Le Mie Prigioni di Silvio Pellico
Appendice alle “MIE PRIGIONI”
Capitoli inediti
CAPITOLO 8
Delle due settimane che succederono alla pubblicazione delle “Mie prigioni”, non pochi mi considerarono come colpevole o di un delitto o di una grande scempiaggine.
Alcuni dissero ch’io aveva composto un libro da far vergogna in questo secolo di lumi, e che la mia riputazione era perduta; altri mi scrissero che ormai qualunque tragedia io facessi rappresentare in Italia sarebbe fischiata senza pietà dai veri seguaci della filosofia.
Più d’uno dei miei sedicenti amici volse il capo incontrandomi per evitare di salutarmi. Diceano, a voce alta, che quel capo d’opera di bacchettoneria avrebbe dovunque fatto porre in ridicolo il suo autore. E mentre questi falsi filosofi davano nelle furie contro di me per la testimonianza ch’io rendeva alla religione, molti altri, di opposto colore, vociferavano che la mia divozione non era che una commedia.
Questi clamori diversi presto cessarono, e molti de’ miei avversari vedendo che il mio libro era bene accolto dall’universale, si ridussero a farmi una guerra segreta, e cercarono di perdermi nell’opinione di stimabili persone, che mi onoravano della loro indulgenza. Il buon successo del libro crebbe rapidamente nella penisola. A Parigi, uno scrittore francese, il signor De Latour, lo tradusse nella sua lingua; le edizioni e le traduzioni si moltiplicarono ben oltre al merito del mio libro. Mi fu perdonata l’estrema semplicità dello stile, e l’assoluta mancanza di ornamenti, in grazia dell’incontestabile carattere di verità che n’emergeva a ogni pagina.
Un successo tanto maggiore della mia aspettativa mi fu di gran soddisfazione. Esso era una prova per me, che il secolo non era avverso ala religione quant’io lo aveva fino allora creduto; il cinismo dunque e lo scherno non erano più alla moda; quei disgraziati increduli che mi scrivevano lettere ingiuriose erano l’ultimo avanzo d’una scuola agonizzante.
A compensarmi di tali lettere, n’ebbi molte altre onorevolissime da compatrioti e da estranei. Fra le persone che ebbero la premura di scrivermi parole di approvazione, devo nominare la marchesa Giulietta Colbert di Barolo, che non mi conosceva, e fu questo dalla parte di lei e del marchese, suo marito, il primo segno di una stima che in breve tempo si convertì nella più generosa amicizia. Io già li venerava per l’immenso bene che fanno al nostro paese; allorchè li conobbi da vicino, mi affezionai loro con tutte le potenze dell’animo.
Il mio vecchi curato diceami: – L’amicizia che vi professa la casa di Barolo è una prova che Dio vi benedice a confusione di quelli che vi maledicono.
Mia madre ancora me lo diceva, e soggiungeva: – Dio voglia però, che tu sappia rendertene degno.
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CAPITOLO 9
I vantaggi che mi derivarono dal libro delle Mie Prigioni non poterono essermi perdonati dalla malevolenza: ma io giunsi a non più affliggermi di queste ignobili inimcizie.
Diverse cose concorsero ancora a recarmi dispiacere, e furono, tra queste, le Addizioni che fece alle Mie Prigioni l’infelice Piero Maroncelli, amico mio, che era allora a Parigi. Egli certamente non può avere avuto l’intenzione di nuocermi, o d’offendermi pur lievemente, che n‘era incapace; pure nelle sue Addizioni gli fuggirono alcune sentenze che provocarono contro il mio libro la censura ecclesiastica, e questo libro fu posto all’indice. I miei nemici ne trassero un grande argomento per infierire contro di me. Molti avrebbero allora voluto ch’io prendessi la penna a mia difesa. Credei che nel silenzio fosse per me maggiore merito, e confido di non essermi ingannato.
Fra coloro che severamente mi biasimarono per avere scritto le Mie Prigioni, rinvenni un uomo leale, che mi spiacque assai meno degli altri. Era uno straniero sinceramente devoto al governo austriaco. Ei si presentò con franchezza alla mia porta per ragionare con me, come un padre farebbe col proprio figlio.
– Riconoscete per vostra quest’opera? – mi domandò presentandomi la traduzione pubblicata dal signor De Latour.
– Sono l’autore del testo – risposi.
– Il testo non lo conosco, – ei soggiunse; – ma so che i traduttori in Francia hanno l’abitudine di prendersi qualunque licenza, e sperava che voi foste per dirmi: <>
Rimasi attonito, e gli chiesi perché mi facesse una tale interpellazione.
– Perché – mi rispose – io debba pur dichiararvi che, a parer mio e a giudizio di molte oneste persone, il vostro libro è detestabile. Voi l’avete scritto – esclamò – per vendicarvi di chi vi ha fatto soffrire!
– Perdonatemi, – gli dissi, – ma siffatta supposizione è indegna di un uomo rispettabile quale voi mi sembrate.
– Io sono un sincero protestante, – ei replicò, – ma un protestante dell’antica stampa, nemico delle temerarie opinioni del nostro secolo. Amo l’ordine e la verità, e, con mio gran dolore, la verità e l’ordine appunto sono attaccati nel vostro libro. Ma voi altri cattolici avete la coscienza larga, e trovate sempre preti indulgenti che di tutto vi assolvono. Ritenete per altro che Dio non conferma un perdono il quale vi è si facilmente accordato da questi ministri di Baal.
Ascoltai la predica che non fu breve, e replicai con tutta moderazione. La mia calma destò meraviglia nel mio avversario, e quando mi lasciò, credei d’accorgermi ch’egli più non avesse di me un’idea sì sfavorevole.
Né questi è il solo protestante che mi abbia parlato del mio libro così duramente, e che abbia tentato di indurmi a un cristianesimo meno cattolico. Debbo dire però che altri mi aprirono la loro casa, e mi offrirono cordialmente la loro amicizia, rispettando le mie credenze.
Io prego per loro con tutta l’anima mia, e colla speranza che non tutti morranno nemici alla Chiesa.
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CAPITOLO 10
Sì, parecchi protestanti mi confessarono che le cose scritte da me gli aveano disposti a studiare più seriamente la religione cattolica. Due di essi vennero a confidarmi che si sentivano attirati verso la nostra fede, e ch’erano cattolici in cuore. Aggiunsero che forse in breve si risolverebbero di abiurare, ma finora non mi hanno dato questa consolazione.
Mi era invece serbata una viva gioia per la conversione del signor Woigt, uno dei più abili artisti della Baviera; ed ebbi la sorte che il mio libro non fosse senza influenza in quella conversione.
Pochi anni innanzi, il signor Woigt, ancor giovanissimo, era stato a Roma, portatovi dall’amore delle belle arti; egli è incisore. Avendo contratta relazione in quella città con alcuni cattolici, ebbe opportunità di riflettere un poco sulla nostra religione, e gli parve che i dissidenti male la conoscessero. Non per questo ei volle abbracciarla, e nudrì lungamente l’inclinazione che sentiva pere essa, ma combattuto da mille dubbi.
Poi sposò una cattolica, senza potere ancora determinarsi all’abiura. Tal matrimonio, affidato da tenerezza scambievole, era felice; ma una pungentissima spina affliggeva pur sempre il cuore della pia consorte. Il signor Woigt amava pressoché tutto nella nostra dottrina, ma il sacramento della penitenza spaventava sì forte la sua immaginazione, ch’egli scorgeva in questo un ostacolo quasi invincibile.
Vengono in luce le Mie Prigioni; curiosità lo muove ad aprire questo libro, e alcune delle mie parole hanno virtù di colpirlo; queste principalmente:
<<Ah! infelice chi ignora la sublimità della confessione! Infelice chi, per non parer volgare, si crede obbligato di guardarla con ischerno! Non è vero che, ognuno sapendo già che bisogna esser buono, sia inutile di sentirselo dire; che bastino le proprie riflessioni ed opportune letture; no! la favella viva d’un uomo ha una possanza, che né le letture, né le proprie riflessioni non hanno! ecc.>>
Il desiderio d’una più seria istruzione ridestossi allora nel signor Woigt. Il suo convincimento fu in breve completo; e nelle feste di Pasqua dell’anno 1834, per la grazia del Signore, la Chiesa acquistò in lui un nuovo figlio.
Seppi tutto ciò solamente dopo qualche tempo, quando giunse a Torino il cavaliere Manfredo di Sambuy. Scrissi al signor Woigt per congratularmi, ed egli mi rispose subito con una lettera commoventissima, nella quale narravami tutte le circostanze della sua conversione.
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CAPITOLO 11
Il mio buon curato godeva, al pari di me, del prospero successo del libro, di cui egli stesso aveami suggerita l’idea. Ei dicevami allora: – Or dovreste giovarvi del favore che il pubblico vi dimostra per dargli un trattatello di morale, di cui la sostanza esser dovrebbe tutta evangelica.
– Oh! – gli risposi, – trattare direttamente la morale, non è piccolo assunto, e ormai tanti grandi maestri ci hanno preceduto!
– Che importa? – risposemi: – vi sono molti ottimi libri che pur non si leggono, perché manca loro il pungolo della novità. Ove si possa scriverne dei nuovi è debito il farlo, per glorificare il Signore e rendersi utili al prossimo. Scrivete un Discorso alla gioventù, risvegliando in essa tutti i nobili sentimenti, e vi predico che non vi mancheranno lettori.
Riferii a mia madre queste parole del degno curato; vidi che il pensiero di lui non le dispiaceva, e di buon animo mi accinsi all’opera. Soltanto mia madre mi disse:
– Questo libretto non dee spirare se non benevolenza; bada che non vi si mescoli dramma di quella tinta satirica che si genera così facilmente nei moralisti.
Tale fu l’origine del mio Discorso sui Doveri degli uomini, che ebbe tosto un successo simile a quello delle Mie Prigioni. Alcuni giornali lo lacerarono; e, fedele alla mia abitudine, io tacqui.
Era pazienza o virtù? No: ma qualunque apologia parevami opera perduta con avversari sì tenacemente impegnati a farmi apparire un uomo cattivo.