domenica 6 aprile 2014

San Martino de Porres: “Martino della Carità”

San Martino de Porres: “Martino della Carità”




Combinazione di nobile e uomo del popolo, egli ci mostra una singolare via per raggiungere la santità, amando Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente, e il prossimo come noi stessi.
Suor Maria Teresa Ribeiro Matos, EP

Le vastità del Nuovo Mondo meravigliavano l'uomo europeo nella lontana alba del XVI secolo. Terre fertili, abbondanti ricchezze naturali e la speranza di un futuro promettente diventarono in poco tempo un'attrazione irresistibile per i nobili iberici, che vedevano nelle Americhe un'opportunità di espandere la Chiesa di Dio, i domini del Re e illuminare l'onore della sua stirpe.
Timothy Ring  
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“San Martino de Porres” Parrocchia
di Santa  Beatrice, Lima
L'entusiasmo che li animava non era privo di fondamento, poiché Dio sembrava sorridere ai bravi pionieri, soffiando un vento favorevole nelle vele delle loro fragili navi e coronando con il successo temerarie imprese, mosse molte volte dal desiderio di conquistare anime a Cristo, ma molte altre anche per motivi ben meno elevati.
Che cosa riservava la Provvidenza a queste terre senza fine, abitate da popoli delle più diverse indoli? Che cosa desiderava Essa per quei nativi, ora pacifici, ora bellicosi, ora di temperamento selvaggio, ora dotati di cultura e tecniche molto sviluppate? Qualcosa di più elevato di qualsiasi considerazione politica o sociologica: dare loro il tesoro della Fede, la Celebrazione Eucaristica, la grazia santificante infusa attraverso i Sacramenti.
Frutto dell'eroica azione dei missionari, cominciarono subito a sorgere nel Nuovo Continente Santi dei più illustri, che profumavano con il buon odore di Gesù Cristo i nuovi domini e facevano espandere in loro, con la preghiera o con l'apostolato, le sementi del Regno. Pensiamo, per esempio, alla Lima del Cinquecento. In essa convivevano Santa Rosa, terziaria domenicana, oggi patrona dell'America Latina, San Giovanni Macías, evangelizzatore infaticabile, o quel Pastore esemplare che fu San Turibio di Mongrovejo.
Contemporaneo di tutti loro, superandoli nel dono dei miracoli e in manifestazioni soprannaturali, brillò nel convento domenicano del Santo Rosario un umile frate laico di nome Martino de Porres. "Combinazione di nobile e uomo del popolo, le sue virtù splendenti contribuirono a conferire alla civiltà peruviana del suo tempo una bellezza e un ordine cattolici a tutt'oggi insuperabili".1

Desiderio di servire, a imitazione dello stesso Cristo
Egli nacque il 9 dicembre 1579 nella fiorente Lima del tempo coloniale, capitale del vice-regno del Perù, figlio naturale di Giovanni de Porres, cavaliere spagnolo, e Anna Velázquez, panamense libera, di origine africana.
Nella sua infanzia, sperimentò ora le larghezze e le esigenze della vita nobile al fianco del padre, a Guayaquil - attuale Ecuador -, ora la semplicità e il lavoro insieme alla madre, a Lima, senza votarsi a questo modo di vita né esigere dall'altro. Ma tanto nell'una come nell'altra circostanza egli si sentiva attratto dalla vita di devozione, servendo come chierichetto nelle Messe parrocchiali o passando notti in bianco, in ginocchio, pregando davanti a Gesù Crocifisso.
A soli 14 anni si diresse al Convento del Rosario e fece una richiesta al provinciale dei Predicatori, Fra Giovanni di Lorenzana. Cosa desiderava lui bussando alla porta di quella casa di Dio? Diventare un servitore dei frati, in qualità di "donato", come allora erano designati coloro che si dedicavano ai compiti domestici ed erano alloggiati nelle dipendenze dei domenicani. Il superiore, discernendo in lui una chiamata autentica, lo accolse di buon grado.
Da allora le sue funzioni sarebbero state spazzare sale, chiostri, l'infermeria, il coro e la chiesa della grande proprietà, che ospitava all'incirca 200 religiosi, tra novizi, frati laici e dotti sacerdoti. Fra Martino non si vergognava affatto di questa condizione. La sua visione sovrannaturale delle cose gli faceva comprendere bene la gloria che c'è nel servire, a imitazione dello stesso Cristo Gesù, che S'incarnò per darci un esempio di completa sottomissione.
Dopo due anni nell'esercizio di questi ardui compiti, vincolato alla comunità soltanto come terziario, un frate lo chiamò alla portineria. Lì lo stavano aspettando il superiore e suo padre che, ritornando da un lungo periodo a servizio del vice-re, nel Panamà, voleva incontrare il figlio.
Fotos: Gustavo Kralj
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Frutto dell’eroica azione dei missionari, presto cominciarono a sorgere
nel Nuovo Continente Santi tra i più illustri


San Giovanni Macías e Santa Rosa, convento di San Domenico, Lima;
San Turibio de Mongrovejo, Palazzo Arcivescovile di Lima
Indignato nel vederlo occupato in una posizione così umile, il nobile pretese dal provinciale che promuovesse suo figlio per lo meno a frate laico. Il priore annuì, ma gli occhi di Fra Martino, invece di illuminarsi di contentezza, diventarono umidi di lacrime. Era la sua umiltà che parlava a voce più alta, portandolo a implorare al superiore che non lo privasse della gioia di potersi dedicare alla comunità come aveva fatto fino ad allora.

Vocazione di rimediare ai mali altrui
Il 2 giugno del 1603 egli fece la professione solenne dei voti religiosi, ricevendo, oltre alle funzioni di campanaro, barbiere e incaricato della biancheria, la cura dell'infermeria. Lì esercitava anche, in mancanza del medico, il compito di chirurgo, i cui rudimenti aveva appreso prima di entrare nel convento.
Le sue diagnosi sicure sul vero stato dei malati cominciarono presto ad essere confermate dai fatti, molte volte contro le apparenze. Per esempio, a un infermo che tutti avevano considerato ormai alle porte della morte annunciò che questa volta non sarebbe morto; e infatti, in pochi giorni era guarito. In un'altra occasione, vedendo Fra Lorenzo de Pareja che camminava nel chiostro, gli comunicò che di lì a poco avrebbe lasciato il suo corpo mortale e chiamò un sacerdote per amministrargli i Sacramenti. Istanti dopo averli ricevuti, il frate esalò nel suo letto l'ultimo respiro.
Innumerevoli guarigioni miracolose da lui realizzate fecero sì che la sua fama valicasse i muri del Convento del Rosario. Piccoli e grandi, spagnoli e indi, ricchi e poveri venivano a chiedere aiuto al santo infermiere.
Cominciò così a manifestarsi la vocazione di Martino, che "sembra esser stata quella di rimediare ai mali altrui",2 non risparmiando sforzi per dare loro il buon esempio, conforto fisico e spirituale nell'esercizio delle sue funzioni.
Fotos: Gustavo Kralj
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Il superiore, discernendo in lui una chiamata autentica alla vita religiosa,
lo accolse di buon grado


Fra Giovanni de Lorenzana e San Martino de Porres, quadri del Monastero di San Domenico,
Lima. Al centro: vista attuale del chiostro del convento
"Scusava le colpe degli altri; perdonava dure ingiurie, convinto di essere degno di pene maggiori per i suoi peccati; cercava con tutte le sue forze di portare sulla retta via i peccatori; assisteva volentieri gli infermi; offriva cibo, vestiario e medicine ai deboli; favoriva con tutte le sue forze i contadini, i neri, i meticci che in quel tempo svolgevano i compiti più umili, in tal maniera che fu chiamato dalla voce popolare Martino della Carità".3

Frequenti manifestazioni soprannaturali
Da dove venivano queste straordinarie qualità? Senza dubbio, da un'intensa spiritualità, poiché "una vita come quella di Martino, consacrata interamente a servizio del prossimo, con perfetto oblio di sé, non si spiega senza un'intensa vita interiore, senza lo stimolo della carità che, [...] anche sotto il peso della fatica, non arriva a sentire la stanchezza".4
Una sera, quando era già tardi, il chirurgo Marcello Rivera, ospite del convento, lo cercò senza riuscire a trovarlo. Chiese a questo, chiese a quello, ma nessuno lo aveva visto. Lo trovò, infine, nella sala capitolare, "sospeso in aria, con le braccia in croce, con le sue mani incollate a quelle di un Santo Cristo crocifisso, su un altare. E teneva tutto il corpo vicino a quello del Santo Crocifisso, come abbracciandoLo. Era elevato a circa tre metri dal suolo".5

Numerosi testimoni presenziarono fatti simili. Così, per esempio, una sera in cui pochi riuscivano a prendere sonno nell'edificio del noviziato, a causa di un'epidemia che prostrava con alte febbri la maggioranza dei frati, si sentì da una delle celle:
- O, Fra Martino! Vorrei avere una tunica per cambiarmi!
Era Fra Vincenzo che, rigirandosi nel letto, tra i sudori della febbre, chiamava l'infermiere, senza speranza di esser sentito, perché le porte di quell'edificio erano già chiuse a chiave e Fra Martino viveva fuori dallo stesso. Ma, non appena finito di parlare, vide il frate infermiere vicino a lui, con in mano una camicia pulita e ben stirata. Spaventato, gli chiese come aveva fatto a entrare.
- Non spetta a voi saperlo - rispose con bontà Fra Martino, facendo con il dito il segno di silenzio.
Non lontano da lì il maestro di novizi, Fra André de Lisón, sentì la voce di Fra Martino e si mise nel corridoio per verificare da dove fosse entrato. Passò il tempo, e niente! Decise allora di aprire la porta della cella del malato: era solo e dormiva un sonno profondo... Lo stupore si estese per tutto il convento.
Fra Francesco Velasco, Fra Giovanni de Requena e Fra Giovanni de Guia ricevettero anche loro visite simili. In un'altra occasione, un frate, camminando nel chiostro, vide passare in aria un fascio luminoso, fissò lo sguardo e distinse Fra Martino che volava avvolto nella luce.
Una mattina presto, al tocco della campana, tutta la comunità si riunì in chiesa, come al solito, per cantare il Mattutino. All'improvviso, un chiarore proveniente dal fondo illuminò tutto il luogo sacro. I religiosi si girarono e scoprirono l'origine di quella così intensa luminosità: il volto di Frate Martino che, sceso ad aiutare il sacrestano, era lì che ascoltava il canto sacro.
"Dio sia lodato perché utilizza un così vile strumento"
Fatti come questi ne succedettero in quantità e diventarono pubblici e noti a tutti. A poco a poco la fama del Santo si sparse per tutta Lima, giungendo anche alle orecchie del vicerè e dell'Arcivescovo.
Nulla di ciò, tuttavia, turbò la sua umiltà. In nessun modo acconsentì a perdere la convivenza con il soprannaturale, tornando a sé stesso per sfruttare una gloria umana che passa "come un sogno del mattino" (Sl 89, 5).

San Martino de Porres e il Concilio Vaticano II
Fin da bambino, Martino amò Dio, Padre dolcissimo di tutti, con tali caratteristiche di inbeato_joao_xxiii.jpgnocenza e semplicità che non  avrebbero potuto non farGli piacere. Quando, in seguito, entrò nell'Ordine Domenicano, arse in tal modo di devozione  che più di una volta, mentre pregava con la mente libera da ogni cosa, sembrava essere rapito in Cielo. [...]
Inoltre, seguendo gli insegnamenti del Divino Maestro, San Martino amò i suoi fratelli con profonda carità, nata da una  fede incrollabile e da un cuore generoso. Amava gli uomini perché li considerava i suoi fratelli, per essere figli di Dio. Più  ancora, li amava più di se stesso, poiché, nella sua umiltà, li riteneva tutti più giusti e migliori di lui. Amava il suo  prossimo con la benevolenza propria degli eroi della Fede cristiana. [...]
Venerandi fratelli e cari figli. Come abbiamo affermato all'inizio di quest'omelia, riteniamo molto opportuno che, quest'anno in cui si deve celebrare il Concilio, Martino de Porres sia enumerato tra i Santi. Infatti la via di santità da lui  seguita e gli splendori di illustre virtù di cui la sua vita brillò possono esser considerati come i salutari frutti che  desideriamo per tutta la Chiesa Cattolica e per tutti gli uomini, come conseguenza del Concilio Ecumenico.
Estratto dall'omelia del Rito di Canonizzazione del Beato Martino de Porres, 6/5/1962
Una volta egli andò a far visita alla moglie del suo antico maestro di barbieria, che soffriva di una grave infermità. Invitandolo a sedersi ai piedi del suo letto, lei allungò discretamente il braccio fino a toccare con la mano un punto dell'abito del Santo. Nello stesso istante, si sentì guarita ed esclamò, pervasa di stupore:
- Lei è un così grande servo di Dio, Fra Martino, che persino le sue vesti hanno il potere di guarire! Con la scaltrezza propria dell'umiltà, il Santo risponde:
- Qui c'è la mano di Dio, signora. È Lui che l'ha guarita, attraverso l'abito di nostro padre, San Domenico. Dio sia lodato per aver utilizzato un così vile strumento per operare una meraviglia così grande, e perché l'abito di nostro padre non perde il suo valore e devozione, anche se indossato da un così grande peccatore come me.6

"Non sono degno di stare nella casa di Dio"
Un altro episodio, questa volta accaduto dentro le mura del convento, attesta la mansuetudine di Fra Martino nel sopportare le debolezze che a volte i suoi fratelli d'abito manifestavano. Egli le sopportava con eccezionale buon senso, ritenendole sempre come meritate e utili all'espiazione dei suoi peccati.
Accadde che un anziano religioso costretto a letto lo mandò a chiamare in infermeria, ma siccome Fra Martino era occupato in una questione urgente, ci mise del tempo ad arrivare. Mentre scorrevano i minuti il malato fu preso da impazienza e cominciò a blaterare contro il Santo, dicendo ogni specie di ingiurie, esprimendo lamentele fuori luogo, frutto dell'egoismo.
Gustavo Kralj  
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Tre secoli dopo la sua morte,
l’esempio di San Martino de Porres fa
che i nostri pensieri si elevino al Cielo


Tomba di San Martino de Porres,
nella cappella eretta nel luogo
dell’antica infermeria -
Convento di San Domenico, Lima
Subito lo accudì e gli chiese scusa, ma dovette ascoltare una nuova catilinaria, questa volta pronunciata ad alta voce, in modo che anche gli altri frati sentirono. Preoccupati, alcuni frati si avvicinarono e uno di loro, vedendo Fra Martino inginocchiato ai piedi del malato, gli chiese cosa stesse accadendo.
- Padre - rispose l'umile Frate -, sto ricevendo ceneri senza che sia il mercoledì santo. Questo padre mi ha offerto la polvere della mia bassezza e mi ha messo la cenere delle mie colpe davanti, e io, grato per un tale importante ricordo, non gli bacio le mani perché non sono degno di collocare su di esse le mie labbra, ma resto ai suoi piedi di sacerdote. E, mi creda, questo giorno è stato per me proficuo perché mi sono reso conto che non sono degno di stare nella casa di Dio e tra i suoi servi.7
In una fase di difficoltà per la quale passava la comunità, il padre priore era molto afflitto perché non disponeva della somma necessaria per sanare i debiti della casa, che erano numerosi. Fra Martino allora gli chiese se non volesse venderlo come schiavo, poiché doveva valere un prezzo considerevole e si sarebbe sentito molto onorato di essere utile al convento. Il sacerdote, commosso per questo gesto eroico d'amore all'Ordine, gli rispose:
- Che Dio ti renda merito, Fra Martino, ma il Signore, che ti ha portato fin qui, Si incaricherà di risolvere il problema.8

La via che Cristo ci insegna
La vita del semplice frate trascorreva serena, consumandosi in lunghe veglie di preghiera vicino al crocifisso e servizi all'apparenza molto comuni, ma sempre compiuti con l'intenzione di glorificare Dio, essendo spesso coronati da miracoli. Mancando un mese al suo sessantesimo compleanno, una febbre violenta e frequenti svenimenti lo obbligarono al riposo. Tutto indicava che la fine del suo stato di prova si stesse approssimando.
La notizia si sparse in città e la sua cella divenne subito oggetto di continuo pellegrinaggio. In quella stessa notte egli entrò in agonia. Chi gli stava intorno lo vedeva dibattersi con gesti violenti e, stringendo al petto il crocifisso, rimproverare il maligno:
- Vattene via, maledetto! Non mi vinceranno le tue minacce!
Tre giorni dopo, il 3 novembre 1639, davanti ai suoi fratelli di vocazione che insieme a lui recitavano il Credo, San Martino de Porres nacque alla vera vita, lasciando dietro di sé una scia luminosa che ancor oggi suscita la venerazione di innumerevoli fedeli.
"Questo santo uomo che, col suo esempio di virtù, ha attirato tanti alla Religione, anche ora, tre secoli dopo la sua morte, fa che si elevino al Cielo i nostri pensieri", ha ricordato il Beato Giovanni XXIII quando lo ha canonizzato. 9 Infatti, con l'esempio della sua vita egli ci dimostra che è possibile raggiungere la santità per la via che Cristo ci insegna: amando Dio, in primo luogo, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente e, secondariamente, il prossimo come noi stessi.10

1 CORRÊA DE OLIVEIRA, Plinio. Estratto della conferenza. In: Dr. Plinio. São Paulo. Anno X. N.116 (Nov., 2007); p.2.
2 VARGAS UGARTE, SJ, Rubén. El santo de los pobres. San Martín de Porras. Lima: Paulinas, 2001, p.61.
3 BEATO GIOVANNI XXIII. Rito di Canonizzazione del Beato Martino de Porres, 6/5/1962.
4 VARGAS UGARTE, op. cit., p.97.
5 VELASCO, OP, Salvador. San Martín de Porres. La vida de "Fray Escoba". 10.ed. Madrid: Edibesa, 2004, p.132.
6 Cfr. VELASCO, op. cit., p.189-190.
7 VARGAS UGARTE, op. cit., p.42-43.
8 Idem, p.36.
9 BEATO GIOVANNI XXIII, op. cit.
10 Cfr. Idem, ibidem.
(Rivista Araldi del Vangelo, Novembre/2013, n. 127, pp. 33 - 37)

sabato 5 aprile 2014

Domenica 6 aprile 2014, V Domenica di Quaresima - Anno A --- «Lazzaro, vieni fuori!».

Domenica 6 aprile 2014, V Domenica di Quaresima - Anno A

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 11,1-45.
Era allora malato un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella.
Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato.
Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, il tuo amico è malato».
All'udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato».
Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro.
Quand'ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava.
Poi, disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!».
I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?».
Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo;
ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce».
Così parlò e poi soggiunse loro: «Il nostro amico Lazzaro s'è addormentato; ma io vado a svegliarlo».
Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se s'è addormentato, guarirà».
Gesù parlava della morte di lui, essi invece pensarono che si riferisse al riposo del sonno.
Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto
e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!».
Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse ai condiscepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».
Venne dunque Gesù e trovò Lazzaro che era gia da quattro giorni nel sepolcro.
Betània distava da Gerusalemme meno di due miglia
e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria per consolarle per il loro fratello.
Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa.
Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!
Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà».
Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà».
Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell'ultimo giorno».
Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà;
chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?».
Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo».
Dopo queste parole se ne andò a chiamare di nascosto Maria, sua sorella, dicendo: «Il Maestro è qui e ti chiama».
Quella, udito ciò, si alzò in fretta e andò da lui.
Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro.
Allora i Giudei che erano in casa con lei a consolarla, quando videro Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono pensando: «Va al sepolcro per piangere là».
Maria, dunque, quando giunse dov'era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!».
Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse:
«Dove l'avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!».
Gesù scoppiò in pianto.
Dissero allora i Giudei: «Vedi come lo amava!».
Ma alcuni di loro dissero: «Costui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva anche far sì che questi non morisse?».
Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra.
Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, gia manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni».
Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?».
Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato.
Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato».
E, detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!».
Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: «Scioglietelo e lasciatelo andare».
Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di quel che egli aveva compiuto, credettero in lui.
Traduzione liturgica della Bibbia



Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" 
di Maria Valtorta : Volume 8 Capitolo 548 pagina 405. 

1 Gesù viene verso Betania da Ensemes. Devono aver fatto una marcia veramente faticosa su per i sentieri rompicollo dei monti Adomin. Gli apostoli, sfiatati, stentano a seguire Gesù che va rapidamente, come l’amore lo portasse sulle sue ali di fuoco. Gesù ha un sorriso radioso mentre procede avanti a tutti, a testa alta sotto i raggi tiepidi del sole meridiano.
Prima che giungano alle prime case di Betania, lo vede un ragazzetto scalzo che va verso la fonte presso il paese con una brocca di rame vuota. Dà un grido. Posa la brocca in terra e via di corsa, con tutta la velocità delle sue gambette, verso l’interno del paese. 
«Certo va ad avvisare che Tu giungi», osserva Giuda Taddeo dopo aver sorriso come tutti della risoluzione... energica del ragazzino, che ha abbandonato anche la sua brocca alla mercé del primo che passa. 
2La cittadina, vista così da presso la fonte, che è un poco più in alto del paese, appare quieta, come deserta. Solo il fumo bigio che si alza dai camini indica che nelle case sono le donne intente a preparare il pasto meridiano, e qualche grossa voce di uomo fra gli ulivi e i frutteti vasti e silenziosi avverte che gli uomini sono al lavoro. Ciononostante, Gesù preferisce prendere una viottola che passa alle spalle del paese per poter giungere da Lazzaro senza attirare l’attenzione dei cittadini. 
Sono quasi a mezzo tragitto quando si sentono alle spalle il ragazzetto di prima, che li sorpassa correndo e poi si punta in mezzo alla via a guardare Gesù, pensieroso... 
«La pace a te, piccolo Marco. Hai avuto paura di Me che sei fuggito?», chiede Gesù carezzandolo. 
«Io no, Signore, che non ho avuto paura. Ma siccome per molti giorni Marta e Maria hanno mandato servi sulle strade che vengono qui a vedere se venivi, ora che ti ho visto sono corso per dire che venivi...» . 
«Hai fatto bene. Le sorelle si prepareranno il cuore a vedermi». 
«No, Signore. Le sorelle non si prepareranno nulla perché non sanno nulla. Non hanno voluto che lo dicessi. Mi hanno preso quando ho detto, entrando nel giardino: “C’è il Rabbi”, e mi hanno cacciato fuori dicendo: “Sei un bugiardo o uno stolto. Egli ormai non viene più perché ormai è certo che non può più fare il miracolo”. E perché io dicevo che eri proprio Tu, mi hanno dato due schiaffoni come ancora non ne avevo presi mai... Guarda qui che guance rosse. Mi bruciano! E mi hanno spinto via dicendo: “Questo per purificarti di aver guardato un demonio”. E io ti guardavo per vedere se eri diventato un demonio. Ma non lo vedo... Sei sempre il mio Gesù, bello come gli angeli che la mamma mi dice». 
Gesù si china a baciarlo sulle gotine schiaffeggiate dicendo: «Così ti passa il pizzicore. Ne ho dolore che per Me tu abbia sofferto...». 
«Io no, Signore, perché quegli schiaffi mi hanno fatto dare due baci da Te», e gli si attacca alle gambe sperandone altri. 
«Di’ un po’, Marco. Chi è che ti ha cacciato? Quei di Lazzaro?», chiede il Taddeo. 
«No. I giudei. Vengono per il cordoglio tutti i giorni. Sono tanti! Sono in casa e nel giardino. Vengono presto, vanno via tardi. Sembrano i padroni loro. Maltrattano tutti. Vedi che non c’è nessuno per le vie? I primi giorni si stava a vedere... ma poi... Ora solo noi bambini si gira per... Oh! la mia brocca! La mamma che aspetta l’acqua... Ora mi picchierà anche lei!...». 
Sorridono tutti della sua desolazione davanti alla prospettiva di altri schiaffi, e Gesù dice: «Vai allora svelto...». 
«È che... volevo entrare con Te e vederti fare il miracolo...», e termina: «...e vedere le loro facce... per vendicarmi degli schiaffi...». 
«Questo no. Non devi desiderare vendetta. Essere buono e perdonare devi... Ma la mamma aspetta l’acqua...». 
«Vado io, Maestro. So dove sta Marco. Spiegherò alla donna e ti raggiungerò...», dice Giacomo di Zebedeo correndo via. 
Si rimettono in cammino lentamente e Gesù tiene per mano il bambino gongolante... 
3Eccoli alla cancellata del giardino. La costeggiano. Molte cavalcature stanno legate ad essa, sorvegliate dai servi dei singoli proprietari. Il bisbiglio che si leva da essi attira l’attenzione di qualche giudeo, che si volge verso il cancello aperto proprio nel momento che Gesù pone piede sul limitare del giardino. 
«Il Maestro!», dicono i primi che lo vedono, e questa parola scorre come un fruscio di vento da gruppo a gruppo, si propaga, va come un’onda, venuta da lontano a spezzarsi sulla riva, sin contro i muri della casa e vi penetra, certo portata dai molti giudei presenti, o da qualche fariseo, rabbi o scriba o sadduceo, sparsi qua a là. 
Gesù si inoltra molto lentamente mentre tutti, pur accorrendo da ogni parte, si scansano dal viale sul quale Egli cammina. E dato che nessuno lo saluta, Egli non saluta nessuno, come neppure conoscesse molti dei lì radunati a guardarlo con l’ira e l’odio negli sguardi, meno i pochi che, essendogli discepoli occulti, o per lo meno essendo di retto cuore anche se non lo amano come Messia, lo rispettano come un giusto. E questi sono Giuseppe, Nicodemo, Giovanni, Eleazaro, l’altro Giovanni scriba, visto per la moltiplicazione dei pani, e l’altro Giovanni ancora, che sfamò i discesi dal monte delle beatitudini, Gamaliele col figlio suo, Giosuè, Gioacchino, Mannaen, lo scriba Gioele di Abia, incontrato al Giordano nell’episodio di Sabea, Giuseppe Barnaba discepolo di Gamaliele, Cusa che guarda Gesù da lontano, un poco intimidito di rivederlo dopo lo sbaglio fatto, o forse preso dal rispetto umano che lo trattiene dal farsi avanti come amico. Certo è che né gli amici, o osservatori senz’astio, né i nemici salutano. E Gesù non saluta. Si è limitato ad un generico inchino mettendo piede sul viale. Poi ha proceduto diritto, come estraneo alla molta folla che ha d’intorno. Il ragazzetto gli cammina sempre al fianco nelle sue vesti di contadinello e coi piedini scalzi di bimbo povero, ma col viso luminoso di chi è in festa, gli occhietti neri, vispi, ben aperti a tutto vedere... e a sfidare tutti... 
4Marta esce dalla casa fra un gruppo di giudei visitatori, fra i quali sono mescolati Elchia e Sadoc. Si fa solecchio con la mano per aiutare gli occhi stanchi di pianto, ai quali è penosa la luce, a vedere dove è Gesù. Lo vede. Si stacca da chi l’accompagna e corre verso Gesù, che è a pochi passi dalla vasca che brilla di bagliori, colpita come è dal sole. Si getta ai piedi di Gesù dopo il primo inchino e glieli bacia, mentre dice fra un grande scoppio di pianto: «La pace a te, Maestro!». 
Anche Gesù le ha detto, non appena l’ha vista vicina: «La pace a te!», ed ha alzato la mano a benedire lasciando andare quella del bambino, che viene preso per mano da Bartolomeo e tirato un poco indietro. 
Marta prosegue: «Ma pace per la tua serva non c’è più». Alza il viso verso Gesù stando ancora in ginocchio e con un grido di dolore, che si sente bene nel silenzio che si è fatto, esclama: «Lazzaro è morto! Se Tu fossi stato qui, egli non sarebbe morto. Perché non sei venuto prima, Maestro?». Ha un involontario tono di rimprovero nel fare questa domanda. Poi torna al tono accasciato di chi non ha più forza per rimproverare e ha l’unico conforto del poter ricordare gli ultimi atti e desideri di un parente, al quale si è cercato di dare ciò che desiderava, e non c’è rimorso perciò in cuore: «Ti ha tanto chiamato, Lazzaro, il fratello nostro!... Ora vedi! Io sono dolente e Maria piange e non sa darsi pace. Ed egli non è più qui. Tu sai se lo amavamo! Speravamo tutto da Te!...». 
Un mormorio di compassione per la donna e di rimprovero per Gesù, un assentire al sottinteso pensiero: «e potevi esaudirci, perché noi lo meritiamo per l’amore che abbiamo per Te, e Tu invece ci hai delusi», scorre da gruppo a gruppo fra scuotii di teste o sguardi derisori. Solo i pochi occulti discepoli sparsi fra la folla presente hanno sguardi di compassione per Gesù che ascolta, molto pallido e mesto, la dolente che gli parla. Gamaliele, le braccia conserte al petto nella sua ampia e ricca veste di lana finissima ornata di fiocchi azzurri, un poco in disparte fra un gruppo di giovani in cui è suo figlio e Giuseppe Barnaba, guarda fissamente Gesù, senza odio e senza amore. 
Marta, dopo essersi asciugata il volto, riprende a parlare: «Ma anche ora io spero, perché so che qualunque cosa Tu chiederai al Padre ti sarà concessa». Una dolorosa, eroica professione di fede, detta con la voce che trema di pianto, con l’ansia che trema nello sguardo, con l’ultima speranza che trema nel cuore. 
«Tuo fratello risorgerà. Alzati, Marta». 
Marta si alza, rimanendo curva in venerazione davanti a Gesù al quale risponde: «Lo so, Maestro. Egli risorgerà all’ultimo giorno». 
«Io sono la Risurrezione e la Vita. Chiunque crede in Me, anche se morto, vivrà. E chi crede e vive in Me non morrà in eterno. Credi tu tutto questo?». Gesù, che prima aveva parlato con voce piuttosto bassa, unicamente a Marta, per dire queste frasi in cui proclama la sua potenza di Dio alza la voce, e il perfetto timbro di essa echeggia come uno squillo d’oro nel vasto giardino. Un fremito quasi di spavento scuote gli astanti. Ma poi alcuni ghignano scuotendo il capo. 
Marta, alla quale Gesù pare volere trasfondere speranza sempre più forte tenendole la mano appoggiata sulla spalla, alza il viso che teneva curvo. Lo alza verso Gesù fissando i suoi occhi addolorati nelle luminose pupille di Cristo e, stringendo le mani sul petto con un’ansia diversa, risponde: «Sì, Signore. Io credo questo. Credo che Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo, venuto nel mondo. E che puoi tutto ciò che vuoi. Credo. 5Ora vado ad avvertire Maria», e va via lesta scomparendo nella casa. 
Gesù resta dove è. Ossia, fa qualche passo avanti e si accosta all’aiuola che circonda la vasca, aiuola tutta imbrillantata, da quel lato, dal pulviscolo acqueo dello zampillo, che un lieve vento fa inclinare, come fosse un piumetto d’argento, verso quel lato; e pare perdersi, Gesù, nel contemplare i guizzi dei pesci sotto il velo dell’acqua limpida, i loro giuochi che mettono virgole d’argento e riflessi d’oro nel cristallo delle acque percosse dal sole. 
I giudei lo osservano. Si sono involontariamente separati in gruppi ben distinti. Da un lato, di fronte a Gesù, tutti quelli che gli sono nemici, divisi solitamente fra loro per spirito settario, ora concordi per osteggiare Gesù. Al suo fianco, dietro gli apostoli, ai quali si è riunito Giacomo di Zebedeo, Giuseppe, Nicodemo e gli altri di spirito benevolo. Più là, Gamaliele, sempre al suo posto e nella stessa posa, e solo, perché il figlio e i discepoli si sono separati da lui dividendosi fra i due gruppi principali per essere più vicini a Gesù. 
6Col suo grido abituale: «Rabboni!», Maria esce dalla casa correndo a braccia tese verso Gesù e gettandoglisi ai piedi, che bacia singhiozzando forte. Diversi giudei, che erano in casa con lei e che l’hanno seguita, uniscono i loro pianti, di dubbia sincerità, a quelli di lei. Anche Massimino, Marcella, Sara, Noemi hanno seguito Maria e così tutti i servi, e i lamenti sono forti e alti. Io credo che nella casa non sia rimasto nessuno. Marta, vedendo piangere cosi Maria, piange forte lei pure. 
«La pace a te, Maria. Alzati! Guardami! Perché questo pianto simile a quello di chi non ha speranza?». Gesù si curva per dire piano queste parole, gli occhi negli occhi di Maria, che stando in ginocchio, rilassata sui calcagni, tende a Lui le mani in gesto di invocazione e non può parlare tanto è il suo singhiozzare. «Non ti ho detto di sperare oltre il credibile per vedere la gloria di Dio? È forse mutato il tuo Maestro per aver ragione di angosciarsi così?». 
Ma Maria non raccoglie le parole, che la vogliono già preparare alla gioia troppo forte dopo tanta angoscia, e grida, finalmente padrona della sua voce: «Oh! Signore! Perché non sei venuto prima? Perché ti sei tanto allontanato da noi? Lo sapevi che Lazzaro era malato! Se Tu fossi stato qui, non sarebbe morto il fratello mio. Perché non sei venuto? Io dovevo mostrargli ancora che lo amavo. Egli doveva vivere. Io dovevo mostrargli che perseveravo nel bene. Tanto l’ho angustiato il fratello mio! E ora! Ora che potevo farlo felice, mi è stato tolto! Tu me lo potevi lasciare. Dare alla povera Maria la gioia di consolarlo dopo avergli dato tanto dolore. Oh! Gesù! Gesù! Maestro mio! Mio Salvatore! Speranza mia!», e si riabbatte, la fronte sui piedi di Gesù, che vengono di nuovo lavati dal pianto di Maria, e geme: «Perché hai fatto questo, o Signore?! Anche per quei che ti odiano e che godono di quanto avviene... Perché hai fatto questo, Gesù?!». Ma non è rimprovero nel tono di Maria come lo ha avuto Marta, ma ha solo l’angoscia di chi, oltre il suo dolore di sorella, ha anche quello di discepola che sente sminuito nel cuore di molti il concetto sul suo Maestro. 
Gesù, molto curvo per raccogliere queste parole mormorate con la faccia al suolo, si rialza e dice forte: «Maria, non piangere! Anche il tuo Maestro soffre per la morte dell’amico fedele... per averlo dovuto lasciar morire...». 
Oh! che sogghigno e che sguardi di livido giubilo sono sui volti dei nemici di Cristo! Lo sentono vinto e gioiscono, mentre gli amici si fanno sempre più tristi. 
Gesù dice ancor più forte: «Ma Io ti dico: non piangere. Alzati! Guardami! Credi tu che Io, che ti ho tanto amata, abbia fatto questo senza motivo? Puoi credere che Io ti abbia dato questo dolore inutilmente? Vieni. 7Andiamo da Lazzaro. Dove lo avete posto?». Gesù, più che Maria e Marta, che non parlano, prese come sono da un pianto più forte, interroga tutti gli altri, specie quelli che, usciti di casa con Maria, sembrano i più turbati. Forse sono parenti più anziani, non so. 
E questi rispondono a Gesù, visibilmente afflitto: «Vieni e vedi», e si avviano verso il luogo del sepolcro che è ai termini del frutteto, là dove il suolo ha delle ondulazioni e delle vene di roccia calcarea che affiorano dal suolo. 
Marta, al fianco di Gesù che ha forzato Maria ad alzarsi e che la guida, perché essa è accecata dal gran pianto, indica con la mano a Gesù dove è Lazzaro, e quando sono presso al luogo dice anche: «È lì, Maestro, che il tuo amico è sepolto», e accenna alla pietra posta obliquamente sulla bocca del sepolcro. 
Gesù, per andare là, seguito da tutti, è dovuto passare davanti a Gamaliele. Ma né Lui né Gamaliele si sono salutati. Gamaliele si è poi unito agli altri, fermandosi, come tutti i più rigidi farisei, a qualche metro dal sepolcro, mentre Gesù va avanti, molto vicino ad esso, insieme alle sorelle, Massimino e quelli che forse sono i parenti. Gesù contempla la pesante pietra, che fa da porta al sepolcro e da ostacolo pesante fra Lui e l’amico estinto, e piange. Il pianto delle sorelle aumenta, e così quello degli intimi e famigliari. 
8«Levate quella pietra», grida Gesù ad un tratto, dopo aver asciugato il suo pianto. 
Tutti hanno un movimento di stupore, e un mormorio scorre per l’assembramento, che si è aumentato di alcuni betaniti che sono entrati nel giardino e si sono accodati agli ospiti. Vedo alcuni farisei che si toccano la fronte scuotendo il capo come per dire: «È pazzo!». 
Nessuno eseguisce l’ordine. Anche nei più fedeli vi è della titubanza, della ripulsione a farlo. Gesù ripete più forte il suo ordine, facendo sbigottire più ancora la gente che, presa da due sentimenti opposti, ha un movimento come per fuggire e, subito dopo, uno di accostarsi di più per vedere, sfidando il prossimo fetore del sepolcro che Gesù vuole aperto. 
«Maestro, non è possibile», dice Marta sforzandosi di trattenere il pianto per parlare. «Già da quattro giorni è là sotto. E Tu sai di che male è morto! Solo il nostro amore lo poteva curare... Ora certo egli puzza già fortemente nonostante gli unguenti... Che vuoi vedere? La sua putredine?... Non si può... anche per l’impurità della corruzione e...». 
«Non ti ho detto che se crederai vedrai la gloria di Dio? Levate quella pietra. Lo voglio!». È un grido di volere divino... 
Un «oh!» sommesso esce da tutti i petti. I volti sbiadiscono. Qualcuno trema come se fosse passato su tutti un vento gelido di morte. 
Marta fa un cenno a Massimino, e questo ordina ai servi di prendere gli arnesi atti a smuovere la pietra pesante. 
I servi vanno via lesti per tornare con picconi e leve robuste. E lavorano, insinuando le punte dei picconi lucenti fra la roccia e la pietra, e poscia sostituendo i picconi con le leve robuste, e infine sollevando attenti la pietra facendola scivolare da un lato e strascicandola poi cautamente contro la parete rocciosa. Un fetore ammorbante esce dal cunicolo oscuro, facendo arretrare tutti. 
Marta chiede sottovoce: «Maestro, vuoi scendere là? Se sì, occorrono torce...». Ma è livida al pensiero di doverlo fare. 
9Gesù non le risponde. Alza gli occhi al cielo, apre le braccia a croce e prega con voce fortissima, scandendo le parole: «Padre! Io ti ringrazio di avermi esaudito. Lo sapevo che Tu mi esaudisci sempre. Ma l’ho detto per questi che sono qui presenti, per il popolo che mi circonda, perché credano in Te, in Me, e che Tu mi hai mandato!». 
Resta ancora così qualche momento, e pare rapito in una estasi tanto è trasfigurato, mentre senza più suono dice altre segrete parole di preghiera o di adorazione. Non so. Quello che so è che è così trasumanato che non lo si può guardare senza sentirsi tremare il cuore in petto. Sembra farsi, da corpo, luce, spiritualizzarsi, alzarsi di statura e anche da terra. Pur conservando i suoi colori di capelli, occhi, pelle, vesti, non come durante la trasfigurazione del Tabor, durante la quale tutto divenne luce e candore abbagliante, pare emanare luce e tutto di Lui divenire luce. La luce pare fargli un alone intorno, specie intorno al volto levato al cielo, rapito in contemplazione certo del Padre. 
Sta così qualche tempo, poi torna Lui, l’Uomo, ma di una maestà potente. Si avanza sino alla soglia del sepolcro. Sposta le braccia ‑ che sino a quel momento aveva tenuto aperte a croce, a palme volte al cielo ‑ in avanti, a palme verso terra, e le mani sono perciò già dentro al cunicolo del sepolcro e biancheggiano nella nerezza che colma il cunicolo. Egli sprofonda il fuoco azzurro dei suoi occhi, il cui bagliore di miracolo è oggi insostenibile, in quella nerezza muta, e con voce potente, con un grido più forte di quando sul lago comandò al vento di cadere, con una voce quale in nessun miracolo gli ho sentito, grida: «Lazzaro! Vieni fuori!». La voce si ripercuote per eco nel cavo sepolcrale e si spande uscendone poi per tutto il giardino, si ripercuote contro i dislivelli delle ondulazioni di Betania, io credo che vada sino alle prime balze collinose oltre i campi e di là torni, ripetuta e sommessa, come comando che non può cadere. Certo è che da infinite parti si riode: «fuori! fuori! fuori!». 
Tutti hanno un più intenso brivido e, se la curiosità inchioda tutti ai loro posti, i volti sbiancano e gli occhi si spalancano, mentre le bocche si socchiudono involontariamente, con l’urlo dello stupore già nella strozza. 
Marta, un poco indietro e di fianco, è come affascinata a guardare Gesù. Maria cade in ginocchio, lei che non si è mai scostata dal suo Maestro, cade in ginocchio sul limitare del sepolcro, una mano sul petto a frenare i palpiti del cuore, l’altra che inconsciamente e convulsamente tiene un lembo del mantello di Gesù, e si capisce che trema perché il mantello ha lievi scosse impresse dalla mano che lo tiene. 
10Un che di bianco pare emergere dal fondo profondo del cunicolo. Prima è appena una piccola linea convessa, poi si muta in un che di ovale, poi all’ovale si sottopongono linee più ampie, più lunghe, sempre più lunghe. E il già morto, stretto nelle sue fasce, viene avanti lentamente, sempre più visibile, fantomatico, impressionante. 
Gesù arretra, arretra, insensibilmente ma continuamente, più quello avanza. La distanza fra i due è perciò sempre uguale. 
Maria è costretta a lasciare il lembo del manto, ma non si muove da dove è. La gioia, l’emozione, tutto, l’inchiodano al posto dove era. 
Un «oh!» sempre più netto esce dalle gole chiuse prima da uno spasimo di attesa, da sussurro appena distinto si muta in voce, da voce in un grido potente. 
Lazzaro è ormai sul limitare e si ferma là rigido, muto, simile ad una statua di gesso appena sbozzata, perciò informe, una lunga cosa, sottile nel capo, sottile nelle gambe, più larga nel tronco, macabra come la morte stessa, spettrale nel biancore delle fasce contro lo sfondo scuro del sepolcro. Al sole che lo investe, le fasce appaiono qua e là già colanti putredine. 
Gesù grida forte: «Scioglietelo e lasciatelo andare. Dategli vesti e cibo». 
«Maestro!...», dice Marta e vorrebbe forse dire di più, ma Gesù la guarda fisso, soggiogandola col suo fulgido sguardo, e dice: «Qui! Subito! Portate una veste. Vestitelo alla presenza di tutti e dategli da mangiare». Ordina, e non si volge mai a guardare chi ha alle spalle e intorno. Il suo occhio guarda soltanto Lazzaro, Maria che è vicina al risorto, incurante del ribrezzo che dànno a tutti le bende marciose, e Marta che ansima come le scoppiasse il cuore e non sa se gridare la sua gioia o se piangere... 
11I servi si affrettano ad eseguire. Noemi corre via per prima, e per prima torna con le vesti che tiene a cavalcioni del braccio. Alcuni slegano i lacci delle fasce dopo essersi rimboccate le maniche e cinte le vesti perché non tocchino la putredine colante. Marcella e Sara tornano con anfore di odori, seguite da servi, chi con catini e brocche fumanti d’acque calde e chi con vassoi, tazze colme di latte, e vino, frutta, focacce coperte di miele. 
Le bende basse e lunghissime, di lino, mi pare, con le cimosse ai due lati, certo tessute per quell’uso, si srotolano come rotoli di fettucce da una grande bobina e si accumulano al suolo, pesanti di aromi e di marciume. I servi le scansano usando dei bastoni. Hanno iniziato dal capo, eppure anche là è marciume, certo scolato dal naso, dalle orecchie, dalla bocca. Il sudario messo sul volto è tutto zuppo di questi scoli e il volto di Lazzaro, che appare pallidissimo, scheletrito, con gli occhi tenuti chiusi dalle manteche messe nelle orbite, coi capelli appiccicati e così pure la barbetta rada sul mento, ne è bruttato. Cade lentamente il lenzuolo, la sindone messa intorno al corpo, man mano che le bende scendono, scendono, scendono, liberando il tronco che avevano costretto per dei giorni e rendendo forma umana a ciò che prima avevano reso simile ad una grande crisalide. Le spalle ossute, le braccia scheletrite, le coste appena coperte di pelle, il ventre infossato appaiono lentamente. E man mano che le bende cadono, le sorelle, Massimino, i servi, si affannano a levare il primo strato di sudiciume e di balsami, e insistono sinché, con acque sempre mutate e rese detergenti dagli aromi aggiunti alle acque, la pelle non appare netta. 
12Lazzaro, quando gli liberano il volto e può guardare, dirige il suo sguardo a Gesù prima ancora che alle sorelle, e si smemora e astrae da tutto ciò che avviene nel guardare, con un sorriso d’amore sulle labbra pallide e un luccichio di pianto nelle occhiaie fonde, il suo Gesù. Anche Gesù gli sorride ed ha una lucentezza di pianto nell’angolo dell’occhio, ma senza par­lare dirige lo sguardo di Lazzaro al cielo, e Lazzaro comprende e muove le labbra in una silenziosa preghiera. 
Marta crede che voglia dire qualcosa e ancor non abbia voce e chiede: «Che mi dici, Lazzaro mio?». 
«Nulla, Marta. Ringraziavo l’Altissimo». La pronuncia è si­cura, forte la voce. La gente ha un nuovo «oh!» di stupore. 
Ormai lo hanno liberato sino ai fianchi, liberato e pulito. E possono rivestirlo della tunica corta, una specie di camiciola che supera l’inguine ricadendo sulle cosce. 
Lo fanno sedere per slegargli e lavargli le gambe. Come esse appaiono, Marta e Maria gridano forte accennando le gambe e le fasce. E, se sulle fasce strette alle gambe e sulla sindone posta sotto le fasce gli scoli putridi sono tanto abbondanti da far rivoli sulle tele, le gambe appaiono cicatrizzate affatto. Solo le cicatrici rosso‑cianotiche sono a indicare dove erano le cancre­ne. 
La gente, tutta, grida più forte di stupore; Gesù sorride, e sorride Lazzaro che si guarda per un attimo le gambe guarite, e poi si torna ad astrarre guardando Gesù. Pare che non si pos­sa saziare di vederlo. I giudei, farisei, sadducei, scribi, rabbi, si fanno avanti, cauti per non contaminarsi le vesti. Guardano ben da vicino Lazzaro. Guardano ben da vicino Gesù. Ma né Lazzaro né Gesù si occupano di loro. Si guardano. E tutto il resto è nulla. 
13Ecco che vengono messi i sandali a Lazzaro. Egli si alza in piedi, agile, sicuro. Prende la veste che Marta gli porge, da sé se l’infila, si lega la cintura, si aggiusta le pieghe. Eccolo, ma­gro e pallido, ma uguale a tutti. Si lava ancora le mani e le braccia sino al gomito, rimboccandosi le maniche. E poi, con nuova acqua, di nuovo il volto e il capo, sinché non si sente affatto netto. Si asciuga capelli e volto, rende l’asciugatoio al servo e va diritto da Gesù. Si prostra. Gli bacia i piedi. 
Gesù si curva, lo rialza, lo stringe al cuore dicendogli: «Ben tornato, amico mio. La pace sia teco e la gioia. Vivi per compiere la tua felice sorte. Alza il tuo volto, che Io ti dia il bacio di saluto». E lo bacia, ricambiato da Lazzaro, sulle guance. 
Soltanto dopo aver venerato e baciato il Maestro, Lazzaro parla alle sorelle e le bacia, e poi bacia Massimino e Noemi che piangono di gioia, e alcuni di quelli che credo siano imparentati con la casa o amici intimissimi. Poi bacia Giuseppe, Nicodemo, Simone Zelote e qualche altro. 
Gesù va personalmente da un servo, che ha sulle braccia un vassoio con del cibo, e prende una focaccia con del miele, una mela, una coppa di vino e le offre a Lazzaro, dopo averle offerte e benedette, perché se ne ristori. E Lazzaro mangia col sano appetito di uno che sta bene. Tutti hanno ancora un «oh!» di stupore. 
14Gesù sembra che non veda che Lazzaro, ma in realtà osserva tutto e tutti, e vedendo che con gesti d’ira Sadoc con Elchia, Canania, Felice, Doras e Cornelio e altri stanno per allontanarsi, dice forte: «Attendi un momento, o Sadoc. Devo dirti una parola. A te a ai tuoi». Quelli si fermano con un ceffo da delinquenti. Giuseppe d’Arimatea ha un atto di sgomento e fa cenno allo Zelote di trattenere Gesù. 
Ma Egli sta già andando verso il gruppo astioso e già dice forte: «Ti basta, o Sadoc, quanto hai visto? Mi hai detto un giorno che per credere avevi bisogno, tu e i tuoi uguali, di vedere ricomporsi un morto disfatto in sanità. Sei sazio della putredine vista? Sei capace di confessare che Lazzaro era morto e che ora è vivo e sano come non era da anni? Lo so. Voi siete venuti qui a tentare costoro, a mettere in loro maggior dolore e il dubbio. Voi siete venuti qui a cercarmi, sperando trovarmi nascosto nella stanza del morente. Voi siete venuti qui non per sentimento di amore e desiderio di onorare l’estinto, ma per assicurarvi che Lazzaro era realmente morto, e avete continuato a venire giubilando sempre più, più il tempo passava. Se le cose fossero andate come speravate, come ormai credevate che andassero, avreste avuto ragione di giubilare. L’Amico che guarisce tutti, ma non guarisce l’amico. Il Maestro che premia tutte le fedi, ma non quelle dei suoi amici di Betania. Il Messia impotente davanti alla realtà di una morte. Questo era ciò che vi dava ragione di giubilare. Ma ecco. Dio vi ha risposto. Nessun profeta ha mai potuto riunire ciò che era sfatto, oltre che morto. Dio lo ha fatto. Ecco là la testimonianza viva di ciò che Io sono. Un giorno fu che Dio prese del fango e ne fece una forma e vi alitò lo spirito vitale e l’uomo fu. Io ero a dire: “Si faccia l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. Perché Io sono il Verbo del Padre. Oggi, Io, Verbo, ho detto a ciò che è ancor meno del fango, alla corruzione: “Vivi”, e la corruzione si è tornata a comporre in carne, e in carne integra, viva, palpitante. Eccola là che vi guarda. E alla carne ho ricongiunto lo spirito giacente da giorni nel seno d’Abramo. L’ho richiamato col mio volere perché tutto Io posso, Io il Vivente, Io il Re dei re cui sono soggette tutte le creature e le cose. Or che mi rispondete?». 
È davanti a loro, alto, sfolgorante di maestà, veramente Giudice e Dio. Essi non rispondono. 
Egli incalza: «Non vi basta ancora per credere, per accettare l’ineluttabile?». 
«Non hai mantenuto che una parte della promessa. Questo non è il segno di Giona...», dice aspro Sadoc. 
«Avrete anche quello. L’ho promesso e lo mantengo», dice il Signore. «E un altro qui presente, che attende un altro segno, lo avrà. E poiché è un giusto, lo accetterà. Voi no. Voi rimarrete ciò che siete». 
15Fa un mezzo giro su Se stesso e vede Simone, il sinedrista figlio di Elianna. Lo fissa. Lo fissa. Lascia in asso quelli di prima e, giunto viso a viso con lui, gli dice, a voce bassa ma incisiva: «Buon per te che Lazzaro non ricordi il suo soggiorno fra i morti! Che ne hai fatto di tuo padre, o Caino?». 
Simone fugge con un grido di paura, che poi si muta in un urlo di maledizione: «Che Tu sia maledetto, o Nazareno!», al che Gesù risponde: «La tua maledizione sale al Cielo a dal Cielo l’Altissimo te la riscaglia. Sei segnato del marchio, o sciagurato!». 
Torna indietro fra i gruppi stupiti, spaventati quasi. Incontra Gamaliele che si dirige verso la via. Lo guarda, e Gamaliele guarda Lui. Gesù gli dice senza fermarsi: «Stai pronto, o rabbi. Il segno presto verrà. Non mento mai». 
16Il giardino si svuota lentamente. I giudei sono sbalorditi, ma i più sprizzano ira da ogni poro. Se gli sguardi potessero incenerire, Gesù sarebbe da molto polverizzato. Parlano, discutono fra loro, andandosene, così ormai sconvolti dalla sconfitta avuta da non saper più celare sotto una ipocrita apparenza di amicizia lo scopo della loro presenza qui. Se ne vanno senza salutare né Lazzaro né le sorelle. 
Restano indietro alcuni che sono conquistati al Signore dal miracolo. Fra questi è Giuseppe Barnaba, che si getta in ginocchio davanti a Gesù e lo adora. Un altro è lo scriba Gioele di Abia, che fa la stessa cosa prima di partire a sua volta. E altri ancora che non conosco, ma che devono essere influenti. 
Lazzaro intanto, circondato dai suoi più intimi, si è ritirato in casa. Giuseppe, Nicodemo e gli altri buoni salutano Gesù e se ne vanno. Partono, con profondi saluti, i giudei che stavano presso Marta e Maria. I servi chiudono il cancello. La casa torna in pace. 
17Gesù si guarda intorno. Vede fumare e rosseggiare in fondo al giardino, là verso il sepolcro. Gesù, solo, ritto in mezzo ad un sentiero, dice: «La putredine che viene annullata dal fuoco... La putredine della morte... Ma quella dei cuori... di quei cuori nessun fuoco l’annullerà... Neppure il fuoco dell’Inferno. Sarà eterna... Che orrore!... Più della morte... Più della corruzione... E... Ma chi ti salverà, o Umanità, se tanto ami essere corrotta? Vuoi essere corrotta. E Io... Io ho strappato al sepolcro un uomo con una parola... E con un mare di parole... e uno di dolori non potrò strappare al peccato l’uomo, gli uomini, milioni di uomini». Si siede e si copre il volto con le mani, accasciato... 
Lo vede un servo che passa. Va in casa. Dopo poco esce di casa Maria. Va da Gesù, leggera come non toccasse il suolo. L’avvicina, dice piano: «Rabboni, sei stanco... Vieni, o mio Signore. I tuoi apostoli stanchi sono andati nell’altra casa, tutti meno Simone lo Zelote... Piangi, Maestro? Perché?...». 
Si inginocchia ai piedi di Gesù... l’osserva... Gesù la guarda. Non risponde. Si alza e si dirige verso la casa, seguito da Maria. 
18Entrano in una sala. Lazzaro non c’è, e non c’è lo Zelote. Ma Marta c’è, felice, trasfigurata di gioia. Si volge a Gesù spiegando: «Lazzaro è andato al bagno. Per purificarsi ancora. Oh! Maestro! Maestro! Che dirti?». Lo adora con tutta se stessa. Nota la tristezza di Gesù e dice: «Sei triste, Signore? Non sei felice che Lazzaro...». Le viene un sospetto: «Oh! Tu sei serio con me. Ho peccato. È vero». 
«Abbiamo peccato, sorella», dice Maria. 
«No. Tu no. Oh! Maestro, Maria non ha peccato. Maria ha saputo ubbidire. Io sola ho disubbidito. Io ti ho mandato a chiamare perché... perché non potevo più sentire che essi insinuassero che Tu non eri il Messia, il Signore... e non potevo più vedere quel soffrire... Lazzaro ti voleva tanto. Ti chiamava tanto... Perdonami, Gesù». 
«E tu non parli, Maria?», interroga Gesù. 
«Maestro... io... Io non ho sofferto allora altro che come donna. Soffrivo perché... Marta, giura, giura qui, davanti al Maestro, che mai, mai dirai a Lazzaro il suo delirio... Maestro mio... io ti ho conosciuto del tutto, o divina Misericordia, nelle ultime ore di Lazzaro. Oh! mio Dio! Ma come mi hai amata Tu, Tu che mi hai perdonata, Tu, Dio, Tu, Puro, Tu..., se mio fratello, che pur mi ama, che però è uomo, soltanto uomo, non ha in fondo al cuore perdonato tutto?! No. Dico male. Non ha dimenticato il mio passato e, quando la debolezza del morire ha ottuso in lui la sua bontà che io credevo dimenticanza del passato, egli ha urlato il suo dolore, il suo sdegno per me... Oh!...». Maria piange... 
«Non piangere, Maria. Dio ti ha perdonata e ha dimenticato. L’anima di Lazzaro pure ha perdonato e ha dimenticato, ha voluto dimenticare. L’uomo non ha potuto tutto dimenticare. E quando la carne ha dominato col suo spasimo estremo la volontà illanguidita, l’uomo ha parlato». 
«Non ne ho sdegno, Signore. Mi ha servito ad amarti di più e ad amare ancor più Lazzaro. È stato da quel momento però che io pure ti ho desiderato... perché era troppo angoscioso pensare Lazzaro morto senza pace per causa mia... e dopo, dopo, quando ti ho visto schernito dai giudei... quando ho visto che Tu non venivi neppur dopo la morte, neppur dopo che io ti avevo ubbidito sperando oltre il credibile, sperando fin quando il sepolcro si aprì a riceverlo, allora anche il mio spirito ha sofferto. Signore, se avevo da espiare, e certo lo avevo, io ho espiato, Signore...». 
«Povera Maria! Conosco il tuo cuore. Tu hai meritato il miracolo, e ciò ti affermi nel saper sperare e credere». 
«Mio Maestro, io spererò e crederò sempre ormai. Io non dubiterò più, mai più, Signore. Io vivrò di fede. Tu mi hai dato la capacità di credere l’incredibile 
«E tu, Marta? Tu hai imparato? No. Non ancora. Sei la mia Marta. Ma non sei ancora la mia perfetta adoratrice. Perché agisci e non contempli? È più santo. Tu vedi? La tua forza, perché troppo volta a cose terrene, ha ceduto alla constatazione dei fatti terreni che sembrano talora senza rimedio. In verità non hanno rimedio le terrene cose se Dio non interviene. La creatura per questo ha bisogno di saper credere e contemplare. Di amare sino all’estremo delle forze di tutto l’uomo, con il pensiero, l’anima, la carne, il sangue; con tutte de forze dell’uomo, ripeto. Io ti voglio forte, Marta. Io ti voglio perfetta. Non hai saputo ubbidire perché non hai saputo credere e sperare completamente, e non hai saputo credere e sperare perché non hai saputo amare totalmente. Ma Io te ne assolvo. Ti perdono, Marta. Ho risuscitato Lazzaro oggi. Ora ti do un cuore più forte. A lui ho reso la vita. A te infondo la forza dell’amare, credere e sperare perfettamente. Ora siate felici e in pace. Perdonate a chi vi ha offese in questi giorni...». 
«Signore, in questo io ho peccato. Poco fa, al vecchio Canania che ti aveva schernito gli altri giorni, ho detto: “Chi ha trionfato? Tu o Dio? Il tuo scherno o la mia fede? Cristo è il Vivente ed è la Verità. Io lo sapevo che la sua gloria sarebbe rifulsa più grande. E tu, vecchio, rifatti l’anima, se non vuoi conoscere la morte”». 
«Hai detto bene. Ma non contendere coi malvagi, Maria. E perdona. Perdona se mi vuoi imitare... 19Ecco Lazzaro. Ne sento la voce». 
Infatti Lazzaro entra, rivestito di nuovo e tutto rasato sulle guance, coi capelli regolati a odorosi di essenze. Con lui sono Massimino e lo Zelote. 
«Maestro!». Lazzaro si inginocchia, ancora adorando. 
Gesù gli pone la mano sul capo e sorride dicendo: «La prova è superata, amico mio. Per te e le sorelle. Ora siate felici e forti a servire il Signore. Che ti ricordi, amico, del passato? Voglio dire delle tue ore estreme?». 
«Un grande desiderio di vederti ed una grande pace fra l’amor delle sorelle». 
«E che ti doleva più di lasciare morendo?». 
«Te, Signore, e le sorelle. Te per non poterti servire, esse perché mi hanno dato ogni gioia... ». 
«Oh! io, fratello! », sospira Maria. 
«Tu più di Marta. Tu mi hai dato Gesù e la misura di ciò che è Gesù. E Gesù ti ha data a me. Tu sei il dono di Dio, Maria». 
«Lo dicevi anche morendo...», dice Maria e studia il volto del fratello. 
«Perché è il mio costante pensiero». 
«Ma io ti ho dato tanto dolore...». 
«Anche la malattia ha dato dolore. Ma per essa spero avere espiato le colpe del vecchio Lazzaro e d’essere risorto, purificato per essere degno di Dio. Tu ed io, i due risorti per servire il Signore, e Marta fra noi, lei che fu sempre la pace della casa». 
«Lo senti, Maria? Lazzaro dice parole di sapienza a verità. Ora Io mi ritiro e vi lascio alla vostra gioia...». 
«No, Signore. Tu resti. Con noi. Qui. Resti a Betania e nella mia casa. Sarà bello...». 
«Resterò. Ti voglio compensare di tutto quanto hai patito. Marta, non essere triste. Marta pensa di avermi addolorato. Ma la mia pena non è per voi quanto per coloro che non si vogliono redimere. Essi odiano sempre più. Hanno il veleno nel cuore... Ebbene... perdoniamo». 
«Perdoniamo, Signore», dice Lazzaro col suo mite sorriso... 
E su questa parola tutto ha fine.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com

Riflessioni d'una sorella cristiana sui nostri fratelli carcerati



VISITARE I CARCERATI

Prima Esperienza* “Siamo in carcere, soffriamo, piangiamo e dobbiamo condividere il 
nostro star male, perché chi forse ha ancora un po’di fede sa benissimo che questa è una realtà passeg- 
gera, ma che ci può essere di aiuto in fin dei conti, naturalmente se lo vogliamo. Ma torniamo a noi, 
oggi mi sono ricreduto, ho sentito davvero qualcosa che mi arrivava dal dentro, qualcosa forse di 
sconosciuto ma che intendo con lei conoscere, imparare, capire, sono stato male e bene nello stesso 
tempo, certe parole sulla famiglia mi hanno fatto rabbrividire, piangere. pensare cosa ho buttato via dei 
miei 27 anni. Ho pensato, ho riflettuto e non voglio buttare la mia vita dietro quattro sbarre verdi ibride che non riescono che a suscitare in me solo una rabbia bestiale, che qui difficilmente riuscirasti a sfogare.
Non mi sembrava di essere in chiesa, pensavo di essere a casa mia, dove mio padre 
mi diceva le parole che io, incredulo di me stesso, ascoltavo e le facevo mie. 
Il tutto si conclude con una comunione, di cui non sapevo se fare, ma io in quel momento mi sentivo, 
anche senza confessione, pentito del male che avevo fatto a tante persone. 




Lei dice quello che pensa e pensa che il carcere, così come è, non sia Seconda Esperienza * 
giustizia, ma vendetta. “In carcere ci stanno soprattutto i poveri, ma la povertà si potrebbe preve- 
nire. E non mi si venga a parlare di rieducazione: chi vuoi rieducare in quelle celle sovraffolla- 
te, in quei corridoi lugubri, senza la possibilità di un lavoro, senza strumenti, senza rispetto?”. 



Terza Esperienza* “E la prima cosa da chiarire è che in prigione ci sono soprattutto i 
poveri. Se non ci fossimo noi che distribuiamo indumenti, dalle tute alle mutande, molti 
detenuti sarebbero letteralmente nudi. Il carcere non passa vestiti e per chi non ha famiglia né 
soldi: è dura. C’è gente arrestata d’estate che rimarrebbe in sandali e maglietta anche a dicembre. 
Se non ci fossimo noi che diamo i gettoni per il telefono, ci sono persone che non potrebbero fare 
nemmeno le due telefonate al mese concesse. E così via per i francobolli, per la carta, per il 
dentifricio, per un cibo diverso, perfino per il ticket necessario per le visite mediche: un problema, 
questo ultimo, che lo Stato deve decidersi a risolvere. Ecco un altro dei nostri compiti: 
sensibilizzare i legislatori, perché intervengano sul sistema. In prigione vanno soprattutto i poveri 
perché partono svantaggiati e perché, la prima cosa che ho imparato in carcere, la pena è 
inversamente proporzionale alla ricchezza. Più si è ricchi e meno si sta in prigione e questo vale 
per qualunque reato, dal furto all’omicidio. La difesa non è tutelata: c’è chi ruba miliardi, ma ha 
dieci avvocati e prende una condanna di un anno e c’è chi ruba automobili oppure ruba nei 
supermercati e si becca due anni per ogni automobile. E poi una persona di un certo stato 
sociale offre più garanzie e quindi accede più facilmente ai benefici e alle pene alternative. 
Si concedono arresti domiciliari a chi non ha una casa e allora? I volontari proprio per questo, 
gestiscono anche una casa alloggio per i detenuti in permesso domiciliare. 


“Ero in carcere e non mi hai visitato”. È questa una parola di Gesù Quarta Esperienza* 
che io, a differenza dei volontari, che si sono organizzati per offrire assistenza ai carcerati, certa- 
mente mi sentirò dire dal Signore nel giorno del giudizio. Infatti, solo una volta in vita mia an- 
dai a portare del vestiario e del cibo a un conoscente che era in prigione, ma non mi fecero passa- 
re: mi dissero che ci voleva l’autorizzazione del giudice e tante altre carte e capii, una volta per 
sempre, che era un affare piuttosto complicato. Mi resi conto allora che era proprio l’isolamento 
il terribile genio del carcere. Così quest’opera di misericordia è inibita ai più. 
Ma sono tanti i poveri cristi in stato di isolamento, anche senza essere in prigione. Ci sono
muri più alti e invalicabili di quelli delle patrie galere e, dietro altre non meno tenebrose muraglie, 
vivono innumerevoli uomini e donne che gli altri non vogliono vedere, né incontrare e che 
nessuno mai cerca. 

Molti si isolano da sé, perché hanno i loro motivi segreti di melanconia: c’è chi si porta dietro 
troppe delusioni e c’è chi soffre di quella debolezza interiore che ti fa temere la vita e aver paura 
della gente. Altri invece vengono isolati dagli uomini: tante volte basta non riuscire ad essere 
piacevoli per essere giudicati antipatici ed equivale a una condanna. Altri ancora restano fuori dal 
giro delle amicizie e dei normali rapporti umani, perché sembrano pericolosi, gente di cui non ci si 
può fidare: si pensi al dramma degli ex-carcerati, ai quali praticamente è quasi impossibile un 
reinserimento nella normale vita civile. 

È questa del vivere isolati un’esperienza molto dura, che tanti provano fin da bambini, quando, 
in classe, sei quello che tutti prendono in giro, che nessuno invita alla festa del compleanno, che 
durante la ricreazione resta solo, appoggiato al muro ed è chiaro che per gli altri tu non esisti. Ora, 
per valicare questi muri non è necessario il permesso del giudice. Basta volerlo. Forse, per la 
maggioranza di noi, cittadini comuni, è questo che Cristo oggi ci chiede. Lo disse espressamente un 
giorno: “Quando offri un pranzo o una cena non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi 
parenti, né i ricchi vicini... Al contrario, quando dai un banchetto invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 
e sarai felice perché non hanno da ricambiarti. Riceverai la tua ricompensa alla risurrezione dei 
giusti” (Luca 12,12-14). 
Dietro questa esortazione un po’ ironica di Gesù sta un’esigenza evangelica molto impegnativa: 
invece di circondarti sempre e solo di tanti amici simpatici che rallegrano la tua vita, cerca la 
compagnia di chi ha bisogno di compagnia, renditi tu amico di chi ha bisogno di amicizia.



 Quinta Esperienza 

I condannati, che hanno bisogno di assistenza, non sono soltanto i carcerati. La giustizia penale 
del passato, quella del presente in una certa misura e anche quella del domani conosce pene di 
tormenti fisici, mutilazioni, morte ed esecuzioni capitali in forme diverse. Occorre prestare 
aiuto ai carcerati, a tutti coloro che si sono visti infliggere una pena, considerandoli in un duplice 
aspetto, come persone singole e come membri della comunità. 



San Giovanni Paolo II invitava: 


“Voi dovete conoscere i carcerati ed amarli” 


a) Innanzi tutto conoscerli. 

Per aiutare i carcerati è, infatti, indispensabile avere con loro un contatto come da anima ad anima, 
il quale suppone la comprensione dell’altro in quanto individuo qualificato dalla sua origine, dalla 
sua formazione, dallo svolgimento della sua vita, fino al momento in cui lo incontrate nella sua 
cella. Non basta dunque comprendere il carcerato e il suo stato, ma occorre anche condurlo 
a conoscere e a comprendere lui stesso i principi che dovranno aiutare il suo rinnovamento. L’idea 
fondamentale, che deve guidare il detenuto nel suo sforzo di rilevarsi, è la persuasione che egli può 
cancellare gli errori del passato e prendere le mosse per riformare e rifare la sua vita; che il 
presente castigo può aiutarlo ad effettuare questi due scopi e che lo sosterrà realmente, se si 
risolverà ad accettare la sofferenza con una giusta attitudine, vale a dire, a dare il senso della 
espiazione e della reintegrazione dell’ordine. 

b) Occorre poi amarli. 

Per aiutare realmente il carcerato, bisogna andare verso di lui non solo con idee rette, ma altresì, 
e forse anche più, col cuore, particolarmente, se si tratta di infelici creature, che mai forse, 
nemmeno in seno alla famiglia, hanno gustato le dolcezze di una sincera amicizia. Voi seguirete 
così l’esempio dell’amore comprensivo e devoto senza limiti, quello della madre. Ciò che 
conferisce alla madre un tale influsso sui suoi figli, anche adulti, anche se traviati o rei, non sono 
già le idee, per quanto giuste, che ella loro propone, ma il calore del suo affetto e il dono costante 
di sé stessa, che mai non si stanca, anche se incontra un rifiuto; sa invece pazientare ed attendere, 
rivolgendosi intanto a Colui al quale nulla è impossibile. E’ la parola dell’amore, che in tutti gli 
idiomi del mondo è compresa, e che non solleva né discussione né contraddizione; l’amore, di cui 
l’Apostolo Paolo ha cantato le lodi nel suo “inno alla carità” della prima lettera ai Corinti, 13,1-13. 
Ma, per quanto profondo e genuino, tale amore non indulge ad alcuna approvazione del male 
commesso nel passato, né incoraggia le volontarie cattive disposizioni che ancora perdurassero. 

Quando il Signore morente s’indirizza al ladrone che, pentito, espia la sua colpa, non lo fa 
discendere dalla croce e non impedisce che gli vengano spezzate le membra, ma gli dice una 
parola di luce, di conforto, di fortezza: “Oggi sarai con me in paradiso” (Luc. 23, 43). Ecco come 
il Signore intende che voi aiutate i carcerati; voi, facendo rivivere nei loro cuori la certezza di 
queste alte verità, direte loro le stesse parole, che illuminano, consolano e fortificano: “La tua 
sofferenza ti dà la purificazione, il coraggio e la più grande speranza di arrivare felicemente allo 
scopo, alle porte del cielo, a cui non conduce la via spaziosa del peccato. Tu sarai con Dio in 
paradiso; basta che ti affidi a Lui e al tuo Salvatore “. 



Come mani di Dio sulla Terra, aiutiamo le persone in carcere. 

Alcune proposte: 

* Come volontario visita le prigioni locali, molte di esse sono gestite dalle comunità cristiane; 

* Aiuta i programmi educativi e di tirocinio al lavoro per riabilitare i carcerati a riprendere il loro 
 ruolo utile nella società; 

* Prega per le famiglie dei carcerati, perché soffrono con loro; 

* Sostieni i programmi parrocchiali, che provvedono doni per i carcerati e per i loro bambini nel 
 periodo natalizio; 

* Incoraggia le vittime dei criminali e le vittime della violenza domestica a cercare una terapia 
 pastorale o consulenza professionale secolare; 

* Rifiuta il razzismo; pratica l’inclusione, non l’esclusione; 

* Impara ancor di più circa la condizione di coloro che ingiustamente sono in prigione per 
 situazioni politiche e credi religiosi, e anche come poterli liberare; 

* Ricordati che siamo tutti membri della razza umana e uguali agli occhi di Dio. 
ڇ Il Carisma di Maddalena