelli, celebrate come si conviene, con grande fervore di spirito l’Avvento del Signore, con viva gioia per il dono che vi viene fatto e con profonda riconoscenza per l’amore che vi viene dimostrato. Non meditate però solo sulla prima venuta del Signore, quando egli entrò nel mondo per cercare e salvare ciò che era perduto, ma anche sulla seconda, quando ritornerà per unirci a sè per sempre. Fate oggetto di contemplazione la doppia visita del Cristo, riflettendo su quanto ci ha donato nella prima e su quanto ci ha promesso per la seconda. “E’ giusto infatti il momento”, fratelli, “in cui ha inizio il giudizio a partire dalla casa di Dio” (1 Pt 4,17). Ma quale sarà la sorte di coloro che rifiutano attualmente questo giudizio? Chi infatti si sottrae al giudizio presente in cui il principe di questo mondo viene cacciato fuori, aspetti, o, piuttosto, tema il Giudice futuro dal quale sarà cacciato fuori insieme al suo principe. Se invece, noi ci sottomettiamo già ora al doveroso giudizio, siamo sicuri, e “aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,20). “Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43).
 ”Il Salvatore trasfigurerà” con la sua venuta “il nostro misero corpo per conformarlo al suo glorioso” solo se già prima troverà rinnovato e conformato al suo nell’umiltà il nostro cuore.
 Per questo dice: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). 

Considera in queste parole la doppia specie di umiltà:

 quella di conoscenza e 

quella di volontà. Quest’ultima qui viene chiamata umiltà di cuore.

Con la prima conosciamo il nostro niente, come deduciamo dall’esperienza di noi stessi e della nostra debolezza.

Con la seconda rifiutiamo la gloria fatua del mondo

Noi impariamo l’umiltà del cuore da Colui che “spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2,7), da Colui che quando fu ricercato per essere fatto re, fuggì; invece quando fu ricercato per essere coperto di oltraggi e condannato all’ignominia e al supplizio della croce, si offrì di propria spontanea volontà”.


sabato 30 novembre 2013

San Bernardo di Chiaravalle: I SERMONE SUL CANTICO dei CANTICI


Bernardo di Chiaravalle


Sermoni sul Cantico dei Cantici


SERMONE I


I. Il Cantico, terzo pane dopo l’Ecclesiastico e le Parabole. II. Chi può gustare la santa lettura. III. L’inizio del Cantico dei Cantici. IV. Titolo del libro e varietà di cantici nella Scrittura. V. Cantici di quanti si convertono a Dio. VI. Un singolare cantico nuziale.


Il Cantico, terzo pane dopo l’Ecclesiastico e le Parabole. 

I. 1. A voi, fratelli, si devono dire cose diverse da quelle che si dicono agli altri (comuni cristiani), o per lo meno in modo diverso. A quelli, infatti, chi, nell’insegnamento segue il metodo dell’Apostolo, porge latte, e non cibo solido. Che poi agli uomini spirituali debbano somministrarsi cose più solide, lo indica ancora san Paolo con il suo esempio, dove dice: «Parliamo, non con parole dotte secondo l’umana sapienza, ma con un linguaggio suggerito dallo spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali». E altrove: «Parliamo di sapienza tra i perfetti», e ho fiducia che voi siate tali, a meno che invano vi siate a lungo occupati nello studio delle cose celesti, invano abbiate lavorato a purificare i vostri sensi, meditando giorno e notte la legge del Signore. Pertanto, preparate la vostra bocca non al latte, ma al pane. E secondo Salomone è pane, il libro intitolato Cantico dei cantici, un pane splendido e saporito: venga servito, se vi piace, e sia spezzato per voi.

2. Dalle parole, infatti, dell’Ecclesiaste siete stati già istruiti, se non erro, a conoscere e disprezzare, con la grazia di Dio, le vanità di questo mondo. E che cosa dire delle Parabole? Non sono forse la vostra vita e i vostri costumi sufficientemente emendati e informati secondo la dottrina che esse contengono?
Ora dunque, dopo aver gustato questi due pani che avete ricevuto in prestito dalla madia dell’amico, accostatevi a questo terzo pane, che troverete migliore. Due, infatti, sono i mali che da soli o massimamente militano contro l’anima: l’amore delle vanità del mondo, e l’amore smodato di se stesso. Quei due libri offrono un rimedio a questa duplice peste: il primo troncando con il falcetto della disciplina tutti i superflui germogli della mala concupiscenza; l’altro scoprendo sagacemente con il lume della ragione in ogni gloria mondana il trucco (fuco) della vanità, e distinguendolo chiaramente dalla solida verità. Infine, a tutti gli umani studi e mondani desideri insegna a preferire il timore di Dio e l’osservanza dei suoi comandamenti. E giustamente. Poiché quello è veramente l’inizio della sapienza, l’altra ne è la consumazione, se veramente ci consta essere vera e consumata sapienza l’allontanarsi dal male senza il timore di Dio, né esservi affatto opera buona fuori dell’osservanza dei comandamenti.

3. Cacciati dunque i due mali con la lettura dei due libri (sopra citati), si è pronti ad accostarsi a questo sacro mistico sermone, che, essendo frutto di entrambi, non deve essere presentato se non a menti e orecchie pure.




Chi può gustare la santa lettura. 
II. Diversamente sarebbe un’indegna presunzione accingersi a questa lettura prima di aver domato la carne con un tirocinio ascetico e averla assoggettata allo spirito, prima di aver disprezzato e rigettato la pompa è la corruzione del secolo. A quel modo infatti che la luce splende invano davanti agli occhi ciechi o chiusi, così l’uomo carnale non percepisce le cose dello Spirito di Dio. Lo Spirito Santo, infatti, che insegna, rifugge dalla finzione, e tale è la vita incontinente; e neppure avrà mai parte con la vanità del mondo, essendo Spirito di verità. E che c’è di comune tra la sapienza che viene dall’alto e la sapienza del mondo, che è stoltezza presso Dio, o la sapienza della carne che è anch’essa nemica di Dio? Ma penso che quell’amico che ci è capitato in casa da un viaggio, non avrà da mormorare contro di noi quando si ciberà di questo terzo pane.

4. Ma chi lo spezzerà? C’è il padre di famiglia: riconoscete il Signore nell’atto di spezzare il pane. Chi altro ne sarebbe capace? Io, certamente, non sarei tanto temerario da arrogarmi tale compito. Guardate a me per non aspettare da me. Poiché anch’io sono uno di quelli che aspettano mendicando con voi il cibo per l’anima mia, il nutrimento dello spirito. In realtà, povero e bisognoso, busso alla porta di colui che apre, e nessuno chiude, (per chiedere lume) sul profondissimo mistero di questo scritto. Gli occhi di tutti sperano in Te, o Signore. I pargoli hanno chiesto pane: non c’è chi loro lo spezzi; lo chiediamo alla tua benignità. O piissimo, spezza agli affamati il tuo pane, spezzalo con le mie mani, se ti degni, ma con le tue forze.


 L’inizio del Cantico dei Cantici. 
III. 5. Spiegaci, di grazia, da chi, di chi e a chi viene detto: Mi baci con i baci della sua bocca (Cant 1,1). E che cosa vuol dire l’entrare così repentino e di colpo nel discorso. Prorompe infatti in quelle parole, come se la persona, chiunque sia, che implora il bacio rispondesse a un altro che aveva parlato prima. E poi, se chiede di essere baciata da non so chi, lo esige, perché specifica: con la bocca, e con la bocca sua, di lui, come se quelli che si baciano presentino qualche altra cosa e non la bocca, o una bocca altrui e non piuttosto la propria? Ma non dice neppure: mi baci con la sua bocca, ma insinua qualche cosa di più: Mi baci, dice, con il bacio della sua bocca. Dolce discorso questo che comincia con un bacio, e allettante la forma di questa Scrittura che colpisce e invita alla lettura, sicché diventa piacevole investigare, anche se con fatica, mentre la soavità del discorso non lascia sentire l’eventuale difficoltà della ricerca. E veramente, chi non sarebbe reso attento da questo inizio senza inizio e dalla novità dell’espressione nel libro antico? Di qui si vede come questo non sia frutto di umano ingegno, ma composto dall’arte dello Spirito in modo tale che, sebbene difficile a capirsi, ne sia dilettevole l’investigazione.



Titolo del libro e varietà di cantici nella Scrittura.
IV. 6. Ma che? Tralasciamo il titolo? Non dobbiamo trascurare neppure un iota, dal momento che ci viene comandato di raccogliere le briciole di frammenti, perché non vadano perduti. Il titolo è questo: Cominciano i Cantici dei cantici di Salomone. Osserva in primo luogo il nome di Salomone che significa Pacifico. Esso si adatta bene all’inizio del libro, che comincia con il segno di pace, cioè dal bacio. E avverti con ciò che all’intelligenza di questa scrittura sono invitate solo le menti pacifiche che riescono a rendersi superiori alle perturbazioni dei vizi e al tumulto delle umane faccende.

7. Inoltre, non pensare che a caso il titolo porti, non semplicemente «Cantici», ma Cantico dei cantici. Ho letto infatti molti cantici nelle Scritture, e non mi sovviene che alcuno di essi sia stato chiamato così. Cantò Israele un canto al Signore dopo che era sfuggito alla spada e insieme al giogo del Faraone, nel medesimo tempo liberato e vendicato dal Mar Rosso. Il suo, però, non è stato detto Cantico dei cantici, ma dice la Scrittura, se ben ricordo: Cantò Israele questo carme al Signore (Es 15,1). Cantò anche Debora, cantò Giuditta, cantò pure la madre di Samuele e anche alcuni Profeti hanno cantato; e non si legge che alcuno di essi abbia chiamato il suo Cantico dei cantici. In verità, se non erro, troverai che tutti hanno composto un cantico in occasione di un beneficio ricevuto: per esempio, per una vittoria ottenuta, per uno scampato pericolo o per aver ottenuto una qualsiasi cosa desiderata. Così dunque parecchi hanno cantato, ognuno per i suoi motivi particolari, per non essere trovati ingrati ai benefici divini, secondo quel detto del salmo: Ti darò gloria quando lo avrai beneficato (Sal 48,19). Invece Salomone, dotato di singolare sapienza, ornato di sublime gloria, ricchissimo di beni d’ogni specie, che godeva di una sicura pace, non sembra avesse bisogno di alcuna cosa, per aver ottenuto la quale fosse spinto a comporre questo cantico. Né in questo si trova allusione a cosa di questo genere.

8. Pertanto, divinamente ispirato, intese cantare le lodi di Cristo e della Chiesa, e la grazia dell’amore sacro, e i sacramenti dell’eterno connubio; e volle insieme esprimere il desiderio dell’anima santa, e compose, esultando nello spirito, con gioconde, ma figurate espressioni, un carme nuziale. Difatti, velava anch’egli, come Mosè la sua faccia, non meno forse in questa parte splendente, perché in quel tempo nessuno o rari erano coloro che potessero contemplare questa gloria a faccia scoperta. Penso dunque che questo carme nuziale, a motivo della sua eccellenza, sia stato, esso solo, chiamato Cantico dei cantici, a quel modo che colui al quale viene cantato, è detto singolarmente Re dei re, e Dominatore dei dominatori (1 Tm 6,15).


Cantici di quanti si convertono a Dio. 
V. 9. Del resto, se voi considerate la vostra esperienza personale, non avete anche voi cantato un cantico nuovo al Signore che opera meraviglie, nella vittoria con cui la vostra fede ha vinto il mondo, e nella vostra uscita dalla fossa della miseria e dal fango del pantano? E ancora, allorché il Signore si è degnato di stabilire sulla roccia i vostri piedi e dirigere i vostri passi, penso che anche allora, a motivo del beneficio della nuova vita concessavi, sia risuonato sulla vostra bocca un canto nuovo, un carme al nostro Dio. Il quale, a voi penitenti, non solo ha rimesso i peccati, ma ha promesso il premio; e allora molto di più, pieni di gaudio, per la speranza dei beni futuri, avete cantato le vie del Signore, perché grande è la gloria del Signore. E se talvolta un passo della Scrittura che fino ad allora a qualcuno era chiuso o oscuro, d’un tratto è divenuto chiaro, allora si è reso necessario che per il ricevuto alimento del pane celeste salisse gradito alle orecchie di Dio dalle anime rifocillate il canto dell’esultanza e della lode. Ma anche nei quotidiani esercizi e nelle lotte che non mancano di provenirci in ogni ora dalla carne, dal mondo, dal demonio, poiché, come sperimentate continuamente in voi stessi, la vita dell’uomo sulla terra è una milizia, ogni giorno dovete innalzare nuovi canti per le riportate vittorie. Ogni qual volta viene superata una tentazione o soggiogato un vizio, o evitato un imminente pericolo, o si scopre un laccio che il nemico tende, o una qualsiasi annosa e inveterata passione viene una buona volta perfettamente guarita, o una virtù molto e lungamente desiderata e spesso implorata, finalmente, con la grazia di Dio viene ottenuta, non risuona, forse, come dice il Profeta, l’azione di grazie e la voce di lode, e a ogni beneficio si benedice Dio nei suoi doni? Diversamente sarà giudicato come ingrato chi nel finale rendiconto non potrà dire a Dio: Sono canti per me i tuoi precetti nel luogo del mio pellegrinaggio (Sal 118,54).

10. Penso che voi già riconoscete in voi stessi quelli che nel Salterio sono chiamati «Salmi graduali», per il fatto che ogni volta che realizzate un progresso, secondo i propositi che ognuno ha concepito nel suo cuore, sentite il bisogno di cantare la lode e la gloria di chi opera in voi. Non vedo come possa, adempiersi quell’altro versetto: Voce di esultanza e di salvezza nelle tende dei giusti (Sal 117,15); o quella bellissima e saluberrima esortazione dell’Apostolo: Cantate e salmeggiate a Dio nei vostri cuori con salmi, inni e cantici spirituali (Ef 5,19).


 Un singolare cantico nuziale.
VI. 11. Ma vi è un cantico che sorpassa per la sua singolare dignità e soavità tutti quelli di cui abbiamo parlato e quanti altri vi potessero essere: e meritamente questo chiameremo «Cantico dei cantici», perché esso è frutto di tutti gli altri. Questo cantico solo l’unzione (dello Spirito) lo insegna, solo s’impara con l’esperienza. Lo riconoscano quelli che hanno fatto questa esperienza; chi non ha questa esperienza arda dal desiderio, non, tanto di conoscerlo, quanto di sperimentarlo. Non consiste in un suono che esce dalla bocca, ma in un giubilo del cuore; non espressione delle labbra, ma tripudio di gioia intima, non armonia di voci, ma di volontà. Non si sente di fuori, non risuona in pubblico: sola lo sente colei che lo canta e colui al quale è cantato, cioè lo Sposo e la sposa. È infatti un carme nuziale, che esprime i casti e giocondi amplessi degli animi, la concordia dei costumi e la mutua carità degli affetti.


12. Del resto, non è in grado di cantare tale cantico o di udirlo l’anima ancora puerile e neofita, di recente convertita dal secolo, ma conviene a una mente già provetta ed erudita, la quale cioè, mediante il progresso nella virtù, è già talmente cresciuta con l’aiuto di Dio, da raggiungere l’età perfetta e in un certo modo nubile, fatta idonea alle nozze con il celeste Sposo, quale, insomma, più dettagliatamente si descriverà a suo luogo. Tale età provetta viene calcolata in base ai meriti, non agli anni. Ma il tempo passa, e la povertà e la regola ci comandano di uscire al lavoro manuale. Domani, nel nome del Signore continueremo quel che avevamo cominciato a dire del bacio perché il discorso di oggi sul titolo ci ha fatto deviare dall’argomento iniziato.

Salus nostra in manu tua est, o Maria,
respice nos tantum
et laeti serviemus Regi Domino.

lunedì 4 novembre 2013

FLORES SEU SENTENTIAE EX S. BERNARDI OPERIBUS


FLORES SEU SENTENTIAE EX S. BERNARDI OPERIBUS DEPROMPTAE.

1197B 1569 Periclitatur castitas in deliciis, humilitas in divitiis, pietas in negotiis, veritas in multiloquio, charitas in hoc nequam saeculo. De convers. ad cler., num. 37
Nihil pretiosius tempore: sed, heu! nihil hodie vilius aestimatur. Tr. de cont. mun. ad cler., n. 55
Transeunt dies salutis, et nemo recogitat: nemo sibi non reditura momenta perisse causatur. Ibid.
Nil tam durum, quod duriori non cedat. IV, De consid., c. 3. Hinc consuetudo consuetudine vincitur.
Tibi imputa, quidquid pateris ab eo, qui sine te potest nihil. IV De cons. n. 9.
Scorpioni non est in facie quod formides, sed pungit a cauda. Ibid.

1197C Quid juvat sapientem esse, si tibi non fueris? II, De consid. 2.
Omnia illi desunt, qui nihil sibi deesse putat. Lib. II, De consid. cap. 7.
Simia in tecto, rex fatuus in solio sedens. Ibid.
Tene medium, si non vis perdere modum. II, De consid. cap. 10.
Prosperitas hoc est incautis, quod ignis ad ceram, solis radius ad nivem. II, De consid. cap. 12.
Non magnum est esse humilem in abjectione; rara virtus, humilitas honorata. Hom. 4 sup. miss.
Nulla verior miseria, quam falsa laetitia. De lib. arb., n. 14.
Velle plane convincimur, quod non fieret si nollemus. 1197D Ibid.
Effusus animus damna interiora non sentit. De conv. ad. cler., cap. 4, n. 5.
Fugere persecutionem, non est culpa fugientis, sed persequentis. Epist. 1.
Voluntas pro facto habetur, ubi factum excludit necessitas. Tract. ad Hugon., n. 9.

1198B Nemo magis iram meretur, quam amicum simulans inimicus. De conv. n. 33.
Non est cur fures timeant, qui sibi in coelo thesaurizant. De conv. ad cler., n. 41.
Non placat, qui ipse non placet. Ibid., 33.
Insolentiae clericorum mater est negligentia episcoporum. Epist. 152.
Amicis oportet gerere morem, sed non in suam mortem. Epist. 215.
Fluminis aqua si stare coeperit, computrescit. Serm. 1 de Quadrag.
Omnia quae in mundo sunt, finem habent; finis autem eorum, non erit finis. Serm. 9 in Cant.
Dabis voci tuae vocem virtutis, si quod suades, prius tibi ipsi persuaseris. Serm. 6 in Cant., n. 3.

1198C Illius doctoris libenter audio vocem, qui non sibi plausum, sed mihi planctum moveat. Ibid.
Turturis vox non dulce sonat, sed dulcia signat. Nempe amorem comparis. Ibid.
Velis, nolis, intra fines tuos habitat Jebusaeus: subjugari potest, sed non exterminari. Serm. 57 in Cant., num. 10.
Parum est semel putasse; saepe putandum est, imo semper. Ibid. Nam. vitia idemtidem repullulant.
Non potest virtus cum vitiis pariter crescere; putetur cupiditas, ut virtus roboretur. Ibid.
Tolle superflua, et salubria surgunt. Utilitati accedit, quidquid cupiditati demis. Ibid.

1198D Pastor doctus, sed non bonus, non tam uberi doctrina nutrit, quam sterili vita nocet. Serm. 76 in Cant., num. 10.
Minus quandoque nocet potita votis ambitio, quam frustrata. Epist. 126: Nam ad violenta media convertitur.

1570 Ad audiendum, legendumve amoris carmen 1199A frustra qui non amat accedit. Serm. 79 in Cant., n. 1.
Non potest capere ignitum eloquium frigidum pectus. Ibid. Sicut Graece loquentem non intelligit qui Graecum non novit.
Fama non valet vindicare virtuti, quod esse vitium convincit conscientia. Serm. 71 in Cant., n. 2.
Virtus est contenta candore conscientiae, etsi non sequatur odor famae. Ibid.
Multa quae respuis otiosus, post laborem sumes cum desiderio. Epist. 1, n. 11. Nam optimum cibi condimentum fames.
Hostis audacius insistit a tergo, quam resistat in faciem. Ibid., n. 12.

1199B Facere malum, quolibet etiam jubente, non obedientia, sed inobedientia est. Epist. 7. n. 3. Nempe erga Deum.
Quod quisque prae caeteris colit, id sibi Deum constituisse probatur. Tract. de contempt. mund. ad cler., cap. 5, num. 17.
Multi non tanta alacritate currerent ad honores, si esse sentirent et onera. Tract. de off. episc., cap. 7.
Utinam relinquant nobis moderni Noe, unde a nobis possint operiri. Ibid., n. 19, cap. 8. Adeo jam palam et sine pudore peccatur.
In alto positum, non altum sapere, difficile. Ibid.
Si altiorem quam meliorem esse delectet, non praemium, sed praecipitium exspecta. Epist. 27 ad 1199C Ardut.
Stultum, ibi thesaurum recondere, unde non valeas resumere, cum volueris. Tract. de off. episc., cap. 5.
Qualis sit cujusque fides, tribulatio probat. Ibid., c. 4.
Qui ad sui mensuram proximum jubetur diligere, prius seipsum diligere norit. Ibid., cap. 4, n. 13.
Bonam reddunt conscientiam poenitere de malis, et abstinere a malis. Ibid., cap. 4.
Eodem utuntur medici ferro secandis regibus, quo et popularibus hominibus. Ibid., cap. 2.
Boni pastoris est non quaerere quae sua sunt, sed impendere. IV, De consid., cap. 2.
Dispensatio sine necessitate et utilitate, non fidelis 1199D dispensatio, sed crudelis dissipatio est. III, De consid., cap. 4.
Cum omnes te habeant, esto etiam tu unus ex habentibus. Lib. I De consid., cap. 5. n. 6.
Amans quandoque videtur amens, sed ei qui non amat. Praefat. in lib. De consid.
Modus diligendi Deum, est diligere sine modo. Tract. de dilig. Deo, cap. 1 et 6.
Non probo multa scientem, si sciendi modum nescierit. Serm. 36 in Cant., n. 3.
Sunt qui scire volunt tantum ut sciant; et curiositas est.
Sunt qui scire volunt ut sciantur ipsi; et vanitas est.

1200A Sunt qui scire volunt, ut scientiam vendant; et turpis quaestus est.
Sunt qui scire volunt, ut aedificentur; et prudentia est. Serm. 36 in Cant., n. 3.
Sumenti cibum, et non digerenti, perniciosum est ei. Ibid., n. 4.
Sine lumine discretionis incurrit qui currit. Serm. in Circumcis.
Non potest non esse bonus, qui placet bonis, vel displicet malis. Epist. 148.
Non est tutum vicino serpente somnum capere. Ep. 241.
Habet vero amicitia nonnunquam objurgationem, adulationem nunquam. Epist. 242.
Melius est, ut pereat unus quam unitas. Epist. 1200B 102. Ejiciendus qui turbat concordiam.

1571 Sola causa, qua non liceat obedire parentibus, Deus est. Epist. 111.
Gustato spiritu, necesse est desipere carnem. Ibid.
Non plus satiatur cor hominis auro, quam corpus aura. De conv. ad cler.
Argumentum superbiae, privatio est gratiae. Serm. 54 in Cant.
Praesto est oculus, cui omnia patent, etsi non patet ipse. Serm. 55 in Cant.
Bonus nunquam, nisi simulatione boni, deceptus est. Serm. 66 in Cant.
Haeretici capiantur non armis, sed argumentis. Serm. 64 in Cant. — Vid. notas, ibid.
Jucunda homini lux, sed magis emergenti de tenebris. 1200C Serm. 68 in Cant.
Eruditio absque dilectione inflat, dilectio absque eruditione errat. Serm. 69 in Cant.
Dies palam facit, quod nox abscondit. Serm. 75 in Cant.
Melius est ut scandalum oriatur, quam veritas relinquatur. Epist. 78.
Qui se sibi magistrum constituit, stulto discipulum subdit. Epist. 87.
In similibus factis causa dissimilis simile recusat judicium. Epist. 84.
Nil tam inglorium, quam gloriae cupidum deprehendi. Epist. 106.
Speranti grandia, modica minus grata venire solent. Epist. 153.

1200D Currentem non apprehendit, qui et ipse non currit. Epist. 254, n. 4.
Nolle proficere, est deficere. Ibid.
Nemo invitus bene facit, etsi bonum est quod facit. Epist. 258.
Magnus, qui incidens in adversa, non excidit a sapientia. II. De consid., cap. 12.
Canis fenum, quod non comedit, defendit. Epist. 311, num. 1.
Si sapis, concham te exhibebis, non canalem. Serm. 18 in Cant., num. 3, id est, Non prius effundes, quam ipsemet abundes.
Pastores a mercenariis persecutio discernit. De conv. ad cler., cap. 22.
1201A Grata ignominia crucis ei, qui Crucifixo ingratus non est. Serm. 25 in Cant., n. 8.
Cum femina semper esse, et non peccare cum femina, plus est quam mortuum suscitare. Serm. 65 in Cant., n. 4.
Familiaris dominus fatuum nutrit servum. Serm. cont. vit. ingrat.
Divinae clementiae est denegare ingratis quae postulant. Ibid. Nempe ne majoris ingratitudinis rei fiant.
Suaviter natat, cujus alter sustinet mentum. Serm. 12 in Cant., num. 8.
Onerat nos Deus, cum exonerat; onerat beneficio, cum exonerat peccato. Serm. 15 in psal.: Qui habitat, num. 1.

1201B Contendamus placere omnibus per omnia, sed ei maxime qui est maximus super omnia. Ibid., n. 4.
Inanis excusatio de humana obedientia, ubi in Deum convincitur facta transgressio. Epist. 7, n. 8.
Quis credat parieti, si se dicat parturire radium, quem suscepit per fenestram. Serm. 3 in Cant., n. 5.
Non est laus calami laudabilis pictura, sive scriptura. Ibid., n. 6, Serm. 18 de div.
Sapiens est, cui quaeque res sapiunt, prout sunt.
Nullus tam gravis pruritus oculi, quam invidia est. Serm. 5 de verb. Isa., n. 10.
In terra orimur, in terra morimur, revertentes in eam unde sumus assumpti. Serm. de S. Mart., n. 1.
Res pauperum non pauperibus dare, par sacrilegio crimen esse dignoscitur. Tract. de cont. mun. ad 1201C cler., n. 21.
Altiorem sortitus es locum, sed non tutiorem. Epist. 237.
Sicut non omne quod libet licet, sic non omne quod licet expedit. Epist. 25.
Cujus vita despicitur restat ut et praedicatio contemnatur. Serm. 1, Pasch., n. 10.
1572 Non satis cecidisse piget, hominem, qui adhuc manet in lubrico. Serm. 1 in Pasch., n. 16.
Indicium verae compunctionis est, subtractio occasionis. Ibid.
Perniciosa paupertas, penuria meritorum; praesumptio autem, fallaces divitiae. Serm. 68 in Cant., n. 6.
Ignorantia non potest excusare eum, qui se magistrum 1201D infantium profitetur. Tract. de cont. mun. ad cler., cap. 5, n. 15.
Indignus lacte et lana convincitur, qui non pascit oves. Ibid., 20.
Vae tibi, clerice! mors in ollis earnium, mors in deliciis. Ibid., n. 20. Nam peccata populi comedis.
Vae, qui viventes in carne Deo placere non possunt, et placare praesumunt. De conv. ad cler.
Zelus absque scientia dum prodesse festinat, invenitur obesse. Ibid., n. 38.
Animam Dei capacem, quidquid Deo minus est, non implebit. De cont. mun., n. 33.
Saliens antequam videat, casurus antequam debeat. Ibid., 26.

1202A Aeger sese non sentiens periculosius laborat. I, De cons., c. 1.
Homo si laborem refugit, non facit ad quod natus est. De contemp. ad cler., n. 29.
Sapientibus contingit, in rebus dubiis plus alieno se quam proprio credere judicio. Epist. 82, n. 1.
Libenter carebo quantolibet spirituali quaestu, qui non possit acquiri nisi cum scandalo. Epist. 82.
Pulcher et salubris ordo, ut onus quod portandum imponis, tu portes prior. Epist. 221, n. 3.
Vocis virtus est opus, sed et operi, et voci gratiam efficaciamque promeretur oratio. Ibid.
Plus nocet falsus Catholicus, quam verus haereticus. Serm. 65 in Cant., n. 4.
Non inutilis commutatio, pro eo, qui super omnia 1202B est, omnia reliquisse. Tract. de cont. mun. ad cler., c. 1.
Plus concupiscentia mundi, quam substantia nocet. Ibid.
Fugiendarum causa divitiarum est, quod aut vix, aut nunquam sine amore valeant possideri. Ibid.
Facile cor humanum omnibus quae frequentat adhaeret. Ibid.
Qui relinquere universa disponit, se quoque inter relinquenda numerare meminerit. Ibid., n. 2.
Verus amor habet praemium, sed id quod amatur. Tract. de dilig. Deo, n. 17.
Si quis de populo deviat, solus perit; principis error multos involvit. Epist. 117.
Verum gaudium est, quod non de creatura, sed 1202C Creatore concipitur. Epist. 114.
Vitiosus conscientias vitiosorum non refugit. I, De consid., cap. 10.
Ubi omnes sordent, unius fetor non sentitur. Ibid.
Meditantibus honores blandiuntur, pensantibus onera formidini sunt. Tract. de off. et mor. episc., cap. 7.
Vera charitas vacua mercede non est, nec tamen mercenaria est. Tract. de dilig. Deo, n. 17.
Bonum servat castellum, qui custodit corpus suum. Serm. 2 de Assumpt., num 2. Proverb. vulgare.
Sola miseria caret invidia. Serm 5 de verb. Isa.
Maledictus qui partem suam facit deteriorem. 1202D Lib. I De consid. cap. 5, et serm. de septem panib.
Seductori dat manum, qui dare dissimulat praeceptori. Serm. 77 in Cant.
Qui absque custode dimittit oves in pascua, pastor est non ovium, sed luporum. Ibid., num. 6.
Pauperum vita in plateis divitum seminatur. IV, De cons., cap. 2.
Ambitio ambientium crux, omnes torquens omnibus placet. III, De consid., cap. 1.
Nugae in ore saecularis, nugae; in ore sacerdotis blasphemiae. Lib. II, De consid., cap. 15.
Vanum cor vanitatis notam ingerit corpori. Apol. ad Guil., cap. 9.
Mollia indumenta animi mollitiem indicant. Ibid.
1203A Fulget Ecclesia in parietibus, et in pauperibus alget. Apol. ad Guil., cap. 11.

1573 De sumptibus egenorum servitur oculis divitum. Ibid.
Lupi dentes plus timeo, quam virgam pastoris. Tract. de vita et off. episc., n. 35.
Hippocrates docet animas salvas facere in hoc mundo, Christus perdere. Serm. 35 in Cant.
Voluptas gutturis, quae tanti hodie aestimatur, vix duorum obtinet latitudinem digitorum. De conv. ad cler., n. 13.
Divitiarum amor insatiabilis longe amplius torquet desiderio, quam refrigeret usu. Ibid., 14.
Divitiarum usus aliis fere; divitibus solum nomen et sollicitudo cedit. Ibid.

1203B Daemon soli perseverantiae potissimum insidiatur, quam solam virtutum novit coronari. Epist. 24.
Utilis semper custodia oris, quae tamen affabilitatis gratiam non excludat. IV, De consid., cap. 6, n. 23.
Ubique frenanda lingua praeceps, maxime autem in convivio. Ibid.
Ille convenientior babitus, si actu quidem severus sis, vultu serenus, verbo serius. Ibid.
Nil scalis opus tenenti jam solium. V, De consid., n. 1.
Detrahere, aut detrahentem audire, quid horum damnabilius sit, non facile dixerim. II, De consid., n. 22.
Deliberans providentia suspendit judicium. Serm. 1203C de S. Magdal., n. 1, nunc tomo V.
Religiosa tristitia, aut alienum luget peccatum, aut proprium. Ibid., n. 2.
1204A Quanti te fecit Deus, ex his, quae pro te factus est, agnosce. Serm. 1 de Epiph.

1574 Extremae dementiae est, quod ad obscena inverecundi sumus, et poenitentiam erubescimus: male proni in vulnera, in remedia verecundi. Serm. in Circumc.
Conservandae humilitatis gratia, sic divina solet ordinare pietas, ut quo quis plus proficit, eo minus se reputet profecisse. Serm. 15 de div., n. 4.
Placet utrumque Deo, et peccator compunctus, et justus devotus; displicet vero tam ingratus justus, quam peccator securus. Serm. de div., 4.

Nescit sanus, quid sentiat aeger; aut plenus, quid patiatur jejunus. Tract. de grad. hum., n. 6.
Gloriosa res humilitas, qua ipsa quoque superbia 1204B palliare se appetit, ne vilescat. Ibid., n. 47.
Infelix victoria, qua superans hominem, succumbis vitio. Exhor. ad mil., n. 2.
In circuitu impii ambulant; naturaliter appetentes unde finiant appetitum, et insipienter respuentes, unde appropinquent fini. De dilig. Deo, n. 19.
Deum amans anima aliud praeter Deum sui amoris praemium non requirit; aut si aliud requirit, illud, non Deum diligit. Ibid., n. 17.
Naturali desiderio summum quivis appetit bonum. Vis pervenire? incipe transilire. Tract. de cont. mun. ad cler., n. 33. Nam si impliceris infimis, non pervenies.
Anfractuosa via est, et inambulabilis; facilius pervenies spretis omnibus, quam adeptis. Ibid., 33.
1204C Misera, et extremae plena dementiae commutatio, humanum declinare laborem, et cum diabolo stridorem eligere sempiternum. Ibid., 27.




"O MARIA, MATER GRATIAE et MATER MISERICORDIAE,
EN LA VIDA Y LA MUERTE AMPARANOS, DULCE MADRE!"

venerdì 25 ottobre 2013

La solitudine



I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: La solitudine


Data: Domenica, 12 ottobre @ 16:34:35 CEST
Argomento: Vita cattolica: Matrimonio, laicato...


 1. I Santi e i grandi uomini praticarono la solitudine. 
2. Eccellenza e vantaggi della solitudine. 
 3. Motivi di cercare e amare la solitudine. 
 4. Come bisogna diportarsi nella solitudine. 





1. I SANTI E I GRANDI UOMINI PRATICARONO LA SOLITUDINE.

Davide fuggiva, ancor ragazzo, la città e la moltitudine, dice S. Giovanni Crisostomo; abitava i deserti e non teneva commercio col secolo; non occupandosi né di negozi, né di compre, né di vendite, viveva silenzioso nella solitudine, e là, come in tranquillo porto, riposando in pace nel suo isolamento, guardava il gregge; meditava il regno dei cieli abbatteva e ammazzava gli orsi e i leoni che si gettavano su le sue pecore; li atterrava non tanto con, la forza delle sue braccia, quanto col vigore della sua fede, che attingeva nella solitudine (Homil. ad pop.). Di Giuditta narra la Sacra Scrittura, che si era scelto nel piano superiore della sua casa un piccolo e segreto appartamento, dove se ne stava ritirata con le sue ancelle (IUDITH. VIII, 5). 

 La Chiesa canta in onore di S. Giovanni Battista, ch'egli ancora tenero fanciullo, era andato a nascondersi negli antri del deserto, fuggendo le turbe dei cittadini, per non imbrattare della menoma macchia, nemmeno solo di parola, la sua vita (Hym. in fest. S. Ioann. B.). S. Giovanni si ritirò nella solitudine per imitare, ad esempio di Mosè e di Elia, lo spirito e la virtù di Gesù Cristo; cioè per quel suo allontanamento dal mondo e dai vizi del mondo, acquistò la perfezione della santità e si rese degno di essere in seguito creduto allorché mostrò Gesù Cristo. Perciò i Padri chiamano Giovanni Battista il capo, il modello, il duce dei monaci e degli eremiti. Egli abita la solitudine, anche per mostrare i pericoli del secolo e la sua corruzione, e per provare alle età future che il deserto, nido di belve feroci e di rettili velenosi, è meno pericoloso che il tumulto del mondo. 

Quanti milioni di uomini e di donne di ogni età, di ogni stato, si appartarono nella solitudine per lavorare alla loro santificazione! Leggete la vita dei Santi, e specialmente quella dei Padri del deserto... Le persone pie e contemplative hanno sempre desiderato, amato, cercato la solitudine.

I più grandi fra i Santi, dice l'Autore dell'Imitazione di Gesù Cristo, hanno sempre evitato quanto potevano il commercio con gli uomini, e scelto la solitudine per vivere di Dio e per Iddio (Lib. I, c. XX, n. 1). I grandi uomini hanno in ogni tempo guardato la solitudine come un soggiorno di vere ricchezze, di felicità, di delizie, di pace, di sicurezza, di virtù, di perfezione, come un luogo sicuro dai pericoli e dalle seduzioni... I gentili medesimi conobbero la vita solitaria, l'ebbero in pregio e parecchi la praticarono. Per testimonianza di Plutarco, Scipione l'Africano diceva ch'egli non era meno solo che quando era solo; e non mai meno ozioso che nella solitudine.
 2. ECCELLENZA E VANTAGGI DELLA SOLITUDINE. -

Come la terra nasconde nelle sue viscere l'oro, come il mare tiene sepolte nel suo seno le perle, come il suolo copre le radici degli alberi, così la virtù degli umili e dei Santi è sempre nascosta in questo mondo, sia da essi, sia da Dio, sia principalmente dall'amore alla solitudine... E Gesù medesimo non opera egli forse in segreto con la sua grazia e con i suoi doni?... La vita degli anacoreti, degli eremiti, fu vita nascosta nella solitudine. Il Salmista medesimo diceva: « Io sono fuggito, mi sono allontanato, ed ho fissato la mia dimora nella solitudine» - E perché ciò? «Perché ho veduto la violenza e la discordia correre da padrone il mondo, l'iniquità sedervi regina. Il delitto, la frode, l'usura e l'inganno non si partono mai dalle pubbliche piazze» (Psalm. LIV, 8-12).

 Nell'Apocalisse si legge che alla donna perseguitata dal dragone furono date due ali, affinché volasse nel deserto, lontano dalla vista del serpente (Apoc. XII, 14). Ecco il precetto che Dio fa ad ogni cristiano, sottrarsi alle insidie del serpente infernale, riparando alla solitudine.

Perciò, S. Gerolamo diceva a Rustico: «Abbiti la cella in conto di paradiso. Per me la città è un carcere, la solitudine un paradiso (Epist.)». E S. Nilo, discepolo del Crisostomo, afferma che ha l'anima invulnerabile alle saette del nemico chi ama la solitudine; ma chi ama di stare con la moltitudine, riporterà frequenti, crudeli ferite (In Vit. Patr.).

 Ascoltate come stupendamente descrive Isaia, al capo XXXV, l'eccellenza ed i molteplici vantaggi della solitudine: Il deserto si allieterà; la solitudine sarà nell'allegrezza e fiorirà come un giglio. Essa germinerà da tutte le parti e tripudierà cantando inni di lode. A lei è data la gloria del Libano, la bellezza del Carmelo, la fertilità di Saron; riconoscerete la gloria del Signore e la grandezza del mio Dio. Ecco il vostro Dio, viene egli in persona e vi salverà. Allora gli occhi dei ciechi e le orecchie dei sordi si apriranno; lo zoppo correrà agile come un cervo; la lingua dei muti parlerà spedito e chiaro; i macigni del deserto si spaccheranno e fiumi d'acqua correranno ad irrigare la solitudine. La terra più arida sarà convertita in uno stagno, fontane zampillanti bagneranno zolle arse e disseccate; là ove tenevano loro giaciglio i serpi, verdeggeranno le canne e i giunchi. E là vi sarà una via, la via santa; l'impuro non vi passerà, gl'insensati non vi cammineranno. Né leoni, né bestie feroci vi porranno piede; è il cammino degli uomini che furono liberati. Il Signore li ha riscattati; essi ritornano a lui, si affollano a Sionne cantando le sue lodi; una gioia perpetua corona loro il capo; essi vivranno nell'allegrezza e nell'estasi; il dolore e il gemito sono partiti per sempre dal loro cuore.

Il Signore consolerà Sionne, dice il medesimo Profeta in altro luogo (LI, 3), ne ristorerà le rovine; i suoi deserti diventeranno luogo di delizie, la sua solitudine un nuovo Eden. Tutto spirerà gioia ed allegrezza; si udiranno risonare da ogni lato azioni di grazie e cantici di lode. « Perciò uscite di mezzo al mondo e separatevi, dice il Signore; e non toccate nulla d'impuro; ed io vi accoglierò e sarò padre e voi sarete miei figli e mie figlie» (II Cor VI, 17-18).

 Quante grazie, quanti favori particolari ed abbondanti promette e concede il Signore alle anime elette e privilegiate perché lasciano il mondo per ritirarsi nella solitudine! «La solitudine è la forma e la regola della sapienza, scrive S. Gerolamo; la solitudine è di per se stessa una predicazione ed esortazione alla virtù; allora ci prepariamo il cielo quando ci allontaniamo dal mondo (Epl. ad Theresiam.) ».

Un altro amante della solitudine esclamava: O quanto bassi e spregevoli mi paiono tutti gli onori, tutte le altezze del mondo! solo i deserti mi attirano; mi danno noia le città e il mondo intero. O beata solitudine! o sola beatitudine, compagna ed emula degli Angeli!... Perciò Iddio dice per bocca di Osea: «Io la condurrò nella solitudine, e le parlerò al cuore!» (OSE. II, 14). Ecco quello che trasse gli Antoni, i Paoli, gli Ilarioni, gli Stiliti, i Macarii a lasciare il mondo e internarsi nella solitudine dove, liberi dal commercio degli uomini, dai pericoli, dagli allettamenti, dagli inganni, dagli scandali, si consecrarono all'orazione, allo studio delle cose celesti; e dove bruciando di amore, pieni di santi desideri, non respirarono che per il cielo, per Gesù Cristo, in Gesù Cristo, di Gesù Cristo.

 «Io porrò la vera strada nella solitudine » (ISAI. XLIII, 19), dice il Signore per bocca d'Isaia, e i deserti si cambieranno in laghi, e le aride lande saranno bagnate da canali di acqua che farò scaturire sul pendio dei colli e in mezzo ai campi. Farò nascere nel deserto il cedro, il legno di Sethin, il mirto e l'olivo. L'abete, l'olmo e il bosso intrecceranno l'ombra del loro fogliame in mezzo alla solitudine. Sappiano i mortali che la mano di Dio ha fatto questi prodigi (ISAI. XLI, 18-20).

«O solitudine, esclama S. Gerolamo, primavera carica dei fiori di Gesù Cristo! O solitudine, nella quale nascono le pietre preziose di cui dice l'Apocalisse che è costrutta la città del gran Re! O solitudine che parli familiarmente a Dio nella gioia! Che fai tu, fratello mio, nel secolo, tu più grande del mondo tutto? Per quanto tempo ancora ti schiaccerà l'ombra dei tetti? Fino a quando tuttavia, o Eliodoro, la bella prigione delle città ti terrà prigioniero? (Epist. ad Heliod.)».

 Volete altre prove degli immensi vantaggi che procura la solitudine? Eccovi Abramo, Isacco, Giacobbe: Dio compare a loro e li ammaestra dei suoi misteri nella solitudine. Quivi essi apprendono la venuta e l'incarnazione del Messia, nel quale tutte le nazioni sarebbero benedette.
Nella solitudine Dio sceglie Mosè a capo e liberatore del popolo d'Israele: nella solitudine il Signore gli appare in mezzo al roveto ardente e gli palesa le sue volontà. Nella solitudine di quarant'anni egli impara a governare la nazione giudea. Il deserto è per lui una terra santa nella quale il Signore gli svela meraviglie non mai più vedute.
Nella solitudine gli Ebrei furono nutriti miracolosamente, per quarant'anni, di un pane disceso dal cielo; nella solitudine ebbero a guida una colonna di fuoco che rischiarava loro i passi la notte, e li difendeva come una. nube il giorno, dagli ardenti raggi del sole; nel deserto videro le acque zampillare dai macigni e il serpente di bronzo che li salvò dallo sterminio. Nel deserto, non nell'Egitto, Dio si manifestò ad essi e diede loro la sua legge.

Nella solitudine Elia si vede rapito e portato al cielo sopra un carro di fuoco; Davide è scelto ad essere re; Giovanni Battista è addestrato al suo ministero. Nella solitudine l'angelo compare a Maria e le annunzia che il cielo l'ha eletta a madre del Redentore. Nella solitudine Gesù Cristo nasce e passa i primi trent'anni di sua vita. Nella solitudine gli Apostoli ricevono tutti i doni dello Spirito Santo e sono trasformati in uomini divini. Nella solitudine si formano le vergini di Gesù Cristo, perla del suo popolo, gemma e gloria della Chiesa.

«O anima santa, esclama S. Bernardo, sii sola, affinché ti conservi a quel Dio unico, che solo hai scelto per tuo. Credi a chi ti parla per esperienza, la solitudine è lo steccato ed il bastione delle virtù. Molte più cose apprenderai nelle foreste che non nei libri; gli alberi e i macigni t'insegneranno quello che non potresti imparare dai maestri » (Serm. XL, in Cant.).

Non solamente la solitudine toglie l'occasione di peccare, ma di più innalza l'anima fino a Dio. «Sederà solitaria e taciturna, perché si leverà sopra se stessa» (Lament. III, 28). «Chi in te dimora, o solitudine, esclama S Basilio, s'innalza sopra se stesso, perché l'anima avendo fame di Dio, si solleva al di sopra di tutto ciò che è terreno; ella si aggrappa e sta sospesa alla rocca della contemplazione; divisa dal mando, vola verso il cielo e sforzandosi di vedere colui che sta al di sopra di tutte le cose, s'innalza, con nobile disprezzo, sopra di se medesima e di tutte le creature» (De Laud. vitae solitariae). La solitudine rende l'anima tranquilla, raccolta e presente a se stessa; la riempie dell'unzione delle cose celesti.

*Ma nessuno meglio del gran solitario S. Basilio ci descrive la felicità della solitudine.

«La vita solitaria è scuola di celeste dottrina e di arti divine. Là non s'impara che Dio, la strada che conduce a Dio, e tutto ciò che bisogna sapere per giungere alla cognizione del sommo vero. L'eremo è paradiso di delizie, dove esalano gli aromi delle virtù, dove le rose della carità fiammeggiano del calore di fuoco; dove i gigli della castità risplendano di niveo candore e frammiste ai gigli e alle rose olezzano le viole dell'umiltà. Qui stilla la mirra della mortificazione non solo della carne ma, gloria più grande, della volontà propria, e svapora del continuo l'incenso di una assidua orazione. O solitudine, delizia delle anime sante e dolcezza inesauribile d'interne consolazioni! Tu sei quella fornace caldea nella quale i santi fanciulli smorzano con la potenza delle loro preghiere le fiamme dell'incendio che li investe. Tu sei il forno nel quale il re superno mette a cuocere i suoi vasi di gloria, battuti col martello della penitenza, perché sieno perfetti e puliti con la lima della salutare correzione, affinché acquistino lucentezza.

O cella solitaria in cui si negozia il cielo! Felice commercio in cui si cambia la terra col paradiso, quello che passa con quello che eternamente resta! O solinga cella, mirabile officina di spirituali esercizi, in cui l'anima umana ristora in sé l'immagine del suo Creatore e la fa ritornare alla sua originale purità e bellezza! O solitudine, tu procuri che vegga Dio con puro cuore quell'uomo che poco fa, avvolto in dense tenebre, ignorava Dio e se medesimo: tu fai sì che l'uomo, appostato su la torre della sua mente, vegga scorrere sotto a sé e scomparire quanto vi è di terreno, e se stesso, passare con le altre cose.

O solitudine, o celletta, campo di Dio, torre di Davide, spettacolo degli Angeli, dimora di quelli che valorosamente combattono! O deserto, morte dei vizi, focolare e alimento delle virtù!

Mosè deve a te l'aver ricevuto per due volte il Decalogo; per te, Elia vide passare il Signore; per te, Eliseo ricevette il duplice spirito del suo maestro. Tu sei la scala di Giacobbe, che porti gli uomini al cielo, e riporti il soccorso degli Angeli alla terra! O vita solitaria, bagno delle anime, purgatorio che lavi le macchie! O cella, tu sei il luogo, dove vengono a consiglia Dio e l'uomo. O eremo, felice ricovero contro le persecuzioni del mondo, riposo dei travagliati, consolazione degli afflitti, frescura contro gli ardori del secolo, divorzio dal peccato, reclusione dei corpi, libertà delle anime, deposito di gemme celesti, curia dei divini senatori! Dove l'uomo vincitore dei demoni, diventa compagno degli Angeli; esule dal mondo, diventa erede del paradiso; rinnegando sé, diventa seguace di Gesù Cristo (De laud. Eremi)».


*Udite anche S. Bernardo: «L'abitazione di una cella e l'abitazione del cielo sono sorelle: poiché siccome il cielo e la cella paiono avere una certa affinità di nome, così l'hanno di pietà. Infatti cielo e cella sembrano derivare dal verbo celare, e ciò che sta celato o nascosto nei cieli, sta pure celato a nascosto nelle celle.
Quello che si cerca nei cieli, si trova nelle celle. Qual è la vita che si vive nel cielo, e quale quella che si tiene nelle celle? Non altra in verità, se non occuparsi di Dio, godere Dio. Quando nelle celle si adempie ogni cosa, seconda l'ordine, piamente e fedelmente, io non dubito di affermare che i santi Angeli di Dio trovano i cieli nelle celle; e tanto si dilettano nelle celle, quanto nei cieli.

Per l'ordinario dalle celle si ascende al cielo, e non quasi mai dalla cella si discende nell'inferno, perché di rado avviene che uno resti nella cella fino alla morte, se non è predestinato al cielo. La cella è una terra santa, un luogo sacro nel quale l'anima fedele si unisce frequentemente col Verbo di Dio; la sposa si congiunge con lo sposo, la terra col cielo, il divino con l'umano.

La cella del servo di Dio è come il tempio santo di Dio; infatti nel tempio e nella cella si trattano le cose divine, ma più di frequente nella cella. Se per Iddio voi in terra vi appartate dalla società degli uomini, otterrete da Dio nel cielo la società degli Angeli (Epist. ad Fratres de Monte Dei)». O fortunata solitudine, esclama Musio Cornelio, o unica beatitudine che gustano quelli che ti amano! Come sono felici le anime privilegiate e candide che volano nelle tue braccia e si allontanano da questo mondo, tutta perfidia! (In Laud. Vitae solitariae).

 3. MOTIVI DI CERCARE E AMARE LA SOLITUDINE. -
I motivi che devono indurci a cercare la solitudine ci sono accennati sotto figura in quelle parole d'Isaia: Si ode una voce gridare nel deserto: Preparate le strade al Signore, raddrizzate le vie che conducono a lui, abbassate i colli, colmate le valli, appianate quello che è montuoso. Una voce mi ordina di gridare: e che cosa griderò io? Tutti i mortali non sono che erba, e la loro bellezza rassomiglia al fiore del campo. Il Signore manda un soffio ardente, e l'erba del prato langue appassita, il suo fiore cade spento (ISAI. XL, 3-4, 6-8). Ah! scostatevi, partite, allontanatevi, uscite dal tumulto degli uomini, non toccate nulla d'impuro, mondatevi. Il Signore camminerà dinanzi a voi (Id. LII, 11-12).

O con quanta verità si può dire, di chi abita in mezzo al tumulto del secolo, quello che Geremia lamentava del popolo ebreo: «Giuda abitò in mezzo alle nazioni, incontrò afflizione e schiavitù e non trovò riposo; i suoi persecutori lo colsero tra le angustie» (Lament. I, 3). No, non vi è riposo in mezzo al mondo, ma afflizione, schiavitù, persecuzioni, ambasce. La solitudine non è funestata da questi mali. Ah! gridiamo pure anche noi col medesimo Profeta: Ora perché non mi è dato di andarmi a seppellire in fondo a un deserto, per essere con Dio o con gli Angeli suoi, e non funestarmi l'animo con la vista di tanti delitti e prevaricazioni? (IEREM. IX, 2).

 «Fuggi il pubblico, scriveva S. Bernardo, fuggi perfino i tuoi familiari, allontanati dagli amici anche più intimi. Non sai tu che hai uno sposo così verecondo e riservato, che non vuole mostrarsi a te in presenza d'altri? (Epist. CVII)».
«È difficile, dice S. Giovanni Crisostomo, che un albero piantato lungo una strada, conservi fino alla maturità i suoi frutti; così pure è cosa rara che un'anima conservi, in mezzo alla gente del secolo, la sua innocenza fino alla fine. Quanto meno una persona prende parte alle faccende del mondo, tanto più l'anima sua è infiammata di fervore e di amar di Dio (In Moral.) ». Come la peste mena strage fra un esercito o una città popolosa, lasciando immune la campagna e la solitudine, così è della peste dei vizi; essa serpeggia continuamente e miete vittime in mezzo al mondo.

«Quante volte io sono stato fra gli uomini, tante ne sono tornato meno uomo», dice l'autore dell'Imitazione, e conchiude: «Quegli adunque che intende di arrivare al raccoglimento ed alla spiritualità, bisogna che con Gesù si allontani dalla moltitudine (Imit. Christi, p. I, c. XX, n. 2)». Sì, leviamoci e andiamo nella solitudine, perché in mezzo al mondo non abbiamo riposo (MICH. II, 10). Fuggiamo da Babilonia, e ciascuno scampi l'anima sua (IEREM. LI, 6).

Utile a tutti, la solitudine è specialmente vantaggiosa a quelli che devono deliberare su la scelta dello stato. Ecco l'avviso di S. Bernardo su questo punto: «Chi desidera udire la voce di Dio, si ritiri nella solitudine. Chi prepara l'orecchio interiore ad ascoltare la voce del cielo, voce più dolce del miele, fugga i negozi esteriori affinché l'anima spigliata e libera possa dire con Samuele: Parlate, o Signore, che il vostro servo vi ascolta. Questa voce di Dio non suona già su le piazze, né si ode fra i pubblici ridotti; un consigliere segreto richiede un uditore segreto. Questo gran Dio vi darà certamente la consolazione e la gioia, se lo udite attenti e raccolti. Così si preparava Davide allorché diceva: lo ascolterò quello che parlerà il Signore, perché egli parlerà il linguaggio della pace al suo popolo ai suoi Santi ed a quelli che rientrano in se stessi; significando con questo, che Dio non discorre con quelli che stanno al di fuori di se stessi, occupati in faccende esteriori, ma bensì a quelli che stanno raccolti in pensieri interni» (De Vita contempl.).

Consultiamo le Scritture, scrive Ugo da S. Vittore, e noi vedremo che Dio non ha quasi mai parlato in mezzo alla moltitudine. Quando volle dare al mondo qualche suo ordine, si manifestò non ad un popolo, o ad una nazione intera, ma soltanto ad alcuni in particolare ed a questi ancora non in mezzo allo strepito, ma o nel silenzio della notte, o nella solitudine, su le montagne, nelle foreste, nelle valli deserte. Così parla a Noè, ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe, a Mosè, a Samuele, a Davide, a tutti i Profeti. Ora perché Dio parla solamente nella solitudine, se non per chiamarci ad essa? e perché parla a poche persone, se non per incoraggiarci a vivere nella solitudine e a unirci a lui? (Lib. IV, de Arca Noe, c. IV). O quanto potenti ragioni ci stringono ad allontanarci dallo strepito del mondo corrotto, a ritirarci e a vivere, per quanto è possibile, in mezzo alle ricchezze ed alle dolcezze della solitudine!

 Né altrimenti la pensarono intorno a questo punto i sapienti pagani. «La tranquilla sicurezza della solitudine tiene lontano il dolore; temere il tumulto procura consolazione», dice Tolomeo (Protog. Almagesti). Poche persone mi bastano, dice Democrito, mi contento di una, sto benissimo senza nessuna. Io mi sono appartato non solamente dagli uomini, ma dagli affari e primieramente dalle molteplici mie occupazioni. Bisogna che tratti duramente il corpo, chi non vuol perdere l'anima miseramente.

Tu mi chiedi, scriveva Seneca a Lucilio, che cosa si debba fuggire più di tutto? Io ti rispondo: La folla; poiché non ci potrai stare mai con sicurezza. Io confesso schiettamente la mia debolezza: non riporto mai intera a casa, la misura di bontà che ho portato di casa in mezzo alla moltitudine; quello che di bene ho stabilito di fare, sfuma; e qualche briciola di quello che aveva risolto di evitare, mi si attacca di nuovo. Il pubblico con cui conversiamo è fiero nostro nemico; tutti cercano di parteciparci qualche vizio, d'inocularlo in noi, senza che né noi né essi ce ne accorgiamo. È poi cosa assai riprovevole l'assistere, senza sufficienti motivi, a qualche spettacolo; perché allora i vizi s'impadroniscono di noi per mezzo del piacere.

Che cosa dirai di me, se ti dico che mi ritiro sempre dalla moltitudine più inclinato all'ambizione, all'avarizia, alla lussuria? che ne esco più crudele, più inumano, perché sono stato in mezza agli uomini? Ah! credimi: nessuno di noi ha in sé tanta forza che basti a sostenere l'urto impetuoso dei vizi che giungono accompagnati da tanta caterva di uomini; un parlatore fino ed accorto snerva ed infiacchisce a poco a poco; un vicino ricco eccita la cupidigia; un compagno cattivo ti attacca il suo male, per quanto candido ed innocente tu possa essere. Raccogliti per quanto puoi in te stesso; non accompagnarti se non con quelli che possono renderti migliore, non ammettere alla tua società se non quelli che credi possano renderti tale. Questo si fa vicendevolmente; gli uomini imparano istruendosi gli uni gli altri (Epist. ad Lucil. c. VII).


 4. COME BISOGNA DIPORTARSI NELLA SOLITUDINE. -

Bisogna, dice S. Gerolamo, che il cristiano, ad imitazione di Abramo il quale uscì dalla sua terra e abbandonò la sua parentela, si allontani dai Caldei che sono i demoni, e vada ad abitare nella regione dei vivi. Non gli basta uscire dal suo paese; deve ancora dimenticare il suo popolo, la casa del padre suo, affinché, disprezzando i legami della carne, si possa congiungere in celeste abbracciamento con lo sposo divino (In Gen.)... La terra che dobbiamo abbandonare, ad esempio di Abramo, è anche la nostra carne che bisogna mortificare e castigare... È necessario tener ci pronti a sostenere e soffrire le diverse prove che si incontrano nella solitudine... Una volontà annichilata..., un'obbedienza pronta, costante, cieca..., un'umiltà profonda..., il silenzio...; ecco i fondamenti della vita solitaria... Come S. Antonio ebbe veduto e udito S. Paolo, primo eremita, disse rivolto ai suoi discepoli: Misero me peccatore, che indegnamente porto il nome di monaco! Ho veduto Elia, ho veduto Giovanni nel deserto ed ho veduto in verità S. Paolo nel paradiso (Vit. Patr.).

 La solitudine del corpo non basta, se non le è congiunta la solitudine dell'anima; e questa non si ottiene, se l'anima si trattiene in ciò che ha veduto od inteso fuori della solitudine, se stando il corpo nella solitudine, ella si divaga e passeggia per il mondo; se ad imitazione del popolo ebreo nel deserto, si rammarica tuttavia della schiavitù d'Egitto da cui si è sciolta, se rimpiange i vantaggi materiali che ne ricavava...

Dio è spirito, osserva S. Bernardo, egli domanda dunque a noi la solitudine spirituale anziché la corporale.... Sola e vera solitudine è quella dell'anima e dello spirito. Tu sei solo, se non pensi alle cose terrene e spregevoli, se non tieni il cuore nei beni presenti, se non t'importa nulla di ciò che il mondo desidera di più, se ti fa schifo quello di cui gode la maggior parte degli uomini, se eviti le discordie, se non ti lasci abbattere dai danni temporali, se dimentichi le ingiurie. Diversamente, se anche sei solo di corpo, non sei mai solo.

Bisogna che ti sollevi sopra di te per sposarti al Signore degli Angeli. Non è forse tuo dovere innalzarti sopra te stesso, per abbracciarti a Dio ed essere con lui un solo e medesimo spirito? Sii dunque solitario come la tortorella; non vi sia nessuna relazione tra te e il mondo; dimentica il tuo popolo e la casa paterna, e il Re del cielo sarà vinto dalla tua spirituale bellezza. O anima eletta, sii sola per servire degnamente al Dio unico che solo hai preferito. Sii dunque nella solitudine, ma con lo spirito, con l'anima, col cuore, e non col corpo solamente. Sii nella solitudine con l'intenzione e con la divozione: siivi tutta intera senza riserva (De vita contempl.).


 Chi ha lasciato l'onagro in libertà, chi ne ha sciolto i legami? dice Giobbe: Chi gli ha dato per dimora la solitudine e per ritiro il deserto? Egli si ride dello strepito delle città, non ode le grida di nessun padrone; corre per i pascoli dei monti cercando l'erba fiorita (IOB. XXXIX, 5-8). Sopra queste parole S. Gregorio Papa fa il seguente commento: Le persone contemplative abitano la solitudine dell'anima come onagri e, sciolti dai tumultuosi affari del secolo, hanno sete di Dio solo; infatti che cosa vale la solitudine del corpo se è disgiunta dalla solitudine del cuore? Perciò è necessario il raccoglimento, il ritiro dell'anima, a chi vuol menare una vita conforme alla propria vocazione, attutire l'interno moto dei terreni desideri che si contrastano, sedare con la grazia divina le cure e le sollecitudini estranee alla salute, scacciare dagli occhi dello spirito tutte le distrazioni che gli volano dinanzi come mosche velenose. Per ciò bisogna cercare di essere solo in segreto con Dio, e, spogliandoci dì tutto ciò che sa di esteriore, studiarci di parlargli in silenzio con ardenti affetti interiori (Moral. 1. XXX, c. XII).

 Iddio sparge i suoi dolci profumi soltanto dove incontra un'anima sciolta affatto da ogni impaccio di terra, e principalmente staccata da se stessa, un'anima pura e morta a tutte le cose del mondo. E ciò è giusto. È dunque necessario per chi intenda profittare di tutti i vantaggi della solitudine: 1° rinunziare al mondo esteriore, al corpo, ai parenti, agli amici, alla casa, al paese, ai beni, alle ricchezze, agli onori; 2° rinunziare al mondo interiore, ai propri desideri e affetti e voleri. 

*Qui torna a proposito una singolare osservazione dell' Abate Giovanni Malburnio, che vogliamo riportare anche a titolo di documento storico. Egli adunque constata che per più ragioni diversi ordini religiosi erano ai suoi giorni decaduti dal loro splendore e dalla loro santità primitiva. I Bernardini caddero per oziosità; il terz'ordine si sciolse. per le troppo grandi occupazioni rurali; i Premonstratensi si rilassarono per il troppo smisurato numero di messe e le troppe occupazioni di coro; i mendicanti non si sostennero a motivo della loro troppo grande familiarità coi secolari: essi frequentavano troppo la moltitudine e avvenne loro quello che dice il Profeta: «Si mescolarono tra le nazioni, ne appresero le opere, e questo fu la loro ruina» (Psalm. CV, 35-36); i Benedettini decaddero per le loro troppo grandi ricchezze. Se i Certosini conservarono sino al presente il primiero lustro e vigore, ne vanno debitori all'amore della solitudine e del silenzio ed alla rigorosa osservanza delle visite ordinate dalla regola. Queste tre cose sono racchiuse nel verso latino "Per tria: si so vi, permanet Cartusia in vi!" (In Roseto lib. I, c. III). Si, indica silenzio; so, la solitudine; vi, la visita (dei religiosi ispettori-visitatori).