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domenica 25 gennaio 2015

Tacet. Elogio del buon tacere

di Giovanni Pozzi

Ripresentiamo on-line, per il progetto Portaparola, uno degli ultimi scritti dello studioso di letteratura italiana padre Giovanni Pozzi. Così introduce il testo Avvenire di martedì 15 agosto 2006:

«Tacet». Si intitola così uno degli ultimi scritti di padre Giovanni Pozzi, il filologo cappuccino svizzero che fu allievo e poi sedette sulla cattedra di Gianfranco Contini a Friburgo. Si tratta di una plaquette stampata da Adelphi nel dicembre 2001 in 500 copie numerate e rimasta fuori commercio, una sorta di «testamento spirituale» del grande studioso della letteratura mistica e del barocco, scomparso nel 2002. 
Nel volumetto (di cui in questa pagina proponiamo un ampio stralcio) padre Pozzi esamina dapprima la ricerca di solitudine degli eremiti, che si risolve nell'«invenzione» della cella e tuttavia non dà soluzione al dualismo più intimo: quello tra parola e silenzio. Il quale viene composto soltanto nel libro: laddove cioè la parola può essere silenziosa. Solo «la cella e il libro - conclude lo studioso, adombrando in realtà la propria esperienza stessa - sono le stanze della solitudine e del silenzio».
Il Centro culturale Gli scritti (10/09/2006)

Per ascoltare occorre tacere. Non soltanto attenersi a un silenzio fisico che non interrompa il discorso altrui (o se lo interrompe, lo faccia per rimettersi a un successivo ascolto), ma a un silenzio interiore, ossia un atteggiamento tutto rivolto ad accogliere la parola altrui. Bisogna far tacere il lavorio del proprio pensiero, sedare l'irrequietezza del cuore, il tumulto dei fastidi, ogni sorta di distrazioni. Nulla come l'ascolto, il vero ascolto, ci può far capire la correlazione fra il silenzio e la parola. 

È l'analogo della musica. La si ascolta pienamente quando tutto tace intorno a noi e dentro di noi. Modo più perfetto, a occhi chiusi. Guardare l'orchestra o il pianista, osservare il sincronismo tra l'agitarsi del maestro, il va e vieni degli archi e la curva della melodia, rispettivamente fra il rituale muoversi del busto, lo scorrere delle mani sulla tastiera e la cascata delle note, amplifica la partecipazione allo spettacolo, ma smorza l'incanto dei suoni. Ce l'offre intiero l'organo quando canta in chiesa. Lo si ascolta senza nulla vedere di ciò che produce il suono. Esce da un grembo oscuro e, nell'immobile oscurità delle volte, ci avvolge come un sudario. 

L'oscurità è tanto lontana dalla nostra esperienza giornaliera quanto il silenzio. Una volta, per illuminare, ci volevano gesti non ovvi, non facili; oggi basta uno scatto. Veniva una luce debole e tremula, oggi fissa e invadente. Di notte, non solo le città sono un agglomerato di bagliori, ma anche i luoghi solitari sono trapunti di luci che disegnano strade e case. Anche il luogo del silenzio assoluto, il firmamento, è velato dalla coltre di luce artificiale che annuvola il cielo stellato. Ci appariva come la più armonica unione di opposti: quanto più colpiva l'occhio con l'acutezza dello scintillare, tanto più si straniava dall'orecchio con l'arcano d'un assoluto tacere.

Caduto il contrasto, cade anche l'intermittenza di luce e oscurità. Questa non interrompe l'attività dell'uomo, non lo prepara al sonno. L'alternanza di giorno e notte, connaturale alla vita, si è attenuata. Tale e quale la corrispettiva di parole e silenzio. Viviamo in un'epoca in cui il silenzio è stato bandito. Il mondo è oppresso da una pesante cappa di parole, suoni e rumori. Credevano i babilonesi che gli dèi avessero inviato sulla terra il diluvio perché infastiditi dal chiacchiericcio degli uomini. Oggi manderebbero ben altro che diluvi. Una volta si percepivano solo le parole del vicino. Poca distanza bastava per sottrarsi al fastidio d'un ascolto indesiderato; oggi ci arrivano le parole dagli antipodi. 

Il grembo del silenzio notturno è rotto dal fragore delle macchine. Costretti a passare una notte in luogo isolato, ci si alza irrequieti; il silenzio diventa un incubo nel sonno. Spaventa la pace della montagna, del bosco; e vi si va con la radio; spaventa la quiete dell'appartamento, e la si accende. Il silenzio infastidisce a tal punto che, dove sia imposto di tacere, si crea un rumore. Se nel corso di un discorso pubblico o di una liturgia s'impone una pausa di silenzio, immancabilmente uno si mette a tossire, una fa scricchiolare il banco, uno sfoglia le carte sottomano, una apre la borsetta. L'uomo aveva tratto dall'alternanza di giorno e notte, parola e silenzio i simboli che gli permettevano di definire fatti interiori; oggi non agiscono più. La nostra esistenza si è impoverita per non sapere tradurre in figure interiori quelle esperienze primordiali. 

L'apice del silenzio di ascolto si ha quando la parola stessa si presenta silenziosa senza perdere alcunché della sua vitalità: nella lettura. È l'incontro di una parola senza suono con un destinatario senza voce, in perfetta solitudine. Il lettore è solitario perché, mentre legge, crea col libro un rapporto esclusivo. Due lettori affiancati che leggono ciascuno per conto suo lo stesso libro sono solidali con esso e non reciprocamente. Il lettore è silenzioso perché la lettura, com'è praticata ordinariamente nell'età moderna, esclude la pronuncia anche mormorata. Comporta non solo l'ascolto più intenso che si possa immaginare, ma anche il più libero, perché non costretto dall'emissione vocale altrui: libero nelle soste, nei ritorni, nei ripercorsi e tuttavia totalmente vincolato alla parola così com'è fissata sulla pagina. 

Se la stampa è fedele all'originale dell'autore, la parola di lui, non pronunciata, non giace morta sulla pagina. La scrittura incorpora i suoni e i sensi come una donna incinta da lui fecondata. Il lettore ne sente i sobbalzi vitali negli accenti, nei corsi ritmici, nelle rime e assonanze. Le forme stesse dei caratteri, se correttamente aggraziate, assecondano la vita silenziosa lì deposta. Tutta la mente, tutte le facoltà si concentrano su quell'andirivieni destrorso dell'occhio di rigo in rigo. Quando il raccoglimento gli fa cadere il libro di mano, lo lascia cadere senza rimpianto, perché al silenzio dell'ascolto è subentrato in lui il silenzio del ricordo di ciò che ha letto.

Morta nel silenzio dell'ascolto, la parola rigermoglia nel silenzio fervido che l'avvolge. Assimilata e ricreata attraverso la meditazione, si delinea come un essere nuovo. Se il grano non muore non fa frutto. La morte del seme è la vita della pianta. E proprio la pianta, unico essere della natura che sia insieme silenzioso e animato, si offre a noi come l'immagine più consona di ciò che accompagna le pause dopo la lettura. Silenziosa e piena di vita, la pianta fa uscire dal seno del seme la foglia, e il fiore che si esibisce in un trionfo di forme e colore, e il frutto generoso di succhi e dolcezze.
   Tale è la parola meditata dopo esser stata letta. Una speculazione che ha attraversato il cristianesimo da Origene a noi ha collocato al seguito della lectio la meditatio, e dopo questa l'oratio. Lì qualificata come divina, e perciò ristretta all'ambito di un parlare a Dio, la giuntura vale per ogni discorso umano agganciato alla lettura.

Dal bulbo della lectio nasce lo stelo della meditatio, sulla cui cima si apre il giglio dell'oratio in forma di parole ricordate, ricombinate, rielaborate, reinventate, ricopiate (lo spirito alto e puro copia, il mediocre imita). Non fa differenza se si svela nella sonorità della pronuncia o nel raccoglimento della scrittura, perché ambedue sono ugualmente figliate dalla memoria. Anzi la seconda più assomiglia alla madre.

La scrittura si depone nel silenzio quanto la lettura, ma con un moto inverso: l'una attinge dall'alfabeto il senso e lo affonda nello spirito; l'altra ve lo estrae e lo effonde sulla pagina tracciandone il sentiero. È un cammino silenzioso. L'inchiostro gocciola senza gemere, la penna scorre sul liscio del foglio senza grattare. Riempita la pagina, le curve e le aste dei caratteri disegnano sul bianco del foglio armonici contorni come quelli dei fiori sul piano dell'aiuola a formare un tutt'uno solitario. Emanano il senso come quelli il profumo.
È un incanto esiliato dalle macchine scrivane, con il loro ticchettio oscillante. Opera delle dita mosse da mani inerti e fisse, e non dalla mano intera che avanza con passo sincrono col corso della parola, il testo scritto a macchina esce al mondo per operazione cesarea e non per parto naturale. Tanto più nella nuova rappresentazione elettronica, che rompe il legame tradizionale fra il supporto e la scrittura, inseparabili finora.
La stabilità stessa del testo si dilegua, la compattezza si frantuma. La ricezione dell'ascolto è simultanea alla riproduzione del messaggio senza intervallo di memoria, le dita non mediano, dominano. I caratteri non rappresentano più il silenzio eloquente del testo impresso sulla pagina bianca, ma la loquacità muta della folla metropolitana.

Incrociarsi senza salutarsi, stiparsi senza toccarsi, fissarsi con sguardo fuggitivo, incontrarsi senza un legame in una solitudine di massa irrequieta, tale è la sorte della parola ballerina sullo schermo. Potrà ancora l'anima dimorare nelle stanze della quiete? E, come Maria, nel silenzio del fiat mihi concepire e generare la Parola? Potrà l'uomo accedere ai percorsi della lectio e dell'oratio per salire alla vetta della contemplatio? (...) 

La cella e il libro sono le stanze della solitudine e del silenzio. Della solitudine, la cella, non casupola di frasche nel deserto, né carcere murato, ma collocata al centro dell'uomo: il cuore che mai non dorme, vigile nell'ascolto, metafora assoluta dell'abitacolo e metonimia dell'intera persona umana. Una cella segreta dove, al dire di Angela da Foligno, «sta tutto il bene che non è qualche bene; quel così tutto bene che non è nessun altro bene» (Memoriale, IX, 400).
Del silenzio, il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell'oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace.


venerdì 25 ottobre 2013

La solitudine



I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: La solitudine


Data: Domenica, 12 ottobre @ 16:34:35 CEST
Argomento: Vita cattolica: Matrimonio, laicato...


 1. I Santi e i grandi uomini praticarono la solitudine. 
2. Eccellenza e vantaggi della solitudine. 
 3. Motivi di cercare e amare la solitudine. 
 4. Come bisogna diportarsi nella solitudine. 





1. I SANTI E I GRANDI UOMINI PRATICARONO LA SOLITUDINE.

Davide fuggiva, ancor ragazzo, la città e la moltitudine, dice S. Giovanni Crisostomo; abitava i deserti e non teneva commercio col secolo; non occupandosi né di negozi, né di compre, né di vendite, viveva silenzioso nella solitudine, e là, come in tranquillo porto, riposando in pace nel suo isolamento, guardava il gregge; meditava il regno dei cieli abbatteva e ammazzava gli orsi e i leoni che si gettavano su le sue pecore; li atterrava non tanto con, la forza delle sue braccia, quanto col vigore della sua fede, che attingeva nella solitudine (Homil. ad pop.). Di Giuditta narra la Sacra Scrittura, che si era scelto nel piano superiore della sua casa un piccolo e segreto appartamento, dove se ne stava ritirata con le sue ancelle (IUDITH. VIII, 5). 

 La Chiesa canta in onore di S. Giovanni Battista, ch'egli ancora tenero fanciullo, era andato a nascondersi negli antri del deserto, fuggendo le turbe dei cittadini, per non imbrattare della menoma macchia, nemmeno solo di parola, la sua vita (Hym. in fest. S. Ioann. B.). S. Giovanni si ritirò nella solitudine per imitare, ad esempio di Mosè e di Elia, lo spirito e la virtù di Gesù Cristo; cioè per quel suo allontanamento dal mondo e dai vizi del mondo, acquistò la perfezione della santità e si rese degno di essere in seguito creduto allorché mostrò Gesù Cristo. Perciò i Padri chiamano Giovanni Battista il capo, il modello, il duce dei monaci e degli eremiti. Egli abita la solitudine, anche per mostrare i pericoli del secolo e la sua corruzione, e per provare alle età future che il deserto, nido di belve feroci e di rettili velenosi, è meno pericoloso che il tumulto del mondo. 

Quanti milioni di uomini e di donne di ogni età, di ogni stato, si appartarono nella solitudine per lavorare alla loro santificazione! Leggete la vita dei Santi, e specialmente quella dei Padri del deserto... Le persone pie e contemplative hanno sempre desiderato, amato, cercato la solitudine.

I più grandi fra i Santi, dice l'Autore dell'Imitazione di Gesù Cristo, hanno sempre evitato quanto potevano il commercio con gli uomini, e scelto la solitudine per vivere di Dio e per Iddio (Lib. I, c. XX, n. 1). I grandi uomini hanno in ogni tempo guardato la solitudine come un soggiorno di vere ricchezze, di felicità, di delizie, di pace, di sicurezza, di virtù, di perfezione, come un luogo sicuro dai pericoli e dalle seduzioni... I gentili medesimi conobbero la vita solitaria, l'ebbero in pregio e parecchi la praticarono. Per testimonianza di Plutarco, Scipione l'Africano diceva ch'egli non era meno solo che quando era solo; e non mai meno ozioso che nella solitudine.
 2. ECCELLENZA E VANTAGGI DELLA SOLITUDINE. -

Come la terra nasconde nelle sue viscere l'oro, come il mare tiene sepolte nel suo seno le perle, come il suolo copre le radici degli alberi, così la virtù degli umili e dei Santi è sempre nascosta in questo mondo, sia da essi, sia da Dio, sia principalmente dall'amore alla solitudine... E Gesù medesimo non opera egli forse in segreto con la sua grazia e con i suoi doni?... La vita degli anacoreti, degli eremiti, fu vita nascosta nella solitudine. Il Salmista medesimo diceva: « Io sono fuggito, mi sono allontanato, ed ho fissato la mia dimora nella solitudine» - E perché ciò? «Perché ho veduto la violenza e la discordia correre da padrone il mondo, l'iniquità sedervi regina. Il delitto, la frode, l'usura e l'inganno non si partono mai dalle pubbliche piazze» (Psalm. LIV, 8-12).

 Nell'Apocalisse si legge che alla donna perseguitata dal dragone furono date due ali, affinché volasse nel deserto, lontano dalla vista del serpente (Apoc. XII, 14). Ecco il precetto che Dio fa ad ogni cristiano, sottrarsi alle insidie del serpente infernale, riparando alla solitudine.

Perciò, S. Gerolamo diceva a Rustico: «Abbiti la cella in conto di paradiso. Per me la città è un carcere, la solitudine un paradiso (Epist.)». E S. Nilo, discepolo del Crisostomo, afferma che ha l'anima invulnerabile alle saette del nemico chi ama la solitudine; ma chi ama di stare con la moltitudine, riporterà frequenti, crudeli ferite (In Vit. Patr.).

 Ascoltate come stupendamente descrive Isaia, al capo XXXV, l'eccellenza ed i molteplici vantaggi della solitudine: Il deserto si allieterà; la solitudine sarà nell'allegrezza e fiorirà come un giglio. Essa germinerà da tutte le parti e tripudierà cantando inni di lode. A lei è data la gloria del Libano, la bellezza del Carmelo, la fertilità di Saron; riconoscerete la gloria del Signore e la grandezza del mio Dio. Ecco il vostro Dio, viene egli in persona e vi salverà. Allora gli occhi dei ciechi e le orecchie dei sordi si apriranno; lo zoppo correrà agile come un cervo; la lingua dei muti parlerà spedito e chiaro; i macigni del deserto si spaccheranno e fiumi d'acqua correranno ad irrigare la solitudine. La terra più arida sarà convertita in uno stagno, fontane zampillanti bagneranno zolle arse e disseccate; là ove tenevano loro giaciglio i serpi, verdeggeranno le canne e i giunchi. E là vi sarà una via, la via santa; l'impuro non vi passerà, gl'insensati non vi cammineranno. Né leoni, né bestie feroci vi porranno piede; è il cammino degli uomini che furono liberati. Il Signore li ha riscattati; essi ritornano a lui, si affollano a Sionne cantando le sue lodi; una gioia perpetua corona loro il capo; essi vivranno nell'allegrezza e nell'estasi; il dolore e il gemito sono partiti per sempre dal loro cuore.

Il Signore consolerà Sionne, dice il medesimo Profeta in altro luogo (LI, 3), ne ristorerà le rovine; i suoi deserti diventeranno luogo di delizie, la sua solitudine un nuovo Eden. Tutto spirerà gioia ed allegrezza; si udiranno risonare da ogni lato azioni di grazie e cantici di lode. « Perciò uscite di mezzo al mondo e separatevi, dice il Signore; e non toccate nulla d'impuro; ed io vi accoglierò e sarò padre e voi sarete miei figli e mie figlie» (II Cor VI, 17-18).

 Quante grazie, quanti favori particolari ed abbondanti promette e concede il Signore alle anime elette e privilegiate perché lasciano il mondo per ritirarsi nella solitudine! «La solitudine è la forma e la regola della sapienza, scrive S. Gerolamo; la solitudine è di per se stessa una predicazione ed esortazione alla virtù; allora ci prepariamo il cielo quando ci allontaniamo dal mondo (Epl. ad Theresiam.) ».

Un altro amante della solitudine esclamava: O quanto bassi e spregevoli mi paiono tutti gli onori, tutte le altezze del mondo! solo i deserti mi attirano; mi danno noia le città e il mondo intero. O beata solitudine! o sola beatitudine, compagna ed emula degli Angeli!... Perciò Iddio dice per bocca di Osea: «Io la condurrò nella solitudine, e le parlerò al cuore!» (OSE. II, 14). Ecco quello che trasse gli Antoni, i Paoli, gli Ilarioni, gli Stiliti, i Macarii a lasciare il mondo e internarsi nella solitudine dove, liberi dal commercio degli uomini, dai pericoli, dagli allettamenti, dagli inganni, dagli scandali, si consecrarono all'orazione, allo studio delle cose celesti; e dove bruciando di amore, pieni di santi desideri, non respirarono che per il cielo, per Gesù Cristo, in Gesù Cristo, di Gesù Cristo.

 «Io porrò la vera strada nella solitudine » (ISAI. XLIII, 19), dice il Signore per bocca d'Isaia, e i deserti si cambieranno in laghi, e le aride lande saranno bagnate da canali di acqua che farò scaturire sul pendio dei colli e in mezzo ai campi. Farò nascere nel deserto il cedro, il legno di Sethin, il mirto e l'olivo. L'abete, l'olmo e il bosso intrecceranno l'ombra del loro fogliame in mezzo alla solitudine. Sappiano i mortali che la mano di Dio ha fatto questi prodigi (ISAI. XLI, 18-20).

«O solitudine, esclama S. Gerolamo, primavera carica dei fiori di Gesù Cristo! O solitudine, nella quale nascono le pietre preziose di cui dice l'Apocalisse che è costrutta la città del gran Re! O solitudine che parli familiarmente a Dio nella gioia! Che fai tu, fratello mio, nel secolo, tu più grande del mondo tutto? Per quanto tempo ancora ti schiaccerà l'ombra dei tetti? Fino a quando tuttavia, o Eliodoro, la bella prigione delle città ti terrà prigioniero? (Epist. ad Heliod.)».

 Volete altre prove degli immensi vantaggi che procura la solitudine? Eccovi Abramo, Isacco, Giacobbe: Dio compare a loro e li ammaestra dei suoi misteri nella solitudine. Quivi essi apprendono la venuta e l'incarnazione del Messia, nel quale tutte le nazioni sarebbero benedette.
Nella solitudine Dio sceglie Mosè a capo e liberatore del popolo d'Israele: nella solitudine il Signore gli appare in mezzo al roveto ardente e gli palesa le sue volontà. Nella solitudine di quarant'anni egli impara a governare la nazione giudea. Il deserto è per lui una terra santa nella quale il Signore gli svela meraviglie non mai più vedute.
Nella solitudine gli Ebrei furono nutriti miracolosamente, per quarant'anni, di un pane disceso dal cielo; nella solitudine ebbero a guida una colonna di fuoco che rischiarava loro i passi la notte, e li difendeva come una. nube il giorno, dagli ardenti raggi del sole; nel deserto videro le acque zampillare dai macigni e il serpente di bronzo che li salvò dallo sterminio. Nel deserto, non nell'Egitto, Dio si manifestò ad essi e diede loro la sua legge.

Nella solitudine Elia si vede rapito e portato al cielo sopra un carro di fuoco; Davide è scelto ad essere re; Giovanni Battista è addestrato al suo ministero. Nella solitudine l'angelo compare a Maria e le annunzia che il cielo l'ha eletta a madre del Redentore. Nella solitudine Gesù Cristo nasce e passa i primi trent'anni di sua vita. Nella solitudine gli Apostoli ricevono tutti i doni dello Spirito Santo e sono trasformati in uomini divini. Nella solitudine si formano le vergini di Gesù Cristo, perla del suo popolo, gemma e gloria della Chiesa.

«O anima santa, esclama S. Bernardo, sii sola, affinché ti conservi a quel Dio unico, che solo hai scelto per tuo. Credi a chi ti parla per esperienza, la solitudine è lo steccato ed il bastione delle virtù. Molte più cose apprenderai nelle foreste che non nei libri; gli alberi e i macigni t'insegneranno quello che non potresti imparare dai maestri » (Serm. XL, in Cant.).

Non solamente la solitudine toglie l'occasione di peccare, ma di più innalza l'anima fino a Dio. «Sederà solitaria e taciturna, perché si leverà sopra se stessa» (Lament. III, 28). «Chi in te dimora, o solitudine, esclama S Basilio, s'innalza sopra se stesso, perché l'anima avendo fame di Dio, si solleva al di sopra di tutto ciò che è terreno; ella si aggrappa e sta sospesa alla rocca della contemplazione; divisa dal mando, vola verso il cielo e sforzandosi di vedere colui che sta al di sopra di tutte le cose, s'innalza, con nobile disprezzo, sopra di se medesima e di tutte le creature» (De Laud. vitae solitariae). La solitudine rende l'anima tranquilla, raccolta e presente a se stessa; la riempie dell'unzione delle cose celesti.

*Ma nessuno meglio del gran solitario S. Basilio ci descrive la felicità della solitudine.

«La vita solitaria è scuola di celeste dottrina e di arti divine. Là non s'impara che Dio, la strada che conduce a Dio, e tutto ciò che bisogna sapere per giungere alla cognizione del sommo vero. L'eremo è paradiso di delizie, dove esalano gli aromi delle virtù, dove le rose della carità fiammeggiano del calore di fuoco; dove i gigli della castità risplendano di niveo candore e frammiste ai gigli e alle rose olezzano le viole dell'umiltà. Qui stilla la mirra della mortificazione non solo della carne ma, gloria più grande, della volontà propria, e svapora del continuo l'incenso di una assidua orazione. O solitudine, delizia delle anime sante e dolcezza inesauribile d'interne consolazioni! Tu sei quella fornace caldea nella quale i santi fanciulli smorzano con la potenza delle loro preghiere le fiamme dell'incendio che li investe. Tu sei il forno nel quale il re superno mette a cuocere i suoi vasi di gloria, battuti col martello della penitenza, perché sieno perfetti e puliti con la lima della salutare correzione, affinché acquistino lucentezza.

O cella solitaria in cui si negozia il cielo! Felice commercio in cui si cambia la terra col paradiso, quello che passa con quello che eternamente resta! O solinga cella, mirabile officina di spirituali esercizi, in cui l'anima umana ristora in sé l'immagine del suo Creatore e la fa ritornare alla sua originale purità e bellezza! O solitudine, tu procuri che vegga Dio con puro cuore quell'uomo che poco fa, avvolto in dense tenebre, ignorava Dio e se medesimo: tu fai sì che l'uomo, appostato su la torre della sua mente, vegga scorrere sotto a sé e scomparire quanto vi è di terreno, e se stesso, passare con le altre cose.

O solitudine, o celletta, campo di Dio, torre di Davide, spettacolo degli Angeli, dimora di quelli che valorosamente combattono! O deserto, morte dei vizi, focolare e alimento delle virtù!

Mosè deve a te l'aver ricevuto per due volte il Decalogo; per te, Elia vide passare il Signore; per te, Eliseo ricevette il duplice spirito del suo maestro. Tu sei la scala di Giacobbe, che porti gli uomini al cielo, e riporti il soccorso degli Angeli alla terra! O vita solitaria, bagno delle anime, purgatorio che lavi le macchie! O cella, tu sei il luogo, dove vengono a consiglia Dio e l'uomo. O eremo, felice ricovero contro le persecuzioni del mondo, riposo dei travagliati, consolazione degli afflitti, frescura contro gli ardori del secolo, divorzio dal peccato, reclusione dei corpi, libertà delle anime, deposito di gemme celesti, curia dei divini senatori! Dove l'uomo vincitore dei demoni, diventa compagno degli Angeli; esule dal mondo, diventa erede del paradiso; rinnegando sé, diventa seguace di Gesù Cristo (De laud. Eremi)».


*Udite anche S. Bernardo: «L'abitazione di una cella e l'abitazione del cielo sono sorelle: poiché siccome il cielo e la cella paiono avere una certa affinità di nome, così l'hanno di pietà. Infatti cielo e cella sembrano derivare dal verbo celare, e ciò che sta celato o nascosto nei cieli, sta pure celato a nascosto nelle celle.
Quello che si cerca nei cieli, si trova nelle celle. Qual è la vita che si vive nel cielo, e quale quella che si tiene nelle celle? Non altra in verità, se non occuparsi di Dio, godere Dio. Quando nelle celle si adempie ogni cosa, seconda l'ordine, piamente e fedelmente, io non dubito di affermare che i santi Angeli di Dio trovano i cieli nelle celle; e tanto si dilettano nelle celle, quanto nei cieli.

Per l'ordinario dalle celle si ascende al cielo, e non quasi mai dalla cella si discende nell'inferno, perché di rado avviene che uno resti nella cella fino alla morte, se non è predestinato al cielo. La cella è una terra santa, un luogo sacro nel quale l'anima fedele si unisce frequentemente col Verbo di Dio; la sposa si congiunge con lo sposo, la terra col cielo, il divino con l'umano.

La cella del servo di Dio è come il tempio santo di Dio; infatti nel tempio e nella cella si trattano le cose divine, ma più di frequente nella cella. Se per Iddio voi in terra vi appartate dalla società degli uomini, otterrete da Dio nel cielo la società degli Angeli (Epist. ad Fratres de Monte Dei)». O fortunata solitudine, esclama Musio Cornelio, o unica beatitudine che gustano quelli che ti amano! Come sono felici le anime privilegiate e candide che volano nelle tue braccia e si allontanano da questo mondo, tutta perfidia! (In Laud. Vitae solitariae).

 3. MOTIVI DI CERCARE E AMARE LA SOLITUDINE. -
I motivi che devono indurci a cercare la solitudine ci sono accennati sotto figura in quelle parole d'Isaia: Si ode una voce gridare nel deserto: Preparate le strade al Signore, raddrizzate le vie che conducono a lui, abbassate i colli, colmate le valli, appianate quello che è montuoso. Una voce mi ordina di gridare: e che cosa griderò io? Tutti i mortali non sono che erba, e la loro bellezza rassomiglia al fiore del campo. Il Signore manda un soffio ardente, e l'erba del prato langue appassita, il suo fiore cade spento (ISAI. XL, 3-4, 6-8). Ah! scostatevi, partite, allontanatevi, uscite dal tumulto degli uomini, non toccate nulla d'impuro, mondatevi. Il Signore camminerà dinanzi a voi (Id. LII, 11-12).

O con quanta verità si può dire, di chi abita in mezzo al tumulto del secolo, quello che Geremia lamentava del popolo ebreo: «Giuda abitò in mezzo alle nazioni, incontrò afflizione e schiavitù e non trovò riposo; i suoi persecutori lo colsero tra le angustie» (Lament. I, 3). No, non vi è riposo in mezzo al mondo, ma afflizione, schiavitù, persecuzioni, ambasce. La solitudine non è funestata da questi mali. Ah! gridiamo pure anche noi col medesimo Profeta: Ora perché non mi è dato di andarmi a seppellire in fondo a un deserto, per essere con Dio o con gli Angeli suoi, e non funestarmi l'animo con la vista di tanti delitti e prevaricazioni? (IEREM. IX, 2).

 «Fuggi il pubblico, scriveva S. Bernardo, fuggi perfino i tuoi familiari, allontanati dagli amici anche più intimi. Non sai tu che hai uno sposo così verecondo e riservato, che non vuole mostrarsi a te in presenza d'altri? (Epist. CVII)».
«È difficile, dice S. Giovanni Crisostomo, che un albero piantato lungo una strada, conservi fino alla maturità i suoi frutti; così pure è cosa rara che un'anima conservi, in mezzo alla gente del secolo, la sua innocenza fino alla fine. Quanto meno una persona prende parte alle faccende del mondo, tanto più l'anima sua è infiammata di fervore e di amar di Dio (In Moral.) ». Come la peste mena strage fra un esercito o una città popolosa, lasciando immune la campagna e la solitudine, così è della peste dei vizi; essa serpeggia continuamente e miete vittime in mezzo al mondo.

«Quante volte io sono stato fra gli uomini, tante ne sono tornato meno uomo», dice l'autore dell'Imitazione, e conchiude: «Quegli adunque che intende di arrivare al raccoglimento ed alla spiritualità, bisogna che con Gesù si allontani dalla moltitudine (Imit. Christi, p. I, c. XX, n. 2)». Sì, leviamoci e andiamo nella solitudine, perché in mezzo al mondo non abbiamo riposo (MICH. II, 10). Fuggiamo da Babilonia, e ciascuno scampi l'anima sua (IEREM. LI, 6).

Utile a tutti, la solitudine è specialmente vantaggiosa a quelli che devono deliberare su la scelta dello stato. Ecco l'avviso di S. Bernardo su questo punto: «Chi desidera udire la voce di Dio, si ritiri nella solitudine. Chi prepara l'orecchio interiore ad ascoltare la voce del cielo, voce più dolce del miele, fugga i negozi esteriori affinché l'anima spigliata e libera possa dire con Samuele: Parlate, o Signore, che il vostro servo vi ascolta. Questa voce di Dio non suona già su le piazze, né si ode fra i pubblici ridotti; un consigliere segreto richiede un uditore segreto. Questo gran Dio vi darà certamente la consolazione e la gioia, se lo udite attenti e raccolti. Così si preparava Davide allorché diceva: lo ascolterò quello che parlerà il Signore, perché egli parlerà il linguaggio della pace al suo popolo ai suoi Santi ed a quelli che rientrano in se stessi; significando con questo, che Dio non discorre con quelli che stanno al di fuori di se stessi, occupati in faccende esteriori, ma bensì a quelli che stanno raccolti in pensieri interni» (De Vita contempl.).

Consultiamo le Scritture, scrive Ugo da S. Vittore, e noi vedremo che Dio non ha quasi mai parlato in mezzo alla moltitudine. Quando volle dare al mondo qualche suo ordine, si manifestò non ad un popolo, o ad una nazione intera, ma soltanto ad alcuni in particolare ed a questi ancora non in mezzo allo strepito, ma o nel silenzio della notte, o nella solitudine, su le montagne, nelle foreste, nelle valli deserte. Così parla a Noè, ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe, a Mosè, a Samuele, a Davide, a tutti i Profeti. Ora perché Dio parla solamente nella solitudine, se non per chiamarci ad essa? e perché parla a poche persone, se non per incoraggiarci a vivere nella solitudine e a unirci a lui? (Lib. IV, de Arca Noe, c. IV). O quanto potenti ragioni ci stringono ad allontanarci dallo strepito del mondo corrotto, a ritirarci e a vivere, per quanto è possibile, in mezzo alle ricchezze ed alle dolcezze della solitudine!

 Né altrimenti la pensarono intorno a questo punto i sapienti pagani. «La tranquilla sicurezza della solitudine tiene lontano il dolore; temere il tumulto procura consolazione», dice Tolomeo (Protog. Almagesti). Poche persone mi bastano, dice Democrito, mi contento di una, sto benissimo senza nessuna. Io mi sono appartato non solamente dagli uomini, ma dagli affari e primieramente dalle molteplici mie occupazioni. Bisogna che tratti duramente il corpo, chi non vuol perdere l'anima miseramente.

Tu mi chiedi, scriveva Seneca a Lucilio, che cosa si debba fuggire più di tutto? Io ti rispondo: La folla; poiché non ci potrai stare mai con sicurezza. Io confesso schiettamente la mia debolezza: non riporto mai intera a casa, la misura di bontà che ho portato di casa in mezzo alla moltitudine; quello che di bene ho stabilito di fare, sfuma; e qualche briciola di quello che aveva risolto di evitare, mi si attacca di nuovo. Il pubblico con cui conversiamo è fiero nostro nemico; tutti cercano di parteciparci qualche vizio, d'inocularlo in noi, senza che né noi né essi ce ne accorgiamo. È poi cosa assai riprovevole l'assistere, senza sufficienti motivi, a qualche spettacolo; perché allora i vizi s'impadroniscono di noi per mezzo del piacere.

Che cosa dirai di me, se ti dico che mi ritiro sempre dalla moltitudine più inclinato all'ambizione, all'avarizia, alla lussuria? che ne esco più crudele, più inumano, perché sono stato in mezza agli uomini? Ah! credimi: nessuno di noi ha in sé tanta forza che basti a sostenere l'urto impetuoso dei vizi che giungono accompagnati da tanta caterva di uomini; un parlatore fino ed accorto snerva ed infiacchisce a poco a poco; un vicino ricco eccita la cupidigia; un compagno cattivo ti attacca il suo male, per quanto candido ed innocente tu possa essere. Raccogliti per quanto puoi in te stesso; non accompagnarti se non con quelli che possono renderti migliore, non ammettere alla tua società se non quelli che credi possano renderti tale. Questo si fa vicendevolmente; gli uomini imparano istruendosi gli uni gli altri (Epist. ad Lucil. c. VII).


 4. COME BISOGNA DIPORTARSI NELLA SOLITUDINE. -

Bisogna, dice S. Gerolamo, che il cristiano, ad imitazione di Abramo il quale uscì dalla sua terra e abbandonò la sua parentela, si allontani dai Caldei che sono i demoni, e vada ad abitare nella regione dei vivi. Non gli basta uscire dal suo paese; deve ancora dimenticare il suo popolo, la casa del padre suo, affinché, disprezzando i legami della carne, si possa congiungere in celeste abbracciamento con lo sposo divino (In Gen.)... La terra che dobbiamo abbandonare, ad esempio di Abramo, è anche la nostra carne che bisogna mortificare e castigare... È necessario tener ci pronti a sostenere e soffrire le diverse prove che si incontrano nella solitudine... Una volontà annichilata..., un'obbedienza pronta, costante, cieca..., un'umiltà profonda..., il silenzio...; ecco i fondamenti della vita solitaria... Come S. Antonio ebbe veduto e udito S. Paolo, primo eremita, disse rivolto ai suoi discepoli: Misero me peccatore, che indegnamente porto il nome di monaco! Ho veduto Elia, ho veduto Giovanni nel deserto ed ho veduto in verità S. Paolo nel paradiso (Vit. Patr.).

 La solitudine del corpo non basta, se non le è congiunta la solitudine dell'anima; e questa non si ottiene, se l'anima si trattiene in ciò che ha veduto od inteso fuori della solitudine, se stando il corpo nella solitudine, ella si divaga e passeggia per il mondo; se ad imitazione del popolo ebreo nel deserto, si rammarica tuttavia della schiavitù d'Egitto da cui si è sciolta, se rimpiange i vantaggi materiali che ne ricavava...

Dio è spirito, osserva S. Bernardo, egli domanda dunque a noi la solitudine spirituale anziché la corporale.... Sola e vera solitudine è quella dell'anima e dello spirito. Tu sei solo, se non pensi alle cose terrene e spregevoli, se non tieni il cuore nei beni presenti, se non t'importa nulla di ciò che il mondo desidera di più, se ti fa schifo quello di cui gode la maggior parte degli uomini, se eviti le discordie, se non ti lasci abbattere dai danni temporali, se dimentichi le ingiurie. Diversamente, se anche sei solo di corpo, non sei mai solo.

Bisogna che ti sollevi sopra di te per sposarti al Signore degli Angeli. Non è forse tuo dovere innalzarti sopra te stesso, per abbracciarti a Dio ed essere con lui un solo e medesimo spirito? Sii dunque solitario come la tortorella; non vi sia nessuna relazione tra te e il mondo; dimentica il tuo popolo e la casa paterna, e il Re del cielo sarà vinto dalla tua spirituale bellezza. O anima eletta, sii sola per servire degnamente al Dio unico che solo hai preferito. Sii dunque nella solitudine, ma con lo spirito, con l'anima, col cuore, e non col corpo solamente. Sii nella solitudine con l'intenzione e con la divozione: siivi tutta intera senza riserva (De vita contempl.).


 Chi ha lasciato l'onagro in libertà, chi ne ha sciolto i legami? dice Giobbe: Chi gli ha dato per dimora la solitudine e per ritiro il deserto? Egli si ride dello strepito delle città, non ode le grida di nessun padrone; corre per i pascoli dei monti cercando l'erba fiorita (IOB. XXXIX, 5-8). Sopra queste parole S. Gregorio Papa fa il seguente commento: Le persone contemplative abitano la solitudine dell'anima come onagri e, sciolti dai tumultuosi affari del secolo, hanno sete di Dio solo; infatti che cosa vale la solitudine del corpo se è disgiunta dalla solitudine del cuore? Perciò è necessario il raccoglimento, il ritiro dell'anima, a chi vuol menare una vita conforme alla propria vocazione, attutire l'interno moto dei terreni desideri che si contrastano, sedare con la grazia divina le cure e le sollecitudini estranee alla salute, scacciare dagli occhi dello spirito tutte le distrazioni che gli volano dinanzi come mosche velenose. Per ciò bisogna cercare di essere solo in segreto con Dio, e, spogliandoci dì tutto ciò che sa di esteriore, studiarci di parlargli in silenzio con ardenti affetti interiori (Moral. 1. XXX, c. XII).

 Iddio sparge i suoi dolci profumi soltanto dove incontra un'anima sciolta affatto da ogni impaccio di terra, e principalmente staccata da se stessa, un'anima pura e morta a tutte le cose del mondo. E ciò è giusto. È dunque necessario per chi intenda profittare di tutti i vantaggi della solitudine: 1° rinunziare al mondo esteriore, al corpo, ai parenti, agli amici, alla casa, al paese, ai beni, alle ricchezze, agli onori; 2° rinunziare al mondo interiore, ai propri desideri e affetti e voleri. 

*Qui torna a proposito una singolare osservazione dell' Abate Giovanni Malburnio, che vogliamo riportare anche a titolo di documento storico. Egli adunque constata che per più ragioni diversi ordini religiosi erano ai suoi giorni decaduti dal loro splendore e dalla loro santità primitiva. I Bernardini caddero per oziosità; il terz'ordine si sciolse. per le troppo grandi occupazioni rurali; i Premonstratensi si rilassarono per il troppo smisurato numero di messe e le troppe occupazioni di coro; i mendicanti non si sostennero a motivo della loro troppo grande familiarità coi secolari: essi frequentavano troppo la moltitudine e avvenne loro quello che dice il Profeta: «Si mescolarono tra le nazioni, ne appresero le opere, e questo fu la loro ruina» (Psalm. CV, 35-36); i Benedettini decaddero per le loro troppo grandi ricchezze. Se i Certosini conservarono sino al presente il primiero lustro e vigore, ne vanno debitori all'amore della solitudine e del silenzio ed alla rigorosa osservanza delle visite ordinate dalla regola. Queste tre cose sono racchiuse nel verso latino "Per tria: si so vi, permanet Cartusia in vi!" (In Roseto lib. I, c. III). Si, indica silenzio; so, la solitudine; vi, la visita (dei religiosi ispettori-visitatori).