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giovedì 18 luglio 2019

Le mie prigioni di Silvio Pellico



"Le mie prigioni" è il titolo di un libro di memorie scritto e pubblicato da Silvio Pellico nel Novembre del 1832. In esso è raccontata la dura esperienza carceraria che patì il patriota nativo di Saluzzo, in Piemonte, per dieci anni circa, dal 13 Ottobre del 1820 al 17 Settembre del 1830.

L'opera ottenne uno straordinario successo di pubblico, non soltanto all'interno dei territori della penisola italiana, ma anche all'Estero, in tutta Europa e negli Stati Uniti d'America. In virtù di questo successo Vincenzo Gioberti dedicò al Pellico il trattato del "Primato morale e civile degli Italiani", lo scrittore russo Aleksandr Puškin parlò di lui con ammirazione definendolo un «martire mansueto» e, per restare ai soli casi più significativi, Luigi Filippo, duca d'Orleans e re di Francia dal 1830 al 1848, pensò di affidargli l'educazione del più giovane dei propri figli.

Ma Pellico, che prima dell'arresto era stato precettore di diversi giovani nobili, dopo la scarcerazione preferì ritirarsi nell'ombra, e concluse i propri giorni da bibliotecario al servizio della famiglia del Marchese di Barolo, lontano dagli ardori e dall'impegno di gioventù, che gli erano costati tanto cari.

A lungo considerata un atto d'accusa all'impero austriaco – e in ciò tanto peso avranno le stesse parole del cancelliere di corte dell'impero, Metternich, che riferendosi alla diffusione dell'opera parlò per l'Austria di un danno più grave di una battaglia perduta – e un'opera simbolo del Risorgimento italiano, la narrazione della prigionia di Pellico è stata negli ultimi anni vagliata con maggiore attenzione dalla critica e dalla storia della letteratura, che ne hanno chiarito il reale proponimento, non patriottico e rivendicativo, quanto piuttosto intimistico, religioso, morale.

Pellico ne "Le mie prigioni" voleva infatti fornire un esempio di fede e pazienza, voleva dimostrare come con l'aiuto di Dio, delle Sacre Scritture e della Provvidenza, anche le più dure esperienze potessero essere superate. L'opera dà conto anche dell'evoluzione della personalità del Pellico, della sua edificazione morale. Con uno stile secco ed asciutto, che rifugge tanto dall'invettiva fine a se stessa quanto dal patetismo esasperato, grazie ad un linguaggio capace di aderire alla realtà dei fatti, senza perdersi in ambagi ed ampollosità, Pellico racconta i lunghi anni del carcere, dalla prima detenzione milanese di Santa Margherita, fino al durissimo periodo trascorso nel carcere austriaco dello Spielberg, anni tuttavia allietati dalla tenerezza di quanti saranno al fianco del saluzzese, amici, compagni di prigionia, ma anche alcuni carcerieri, come l'indimenticabile Schiller.

AMDG et DVM

mercoledì 28 marzo 2018

Otto nove dieci undici


Le Mie Prigioni di Silvio Pellico


Appendice alle “MIE PRIGIONI
Capitoli inediti
CAPITOLO 8
Delle due settimane che succederono alla pubblicazione delle “Mie prigioni”, non pochi mi considerarono come colpevole o di un delitto o di una grande scempiaggine.
Alcuni dissero ch’io aveva composto un libro da far vergogna in questo secolo di lumi, e che la mia riputazione era perduta; altri mi scrissero che ormai qualunque tragedia io facessi rappresentare in Italia sarebbe fischiata senza pietà dai veri seguaci della filosofia.
Più d’uno dei miei sedicenti amici volse il capo incontrandomi per evitare di salutarmi. Diceano, a voce alta, che quel capo d’opera di bacchettoneria avrebbe dovunque fatto porre in ridicolo il suo autore. E mentre questi falsi filosofi davano nelle furie contro di me per la testimonianza ch’io rendeva alla religione, molti altri, di opposto colore, vociferavano che la mia divozione non era che una commedia.
Questi clamori diversi presto cessarono, e molti de’ miei avversari vedendo che il mio libro era bene accolto dall’universale, si ridussero a farmi una guerra segreta, e cercarono di perdermi nell’opinione di stimabili persone, che mi onoravano della loro indulgenza. Il buon successo del libro crebbe rapidamente nella penisola. A Parigi, uno scrittore francese, il signor De Latour, lo tradusse nella sua lingua; le edizioni e le traduzioni si moltiplicarono ben oltre al merito del mio libro. Mi fu perdonata l’estrema semplicità dello stile, e l’assoluta mancanza di ornamenti, in grazia dell’incontestabile carattere di verità che n’emergeva a ogni pagina.
Un successo tanto maggiore della mia aspettativa mi fu di gran soddisfazione. Esso era una prova per me, che il secolo non era avverso ala religione quant’io lo aveva fino allora creduto; il cinismo dunque e lo scherno non erano più alla moda; quei disgraziati increduli che mi scrivevano lettere ingiuriose erano l’ultimo avanzo d’una scuola agonizzante.
A compensarmi di tali lettere, n’ebbi molte altre onorevolissime da compatrioti e da estranei. Fra le persone che ebbero la premura di scrivermi parole di approvazione, devo nominare la marchesa Giulietta Colbert di Barolo, che non mi conosceva, e fu questo dalla parte di lei e del marchese, suo marito, il primo segno di una stima che in breve tempo si convertì nella più generosa amicizia. Io già li venerava per l’immenso bene che fanno al nostro paese; allorchè li conobbi da vicino, mi affezionai loro con tutte le potenze dell’animo.
Il mio vecchi curato diceami: – L’amicizia che vi professa la casa di Barolo è una prova che Dio vi benedice a confusione di quelli che vi maledicono.
Mia madre ancora me lo diceva, e soggiungeva: – Dio voglia però, che tu sappia rendertene degno.



Le Mie Prigioni di Silvio Pellico


Appendice alle “MIE PRIGIONI
Capitoli inediti
CAPITOLO 9
I vantaggi che mi derivarono dal libro delle Mie Prigioni non poterono essermi perdonati dalla malevolenza: ma io giunsi a non più affliggermi di queste ignobili inimcizie.
Diverse cose concorsero ancora a recarmi dispiacere, e furono, tra queste, le Addizioni che fece alle Mie Prigioni l’infelice Piero Maroncelli, amico mio, che era allora a Parigi. Egli certamente non può avere avuto l’intenzione di nuocermi, o d’offendermi pur lievemente, che n‘era incapace; pure nelle sue Addizioni gli fuggirono alcune sentenze che provocarono contro il mio libro la censura ecclesiastica, e questo libro fu posto all’indice. I miei nemici ne trassero un grande argomento per infierire contro di me. Molti avrebbero allora voluto ch’io prendessi la penna a mia difesa. Credei che nel silenzio fosse per me maggiore merito, e confido di non essermi ingannato.
Fra coloro che severamente mi biasimarono per avere scritto le Mie Prigioni, rinvenni un uomo leale, che mi spiacque assai meno degli altri. Era uno straniero sinceramente devoto al governo austriaco. Ei si presentò con franchezza alla mia porta per ragionare con me, come un padre farebbe col proprio figlio.
 Riconoscete per vostra quest’opera? – mi domandò presentandomi la traduzione pubblicata dal signor De Latour.
– Sono l’autore del testo – risposi.
 Il testo non lo conosco, – ei soggiunse; – ma so che i traduttori in Francia hanno l’abitudine di prendersi qualunque licenza, e sperava che voi foste per dirmi: <>
Rimasi attonito, e gli chiesi perché mi facesse una tale interpellazione.
– Perché – mi rispose – io debba pur dichiararvi che, a parer mio e a giudizio di molte oneste persone, il vostro libro è detestabile. Voi l’avete scritto – esclamò – per vendicarvi di chi vi ha fatto soffrire!
– Perdonatemi, – gli dissi, – ma siffatta supposizione è indegna di un uomo rispettabile quale voi mi sembrate.
– Io sono un sincero protestante, – ei replicò, – ma un protestante dell’antica stampa, nemico delle temerarie opinioni del nostro secolo. Amo l’ordine e la verità, e, con mio gran dolore, la verità e l’ordine appunto sono attaccati nel vostro libro. Ma voi altri cattolici avete la coscienza larga, e trovate sempre preti indulgenti che di tutto vi assolvono. Ritenete per altro che Dio non conferma un perdono il quale vi è si facilmente accordato da questi ministri di Baal.
Ascoltai la predica che non fu breve, e replicai con tutta moderazione. La mia calma destò meraviglia nel mio avversario, e quando mi lasciò, credei d’accorgermi ch’egli più non avesse di me un’idea sì sfavorevole.
Né questi è il solo protestante che mi abbia parlato del mio libro così duramente, e che abbia tentato di indurmi a un cristianesimo meno cattolico. Debbo dire però che altri mi aprirono la loro casa, e mi offrirono cordialmente la loro amicizia, rispettando le mie credenze.
Io prego per loro con tutta l’anima mia, e colla speranza che non tutti morranno nemici alla Chiesa.
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Le Mie Prigioni di Silvio Pellico


Appendice alle “MIE PRIGIONI
Capitoli inediti
CAPITOLO 10
Sì, parecchi protestanti mi confessarono che le cose scritte da me gli aveano disposti a studiare più seriamente la religione cattolica. Due di essi vennero a confidarmi che si sentivano attirati verso la nostra fede, e ch’erano cattolici in cuore. Aggiunsero che forse in breve si risolverebbero di abiurare, ma finora non mi hanno dato questa consolazione.
Mi era invece serbata una viva gioia per la conversione del signor Woigt, uno dei più abili artisti della Baviera; ed ebbi la sorte che il mio libro non fosse senza influenza in quella conversione.
Pochi anni innanzi, il signor Woigt, ancor giovanissimo, era stato a Roma, portatovi dall’amore delle belle arti; egli è incisore. Avendo contratta relazione in quella città con alcuni cattolici, ebbe opportunità di riflettere un poco sulla nostra religione, e gli parve che i dissidenti male la conoscessero. Non per questo ei volle abbracciarla, e nudrì lungamente l’inclinazione che sentiva pere essa, ma combattuto da mille dubbi.
Poi sposò una cattolica, senza potere ancora determinarsi all’abiura. Tal matrimonio, affidato da tenerezza scambievole, era felice; ma una pungentissima spina affliggeva pur sempre il cuore della pia consorte. Il signor Woigt amava pressoché tutto nella nostra dottrina, ma il sacramento della penitenza spaventava sì forte la sua immaginazione, ch’egli scorgeva in questo un ostacolo quasi invincibile.
Vengono in luce le Mie Prigioni; curiosità lo muove ad aprire questo libro, e alcune delle mie parole hanno virtù di colpirlo; queste principalmente:
<<Ah! infelice chi ignora la sublimità della confessione! Infelice chi, per non parer volgare, si crede obbligato di guardarla con ischerno! Non è vero che, ognuno sapendo già che bisogna esser buono, sia inutile di sentirselo dire; che bastino le proprie riflessioni ed opportune letture; no! la favella viva d’un uomo ha una possanza, che né le letture, né le proprie riflessioni non hanno! ecc.>>
Il desiderio d’una più seria istruzione ridestossi allora nel signor Woigt. Il suo convincimento fu in breve completo; e nelle feste di Pasqua dell’anno 1834, per la grazia del Signore, la Chiesa acquistò in lui un nuovo figlio.
Seppi tutto ciò solamente dopo qualche tempo, quando giunse a Torino il cavaliere Manfredo di Sambuy. Scrissi al signor Woigt per congratularmi, ed egli mi rispose subito con una lettera commoventissima, nella quale narravami tutte le circostanze della sua conversione.
* * * * * * * * * * * * * * * *
CAPITOLO 11
Il mio buon curato godeva, al pari di me, del prospero successo del libro, di cui egli stesso aveami suggerita l’idea. Ei dicevami allora: – Or dovreste giovarvi del favore che il pubblico vi dimostra per dargli un trattatello di morale, di cui la sostanza esser dovrebbe tutta evangelica.
 Oh! – gli risposi, – trattare direttamente la morale, non è piccolo assunto, e ormai tanti grandi maestri ci hanno preceduto!
– Che importa? – risposemi: – vi sono molti ottimi libri che pur non si leggono, perché manca loro il pungolo della novità. Ove si possa scriverne dei nuovi è debito il farlo, per glorificare il Signore e rendersi utili al prossimo. Scrivete un Discorso alla gioventù, risvegliando in essa tutti i nobili sentimenti, e vi predico che non vi mancheranno lettori.
Riferii a mia madre queste parole del degno curato; vidi che il pensiero di lui non le dispiaceva, e di buon animo mi accinsi all’opera. Soltanto mia madre mi disse:
– Questo libretto non dee spirare se non benevolenza; bada che non vi si mescoli dramma di quella tinta satirica che si genera così facilmente nei moralisti.
Tale fu l’origine del mio Discorso sui Doveri degli uomini, che ebbe tosto un successo simile a quello delle Mie Prigioni. Alcuni giornali lo lacerarono; e, fedele alla mia abitudine, io tacqui.
Era pazienza o virtù? No: ma qualunque apologia parevami opera perduta con avversari sì tenacemente impegnati a farmi apparire un uomo cattivo.

martedì 27 marzo 2018

Tutto per obbedire alla propria coscienza!

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Le Mie Prigioni


Appendice alle “Mie Prigioni”
Capitoli inediti
CAPITOLO 7
Scrissi con effusione di cuore i primi capitoli delle Mie Prigioni; e un giorno ch’io era in campagna, a Villa Nova-Solera, dalla contessa di Masino, lessi segretamente quei capitoli a un vecchio di mia relazione ch’erami affezionatissimo. Ma questi ne rimase spaventato per amore di me, e mi supplicò di non pensare altrimenti a scrivere tali memorie. – Non è tempo ancora – diceami: – restano tuttora nella società troppi germi di malevolenza; lasciate che passino dieci o quindici anni; e frattanto scrivete altre tragedie, e nuove poesie, per accrescere la vostra fama.
L’opinione di quest’uomo mi cagionò una viva impressione. Tornato a Torino, ne feci la confidenza a due altre persone, e le trovai pienamente contrarie al libro proposto, che lasciommi in un grande scoraggiamento. Fui quasi tentato d’abbandonarne il pensiero, e di non parlarne più con nessuno. Ma essendo andato a passare due o tre giorni a Camerano dal Conte Cesare Balbo, volli sentire il parere di lui e della moglie sua intorno a quei pochi capitoli e alla convenienza di continuare, o no, quelle memorie. La loro approvazione fu piena. La contessa Balbo era un angelo di virtù. Quanto ella dissemi del bene che il mio libro poteva produrre troncò tutti i miei dubbi, ripresi la penna, né più la deposi che al fine dell’ultimo capitolo.
In materia di pubblicazioni io sono stato sempre assai timido, e non so per quale fatalità, terminando ora l’uno ora l’altro dei miei scritti, trovai sempre persone che mi consigliarono di non darli alla stampa. Certo è che molti più ne avrei pubblicati senza la debolezza ch’io aveva ad ogni occasione di consultare i miei amici. E’ sempre la minorità quella che dà coraggio; i più inclinano invece a disaminare, a biasimare, a richiedere che tutt’altro si faccia tranne ciò che si è fatto.
Allorchè seppesi che io avevo scritto le “Mie Prigioni”,, e che proponeami di darle alla luce, non si può credere quanto si affaticarono alcuni per impedire ch’io m’arrischiassi di pubblicare quel libro. Gli uni m’avvertirono caritatevolmente che mi sarei tirata addosso l’inimicizia della fazione A; gli altri ch’io poteva incorrere nell’odio della fazione B.
Io era quasi determinato a lasciar dormire per dieci o quindici anni il mio manoscritto, e questo serà secondo i più il partito migliore: mia madre non consentì che io persistessi in questa determinazione, la quale più che altro era il frutto del tedio e della incertezza. – Tutto dee farsi – ella dissemi – per obbedire alla propria coscienza, e nulla per rispetti umani.


http://www.ristretti.it/areestudio/cultura/libri/le_mie_prigioni.pdf

AMDG et DVM

"MIE PRIGIONI". (capitoli inediti)

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LE MIE PRIGIONI di Silvio Pellico


PIU'  quelle pagine aggiunte dal Pellico relative al tempo quando finalmente ritornò a casa dai suoi genitori.
Pertanto, nella speranza, che ciò vi sia gradito, mi permetto completare l’opera con queste altre poche pagine aggiunte al 99° capitolo de “Le mie prigioni” e che vanno con le scritte:

Appendice alle “Mie prigioni”
Capitoli inediti

ALLE MIE PRIGIONI

Capitolo I°
La prima notte dopo il mio ritorno in famiglia non fu che un succedersi d’ore febbrili, piene di sentimenti contrari, tumultuosi, inspirati ora dal dolore, ora dalla contentezza.
Mi fu impossibile chiudere occhio fino al mattino. Avrei voluto dar tregua a’ miei pensieri, fermandoli su Dio con parole di gratitudine e amore; ma ad ogni momento mi divagava pensando di nuovo agli anni della mia prigionia, ai tempi che la precedettero, agli amici ch’io aveva lasciati in catene, a quelli dei quali lamentava l’assenza o la morte, alle illusioni svanite, tutte le riflessioni che la sventura m’avea suggerito, alla fede di cui erami stata concessa la grazia, alla sorte ottenuta di uscire dal carcere, di rivedere la patria, di ritrovare i genitori e i fratelli.
Tutte queste distrazioni mi commovevano troppo vivamente, e per riacquistare un poco di tranquillità io tornava a rivolgermi a Dio, invocava tutti i suoi Santi, e principalmente la Vergine Maria, di cui pareami avere più che mai sentito la protezione materna nei momenti più ardui del mio recente viaggio.
Ma quella folla di rimembranze non cessava di assediarmi, e di trasportare la mia immaginazione più spesso in mezzo ai dolori, che dal lato delle consolazioni. All’angoscia di siffatto irresistibile agitarsi si aggiungea un fierissimo dolore di capo, e una tale oppressione che mi toglieva il respiro. Pareami al tutto naturale che il mio corpo così affranto non potesse resistere più lungamente, e che quella notte per me fosse l’ultima.
Ringraziai Dio d’avermi ricondotto vivo nella casa di mio padre, e di concedermi di morirvi, se era sua volontà che io morissi. Non pertanto il pensiero della morte mi conturbava, e dominavami il desiderio di vivere ancora, e godere le ineffabili dolcezze della famiglia, e riuscire un durevole e saldo sostegno per la vecchiezza de’ miei genitori.
Sul far del giorno respirai meglio, e potei leggermente assopirmi: il sonno fu breve, ma pur n’ebbi un gran giovamento. Essendomi risvegliato libero dal dolore di capo, saltai dal letto, malgrado la mia stanchezza, provando una gioia indicibile ad accertarmi che quello non era un sogno, che io era veramente in casa mia. Impiegai appena il tempo necessario a vestirmi, e passai nella camera vicina, ove mi gettai in ginocchione per pregare piangendo. Pareami di non poter essere mai abbastanza grato al Signore, la cui bontà aveva spezzato i miei ceppi, e voleva ch’io vedessi sorgere ancora giorni così avventurosi.
Quella fervida adorazione, e quelle lagrime di gioia mi ravvivarono. Mi alzai sentendo i passi di mia madre, che veniva con amorosa sollecitudine a vedere s’io era desto, e ad accertarsi ch’io non fossi malato. Le corsi incontro col cuore palpitante d’amore, e mi slanciai tra le sue braccia.
Alle sue domande inquiete risposi: ma le tacqui la mia veglia, e l’agitazione nella quale aveva passata tutta la notte; finsi avere assai più forza di quella che in fatto avessi; e le parlai della grande misericordia del Signore verso di me. – Amalo dunque, – ella esclamò, – amalo sempre per le grazie ch’egli ti ha compartito, e per quelle di cui ha ricolma la tua povera madre!
Ella proferiva queste singhiozzando e sorridendo ad un tempo. Avresti detto che fosse ancora oppressa dalla memoria della angoscie sofferte nel punto stesso in cui rallegravasi perché le era reso il suo figlio





http://www.ristretti.it/areestudio/cultura/libri/le_mie_prigioni.pdf