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mercoledì 17 novembre 2021

Cornelio a Lapide ci parla di san Paolo sicuro in ogni frangente

Naufragio a Malta di san Paolo

Quarta virtù

Invitta speranza e confidenza in Dio

16. I. Paolo credette e sperò nella speranza e contro la speranza, quando

intraprese molte cose superiori alle forze umane e naturali, e con

l’invocazione e l’aiuto di Dio le condusse a termine. Infatti, come egli

stesso dice (Romani 8, 24): «Sperare quel che si vede non è più speranza.

E come sperare quel che già si vede?». E (Romani 8, 26): «Lo stesso

Spirito chiede per noi con gemiti inenarrabili».

17. II. Paolo, con questa speranza, superò non soltanto tutte le difficoltà,

ma anche tutte le impossibilità della natura. Infatti come lui dice (Romani 8, 31): «Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?»

 Di tali uomini scrive con verità san Bernardo (46): «Essi osano grandi

cose, poiché sono uomini grandi; e ciò che osano, ottengono. Giacché una

grande fede merita cose grandi, e fin dove sarai progredito col piede della

fiducia nei beni del Signore, altrettanti ne possederai. A tali spiriti grandi

occorre uno sposo grande, e magnificherà l’operare con essi».

 Il medesimo (47): «La sola speranza, soggiunge, presso di te (o Signore)

tiene il posto della compassione; non poni l’olio della misericordia, se non nel vaso della fiducia».

 18. III. Paolo, per questa speranza, si gloriava nelle persecuzioni: «Ci

gloriamo, scrive, nelle tribolazioni, sapendo come la tribolazione produce

la pazienza, la pazienza l’esperienza, l’esperienza la speranza. Or la

speranza non ci lascerà confusi» (Romani 5, 3-5). Speranza onnipotente


19. IV. Paolo, non solo per sé, ma anche per i suoi fedeli, sperò, in ogni

afflizione, e con la speranza ottenne da Dio aiuto, forza e vittoria. Volendo

ispirare questa speranza ai Corinti, scrive (2 Corinti l, 6 s.): «(La speranza

che in voi) opera la tolleranza delle stesse sofferenze che anche noi

soffriamo, affinché la nostra speranza sia ferma per voi, sapendo noi che,

come siete compagni delle nostre sofferenze, sarete pure compagni nella

consolazione».

Splendidamente osserva San Cipriano (48): «Nelle persecuzioni nessuno

pensi al pericolo che ci procura il demonio, ma consideri l’aiuto che darà

Dio; né la mente resti stordita dall’infestazione umana, anzi resti la fede

corroborata dalla protezione divina; poiché ciascuno, secondo le promesse

divine, e secondo i meriti della sua fede, tanto riceve di aiuto da Dio,

quanto crede riceverne. Non vi è cosa che l’Onnipotente non possa

concedere se non l’impedisce la deficienza e caducità della fede di chi

deve ricevere».

20. V. Paolo, reso dalla continua esperienza edotto dell’aiuto divino,

rimaneva sicuro in ogni frangente, riguardo al prospero esito eventuale di

ogni cosa. «Ma noi, scrive, abbiamo avuto dentro noi stessi risposta di

morte, affinché non confidiamo in noi, ma in Dio che risuscita i morti.

Egli ci ha liberati e tolti da tanti pericoli e speriamo che ci libererà

ancora» (2 Corinti l, 9 s.).

S. Cipriano (49) segue Paolo, quando scrive a Demetriano, giudice e

nemico, dei cristiani: «Vige presso di noi la forza della speranza e la

fermezza della fede. Tra le stesse rovine del crollante secolo, la mente

resta eretta, immobile la virtù, mai cessa di essere lieta la pazienza;

l’anima è sempre fidente nel suo Dio, come lo Spirito Santo ci ammonisce

ed esorta per bocca del Profeta, il quale corrobora, con celeste voce, la

fermezza della nostra fede e della nostra speranza: Io godrò nel Signore,

ed esulterò in Dio mio Salvatore. I cristiani esultano sempre nel Signore, e

si allietano e godono nel loro Dio, e sopportano con fortezza i mali e le

avversità del mondo, mentre mirano al premio ed alla felicità futura».

Così fecero i Santi, come Giobbe (Giobbe 13, 15): «Anche se mi

ammazzasse, disse, spererò in Lui». E Geremia (Geremia 17, 7):

«Benedetto l’uomo che confida nel Signore, e di cui Dio sarà sua fiducia».

«La mia porzione è il Signore − ha detto l’anima mia − per questo lo

aspetterò. Il Signore è buono per chi spera in lui, per l’anima che lo cerca» (Lamentazioni 3, 24 s.).

Si legga pure la dissertazione che fa Paolo su questa forza della speranza,

come di àncora, parlando agli Ebrei (Ebrei 6. 17; 10, 23. 35 s.).

Con verità il Salmista diceva (Salmo 31, 10): «Colui che spera nel Signore è avvolto dalla misericordia». E sant’Agostino (50) scrisse: «Mortale è veramente la vita, immortale è la speranza della vita». 

S. Bernardo (51) soggiunge: «Se sorgeranno guerre contro di me, se inferocirà il mondo, se fremerà il maligno, se la stessa carne si rivolterà contro lo spirito, io spererò in te».

21. VI. Paolo con questa speranza assalì audacemente ogni pericolo della

vita. Così, nel tumulto sollevato contro di lui ad Efeso, volle salire al

teatro, pur sapendo che volevano soltanto lui e la sua testa (Cfr.: Atti 19,

30). Così andò a Gerusalemme, nonostante che ovunque i Profeti gli

avessero predetto le catene. Ad essi rispose: «Perché piangete e mi

spezzate il cuore? Quanto a me son pronto non solo ad essere legato, ma

anche a morire... per il nome del Signore Gesù» (Atti 21, 13).


Per questa speranza, superò tutti i pericoli suoi, e di quelli che erano con

lui. Nel naufragio gli apparve un angelo, che promise la liberazione e la

salvezza non solo a lui, ma, in vista di lui, a tutti i naviganti: 

«Non temere, Paolo, disse l’angelo, tu devi comparire davanti a Cesare, ed ecco Dio ti ha fatto dono di tutti quelli che navigano con te» 

(Atti 27, 24).

22. VII. Paolo, con certa speranza, si appropriava la gloria e la corona

celeste: «So bene in chi credetti, scrive, e son certo che Egli è sì potente

da conservare il mio deposito sino a quel giorno» (2 Timoteo l, 12). E:

“Ho combattuto la buona battaglia, ho finito la mia corsa, ho conservato la fede, e non mi resta che ricevere la corona di giustizia, che mi darà in quel giorno il Signore, giusto giudice» (2 Timoteo 4, 7 s.).


AMDG et DVM


venerdì 5 novembre 2021

TRE SONO I GRADI DI PAZIENZA



CAPO SECONDO

VIRTU’ E RAPPORTI DI SAN PAOLO VERSO DI SE

Prime virtù

Pazienza

Ritratto dell’uomo apostolico

 40. I. Paolo fu di una pazienza ammirabile, adamantina e amplissima. La

pose nella sua anima, quasi come base di vita apostolica. A questo

riguardo, egli, dipingendo il perfetto uomo apostolico, scrive (2 Corinti 6,

4-10): «Diportiamoci in ogni cosa come ministri di Dio, con molta

pazienza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie. Sotto le

battiture, nelle prigionie, nelle sedizioni, nelle fatiche: nelle vigilie, nei

digiuni, con purezza, con scienza, con longanimità, con soavità, con

Spirito Santo, con carità non simulata, con la parola della verità, con la

virtù di Dio, con le armi della giustizia a destra e a sinistra; in mezzo alla

gloria e all’ignominia, alla cattiva e alla buona fama; siamo trattati come

seduttori e siam veraci; come ignoti, e siam ben conosciuti; come

moribondi, ed ecco viviamo; siamo stimati castigati, ma non siam messi a

morte; siam creduti tristi, e siam sempre allegri; poveri, ma ne arricchiamo

tanti; possessori di niente, e invece possediamo ogni cosa».

San Girolamo (67) scriveva pertanto: «Il soldato di Cristo avanza

attraverso alla buona ed alla cattiva fama, a destra e a sinistra; non si

insuperbisce per la lode, né si avvilisce per il biasimo; non si gonfia per le

ricchezze, non si abbatte per la povertà; disprezza le cose liete e le tristi; il

sole non lo brucia di giorno, né la luna di notte».

Sull’esempio di Paolo si diportò sant’Atanasio, che per quarantasei anni

andò ramingo per tutto il mondo, e sostenne con invitta forza d’animo le

persecuzioni degli ariani. A lui perciò giustamente dà lode san Gregorio

Nazianzeno (68): «Atanasio fu diamante ai percotitori, calamita ai

diffidenti».


 41. II. Paolo esercitò dappertutto e per tutta la vita questa pazienza, ed

esercitandola, l’aumentò immensamente. Perciò san G. Crisostomo (69) lo

antepone al santo Giobbe, «che è un mirabile atleta, il quale potrebbe

guardare faccia a faccia Paolo stesso, per la sua pazienza ed innocenza di

vita, per il testimonio di Dio, dopo quella fortissima lotta col diavolo, per

la vittoria che seguì alla lotta; ma Paolo, non per pochi mesi, ma per

moltissimi anni persevera nella lotta e si segnala assai di più, non perché si

raschi con un coccio il marcio della carne, ma perché incorre

frequentemente nella bocca di questo spirituale leone, e combatte contro

tentazioni innumerevoli, rimanendo più paziente di una pietra. Paolo, non

da tre o quattro amici, ma da tutti gli infedeli, e dai falsi fratelli dovette

sostenere obbrobrii; sputacchiato e maledetto da tutti».

E poco appresso continua: «Ma i vermi e le ferite causavano al santo

Giobbe crudeli e intollerabili dolori: io lo riconosco. Se però consideri che

san Paolo sopportò per lunghi anni le battiture, e, con la fame continua

anche la nudità, le catene, la prigionia, le insidie e i pericoli che gli

venivano dai domestici e dagli estranei, dai tiranni ed infine da tutto il

mondo; se poi aggiungi a ciò quello che certamente era per lui più

doloroso, ossia le pene per coloro che defezionavano, le sollecitudini per le

varie Chiese, le scottature che provava per ciascheduno degli scandalizzati;

allora potrai comprendere come quest’anima soffrendo tali cose fosse più

dura di ogni pietra, e superasse la resistenza dell’acciaio e del diamante».

Tre gradi di pazienza.


42. III. Tre sono i gradi di pazienza. 

Il primo è soffrire pazientemente; 

il secondo, volentieri; 

il terzo, con gioia, gloriandosi delle sofferenze,

desiderando passioni e persecuzioni. In tutti e tre questi gradi, Paolo fu

eccellente: si gloriava difatti delle tribolazioni (Cfr. Romani 5, 3);

ringraziava, in esse, Iddio.


San Francesco Saverio, anche tra le più acerrime persecuzioni e

tribolazioni, ridondava di tante consolazioni divine, e, non potendosi più

contenere, esclamava: «Basta, o Signore; basta». Quando si trattava di

fatiche e di persecuzioni, le richiedeva dicendo: «Di più, o Signore; di più.

Non liberarmi da questa croce, se non per darmene una più pesante». Così

si legge nella sua Vita e negli Atti della sua canonizzazione.


Questa condotta l’aveva imparata ed attinta da san Paolo e da Giacomo,

che scrive: «Abbiate, o fratelli, come argomento di vera gioia le varie

tentazioni nelle quali urterete, sapendo che la prova della vostra fede

produce la pazienza. La pazienza poi ha l’opera perfetta» (Giacomo l, 2

s.). Paolo esulta tra le catene: «Io, dice, prigioniero di Cristo... » (Efesini

3, l); si gloria di più di questo titolo che se fosse coronato di diadema, dice

il Crisostomo.

Vedasi ciò che ho detto nel commento di questo passo. Anche san Pietro:

«Godete, dice, di partecipare ai patimenti di Cristo, perché cosi potete

rallegrarvi ed esultare, quando si manifesterà la gloria di lui» (l Pietro 4,

13)

Caratteristica dell’Apostolo: ogni genere di pazienza

43. IV. Paolo, mentre viene eletto da Dio Apostolo, viene pure costituito

capo di sofferenze, e di pazienza, affinché comprendessimo che il

distintivo dell’Apostolo è ogni genere di pazienza: «Egli è uno strumento

da me eletto a portare il mio nome davanti ai Gentili» (Atti 9, 15). E ne

aggiunge subito il motivo: «Io gli mostrerò quanto dovrà patire per il mio

nome» (Atti 9, 16). Vedasi quanto ho detto commentando questo passo.

Pertanto Paolo (l Corinti 4, 11.13) scrive: «Anche in questo momento noi

soffriamo la fame e la sete, e siamo ignudi, e presi a schiaffi, e non

abbiamo ove posarci; e ci affanniamo a lavorare con le nostre mani;

maledetti benediciamo, perseguitati sopportiamo, bestemmiati

supplichiamo». E: «I segni del mio apostolato, dice, sono stati manifestati

a voi con ogni sorta di pazienza, con miracoli e prodigi e virtù» (2 Corinti

12, 12).

Enumera ad una ad una le sue lotte, e si gloria di esse come di altrettanti

trofei: «Mi sono trovato in moltissimi travagli, dice, spessissimo nelle

carceri, oltre ogni limite nelle battiture, e spesso mi son trovato nei pericoli

di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno; tre

volte sono stato battuto con le Verghe; una volta sono stato lapidato; tre

volte ho fatto naufragio; ho passato una notte e un giorno nel profondo del

mare. Spesso in viaggio, tra i pericoli dei fiumi, pericoli dei malfattori,

pericoli da parte, dei miei connazionali, pericoli dai Gentili, pericoli nelle

città, pericoli nel deserto, pericoli in mare, pericoli dai falsi fratelli. Nella

fatica, nella miseria, in molte vigilie, nella fame, nella sete, in molti

digiuni, nel freddo e nella nudità. Oltre a quello che mi vien dal di fuori,

ho anche l’affanno quotidiano, la cura di tutte le Chiese» ecc. (2 Corinti

11, 23.28).


44. V. Paolo, con ammirevole pazienza, sopportò i suoi rivali, gli invidiosi,

i detrattori, i calunniatori (Cfr. 2 Corinti, cap. 10 e 11). «Alcuni per picca,

dice, annunziano Cristo senza sincerità, credendo di aggiungere affanni

alle mie catene. Ma che me ne importa? O che sia per pretesto o con lealtà,

purché in ogni modo sia predicato Cristo, e ne godo e ne godrò, ecc.

Secondo quanto aspetto e quanto spero, non avrò da arrossire di nessuna

cosa, ma con tutta franchezza, come sempre, Cristo sarà glorificato nella

mia persona, sia con la vita, sia con la morte» (Filippesi l, 17.20). E: «Noi

siam tribolati in ogni maniera, ma non avviliti d’animo; siamo angustiati,

ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; abbattuti, ma non

finiti» (2 Corinti 4, 8 s.). Giustamente san Gregorio (70) scrisse: “La

pazienza è un martirio nascosto nell’anima».


45. VI. Paolo sostenne e superò eroicamente molte infermità ed angustie

corporali, e spirituali, gravi e continue tentazioni della carne (71):

«Affinché la grandezza delle rivelazioni, dice, non mi facesse insuperbire,

m’è stato dato lo stimolo della mia carne, un angelo di Satana che mi

schiaffeggi. Tre volte ne pregai il Signore, perché si allontanasse da me.

Ed Egli mi ha detto: Ti basta la mia grazia, perché la potenza si fa meglio

sentire nella debolezza. Volentieri adunque mi glorierò nelle mie

infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angustie

per Cristo, perché quando son debole, allora sono potente» (2 Corinti 12,

7-10).

AMDG et DVM

mercoledì 27 ottobre 2021

«Benedirò il Signore in ogni tempo»


Settima virtù

Completa conformità della sua volontà 

con quella divina, e rassegnazione in essa

35. I. Paolo in ogni cosa conformava sé ed i suoi alla divina volontà: «Per

distinguere, dice, quale sia la volontà di Dio, buona, gradita e perfetta»

(Romani 12, 2). Di qui la sua rettissima intenzione in ogni azione, volendo

in tutto piacere solo a Dio; perciò stimava un nulla i giudizi degli uomini,

le lodi ed i vituperi; non si lasciava sviare dal giusto e dal retto, da nessun

amore od odio, da lusinghe o minacce; ma in ogni luogo era sincero, retto,

costante, immobile ed imperturbabile come se fosse fisso in Dio; e perciò

superiore a tutte le cose, sia prospere, sia avverse: «A me poi, scrive,

pochissimo importa di essere giudicato da voi o da un uomo, anzi neppure

da me stesso mi giudico; perché, sebbene io non mi senta colpevole di cosa

alcuna, non per questo sono giustificato, essendo il mio giudice il Signore.

Quindi non giudicate avanti il tempo, finché non venga il Signore, il quale

metterà in luce ciò che è nascosto nelle tenebre, e manifesterà i consigli dei

cuori; e allora ciascuno avrà da Dio la lode (che gli spetta)» (l Corinti 4, 3-5).

Di conseguenza Paolo, in tutte le cose, sia nelle avverse come nelle

prospere, rendeva grazie a Dio (Cfr. Colossesi 3, 17); ne lodava la

provvidenza, dicendo col Salmista: «Benedirò il Signore in ogni tempo».

Ugual cosa prescrive san Girolamo (60) a Pammachio: «Se sono sano,

dice, rendo grazie al Creatore; se sono malato, glorifico in ciò la volontà di

Dio. Quando sono malato, allora divento più forte, e la virtù dello spirito si

rafforza nell’infermità della carne». San Gregorio (61) racconta pure di san

Servulo, povero e paralitico, il quale «si studiava, in mezzo al suo dolore,

di ringraziare Iddio, consacrando, con inni e lodi, giorno e notte». E

mentre stava per spirare, ai suoi che salmeggiavano disse: «Tacete; non

sentite quante lodi risuonano nel cielo?». E attento a tali canti, rese l’anima

a Dio, mentre all’intorno si diffuse un meraviglioso profumo.


Paolo angelo terrestre

36. II. Paolo eseguì ovunque la volontà di Dio, come un angelo terrestre.

Di qui il paragone che san G. Crisostomo (62) fa di Paolo con gli Angeli:

di essi infatti è scritto (63): «Egli fa i venti i suoi Angeli e suoi ministri i

fuochi fiammanti». E: «Potenti in virtù, esecutori dei suoi ordini» (Salmo

102, 20).

Paolo non solo eseguì i precetti di Dio, ma andò oltre, aggiungendo anche i

consigli evangelici, fino a predicare il Vangelo gratuitamente, senza

ricompensa: «Qual è dunque la mia ricompensa? dice. Questa: che

predicando il Vangelo non ponga prezzo al Vangelo» (l Corinti 9, 18).

«Paolo, scrisse il Crisostomo (64), percorse tutta la terra come fuoco e

spirito, e percorrendola la purgò. Veramente ciò è mirabile: poiché come

tale passava sulla terra, e sebbene fosse ancora circondato da corpo

mortale, combatteva già con la forza delle potestà incorporee. Quanto

siamo degni di condanna noi, che non ci studiamo di imitare neppure la più

piccola parte di quelle virtù che erano riunite tutte in un solo uomo!

Pensando assiduamente a queste cose, procuriamo di apparire senza colpa;

sforziamoci di avvicinarci al suo zelo, per meritare di pervenire al

medesimo premio».


37. III. Paolo in ogni cosa faceva ciò che era più perfetto e più accetto a

Dio. La beata Teresa fece voto di agire così; assai di più fece Paolo. Perciò

quando predicava il Vangelo, lavorava con le sue mani, per non essere di

peso ad alcuno. Visse in perpetua povertà, castità ed obbedienza, come i

Religiosi, anzi come il Duce ed il Patriarca dei Religiosi. Torneremo fra

poco su questo argomento.


38. IV. Paolo aveva la mente unita a Dio, per mezzo della preghiera e della

contemplazione, non solo di giorno, ma anche di notte. A Filippi, si trova

in prigione con Sila, verso mezzanotte, mentre prega e loda Dio, un

terremoto scuote il carcere e ne spalanca tutte le porte (Cfr. Atti 16, 25).

San Giacomo, cugino del Signore, come si legge nella sua vita, aveva i

calli alle ginocchia, per le frequenti e lunghe orazioni fatte in ginocchio.

Santa Paola, nell’invito rivolto a santa Marcella di recarsi a Betlemme,

come si legge presso san Girolamo (65): «Ecco, disse, in questo piccolo

buco della terra nacque il Creatore dei cieli! Quando, passando per Silo e

Betel, ritorneremo alla nostra spelonca, canteremo continuamente,

piangeremo spesso, pregheremo incessantemente, e ferite dal dardo del

Salvatore, diremo in comune: Trovai colui che cercava l’anima mia, lo

terrò e non lo lascerò andare via. E: Come il cervo anela alla fonte delle

acque, così l’anima mia anela a te, o Dio».


39. V. Paolo aveva uno smisurato zelo di propagare l’onore di Dio:

«Tant’è Vero, dice lui stesso, che da Gerusalemme e dai paesi circostanti

fino all’Illiria tutto ho ripieno del Vangelo di Cristo» (Romani 15, 19). Per

questo zelo si oppose a san Pietro, principe di lui e degli altri Apostoli, e lo

riprese liberamente davanti a tutti, dicendogli: «Se tu, che sei Giudeo, vivi

da Gentile, come mai costringi i Gentili a giudaizzare» (Galati 2, 14). Su

tal punto, giustamente osserva il Nazianzeno (66): «Gli Apostoli non

furono forse pellegrini? Non furono forse ospiti di molte nazioni e città?

per le quali si eran dispersi, onde il Vangelo si diffondesse rapidamente in

ogni direzione, né alcuna cosa rimanesse priva del triplice lume (della

santissima Trinità), e della luce della verità; perché anche a coloro che

sedevano nelle tenebre e nell’ombra di morte, venissero squarciati i veli

caliginosi dell’ignoranza».

Fine del primo capitolo

AMDG et DVM

sabato 23 ottobre 2021

Scienza di Paolo e amore a Paolo




FIGURA DI SAN PAOLO

Ossia l’ideale della vita apostolica

Siate miei imitatori

(Filippesi 3, 17)

APPROVAZIONI della presente edizione

NULLA OSTA Sac. G. Pelliccia

Roma, 15 giugno 1942

IMPRIMATUR

Can. P. Gianolio, Vic. Gen.

Alba, 20 giugno 1942.

SCHEMA DEL TRATTATO

Prefazione

Avvertimenti per la lettura di questo opuscolo.

Testo del Trattato di Cornelio A Lapide 

<<Effigies Divi Pauli sive Idea Vitae apostolicae>>

Introduzione.

Capo I. - Virtù e rapporti di Paolo verso Dio.

Capo II. - Virtù e rapporti di san Paolo verso di sé.

Capo III. - Virtù di Paolo verso il prossimo.

Appendice. - Profezia di Isaia sull’evangelizzazione dei Cinesi.

NOTIZIA SU CORNELIO ALAPIDE

PREFAZIONE

 1. In occasione di due centenari compiutisi nell’anno 1937, cioè il XIX

centenario della conversione di S. Paolo e il III centenario della morte del

P. Cornelio A Lapide S. J., è stata pubblicata dalla tipografia dell’Abbazia

Cistercense di Westmalle (Belgio), la 27.a edizione del trattato dello stesso

P. A Lapide sulle virtù di San Paolo. Questa edizione l’aveva preparata il

P. Romualdo Galdos S. J., Professore di ebraico e greco biblico nella

Pontificia Università Gregoriana, specialmente conosciuto per i suoi studi

e scritti sull’A Lapide.

 E’ sulla suddetta edizione che fu condotta la presente versione italiana, ed

è dalla Prefazione del P. Romualdo Galdos S. J. che vennero presi tutti i

dati necessari per spiegare l’occasione, la ragione e la finalità di questo

opuscolo, e gli Avvertimenti per la lettura del medesimo.

 2. Per migliore intelligenza, si comincia a spiegare l’importanza che ha

questo opuscolo, fra le opere del P. Cornelio A Lapide S. J.

 Per dare qualche idea relativa al valore di questo opuscolo, basta

segnalare il fatto che il Commentario sulle Lettere Paoline è, tra tutte le

opere di Cornelio A Lapide, quella che detiene il primato; primato

riconosciuto anche dal consenso unanime degli studiosi.

 Questo primato è prima di tutto cronologico, poiché il Commentario sulle

Lettere Paoline è la prima opera dell’A Lapide; in secondo luogo è un

primato di affetto, poiché l’autore predilesse e preelesse questa sua opera.

 Dopo quindici anni (dal 1596) di insegnamento della Sacra Scrittura nel

celebre collegio della Compagnia di Gesù in Lovanio, Cornelio A Lapide

conosceva perfettamente il Nuovo ed il Vecchio Testamento, anzi aveva

già approfondito i singoli libri dei due Testamenti. Quando, per consiglio

di amici e per comando dei superiori, egli si decise a stampare il primo suo

libro di esegesi, la scelta cadde subito, tra tutti i libri dei due Testamenti,

sui Commentari delle Lettere Paoline.

 Ecco la ragione di questa preferenza: «Ho esordito dalle Lettere di san

Paolo, sia perché queste sono importantissime e difficilissime; sia perché,

per la terza volta ed accuratamente, ebbi modo di tenere su esse le lezioni a

preferenza degli altri Libri Sacri; sia perché i nostri avversari e settari

assiduamente strepitano che Paolo è dalla loro parte, e ciò vanno

blaterando presso il volgo ignorante; sia perché Paolo, come vaso di

elezione e Dottore delle genti, con le sue Lettere istruisce e forma alla

sapienza, alla virtù ed alla perfezione cristiana tanto i Presuli ed i Pastori,

come i Principi ed i Magistrati, come ogni cristiano, di qualsiasi

condizione, stato e grado...»

 3. Quella che fu la prima opera, riguardo al tempo, rimase pure la prima

per dottrina ed erudizione, e la prima presso l’estimazione e l’opinione dei

lettori. Così fu la prima per successo editoriale.

 L’opera paolina raggiunse l’undicesima edizione, mentre era ancora in

vita l’A Lapide; dopo la di lui morte raggiunse oltre la cinquantesima

edizione. E ciò a ragione, poiché nei medesimi Commentari Cornelio A

Lapide dimostra veramente una eccezionale conoscenza della vita e delle

gesta di Paolo, ed una straordinaria ed intima scienza della sua dottrina e

delle sue Lettere. Non solo scienza e dottrina: ovunque dimostra un pari

amore verso l’Apostolo.

 Anche negli altri commentari manifesta spessissimo queste due cose:

scienza di Paolo e amore a Paolo; specialmente nei Commentari sugli Atti

degli Apostoli, che costituiscono l’integrazione storica e scritturale al

Commentario sulle Lettere Paoline. Anzi, di questa scienza paolina e di

questo amore paolino ce ne rimane un prezioso monumento, nei

prolegomeni agli Atti degli Apostoli, in ciò che dall’A Lapide è chiamata:

la "Effigies divi Pauli" la Figura di S. Paolo.

 Questa "effigies" è un prezioso documento della scienza paolina della

quale era adorno l’A Lapide, ed nel medesimo tempo un’insigne prova e

monumento dell’amore paolino di cui ardeva il suo cuore d’esegeta e di

apostolo.

 4. Fu ed è sempre desiderio dell’amante tenere presso di sé l’immagine ed

il profilo dell’amato o dell’amata, se non sulla carta, almeno nella mente e

nel cuore. Se l’amante poi, dopo essersi scolpito nella mente e nel cuore lo

figura della persona amata, può con le sue proprie mani esternarla ed

ornarla con la penna e col pennello, allora questo è ritenuto come il

supremo trionfo dell’amore: e giustamente l’A Lapide ottenne tale trionfo.

 Ardente di amore verso l’Apostolo delle genti, del quale portava la figura

nella mente e nel cuore, poté esternare tale figura e perfettissimamente

pitturarla con la penna. Trasse diligentemente ogni singola linea dalle frasi

delle Lettere paoline; la luce ed i colori li trovò presso i santi Padri,

specialmente presso S. Giovanni Crisostomo; fu un fortunato ed esauriente

attingitore.


5. Ho detto figura od immagine, prendendo dallo stesso A Lapide il primo

nome; ma più giustamente dirò che tre furono le figure di san Paolo

descritte e pitturate dall’A Lapide. Vorrei anzi dire che da lui venne ideato

ed esternato con la penna, assai felicemente, un artistico trittico di san

Paolo.

 Il nostro autore, in questo opuscolo, dopo fatti gli elogi generali di Paolo,

intendendo partitamente dipingere le virtù dell’Apostolo, «affinché

possiamo meglio contemplarlo, ammirarlo ed imitarlo», distingue queste

virtù, «per motivo di ordine e di memoria, in tre capi: Primo: virtù verso

Dio; secondo: verso di sé; terzo: verso il prossimo».

 Questi tre capi, come sono concepiti dall’A Lapide, ispirano tre scene di

un unico trittico. Prima scena: Paolo rapito al cielo per amore verso Dio e

verso Gesù; seconda scena: Paolo, per il medesimo duplice amore, si

immola vittima a Dio; terza scena: Paolo, per il medesimo duplice amore,

si prodiga per la salute delle anime.

 E’ cosa degna di ammirazione il vedere come l’A Lapide descriva e

spieghi in ogni parte di questo trittico tante e così scelte virtù di san Paolo.

L’A Lapide seppe, con felice inchiostro e penna fortunata, nella sua figura

di san Paolo, fedelmente riprodurre tutte queste virtù.

 Se l’avido lettore vuole contemplare più accuratamente questa pittura di

Paolo, fatta dall’A Lapide, circonfusa da maggior luce, legga specialmente

nei Commentari paolini del medesimo autore il completo e dotto proemio:

De praerogativis sancti Pauli. Se inoltre desidera conoscere le Lettere di

Paolo, la sua vita ed il suo spirito, l’erudizione dell’A Lapide, la sua

scienza ed il suo animo, legga allora, lo prego, anche i Commentari sugli

Atti degli Apostoli e massimamente sulle Lettere di san Paolo, scritti dal

nostro Cornelio A Lapide.

 6. Chi legge tali commentari si convincerà di certo, che, a ragione, il

nostro autore è considerato tra i principali e primi interpreti fioriti nel

secondo periodo aureo dell’esegesi cattolica; egualmente si convincerà che

il nostro Cornelio A Lapide può essere meritamente aggiunto come terzo,

accanto agli stessi speciali commentatori di san Paolo: i sommi Guglielmo

Estio e Benedetto Giustiniani. E’ inferiore ad essi nella parte linguistica,

anzi, nelle spiegazioni grammaticali, non è sempre preciso; ma, più

stringato di Giustiniani, accoglie veri tesori dai commentari dei Padri, e

dimostra una mirabile erudizione ed un’intima conoscenza delle Lettere

paoline. Per tali ragioni, i commentari dell’A Lapide su Paolo sono

giustamente preferiti alle altre sue opere esegetiche, e con verità debbono

essere avvicinati ai migliori commentari.

 Tra i migliori commentari di Cornelio A Lapide, non ultimo posto merita

questo opuscolo che ci presenta il vero ritratto di san Paolo.

 7. Si deve notare come questo opuscolo venga denominato dall’autore

anche con un altro titolo: "Idea vitae apostolicae", ossia "L’ideale della

vita apostolica". Prima di tutto san Paolo è, per Cornelio A Lapide,

"modello dell’uomo apostolico". Ciò ci svela lo spirito apostolico, di cui

arse continuamente il nostro autore, e che, volente o nolente, trapela in

ogni suo scritto: spirito apostolico vivo ed immortale. Cominciò il suo

lavoro di esegesi con vero spirito apostolico; lo continuò col medesimo

spirito, e con eguale spirito lo condusse felicemente a termine ed a

compimento.

 In tutti i volumi si hanno moltissime citazioni sulle missioni od allusive ad

esse, in nessun volume mancano le spiegazioni adattabili alle missioni, od

esempi missionari od altri, dedotti dai Santi e dagli uomini apostolici.

 Così, per esempio, il nome del grande santo Francesco Saverio si trova

spesso citato in tutti gl’indici analitici, coi quali termina ogni singolo

volume. Lo stesso deve dirsi, con più ragione, per il nome di san Paolo.

Questo spirito apostolico dell’A Lapide raggiunge in più volumi un tono

assai elevato, dominante, come nei Commentari sui Vangeli, sugli Atti

degli Apostoli, e massimamente su tutte e singole le Lettere di san Paolo.

Anzi l’A Lapide curò di inserire il medesimo spirito apostolico nello stesso

Antico Testamento, e vi riuscì felicemente, in modo speciale nei

Commentari sui Profeti. Ivi si trova la celebre profezia di Isaia (49, 12),

che l’A Lapide, non senza probabilità, interpreta applicandola al popolo

Cinese, che dev’essere chiamato ad entrare nella Chiesa. Questa

interpretazione, tanto curiosa quanto erudita, abbiamo pensato di riportarla

in una speciale Appendice, messa alla fine di questo nostro opuscolo.

 Terminiamo la nostra breve prefazione, con la preghiera veramente

apostolica, che il medesimo P. A Lapide pose al termine del suo proemio

De praerogativis sancti Pauli [Nei prolegomeni ai Commentari sulle

Lettere Paoline].

AMDG et DVM

mercoledì 3 marzo 2021

«Guai al mondo» (Matth. XVIII, 7) - Importanza dei NOVISSIMI


 

NOVISSIMI

1. Grande disgrazia è dimenticare i novissimi. — 2. Quanto è utile ricordarsi dei novissimi. — 3. Come dobbiamo ricordare i novissimi.

1. Grande disgrazia è dimenticare i novissimi. — I novissimi, cioè gli ultimi fini, sono la morte, il giudizio, il paradiso, l’inferno, l'eternità. Dimenticare cose di tanta importanza, non prevederle, non preparacisi, è la somma delle disgrazie che possa accadere ad un uomo. 
Infatti dimenticare la morte, vuol dire non pensare a prepararvisi, ed avventurarsi alla triste morte del peccatore: disgrazia irreparabile. 
Dimenticare il giudizio di Dio è un disprezzarlo; e allora sarà molto terribile questo giudizio. 
Dimenticare il cielo è grande sciagura, perché così facendo non si fa nulla per guadagnarlo, e si perde; e perduto il paradiso, tutto è perduto. 
Dimenticare l’inferno, è un andarvi incontro; e chi vi si incammina, facilmente vi precipita. 

Dimenticare l’eternità, è lo stesso che perdere il tempo e l’eternità; si può immaginare disgrazia più tremenda? Ciò non ostante, oh come è comune nel mondo la dimenticanza dei novissimi! Per ciò Gesù fulminò quello spaventevole anatema: «Guai al mondo» (Matth. XVIII, 7).
A quanti si possono rivolgere quelle parole del Signore nel Deuteronomio: « Gente senza consiglio e senza prudenza, perché non aprire gli occhi e comprendere e provvedere ai loro novissimi? » (XXXII, 28-29). E quelle altre d’Isaia : « Tu non hai pensato a queste cose, e non ti sei ricordato dei tuoi novissimi » (XLVII, 7).
Terribile imprudenza che ha conseguenze fatali è quella di dimenticare le cose future, di non considerare i novissimi per arrivarvi preparati. Che onta, che rabbia non sarà per i figli del mondo l’udirsi rinfacciare dai demoni nell’inferno: O sciagurati! voi sapevate che c’era un inferno, e potendolo schivare con poco costo, vi ci siete tuffati a capo fitto! Voi avete dimenticato i novissimi, e avete perduto tutto.
Ci si parla dei nostri novissimi; noi li conosciamo, vi crediamo, e intanto operiamo come se non ci riguardassero affatto e non ne diventiamo migliori! O cecità fatale! O follia incredibile! O uomini stupidi e da compiangersi! Non pensare, non penetrare, non temere cose tanto gravi, non prepararvisi!

2. Quanto è utile ricordarsi dei novissimi. — « In tutte le tue opere, dice il Savio, proponiti sotto gli occhi i tuoi novissimi, e non cadrai mai in peccato » (Eccli. VII, 40). La ragione è chiara, poiché il fine che uno si propone, diventa il principio e la regola di tutte le azioni; ora il fine di tutte le cose sta compreso essenzialmente nei fini ultimi, ossia nei novissimi. Tutte le persone operano per un fine; perché dunque non operare guardando ai fini ultimi?...

Chi dice a se stesso, quando si sente tentato a offendere Dio: Al punto di morte, vorrò io aver commesso questo peccato? — tosto si mette su l’avviso e resiste. — Quando sarò innanzi al tribunale di Dio, quando il giudice divino mi peserà nella bilancia della sua giustizia, vorrò che il peso dei miei misfatti vinca quello delle mie virtù? Ebbene, schiverò il peccato e praticherò la virtù. Mi sta a cuore di passare dal tribunale di Dio al cielo? dunque mi studierò di guadagnarmi questo cielo. 
Forse che mi garberà udirmi al giudizio quella terribile sentenza : Partitevi da me, o maledetti, e andate al fuoco eterno? Dio me ne scampi! Dunque mi applicherò a chiudermi l’inferno per sempre, schivando soprattutto il peccato mortale. Quando entrerò nell’eternità, vorrò io aver perduto il tempo? Certo che no: conviene dunque che non ne perda un istante; — queste sono le salutari considerazioni che fa colui il quale non dimentica i suoi novissimi. Dunque chi non vede ch’egli diventa quasi impeccabile, compiendosi in lui il detto dello Spirito Santo — Il fine dell’uomo che è la beatitudine eterna, lo porta alla fuga del peccato e alla pratica della virtù, come a mezzi coi quali si ottiene la beatitudine. Per ciò S. Agostino dice: «La considerazione di questa sentenza: — Ricorda i tuoi novissimi e non peccherai in eterno — è la distruzione dell’orgoglio, dell’invidia, della malignità, della lussuria, della vanità e della superbia, il fondamento della disciplina e dell’ordine, la perfezione della santità, la preparazione alla salute eterna. Se ti preme non andare perduto, guarda in questo specchio dei tuoi novissimi ciò che sei e ciò che sarai tu la cui concezione è macchia vergognosa, l’origine è fango, il termine è putredine. 

Davanti a questo specchio, cioè in faccia ai novissimi, che cosa diventano le delicate imbandigioni, i vini squisiti, le splendide calzature, il lusso del vestire, la mollezza della carne, la ghiottoneria, la crapula, l’ubbriachezza, la magnificenza dei palazzi, l’estensione dei poderi, l’accumulamento delle ricchezze? ». 

Prendiamo dunque il consiglio di S. Bernardo e nel cominciare un’azione qualunque diciamo a noi medesimi: Farei io questo, se dovessi morire in questo momento? (In Speculo monach.).
Simile a quella di S. Bernardo è la regola di condotta suggerita da Siracide, per ordinare e santificare tutte le nostre azioni: « In ogni tua impresa scegli quello che vorresti aver fatto e scelto quando sarai in punto di morte ». Fate tutte le vostre azioni come vorreste averle fatte il giorno in cui comparirete innanzi a tutto il mondo, per renderne conto al supremo tribunale di Dio. Non fate cosa di cui abbiate a pentirvi eternamente: schivate quello che vi farebbe piangere per tutta l’eternità, quello che vi toccherebbe pagare nell’eterno abisso dell'inferno. Studiatevi di fare benissimo e perfettissimamente ogni cosa, affinché abbiate da rallegrarvi di tutto ciò che pensate, dite, e fate; e ne riceviate una ricca mercede in cielo. Ora la memoria dei novissimi procura tutti questi vantaggi...

Non dimenticate anche che sono prossimi i vostri novissimi...; che incerta è l’ultima ora... Chi non teme una cattiva morte, come avrà paura del giudizio e dell’inferno? Ah! se gli uomini pensassero di frequente al giorno della loro morte, preserverebbero la loro anima da ogni cupidigia e malizia... O voi, che volete essere eternamente felici, pensate sempre a quella sentenza. — Parlando di Gerusalemme, Geremia dice che « ella si dimenticò del suo fine, per ciò sdrucciolò in un profondo abisso di miserie e di degradazione » (Lament. I, 9). Dunque, pensando agli ultimi fini non si cade, e chi è caduto, si rialza. « Noi cessiamo di peccare, dice S. Gregorio, quando temiamo i tormenti futuri ». Ripetiamo anche noi col Salmista: « Ho pensato ai giorni antichi, ho meditato gli anni eterni » (Psalm. LXXVI, 5).

3. Come dobbiamo ricordare i novissimi. — Perché il ricordo dei novissimi abbia tutta l'efficacia che ne promette lo Spirito Santo, conviene in primo luogo che non si fermi soltanto sopra di uno, ma li abbracci tutti. 
Per qualcuno infatti il pensiero della morte, invece di essere incentivo al bene, può essere uno stimolo al male: « La nostra vita sfumerà come nebbia » (Sap. II, 3), dissero gli empi ricordandosi della loro morte imminente; ma da questo pensiero conclusero: « Venite dunque e godiamo finché abbiamo tempo » (Ib. 6). Perciò non dice il Savio nel citato testo: memorare novissimum tuum, ma novissima tua; perché il pensiero della morte riesca proficuo, ricordiamoci che alla morte terrà dietro un duro giudizio (Hebr. IX, 27); che al giudizio andrà annessa una sentenza o di eterna pena o di eterno premio (Matth. XXV, 46). Dal ricordo dei novissimi trae pure un gran vantaggio la vita spirituale del cristiano, la quale consistendo nella pratica delle quattro virtù cardinali, prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, trova nella meditazione dei novissimi un ottimo alimento. Infatti il ricordo della morte distrugge l’ambizione e la superbia, e così dà la prudenza. La memoria del giudizio, mettendoci dinanzi agli occhi quel giudice rigoroso, ci porta a usare giustizia e bontà col prossimo. Il ricordo dell’inferno reprime l’appetito dei piaceri illeciti e così avvalora la temperanza. La memoria del Paradiso diminuisce il timore dei patimenti di questa vita e cosi rinsalda la fortezza.
Si richiede in secondo luogo, che questo ricordo sia fatto su la propria persona, come pare ci dica il Savio il quale non dice semplicemente: memorare novissima, ma vi aggiunge tua. Quanti vi sono, che ricordano i novissimi anche spesso, ora discorrendone nelle chiese, ora trattandone nei libri, ora disputandone su le cattedre, ora figurandoli o su marmi, o su bronzi o su tele? eppure non menano tutti una vita santa. Bisogna che chi ricorda i novissimi, pensi che proprio lui si troverà, e forse tra brevissimo tempo, al letto di morte... nella bara, al camposanto... Che proprio lui si presenterà al giudizio di Dio e a lui toccherà il castigo o il premio eterno.
Conviene in terzo luogo che questo ricordo dei novissimi non sia cosa speculativa ma pratica, perciò lo Spirito Santo fa precedere al testo citato quelle parole: in ogni tua azione. Se prima di ogni azione considerassimo i novissimi, non solo eviteremmo il peccato, ma troveremmo in quella considerazione la forza di praticare le più eroiche virtù.
Sarebbe poi un errore il credere che il pensiero dei novissimi porti con sé la tristezza. Se lo Spirito Santo ci assicura che il ricordo frequente dei novissimi basta a tenerci pura la coscienza: — In aeternum non peccabis — è cosa chiara che porta con se la gioia del cuore che è la più grande di tutte le gioie. — Non est oblectamentum super cordis gaudium (Ecciti. XXX, 16). E ne abbiamo infatti una conferma nel medesimo Ecclesiastico il quale dopo di aver detto in altro luogo: « Non abbandonarti alla tristezza, ma cacciala da te» (XXXVIII, 21), soggiunge subito e ricordati dei novissimi, quasi che il pensiero dei novissimi sia il più sicuro per tenere lontana dal cuore umano la tristezza.

giovedì 7 febbraio 2019

I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Passione di Cristo (III)




 Passione di Gesù Cristo (III)

 14. La flagellazione.
 15. Ecce Homo.
 16. Gesù in balia dei soldati.
 17. Gesù è caricato della croce.
 18. Il Calvario.
 19. Crocifissione.
 20. Dolcezza e pazienza di Gesù Cristo.
 21. Gesù dichiarato re su la croce.
 22. Bestemmie contro Gesù Cristo.
 23. Il buon ladrone.
 24. Maria presso la croce.
 25. Sitio.
 26. Le sette parole di Gesù Cristo su la croce.


14. LA FLAGELLAZIONE. – Continuando la sanguinosa storia della Passione del Salvatore, noi troviamo questo gran Dio legato ad una colonna per essere flagellato; siccome la flagellazione era presso i Romani il castigo degli schiavi, ecco un nuovo supplizio ed una nuova umiliazione inflitti a Gesù Cristo; era un mettere al pari di uno schiavo, e di uno schiavo rivoltoso, colui che è il re del cielo e della terra! I manigoldi battono il suo corpo con funi a nodi, con colpi raddoppiati e accanitamente. Il sangue cola da tutte le parti. Isaia, che lo aveva contemplato in quel misero stato, esclama: « Non vi è più in lui né bellezza, né figura d'uomo. Lo abbiamo veduto disprezzato come la più vile feccia degli uomini, pieno di dolori e di acciacchi. Il suo volto era quasi scomparso sotto i segni del disprezzo, e non l'abbiamo più riconosciuto» (ISAI. LIII, 2-3). E il re Profeta dice di averlo veduto ridotto a tale estremo, che i carnefici gli poterono contare tutte le ossa (Psalm. XXI, 17). In mezzo a tanti strazi, l'Agnello immacolato non diede un lamento…

15. ECCE HOMO. – Quando Gesù per le battiture fu ridotto a non avere più parte del corpo sana, Pilato tentò un ultimo sforzo presso il popolo, e glielo presentò dicendo: – Ecce Homo. – Ecco l'uomo (IOANN. XIX, 5). Giudei, crudeli, ecco lo stato a cui avete ridotto il Verbo fatto carne: ecco l'opera vostra: – Ecce homo. – Bestemmiatori, dissoluti, avari, peccatori di ogni genere, ecco il frutto della vostra condotta: – Ecce homo…
Riuscito vano anche questo tentativo, Pilato finì per condannare Gesù Cristo alla morte e in ciò commise tre ingiustizie: 1° usurpava su Gesù Cristo un potere, una giurisdizione che in nessun modo gli apparteneva; 2° sconvolgeva le regole tutte di giustizia, come cedendo al tumulto dei Giudei, e condannava Gesù non perché colpevole, ma perché odiato e perseguitato dai suoi nemici; 3° violava il diritto e la legge, perché condannava un innocente, per timore di essere tenuto per nemico di Cesare.

16. GESÙ IN BALIA DEI SOLDATI. – Quando Gesù fu condannato, i soldati del Preside lo condussero nel Pretorio, raccolsero intorno a lui tutta la coorte, lo spogliarono dei suoi abiti, lo vestirono di una clamide o mantello militare, di colore scarlatto, e intrecciati rami di lunghe e dure spine, ne formarono una corona che gli calcarono sul capo e gli misero in mano una canna. Poi, piegando innanzi a lui il ginocchio, lo schernivano dicendo: Ave, o re dei Giudei. E alcuni, togliendogli di tratto in tratto la canna di mano, gli percotevano la testa (MATTH. XXVII, 29-30). Tutta la coorte si radunò per fare del Salvatore un finto re da teatro e argomento di derisione…

Quantunque i soldati romani avessero coronato Gesù Cristo per beffa, questo fu tuttavia un confessarne la sovranità. Lo proclamarono re, senza pensare che egli era tale infatti, dice S. Bernardo, il quale prende occasione da ciò per osservare che sarebbe cosa indegna che avesse membra delicate quel corpo il cui capo è coronato di spine (Serm. de Passione)… Pensiamo che Gesù Cristo fu coronato di spine, per meritare a noi la corona del cielo e che quella corona era figura dei nostri peccati.

S. Agapito, martire all'età di quindici anni, fra i molti tormenti cui lo sottopose la ferocia dei carnefici, si vide anche caricare la testa di carboni ardenti. Allora il santo giovine, ricordando la corona di spine del Salvatore, esclamò: È poca cosa che una testa la quale ha da essere coronata in cielo, sia coronata di fuoco e bruciata su la terra. Oh! che bella e ricca corona di gloria cingerà il capo che mostrerà trafitture di patimenti sofferti per Gesù Cristo! (SURIO, In Vita). Goffredo di Buglione, eletto re di Gerusalemme, ricusò di cingersi della corona reale, dicendo che non era cosa conveniente ché un re cristiano portasse corona d'oro nella città in cui Gesù Cristo era stato coronato di spine (Storia delle Crociate).

Piegando il ginocchio innanzi a lui, i soldati lo motteggiavano dicendo: Ave re dei Giudei – Ave rex Iudaeorum: – «Ogni lingua, dice S. Paolo, confessa che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre» (Philipp. II, 11); «e nel nome di Gesù deve piegarsi ogni ginocchio in cielo, su la terra, negli inferni» (Id. 10): – Gesù è veramente re; egli regna in cielo con la sua gloria, su la terra con la sua croce e la sua grazia, nell'inferno con la sua giustizia. «Egli è il Re dei re, il Signore dei dominanti» (Apoc. XIX, 16).

Gesù ha sofferto gli scherni del pretorio:
1° perché conoscessimo la vanità del mondo e dei suoi onori;
2° perché imparassimo che regna con lui, chi disprezza gli onori e i piaceri e se medesimo;
3° perché le umiliazioni dovevano essere le armi della sua vittoria contro Lucifero…

E' impossibile non dico comprendere e descrivere, ma anche solo immaginarsi gli strapazzi e i tormenti con cui i soldati romani, eccitati dai demoni, malmenarono Gesù Cristo dal punto in cui Pilato lo mise nelle loro mani, fino a che lo caricarono della croce. In questo frattempo l'inferno fu scatenato tutto intero, e gli uomini che ne divennero gli strumenti, compirono alla lettera quelle profezie della Sapienza. «Mettiamoci sotto i piedi il giusto…, circondiamolo di tranelli perché a noi è inutile e contrario alle nostre opere, ci rimprovera le nostre colpe contro la legge, e volge a nostro scorno e danno i cattivi effetti delle nostre dottrine. Si vanta di avere la scienza di Dio e si chiama Figlio dell'Altissimo. Ha svelato le nostre intenzioni. Ci ripugna il vederlo, perché la sua vita è differente da quella degli altri, e i suoi costumi sono il rovescio dei nostri. Egli ci guarda come gente leggera e frivola, e si allontana da noi come da un immondezzaio; preferisce la morte dei giusti, e si vanta di avere Dio per padre. Vediamo se dice il vero, proviamo quello che gli accadrà, e sapremo quale sarà la sua fine; perché se egli è veramente Figlio di Dio, questi lo libererà dalle mani dei suoi nemici. Proviamolo con lo scherno e col supplizio, affinché conosciamo la sua dolcezza e mettiamo in opera la sua pazienza. Condanniamolo alla morte più infame» (Sap. II, 10-12).
Osserviamo qui le ragioni che dànno gli empi, del loro odio e delle persecuzioni loro contro Gesù Cristo:
1° Egli non va loro a genio, anzi li contraria;
2° combatte le loro opere;
3° rimprovera loro la violazione della legge;
4° si annunzia figlio di Dio, e sostiene ch'egli insegna la scienza e la dottrina;
5° penetra i loro perversi disegni, li palesa e condanna;
6° con la sua modestia e religione riesce a loro odioso;
7° la sua vita; non è come la loro;
8° le sue opere, i suoi portamenti sono perfetti;
9° egli li considera come persone vane, leggere e dissipate;
10° si allontana da loro come da uomini corrotti;
11° preferisce la fine del giusto alla loro;
12° si vanta di aver Dio per padre…

17. GESÙ È CARICATO DELLA CROCE. – I manigoldi finalmente caricarono su le spalle di Gesù una pesante croce… Ognuno può facilmente immaginarsi in quale stato di stanchezza e di debolezza dovesse trovarsi l'umanità del Redentore, dopo le angosce di una notte quale fu quella da lui passata nell'orto di Getsemani e nei tribunali giudaici, dopo i mille strapazzi di quel mattino, e in casa di Erode e nel Pretori o di Pilato. Or bene, dopo tutto questo tempestare di insulti, di schiaffi, di percosse, di battiture, senza dargli un momento di tregua, lo caricano della croce, obbligandolo a portarla fino al luogo del supplizio.

Secondo la tradizione, il tronco della croce misurava cinque metri di lunghezza, e le braccia tre metri, con una grossezza proporzionata; e Gesù, secondo l'uso di all'ora, per cui il condannato doveva portare egli medesimo lo strumento del suo supplizio, fu costretto a caricarsela su le lacere sue spalle. 

Estenuato di forze, il divin Redentore non poté reggere a tanto peso, e tre volte stramazzò al suolo, nel viaggio da Gerusalemme al Calvario, e altrettante ne fu rialzato a colpi di bastone e di sferza: camminava a piedi nudi, lasciando lungo il cammino larga traccia di sangue… Vedendo però i manigoldi, che l'estrema debolezza di Gesù avrebbe certamente ceduto al carico, e temendo i crudeli ch'egli mancasse per via prima di toccare la vetta del Calvario, non per pietà che ne sentissero, costrinsero un abitante di Cirene, per nome Simone, capitato in quel punto su la strada, a dare. di mano alla croce del Salvatore e aiutarlo nel portarla fino sul monte.

Simone è chiamato a portare la croce, affinché noi intendiamo che non a Gesù, ma all'uomo colpevole essa era dovuta e impariamo a portarla su le orme del Salvatore, secondo le parole di Gesù Cristo medesimo: « Chi non si carica della sua croce e non mi viene dietro, non è degno di me» (MATTH. X, 38). Questo ancora ci volle insegnare il divin Salvatore con quelle altre parole indirizzate a uno stuolo di pie donne che, incontratolo per fa strada dei Golgota, ruppero in pianto al vederne il miserando stato: «Non piangete sopra di me, ma sopra di voi e dei figli vostri, o figlie di Gerusalemme» (Luc. XXIII, 28). Ah! miseri peccatori che siamo, piangiamo le nostre colpe, cagione dei patimenti e della morte del Figlio di Dio.


18. IL CALVARIO. – Finalmente Gesù arriva sul Calvario… Tertulliano, Origene, S. Cipriano, S. Atanasio, S. Cirillo, S. Ambrogio, S. Agostino, con parecchi altri Padri, dicono che Adamo fosse sepolto sul Calvario e che questo nome era derivato al monte della crocifissione, perché vi si trovasse il teschio del primo uomo; ed è certamente frutto di questa tradizione, l'uso generale di mettere in fondo alla croce un teschio di morto. Il sangue di Gesù Cristo sarebbe così stillato su gli ultimi avanzi del padre della stirpe umana. O tu che dormi da secoli nel tuo pentimento, sorgi, o Adamo, togliti di mezzo ai morti: il tuo Dio muore per risuscitarti.
I santi Gerolamo ed Agostino, seguiti dal Venerabile Beda, insegnano che il Calvario è la montagna su la quale Dio aveva ordinato ad Abramo di immolargli Isacco. Perciò Gesù Cristo, l'Agnello immacolato, sarebbe stato sacrificato nel luogo medesimo in cui Abramo vide un capretto con le corna impigliate ed egli lo offerse vittima a Dio, invece di suo figlio. Figura mirabile e sorprendente di Gesù Cristo coronato di spine ed immolato sul Calvario… Anche Davide che sale il Calvario a piedi nudi e piangendo, per sottrarsi all'ira dei suoi nemici, raffigura il Cristo.

Il Calvario era il luogo dove si giustiziarono i più famosi malfattori; Gesù Cristo, spirando in quel luogo, espiava con una delle più profonde umiliazioni le abominevoli iniquità del mondo. Sul Golgota il Salvatore ha reso i patimenti onorevoli e meritori, ne ha fatto mezzo di santificazione, argomento di merito. Parlando del Salvatore che carico della croce ascende il Calvario, così esclama S. Agostino: « Sublime spettacolo! sul quale se getta l'occhio l'empietà, vi scorge un'immensa e crudele derisione, se vi fissa lo sguardo la pietà ci vede un profondo, ineffabile mistero. Grande spettacolo! che guardato con l’occhio dell'empio, mostra urna grande lezione d'ignominia; contemplato con la pupilla del pio, presenta un insigne monumento della fede. Grande spettacolo! se lo guarda l'empietà, si ride del re che impugna per scettro il legno del suo supplizio; se lo contempla la pietà, vi ravvisa il suo re che porta il legno sul quale ha da essere appeso, legno che farà più tardi l'ornamento dei diademi reali, la croce che gli empi disprezzano, e i santi reputano gloria» (Tract. in Ioann. CXVII).

19. CROCIFISSIONE. – Giunti su la cima del monte, gli sgherri spogliarono Gesù Cristo della sua tunica, e la giuocarono a sorte. E' facile immaginare che, strappandogli senza riguardo la veste, gli si riaprirono tutte le piaghe, e il sangue riprese a sgorgare da quel lacero corpo. Poi lo distesero sulla croce e s'accinsero ad immolarlo. O Dio onnipotente, che tratteneste il braccio di Abramo pronto ad uccidere Isacco, lascerete voi mettere a morte il vostro Unigenito, Dio uguale a voi? Fermate, Padre celeste, fermate il braccio dei carnefici! Ma no; infinitamente oltraggiato dagli uomini, che non possono espiare i loro misfatti, Dio vuole per vittima un Dio che cancelli i delitti degli uomini. Il sangue d'Isacco non avrebbe lavato la terra, il diluvio medesimo non l'ha potuta mondare; solo il sangue di Gesù la renderà monda e pura.

Agnello divino, lasciatevi dunque alzare in croce; morite, Gesù, morite per redimere l'universo colpevole. Poiché in questo modo dovete placare la collera del Padre, soddisfare alla sua giustizia, lacerare il decreto di morte promulgato contro l'uomo, aprire il cielo, chiudere l'inferno, abbattere la morte, vincere e legare Satana, morite! Vedete come i manigoldi, mostri senza viscere, stendono il Salvatore su la croce! Osservateli all'opera, mentre con grossi chiodi ne forano e affiggono al legno le mani e i piedi! Considerate con quale rabbia si affannano, e sudano e trafelano per sospenderlo tra cielo e terra!

Dieci tormenti principalmente sofferse Gesù Cristo in croce:

1° le mani e i piedi trapassati dai chiodi…;
2° tutto il peso del corpo gravitante sui piedi e su le mani inchiodate…;
3° stette sospeso in croce tre ore…;
4° le sue membra erano talmente slogate che potevano contarsi tutte le ossa…;
5° si vide collocato in mezzo a due ladroni…;
6° era spogliato di ogni suo vesti mento… ;
7° fu divorato da una sete ardente…;
8° non ebbe che fiele per attutirla…;
9° udiva scagliarglisi contro da ogni lato, orrende bestemmie…;
10° i suoi sguardi cadevano su la sua santa madre che soffriva ai suoi piedi… « O voi tutti che passate per la strada, guardate e vedete se vi è dolore uguale al mio» – (Lament. I, 12).

20. DOLCEZZA E PAZIENZA DI GESÙ CRISTO. – «Egli è stato sacrificato perché ha voluto, dice Isaia parlando del Messia, e non ha aperto bocca; sarà condotto a morte come una pecora, starà muto come agnello dinanzi al tosatore» (ISAI. LIII, 7). Non un po' di lana si toglie a questo agnello divino, ma gli si lacera il corpo, gli si cava il sangue, gli si toglie la vita; egli non fa resistenza, non dà un belato, a tutto si adatta e sopporta tutto con intera, dolcissima pazienza, secondo quello che aveva predetto di se stesso, per bocca di Isaia: «Io sono come agnello mansueto che è portato all'ara» (IEREM. XI, 19).

Alle citate parole d'Isaia alludeva S. Giovanni Battista, quando diceva ai Giudei, mostrando loro a dito il Salvatore: «Ecco l'Agnello di Dio» – Ecce Agnus Dei (IOANN. I, 36); come per dire: Ecco l'Agnello predetto da Isaia, figurato nell'agnello pasquale e nel capretto impigliato con le corna tra le spine e immolato da Abramo… Come l'agnello che si tosa perde la lana, ma conserva la vita; così, dice S. Gerolamo, Gesù Cristo ha dato il suo corpo ed ha conservato la sua divinità (De Iudaeis).

Ai tempi di Noè, Dio si è mostrato come un leone, ed ha preso vendetta dei peccati che coprivano la terra, seppellendo il genere umano sotto le onde del diluvio; ma Gesù venne ad espiarli con la dolcezza di un agnello; le acque del diluvio uccisero gli uomini, non i peccati; il sangue dell'agnello uccide i peccati e risuscita gli uomini.

21. GESÙ DICHIARATO RE SU LA CROCE. – Pilato dettò un'iscrizione, in ebraico, in greco ed in latino, da mettersi in alto su la croce, la quale diceva così: «Questi è Gesù re dei Giudei» (MATTH. XXVII, 37). Avendola letta, i principi dei sacerdoti ne fecero le rimostranze a Pilato, e volevano che cambiasse la formola, scrivendo: Questi è Gesù che ha detto: Io sono il re dei Giudei; ma Pilato non ne volle sapere di correzione e rispose asciutto e reciso: Quello che ho scritto, ho scritto (IOANN. XIX, 20-22). Giudei deicidi, voi non volete Gesù Cristo per vostro re, sarà re delle nazioni.

Gesù Cristo è il re e il principe dei dolori; egli trionfa realmente di tutti con la sua pazienza e con la sua carità divina. Regnate dunque, o Gesù, nel palazzo del Calvario, sul trono della croce, sotto la porpora del vostro sangue, con lo scettro dei vostri chiodi e col diadema di spine. Voi portate per titolo: – Re dei Giudei – cioè degli uomini più ingiusti, dei nemici più crudeli. Per cortigiani avete accusatori, per guardie d'onore, ladroni; invece di un esercite pronto a difendervi, carnefici accaniti nel tormentarvi. Sul Calvario voi siete nel vostro impero, in tutta la pompa e la magnificenza della sovranità, voi trionfate. O re dei dolori, la vostra mensa è servita di fiele e di aceto; avete per profumi il fetore dei delitti; per fuochi di gioia, tenebre caliginose; per sinfonia, bestemmie e terremoto; per tappeto, ossa di giustiziati; per monile d'oro e braccialetti, la piaga del cuore. Faccia Dio che da noi si comprenda che cosa dobbiamo essere sotto un tale re, e in un tale regno!… Ma non senza motivo Gesù è dichiarato re su la croce; in virtù della sovranità della croce, diventa re di tutti i cuori; trionfa del peccato, della morte, dell'inferno.


22. BESTEMMIE CONTRO GESÙ CRISTO. – I circostanti, vedendo Gesù su la croce, lo maledivano e crollando il capo dicevano in tono di scherno: O tu che distruggi il tempio di Dio e in tre giorni lo rifabbrichi, perché non salvi te stesso? Se veramente sei il Figlia di Dio, discendi dalla croce. Anche i Principi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei lo schernivano dicendo: Ha salvato gli altri e non può fare nulla per se stesso; s'egli è il re d'Israele, discenda ora dalla croce, e noi siamo pronti a credergli. Egli confida in Dio; ora Dio lo liberi, se veramente lo ama, perché ha detto: Io sono il figlio di Dio. Perfino uno dei ladri che stava crocefisso accanto a lui, lo vituperava e scherniva (MATTH. XXVII, 39-44).

O bestemmiatori! egli discenderebbe se volesse, ma il mondo non sarebbe salvo; egli non lascerà il trono sul quale l'avete collocato, se non quando avrà compiuto l'opera sua… E come indizio del desiderio che lo arde di compierla, ecco che, confitto in croce, dice che ha sete ­ Sitio; – ma, figura della corrispondenza degli uomini a questo desiderio ch'egli ha della loro salute, è il fiele e l'aceto che gli venne offerto dai soldati (IOANN. XIX, 29).

23. IL BUON LADRONE. – Uno dei malfattori sospesi in croce, bestemmiava Gesù, dicendo: Se tu sei il Cristo, salva te stesso e noi. Ma l'altro lo rimproverava: E come? nemmeno tu temi Dio, nemmeno tu che sei nella stessa sorte disgraziata? In quanto a noi, con tutta giustizia riceviamo questo trattamento, ma costui non ha fatto nulla di male (Luc. XXIII, 39-41). Tra la folla degl'ignoranti, dei ciechi, dei bestemmiatori che coprivano la vetta del Calvario, questo ladro si sente preso ad un tratto dal pentimento dei suoi delitti; confessa la innocenza e la divinità di Gesù Cristo, volge gli occhi verso di lui, molli di pianto, e così prega: Ricordatevi di me, o Signore, giunto che sarete nel vostro regno. E Gesù a lui: Ti dò mia parola, che oggi sarai con me in paradiso (Id. 42-43).

Riflettete, dice S. Ambrogio, e vedrete che la croce è un tribunale. Sospeso alle sue braccia sta il giudice; il ladro che crede, è salvo; quello che lo insulta, è condannato. Già in quel punto mostrava Gesù quello che farà nel giorno dei vivi e dei morti, quando metterà gli uni alla sua destra, e gli altri a sinistra (Com. in Luc. XXIII). «Che dite mai, o Gesù, esclama il Crisostomo. Voi siete appeso alla croce con chiodi, e promettete il paradiso! Sì, io lo prometto, affinché tu possa conoscere la virtù della mia croce» (Homil. de Cruce).

24. MARIA PRESSO LA CROCE. – Mentre Gesù Cristo versava il suo sangue per la salute del mondo, Maria stava presso la croce (IOANN. XIX, 25); e là si compiva in tutta la sua crudele espressione la profezia del vecchio Simeone che, prendendo nel tempio dalle braccia di Maria il bambino Gesù, a lei predisse che «una spada di dolore le avrebbe trapassato l'anima» (Luc. II, 35).

 La Vergine Santissima sofferse:

1° dei dolori acerbissimi, degli spasimi orribili patiti dall'adorabile suo Figlio. L'amore di Maria ci dà la misura del suo dolore; siccome non vi fu mai madre che abbia tanto amato il figlia, così nessuna madre sofferse mai ambascia simile all'ambascia di Maria. Nei martiri e nei santi, l'amore dava un sollievo ai loro patimenti, un balsamo divino; più amano e meno sentono il dolore dei supplizi che loro si fanno provare. In Maria avviene il contrario; più ama, e più soffre… Inoltre le pene di Maria aumentano quelle dell'adorabile suo Figlio… O cielo! che spettacolo per la più tenera delle madri, vedere il suo unigenito, il suo diletto, il suo Dio lordo di sangue, coperto di piaghe, le carni lacere, le ossa slogate, le membra peste, i piedi e le mani forate, sospeso ad una croce, rattristato da bestemmie, abbandonato da Dio e dagli uomini, sul punto di spirare! Che spettacolo per Gesù, mirare ai suoi piedi, bagnata del suo sangue, la madre sua santissima ch'egli amava di amore divino, e infinitamente al di sopra di tutti gli angeli!…

2° Maria patì per compassione; tutti i dolori di suo Figlio si riflettevano e ripercuotevano nell'intima dell'anima sua…
3° Patì in proporzione della dignità di suo Figlio e della sua propria…
4° Patì in ragione della lunghezza e acerbità dei tormenti del Figlio…
5° Patì per sollecitudine; essa vedeva Gesù soffrire da solo, abbandonato dagli apostoli, da quelli che aveva o guarito, o confortato, o beneficato, dagli uomini, dagli angeli, dal Padre medesimo; avrebbe voluto portargli aiuto e non poteva!…
6° Patì delle orrende calunnie, delle bestemmie, delle imprecazioni, delle maledizioni con cui si insultava suo Figlio…
7° Patì dell’averlo continuamente sotto gli occhi, e di essere testimone di ciascuno dei suoi dolori… Non fa meraviglia se i Santi Padri e i Dottori insegnano che la Beata Vergine madre di Dio, fu martire e più che martire, perché la spada del dolore che nei martiri ha solamente straziato il corpo, in Gesù ed in Maria ha straziato l'anima. – Come Gesù ha sofferto infinitamente di più che non tutti i martiri insieme, così anche Maria, la quale ha conosciuto tutti i dolori del crocefisso, provò tutte le torture alle quali soggiacque il Salvatore… Indicibili furono le sue pene, come indicibile è il suo amore; essa ha fatto della morte di Gesù la sua propria morte.

«Ah non si provi, dice S. Bernardo, né penna a scrivere, né mente ad immaginare i dolori che straziarono le pie viscere di Maria (Serm. XIX in Cantic.) », Essa pagò allora con sovrabbondanza il tributo dei patimenti che le aveva risparmiato la natura il giorno del suo parto. E come mai creatura del mondo potrebbe farsi una giusta idea dei patimenti di Maria, se è vera la sentenza di S. Bernardino da Siena, che «tanto grande fu il dolore della Vergine, che diviso tra gli uomini, basterebbe a dare loro la morte su l'istante (Serm. LXI)»? Immersa in un oceano di pene, secondo l'espressione del Crisostomo (De Cruce), poteva la Santissima Vergine appropriarsi quelle parole di Geremia: «O voi tutti che passate per la strada, guardate, e dite se vedeste mai dolore come il mio» (I, 12)

In mezzo a tanto crudele prova e barbaro scempio, la Beata Vergine non fa un lamento; divide con le pene anche la dolcezza, la pazienza, l'intera rassegnazione alla volontà di Dio, che si ammira nel suo Figliuolo crocefisso.

Quanto crebbe il dolore di Maria, quando Gesù le lasciò, in vece sua, S. Giovanni per figlio! (IOANN. XIX, 26). O Figliuol mio, che cambio! avrebbe potuto dire: forse che un figliuolo degli uomini può risarcirmi della perdita che io faccio?

25. SITIO. – Dal sommo della croce, Gesù disse: «Io ho sete» ­ Sitio (IOANN. XIX, 28). I lunghi e crudeli dolori del Redentore avevano in lui acceso una tale sete, che poteva dire col Salmista: «La lingua mia mi si è attaccata al palato» (Psalm. XXI, 15). Ma con questa parola Sitio, voleva intendere altra sete ben più pungente di quella che tormenta il corpo; egli accennava alla sete della salute degli uomini, alla brama di essere amato dagli uomini… E il suo amore verso di noi, è il desiderio del nostro amore verso di lui che lo divorava, come appunto rileviamo da S. Paolo in quelle sue parole ai Romani: «Dio ci ha dimostrato l'amore che ci porta, perché in quel tempo medesimo in cui eravamo peccatori, il Cristo è morto per noi» (Rom. V, 8-9): e in quelle altre ai Galati: «Per testimoniare a Dio il mio amore e la mia riconoscenza, io mi sono inchiodato alla croce di Cristo; talmente che io non vivo, ma vive in me quel Cristo il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal. II, 19-20). Poi queste due cose unisce insieme scrivendo agli Efesini: «Camminate nell’amore imitando Gesù Cristo il quale ci ha amati, e si è sacrificato egli medesimo in oblazione a Dio ed in ostia di soave profumo» (Epist. V, 2).

Sitio; Gesù Cristo ci ha amati teneramente ed efficacemente, non a parole ma a fatti; poiché per amor nostro, ha volontariamente e liberissimamente dato, non i suoi tesori, non i fratelli e gli amici, non i suoi angeli, ma se stesso tutto quanto. Per noi peccatori e suoi nemici, per l'espiazione delle nostre colpe, egli si è dato non in offerta verbale e poco costosa, ma in oblazione sanguinosa e vivificante… «Egli ha veramente portato, come si esprime Isaia, le nostre infermità, si è caricato dei nostri dolori» (LIII, 4). Il profeta dice le nostre infermità e i nostri dolori, perché la macchia del peccato era opera nostra e la pena ne doveva per conseguenza ricadere in noi.
Gravi castighi ci erano riserbati; 1'obbligo di soffrire pesava su di noi; noi avevamo meritato i dolori del tempo e dell'eternità. Nella sete ardente del suo amore per noi, Gesù ha preso sopra di sé tutti i nostri debiti. «Egli ha portato, dice S. Pietro, i nostri peccati nel suo corpo, sul legno, affinché morti al peccato, viviamo alla, giustizia: è lui che con le sue piaghe ci ha guariti» (I Petr. II, 24). E S. Paolo ai Colossesi assicura «che Gesù cancellando la scrittura da noi sottoscritta e che era contro di noi, l'ha presa e inchiodata alla croce» (Coloss. II, 14).

26. LE SETTE PAROLE DI GESÙ CRISTO SULLA CROCE. – Gesù su la croce disse sette parole, piene di sapienza, di bontà, di amore, di misericordia e di potenza.

1.a «Padre mio, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Luc. XXIII, 34). Dice S. Bernardo: «Gesù è stato flagellato, forato da chiodi, coronato di spine, abbeverato di obbrobri, appeso al patibolo; perdonando tanti oltraggi e tanti dolori: Perdonate loro, dice al Padre, perché non sanno quello che si fanno. O quanto siete ricco in misericordia, o Signore! Come abbonda la dolcezza vostra! Come superiori ai nostri sono i pensieri vostri! Come si spinge lontano la clemenza vostra riguardo ai peccatori e agli empi! Che meraviglia! questo Dio di amore esclama: Padre mio, perdonate loro; e i Giudei: Crocifiggilo. Di qual torrente di delizie non inebriate voi coloro che vi desiderano, se con tanta profusione versate l'olio della misericordia su quelli che vi crocifiggono!» (Serm. de Passione). Chi si sente tentato di odio e di vendetta, deve ricordare questa preghiera e l'amore che il Salvatore ha dimostrato ai suoi nemici.

La 2.a parola fu rivolta al buon ladrone, che implorava perdono da Gesù Cristo: «Oggi sarai con me in paradiso» (Luc. XXIII, 45). Egli parlò, e fu per promettere la gloria. Non moriva egli infatti, per aprire il cielo ai peccatori?

La 3.a parola venne indirizzata a sua madre, quando indicandole Giovanni, le disse: «Donna, ecco tuo figlio; e al discepolo: Ecco tua madre» (IOANN. XIX, 26-27). Nuova testimonianza di amore: il Salvatore dava sua madre per madre a tutti gli uomini, nella persona di S. Giovanni.

La 4.a parola fu un appello di Gesù Cristo al Padre: "Dio, Dio mio, perché mi hai tu abbandonato?" (MATTH. XXVII, 46). Preso nel senso della croce e della morte, questo lamento non significa punto che Gesù fosse abbandonato, ma che suo Padre voleva che egli morisse. A più forte ragione esclude ogni moto di disperazione in Gesù Cristo, come pretende l'infame bestemmiatore Calvino…

La 5.a parola fu: – Sitio – «Ho sete» (IOANN. XIX, 28).

La 6.a dichiara che tutto è finito, chiuso, consumato: – Consummatum est (Id. 30).

La 7.a fu la parola suprema del morente: «Padre, nelle tue mani raccomando l’anima mia» (LUC. XXIII, 46). «E chinato il capo, rese lo spirito» (IOANN. XIX, 5O). Tutto è compiuto; il nostro Dio è morto, immolato dai nostri peccati.

12 Maggio 2013 calogeroVita cattolica: Matrimonio, laicato...

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