lunedì 20 maggio 2019

Il nome di Gesù è Luce

20 maggio: S. Bernardino da Siena, predicatore (1380-1444)
NEL NOME DI GESU'


“Misericordia e Pace” queste erano le due parole chiave pronunciate dai pellegrini che si recavano a Roma per il grande Giubileo del 1400. Era come un motto, uno slogan, una bandiera, ma nello stesso tempo qualcosa di più: un augurio certamente, un sospiro sommesso, un desiderio struggente, talvolta un grido disperato. Perché si avvertiva, proprio in quegli anni ma anche in seguito, questo profondo bisogno di Misericordia e di Pace nel campo politico, sociale ed ecclesiale.
Di pace politica anzitutto: l’Europa, fatta di nazioni cristiane divisa e molto spesso “l’un contro l’altra armata”. Principi cristiani che non facevano altro che organizzare guerre per... difendersi da altri principi cristiani, o per estendere il proprio potere (politico o economico). E, suprema bestemmia, molti affermavano di agire «nel nome di Dio». L’Italia: anch’essa divisa, con piccoli stati contro altri stati (le grandi Signorie), con città contro città, e all’interno di esse fazioni o partiti contro altre fazioni o partiti.
Chi non ricorda le lotte fra Guelfi e Ghibellini?“ Pace e Misericordia” anche tra le Chiese d’Oriente e d’Occidente e dentro la stessa Chiesa Cattolica: erano gli anni del Grande Scisma, dei papi (a Roma) e degli antipapi (ad Avignone), o degli scandali all’interno stesso di essa, con un clero spesso non all’altezza del proprio compito, culturalmente e moralmente.

Proprio in quei decenni si sviluppò un movimento di predicazione per il popolo che aveva come primo obiettivo il risveglio spirituale ed ecclesiale ma conseguito mediante migliori rapporti sociali, economici e familiari. Come dire ricreare una fede cristiana incarnata e trasformante la vita quotidiana, pubblica e privata. Si predicava perciò contro la violenza in generale, contro l’usura, lo strozzinaggio ed il lusso (violenza economica contro i poveri), contro la corruzione ed il gioco d’azzardo (rovina degli individui), contro le lotte tra le varie famiglie potenti e molto spesso prepotenti, contro lo sfruttamento e le perversioni sessuali.

In prima linea, in questa predicazione, erano gli ordini mendicanti dei Domenicani e dei Francescani. Questi organizzavano gruppi di missionari ambulanti, muniti di autorizzazione ecclesiastica mandati o talvolta anche chiamati benevolmente dagli stessi governanti, che speravano in un ritorno positivo per la loro immagine politica. Tra i tanti predicatori, due nomi eccellenti, ambedue bravi e famosi, ambedue santi: uno domenicano (San Vincenzo Ferrer, spagnolo ma che ha predicato anche in Italia, per questo chiamato Ferreri) e San Bernardino da Siena, “eccellente maestro di teologia e dottore di diritto canonico” come lo definì il Papa Pio II.
Ma per la storia della Chiesa è un grande, originale ed efficace predicatore. Infatti “gli bastava trovarsi davanti al popolo per lasciarsi alle spalle la dotta preparazione ed entrare in perfetta sintonia con la gente semplice, usandone, con festosa gioia creativa, il linguaggio quotidiano. L’esemplarità di Bernardino da Siena è tutta in questa sua capacità di ripensare il Vangelo dal di dentro della cultura popolare e di travasarlo in un linguaggio che era, proprio come quello di Gesù, il linguaggio di tutti i giorni” (Ernesto Balducci). E questo non è poco.
“Stage” pratico... tra i malati di peste
Bernardino nacque a Massa Marittima, dove il padre era governatore. Rimasto a sei anni orfano fu allevato, a Siena, da uno zio paterno e da due zie, molto religiose ma non bigotte, che gli diedero un’ottima educazione cristiana. Per questo motivo nelle prediche, Bernardino dimostrerà sempre una profonda conoscenza dei problemi femminili veri. Studiò grammatica e retorica e si laureò in giurisprudenza.
Durante la peste del 1400 a Siena, essendo perito tutto il personale regolare dell’ospedale e rispondendo alla richiesta di aiuto del responsabile, si offrì volontario insieme ai suoi amici della Compagnia dei Battuti (o dei Disciplinati) a cui si era iscritto, che si riunivano, a mezzanotte, nei sotterranei dell’ospedale. Dopo l’esperienza di quattro mesi tra i malati di peste, rimase lui stesso colpito dalla malattia e lottò per un po’ di tempo tra la vita e la morte.
Fu un’esperienza tremenda ma così forte che lo segnerà positivamente tutta la vita. Aveva imparato sull’uomo e i suoi bisogni ma anche su se stesso ciò che i libri di antropologia del tempo non avrebbero potuto insegnargli con maggiore efficacia. Passata poi l’epidemia si prese cura di una delle due zie, gravemente malata, fino alla sua morte.
Nel 1402, sempre a Siena, diventò francescano e due anni dopo sacerdote. Fu mandato poi a Fiesole per completare gli studi in teologia ascetica e mistica: qui lesse con attenzione e con entusiasmo gli scritti dei grandi autori francescani, in primis, Francesco e Bonaventura, Duns Scoto, Jacopone da Todi e altri.
Nel 1405 fu nominato dal Vicario dell’Ordine predicatore ufficiale, e da questo momento in poi Bernardino si dedicherà soprattutto alla predicazione (ma anche al governo e riforma del suo Ordine di cui fu Vicario Generale dal 1438 al 1442). In primo luogo nel territorio della Repubblica di Siena, poi in altre innumerevoli città, specialmente dell’Italia centro settentrionale.
Predicatore comprensibile, efficace, attuale
È interessante sapere che le prediche di Bernardino da Siena ci sono pervenute grazie ad un fedele (o ammiratore) trascrittore, il quale a modo suo stenografava tutto, anche i sospiri del predicante. Questi raccomandava che ciò che bisogna dire nella predica deve essere
“chiarozo, chiarozo... acciò chè chi ode ne vada contento e illuminato, e non imbarbugliato”.
Per Bernardino inoltre il predicare doveva essere un “dire chiaro e dire breve” ma senza dimenticare insieme il “dire bello”. E, come spiegava con una metafora contadina:
“Piuttosto ti diletterai di bere il buon vino con una tazza chiara e bella che con una scodella brutta e nera”.
Insomma curare il contenuto (il buon vino evangelico) e il contenente che deve essere bello (la forma). E lui faceva tutto questo (eccetto la brevità). Conquistava l’uditorio non con ragionamenti astrusi e astratti, ma con la semplicità, con parabole, aneddoti, racconti, metafore, drammatizzando e teatralizzando il racconto (oggi diremmo che della predica faceva un piccolo “show spirituale”).
Era soprattutto attuale: castigava e canzonava le umane debolezze, le stregonerie, le superstizioni, il gioco e le bische (“diceva: “anche il demonio vuole il suo tempio ed esso è la bisca”), i piccoli e grandi imbrogli nel commercio al dettaglio, le mode frivole (specialmente delle donne, oggi è il culto del “look”), i vizi in generale, pubblici e privati. Ma era feroce con gli usurai del tempo, una piaga antica (e moderna). Paragonava la morte di questi tali all’uccisione del porco in una famiglia: una festa ed una liberazione dalla fame per tutti.
Ma qual era il centro della predicazione di Bernardino? Naturalmente Gesù Cristo, in un triplice aspetto: il Gesù “umanato” e cioè l’Incarnazione, il Gesù “passionato” ovvero la sua Passione e Morte in Croce, ed infine il Gesù “glorificato”, la sua Resurrezione e Ascensione alla destra del Padre.
Bernardino metteva in risalto il primato assoluto del Cristo, la sua mediazione universale, la subordinazione di tutte le cose a Lui e in vista di Lui per arrivare attraverso Lui alla perfezione e alla comunione con Dio. È il tema centrale del “Christus Victor” diventato il Signore di tutto attraverso la sofferenza della Croce, rendendo tutti partecipi della salvezza dal peccato.
Tutto bene, tutto liscio nella sua vita? Non è possibile per nessuno. Oggi gli si rimprovera infatti una durezza eccessiva contro le cosiddette “streghe” e contro gli Ebrei (allora non erano ancora i “nostri Fratelli maggiori”). Era santo ma anche figlio del suo tempo e della cultura di allora.
Comunque la sua fama di predicatore travolgente, efficiente ed efficace (nelle conversioni anche clamorose, simboleggiato nel “rogo delle vanità”) non lo risparmiò da ostilità, sofferenze ed incomprensioni.

Sappiamo che l’invidia è una non virtù che, come zizzania, è sempre stata presente anche nei verdi campi ecclesiali. Bernardino fu infatti accusato di idolatria (e non una volta sola anche di eresia) specialmente per quanto riguardava la devozione al Nome di Gesù, espresso nel famoso trigramma JHS messo su uno stendardo. Fu sempre completamente scagionato (a Roma) e reintegrato. Fino alla morte che incontrò a L’Aquila il 20 maggio 1444.
Non solo aveva predicato bene, ma era anche vissuto da santo. Santità la sua che venne riconosciuta subito dalla Chiesa attraverso il papa Niccolò V che lo canonizzò, solo sei anni dopo, il 24 maggio del 1450.
                                                                                          MARIO SCUDU sdb ***

     *** Questo e altri 120 santi e sante, sono presenti nel volume di:               MARIO SCUDU, Anche Dio ha i suoi campioni, Elledici,Torino

          Il nome di Gesù è Luce

Il nome di Gesù è la luce dei predicatori perché illumina di splendore l’annunzio e l’ascolto della sua parola. Donde credi si sia diffusa in tutto il mondo una luce di fede così grande, repentina e ardente, se non perché fu predicato Gesù? Non ci ha Dio “chiamati alla sua ammirabile luce” (1 Pt 12, 9) con la luce e il sapore di questo nome? Ha ragione l’Apostolo di dire a coloro che sono stati illuminati e in questa luce vedono la luce: “Se un tempo eravate tenebre, ora siete luce nel Signore: comportatevi perciò come figli della luce” (Ef 5,8).
Perciò si deve annunciare questo nome perché risplenda, non tenerlo nascosto. E tuttavia nella predicazione non lo si deve proclamare con un cuore vile o con una bocca profanata, ma lo si deve custodire e diffondere come da un vaso prezioso...
L’Apostolo Paolo portava dovunque il nome di Gesù con le parole, con le lettere, con i miracoli e con gli esempi. Infatti lodava sempre il nome di Gesù e gli cantava inni con riconoscenza...
Dai Discorsi, n. 49, Sul glorioso nome di Gesù Cristo, cap. 2.



E poi questi politici...
In una città si era instaurata una specie di dittatura o tirannia. Ecco un pezzo della sua predica per quella circostanza (ma il discorso non si può estendere anche ai giorni nostri?).
«Chi ha questo vizio si presenta sempre come un benefattore, ma in realtà è uno strozzino e un tiranno. Ci sono purtroppo i tira-anni, i tira-mesi, i tira-settimane, i tira-giorni, i tira-mattina, i tira-pomeriggio, i tira-notte e persino i tira-ore. Sai chi è il tira-anno? È colui che tira una volta all’anno. Il tira-mesi è peggio, perché tira ogni mese. Peggio ancora è il tira-settimane, perché tira ogni settimana. E il tira-giorni è ancora peggiore, perché ruba tirando ogni giorno...
E il tira-mattina è ancora peggio perché va al palazzo di governo e sempre tira. Così anche il tira-notte. E che diremmo del tira-ore? Possiamo dire che egli sempre tira, ruba e spoglia chiunque gli capiti a tiro. E poi questi politici vogliono essere chiamati “governatori del popolo!”. A loro ben conviene un solo nome: “ladroni”. E rivolgendosi agli interessati, spesso ostentatamente e ipocritamente seduti in prima fila, Bernardino da Siena, di professione predicatore itinerante, evangelicamente libero e povero perciò senza paura, gridava: “Sapete cosa vi dico? Voi siete le eccellenze zero. Potete farvi temere per un certo tempo, ma mai sarete rispettati, anzi arriverà il giorno in cui il popolo vi disprezzerà e spargerà urina sulla vostra testa”».
Accidenti, Bernardino, che coraggio! Beh, oggi, con i potenti e i politici di turno si è più diplomatici e più contenuti, più irenici e più ecumenici, più generici e più indefiniti. Insomma più “politicamente corretti”. Ma, forse, meno efficaci e meno evangelici. O no?


IMMAGINI:
1  
Sano di Pietro, dipinto del XV secolo, Museo nazionale abruzzese, L’Aquila. / San Bernardino da Siena mostra ai fedeli il monogramma di Cristo.2  Pinturicchio, dipinto del XV secolo, Galleria nazionale, Perugia. / San Bernardino libera un giovane.3  Il famoso trigramma JHS di san Bernardino da Siena4  Il mausoleo di San Bernardino nella Basilica a lui dedicata a L’Aquila.5  Sano di Pietro, dipinto del XV secolo, Duomo di Siena. / Una predica di San Bernardino in Piazza del Campo a Siena.
 http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/05-Maggio/S_Bernardino_da_Siena.html



Milano, l'Europa sovranista sul palco con Salvini: il comizio in diretta

Miriam Stimson, biologa

LA SUORA DELLA DOPPIA ELICA

Miriam Stimson, la biologa che individuò i meccanismi del Dna, era una suora domenicana. Esce negli Usa la sua biografia Una donna che ha speso la sua vita tra la clausura e il suo laboratorio di chimica e ha saputo coniugare molto bene il rapporto tra fede e scienza con il contributo alla scoperta del XX secolo: la doppia elica del Dna. 

È la storia incredibile di suor Miriam Michael Stimson (1913-2002), una suora domenicana del Michigan negli Usa che, nei primi anni ‘50, usando una soluzione di bromuro di potassio (KBr) e la spettroscopia a raggi infrarossi permise di scoprire le basi del Dna. Una rivoluzione nella comunità scientifica degli anni ‘50 rispetto anche ai modelli di Dna proposti da James Waston, Francis Crick e Linus Pauling. Dalla sua intuizione si arriverà, negli anni successivi, a utilizzare la chemioterapia per debellare o almeno curare una malattia mortale come il cancro o conoscere in modo più appropriato malattie come l’Aids. 

È un libro scritto in inglese, il cui titolo tradotto in italiano è: «L’anima del Dna: la vera storia di una suora cattolica e il suo ruolo nella più grande scoperta del secolo XX», Lumina Press, p. 164. 

L’autore è un discepolo della Stimson, lo statunitense di origini giapponesi Jun Tsuji, ricercatore di genetica alla Siena Height University, l’ateneo che ebbe per più di 30 anni la suora domenicana come docente. 
«La grandezza della Stimson - racconta l’autore - è stata quella di imporsi come donna e come suora cattolica in una comunità scientifica, quella degli anni ‘50 fortemente dominata dai maschi e da un establishment, che comprendeva uomini del calibro di James Waston e Francis Crick. Suor Miriam fu una delle prime scienziate a tentare la via del modello della doppia elica del Dna. Il suo metodo e la sua via chimica al Dna è ancora attuale oggi». 

Il volume è il frutto di più di 10 incontri con la scienziata e religiosa, ma anche vuole essere un corollario di aneddoti e di racconti sul difficile ingresso della Stimson nella comunità scientifica Usa degli anni ‘50. Il libro, non a caso, ripercorre tutti gli aspetti dalla vita di suor Miriam, dalla precoce vocazione religiosa all’innata passione per la chimica, alla destrezza nel maneggiare il galvanometro in laboratorio, al suo rapporto molto severo ma anche di «grande fascino per la sua saggezza che aveva con gli allievi, alla «grande fatica» che farà la giovane professoressa di liceo del Michigan, poi divenuta docente universitaria, per ottenere i fondi per la sua ricerca sul Dna, grazie ad istituzioni come la National Cancer Institute o l’American cancer society. 

Ma a introdurre la Stimson alla ricerca scientifica e a spalancare la strada sullo studio della natura chimica dei cromosomi sarà uno dei suoi maestri, George Sperti; e poi, negli anni della ribalta accademica, Erwin Chargaff, uno dei chimici collaboratori di Waston e di Crick. 

Il 1945 è un anno importante per la Stimson perché pubblicherà, per la prima volta, sulla rivista Nature la sua ricerca sui raggi ultravioletti, il suo studio sulla cromatografia (paper crematography) e sull’origine del cancro nelle cellule. 

Finalmente nel 1948 ottiene il dottorato in chimica. Da quella data si susseguiranno, con un certa continuità, le sue pubblicazioni su riviste prestigiose come il Journal of the american chemical society. Vera porta d’ingresso nella comunità scientifica sarà la sua scoperta sul Dna nei primi anni 50: la sperimentazione della spettroscopia a raggi infrarossi e la tecnica di una soluzione di potassio e di bromuro attraverso l’utilizzo di una specie di pressa. 

«La cosa sorprendente - confida nel libro suor Stimson - era la cortina di diffidenza e di ironica leggerezza che si nutriva nei miei confronti da parte della comunità scientifica internazionale solo perché ero un donna e per di più una suora cattolica e quindi incapace a trattare temi così difficili». 

Ma da quella scoperta e dalla fatica di tanti anni di studio arriveranno i primi attestati accademici: dalla sua lezione nel 1951, seconda donna dopo il Nobel madame Marie Curie, alla Sorbona di Parigi al riconoscimento della sua ricerca come cura per il cancro da parte del Chester Beatty Institute of Cancer research di Londra. 

«Una donna genuina e mite - scrive l’autore nelle pagine conclusive del libro - che attraverso la sua fede è riuscita a entrare nel labirinto del Dna e a fare centro: a capire che nella via chimica, quella del bromuro di potassio, v’era la soluzione del problema». 

FILIPPO RIZZI

AMDG et DVM

Panoramica illuminante atei e non



L’ATEISMO, OSSIA LA LOGICA DELL’AUTODISTRUZIONE 

Augusto Guerriero (1893-1981), narratore e giornalista molto celebre, con lo pseudonimo di Ricciardetto, scriveva sul settimanale "Epoca", in cui teneva pure una fitta e interessante corrispondenza con i lettori. 
Ebbene una lettrice, nel settembre 1970, gli scrisse invitandolo a non trattare di religione perché i suoi articoli critici «hanno contribuito - diceva - a scuotere la religiosità di un ragazzo che sta perdendo la fede» e forse anche di altri lettori sprovveduti. 

   L’onesto giornalista rispose, confessando tra l’altro: «Ha ragione. E tante volte ho fatto voto di non scrivere più di religione proprio per le considerazioni, che fa lei. Ma, poi, ci ricado, purtroppo; ma per una ragione molto profonda. Veda, gentile signora, la mancanza di fede non è come la mancanza di un qualsiasi altro bene morale o materiale. Per me è un dramma. Sa che a volte, se ci penso, mi commuovo? Sì, proprio così, mi commuovo, e piango su me stesso e sulla mia miseria» (1). 
Augusto Guerriero, Ricciardetto, pubblicò poi un volume intitolato Quaesivi et non inveni: Ho cercato e non ho trovato... Dio (2). Non sappiamo se sia morto senza aver risolto un tale "dramma". 

Resta tuttavia la sua confessione, che penso potrebbe fare chiunque si professi ateo: l’ateismo nella vita di un uomo non può non essere che un dramma, che può culminare in una tragedia se vissuto nella sua logica esistenziale. Jacques Maritain (1882-1973), grande filosofo francese, nel 1906 passò dall’ateismo alla fede cattolica. Una tale esperienza lo spinse a scrivere in un suo celebre libro, intitolato Umanesimo integrale, quanto segue: 
«L’ateismo, se potesse esser vissuto sino alla radice del volere, disorganizzerebbe, ucciderebbe metafisicamente la volontà; e ogni esperienza assoluta dell’ateismo, non per accidente ma per effetto strettamente necessario, inscritto nella natura delle cose, se è coscientemente e rigorosamente condotta, provoca alla fine la dissoluzione psichica. Potrebbe citarsi, come testimonianza, la tragica esperienza di Nietzsche; si potrebbe anche invocare la grande intuizione di Dostoievskij realizzata nel personaggio Kirilloff
Kirilloff incarna proprio, agli occhi di Dostoievskij, lo sforzo dell’uomo per vivere l'ateismo nelle sue radici metafisiche, nelle sue più profonde radici ontologiche. 
Ricordiamo, nel romanzo intitolato I demoni, il dialogo di Kirilloff con Pietro Stepanovicth, qualche minuto prima di suicidarsi. 

«Se Dio esiste - dice Kirilloff - tutto dipende da lui e io non posso niente al di fuori della sua volontà. Se non esiste tutto dipende da me e io sono tenuto ad affermare la mia indipendenza. Ho cercato durante tre anni l’attributo della mia divinità e l’ho trovato. L’attributo della mia divinità è l’indipendenza, è tutto ciò mediante cui posso mostrare al più alto grado la mia insubordinazione, la mia nuova e terribile libertà, giacché essa è terribile. Mi ammazzerò per affermare la mia insubordinazione, la mia nuova e terribile libertà»Senza aver letto San Tommaso d’Aquino, Dostoievskij sapeva bene che il più profondo attributo metafisico della divinità è l’aseità. Ed è questo attributo che Kirilloff, perché esistenzialmente ateo, deve manifestare in se stesso: sottomettendo la propria esistenza alla sua indipendenza assoluta»(2). 

SE UN ATEO AMA PUÒ ARRIVARE SINO ALLE RADICI DEL MISTERO 

Jan Paul Sartre (1905-1980), filosofo francese caposcuola dell’esistenzialismo, uomo politico attivissimo, premio Nobel per la letteratura, religiosamente ritenuto ateo, si vide costretto a scrivere: «Dio è morto, ma l’uomo non è diventato ateo. Questo silenzio del trascendente, congiunto alla permanenza del bisogno religioso presso l’uomo moderno, ecco il grande problema di ieri e di oggi. Tutto tace e tutto in me esige Dio» (3). Storicamente e secondo l’esperienza di non pochi uomini di pensiero, un tale problema può avere una soluzione: ci vuole onestà e sincerità anzitutto con se stessi. 
Un esempio. 
Pieter Van Der Meer fu letterato e uomo politico olandese dello scorso secolo. Passò dall’ateismo e dalla militanza politica marxista alla fede cattolica. In un suo libro, tradotto in italiano col titolo La verità vi farà liberi, sintetizzò così il suo travaglio di ateo inquieto e sincero: «Son passato, lottando, attraverso tutte le forme di ateismo. Ma c'è un ateismo positivo e un ateismo negativo che è stupido, ad uso esclusivo dei “ruminanti”. L’ateismo positivo è una ricerca torturante della risposta al perché della vita, dell’evoluzione senza fine di miliardi di soli e di stelle, della sofferenza degli uomini, dell’arte e della bellezza: è la nostalgia della Risposta assoluta. E se non si persiste appassionatamente in questa ricerca per una risposta positiva, l’ateismo diviene un passatempo, un atteggiamento snob e una letteratura pseudo-tragica. Tutte queste fasi le ho sperimentate nel mio corpo e nella mia intelligenza. Perciò quando sento parlare un ateo, non mi fido affatto di lui. Un atteggiamento di esistenza tragica fatto di incredulità sembra avere maggior grandezza umana della fede. Ma è un errore. Se l’ateismo non è una fase transitoria, ma un atteggiamento definitivo, è una casa vuota in cui ci si stabilisce, e allora diventa puramente negativo. Il vero ateismo sbocca nell’umano con tutto il tragico e la meravigliosa felicità dell’amore. In realtà, l’ateismo dovrebbe mancare d’amore. E se un ateo ama, allora continua a cercare fino alle radici del mistero» (4). 

Avevano ragione i filosofi d’un tempo di definire l’uomo animal religiosum: un animale religioso. Cioè a dire, la religiosità è naturalmente insita nella natura dell’essere umano. L’apertura verso il mistero e la relativa ammissione di Qualcuno che la riempia sono elementi essenziali perché l’uomo possa dirsi uomo; che questo mondo debba pur avere un senso è un postulato della logica più elementare, anche se resta impossibile capire tutto. Nella Bibbia è detto che solo lo stolto può avere la presunzione di affermare che Dio non c’è. E stolto è chi non sa usare o non vuole usare lo strumento ragione mettendo a base il principio di causalità sufficiente, senza del quale è impossibile qualsiasi ragionamento. 

UNA RELIGIONE... ATEA? 

Albert Einstein, uno tra i più grandi scienziati dello scorso secolo, scrisse: «Difficilmente troverete uno spirito profondo nell’indagine scientifica senza una caratteristica religiosità. Il sapiente, infatti, è compenetrato dal senso della causalità per tutto ciò che avviene. La sua religiosità consiste nell’ammirazione estasiata delle leggi della natura; gli si rivela una mente così superiore che tutta l’intelligenza messa dagli uomini nei loro pensieri non è al cospetto di essa che un riflesso assolutamente nullo. Questo sentimento è il leit-motiv della vita e degli sforzi dello scienziato nella misura in cui può affrancarsi dei suoi egoistici desideri» (5). 

La religiosità è così radicata nell’uomo, da esserci chi ipotizza che non sia neppure necessario credere in Dio. Tra questi lo scrittore, molto conosciuto in Italia e fuori, Leonardo Sciascia; il quale in un libro intervista affermava: «Non occorre nemmeno essere certi dell’esistenza di Dio per essere religiosi o credere nell’immortalità dell’anima: basta soltanto essere certi che la nostra esistenza, questo nostro mondo, deve avere un qualche senso, un qualche significato... Per parte mia, credo che la 3 nostra epoca celi una ricerca disperata, ancorché spesso sotterranea, di Dio, sete di misticismo, bisogno di quell’assoluto che Dio solo può dare» (6). Leonardo Sciascia però non si pose la domanda, che era la conseguenza logica della sua affermazione, e sarebbe stata la seguente: Se necessariamente “questo mondo deve avere un senso, un significato", se lo è dato da sé o gli è stato dato da Qualcun’altro? Speriamo che, almeno prima di morire, se la sia posta e se ne sia data la “logica” risposta. 

Più radicale di Sciascia, anzi più logico di lui, c’era stato già qualcuno: Paul-Louis Couchoud (1879-1959), storico francese delle religioni ma scettico. In un’opera intitolata Le dieu Jésus (Parigi 1951), aveva avuto la presunzione di dimostrare che Gesù non era esistito; e che la sua religione sarebbe una derivazione della letteratura apocalittica giudaica. 
Nell’anno accademico 1926-27 all’Ecole des Hautes Etudes Sociales, a Parigi, «si tenne una serie di conferenze dal titolo generale: La renaissance religeuse. Vi parlò anch’egli su un tema a lui congeniale: Adieu au Christianisme, Addio al Cristianesimo, che poi si rivelò un "addio a Dio stesso”, poiché egli professava di navigare come l’umanità verso l’ateismo; ma soggiungeva subito: non addio alla religione, no, questa resterà, trasformandosi in una religione atea. 
Perché, ci chiediamo questo desiderio persistente di avere una religione qualunque, sia pure atea? Perché voler salvare un nome ad ogni costo, anche mettendosi in contraddizione con tutti i dizionari e con la storia? Perché tutti (atei compresi) sanno che avere la sensibilità religiosa è una garanzia di quelle capacità spirituali, senza delle quali nessuno ha il diritto, e non deve avere neppure il coraggio di essere ricevuto nel consorzio umano» (7). 

RADICI PSICOLOGICA E METAFISICA DEL SENTIMENTO RELIGIOSO 

A questo punto non possiamo non affermare che il prepotente permanere, perfino nello scettico, del sentimento religioso al punto di sfociare addirittura in una religione "atea", o alla Leonardo Sciascia o alla Paul-Louis Couchoud, indica chiaramente la sua universalità e la sua radice psicologica e metafisica nell’uomo, in ogni uomo. 

Radice psicologica. Secondo San Tommaso d’Aquino l’uomo tende alla religiosità, e quindi alla religione, a causa dei difetti e dei limiti che avverte in se stesso: non esiste l’uomo che non li avverta, eccetto che non sia un pazzo. Ogni uomo che riflette, infatti, non può non trovarsi in deficit in tutte le partite, sia in quella fisica che etica. La coscienza e la conoscenza di questo deficit lo sprona immancabilmente alla ricerca di Qualcuno o di un Qualcosa con cui stabilire un rapporto che lenisca il suo dramma esistenziale: questa esigenza psicologica la si chiama sentimento religioso; che può sfociare nella religione, dal latino religare (legare), legare insieme l’uomo a Qualcuno o a Qualcosa a lui superiore al fine di stabilire quei rapporti nei quali consiste appunto la religione. 
«In questo laborioso travaglio psicologico possiamo distinguere due momenti: quello negativo, della pura insoddisfazione; e quello positivo, della ricerca di ciò che può colmare il vuoto che ci affligge; il momento del disagio umano e quello dell’aspirazione al divino. 
Nel primo l’uomo guarda se stesso, nel secondo scruta il cielo; nel primo è pessimista, nel secondo è ottimista; nel primo teme, nel secondo spera e ama; nel primo si sente cadere nel nulla, nel secondo si avvinghia con tutte le forze alla mano misteriosa che lo salva» (8). 

Radice metafisica. La radice psicologica rimanda a quella metafisica, ossia postula un rapporto con Qualcuno che è al di là e al di sopra dell’uomo: insomma, «il nulla della creatura - diciamo noi credenti - si scopre di fronte al Creatore. Tutti i nostri difetti sono radicati in questo difetto metafisico, che è il nostro nulla originario; e il sentimento religioso, visto in queste profondità, può essere chiamato il sentimento della creatura, cioè il sentimento del nulla dal quale Dio ci ha tratti e nel quale siamo sempre in atto di cadere; dal quale però continuamente ci salva l’onnipotenza divina. La base metafisica della religione è dunque in quel fiat potente, che Dio pronunciò - e pronuncia - nel silenzio dell’eternità e nel frastuono dei secoli chiamando all’essere le cose che non sono; e il sentimento religioso è l’eco di quel fiat; eco vivente e affettuosa, ripercossa nel cuore di ogni essere intelligente» (9). 

LA POESIA DI OGGI: UN RIMPIANTO DI UNA RELIGIONE PERDUTA 

Purtroppo non tutti dal sentimento religioso passano alla religione, anche se vivono in un contesto cristiano e cattolico, e addirittura ispirano le loro opere alla religione. Un esempio: Goffredo Petrassi, che fu tra i maggiori compositori di musica del ‘900, sovrintendente de La Fenice di Venezia e direttore artistico dell’Accademia filarmonica romana. 

Riproduciamo un tratto di una intervista pubblicata su La Stampa di Torino del 14.7.1984: - Maestro, lei ha scritto il Magnificat, ha musicato i Salmi. La fede, che ruolo ha nella sua vita? - Non potrei dire di essere un uomo di fede al cento per cento. In tutta la mia vita ho avuto dei dubbi. Per questo non parlo mai di fede, ma di religiosità. - Ma questa religiosità ha ancora spazio nella vita e nell’arte? - Io penso di sì. La religiosità sarà sempre una tendenza dell’uomo. L’uomo capace di pensiero desidererà sempre vedere oltre se stesso, oltre la natura, oltre la realtà delle cose. In questo senso sono religioso. Penso alla divinità, malgrado i miei dubbi in proposito. 

Mario Soldati (1906-1999), scrittore, giornalista e regista di cinema scriveva sul Corriere della Sera del 10.1.1982: «Tutto il guaio del mondo, oggi, è proprio questo: tutto il mondo soffre di avere perduto la religione. E quasi tutta la poesia di oggi non è, in un modo o in un altro, che il rimpianto di una religione perduta. Montale, per esempio: la sua ispirazione continua non è che il dolore di una mancanza, l’orrore di un vuoto. Leopardi non aveva mai perdonato a Gesù di non esistere. Ma Leopardi non soltanto era rimasto religioso: era diventato più religioso ancora, l’aveva trasformato in un immenso, disperato amore per la bellezza dell’Universo e per la vita intera». 
Per certuni, purtroppo, quel che si suol chiamare sentimento religioso può essere (magari incoscientemente) una moda per liberarsi dal giogo del Credo e da quello, anche più incomodo, del Decalogo. 

C’È ANCHE UN SURROGATO... DI DIO 

Il semplice sentimento religioso può portare, per pigrizia mentale nella ricerca della verità, a sostituire a Dio dei surrogati, che sembrano dare un senso alla vita, ma sono una illusione. Vittorio Mathieu, docente di filosofia morale all’Università di Torino asserisce: «L’ateismo, sul piano strettamente filosofico - come è stato sostenuto - è probabile che non esista, non sia praticabile. È indubbio, però, che ci sono persone che dicono (e forse in buona fede ne sono convinte) di essere atee. Ma in realtà rinunciano a riconoscere Dio per trasferire le caratteristiche sull’universo, sulla natura, sul caso, sulla legge, sullo Stato, sull’uomo» (10); non solo, ma anche sul Partito, l’ideologia, il Sesso, ecc. 
Qualche esempio. La Classe Operaia, ossia il Partito, al posto di Dio. Secondo Marx, infatti, la vera realtà è il Proletariato, la Classe operaia, che si identifica con il Partito comunista, che è il depositario e il custode della verità: nella coscienza del comunista, perciò, il Partito prende il posto di Dio; e si regola perciò secondo i suoi ordini e i suoi interessi; e così moralità è uguale a fare l’interesse del Partito, senza discutere né possibilità di critica. 
A tale proposito è illuminante la testimonianza di Ignazio Silone (1900-1978). 

Ignazio Silone fu celebre scrittore di romanzi e di drammi. Come uomo politico fu tra i fondatori del Partito Comunista Italiano nel 1921, che rappresentò a Mosca nel Komintern con Togliatti. Esule in Svizzera, pur rischiando la vita per mano dei compagni comunisti, nel 1931 abbandonò il partito, spiegandone le motivazioni etiche in un suo libro intitolato: Uscita di sicurezza, del quale citiamo solo un’affermazione che spiega tutto: 

«Il Partito comunista, per i suoi militanti, non è solo, né principalmente, un organismo politico, ma scuola chiesa caserma famiglia: è un’istituzione totalitaria nel senso più completo e genuino della parola, e impegna interamente chi vi si sottomette. È un regime di umanità coatta e implica una buona dose di menzogne, di doppiezza, d’insincerità. Il comunista sincero, pertanto, il quale conservi per miracolo il nativo spirito critico, e persista ad applicarlo ai fatti del Partito, si espone alle penose e contraddittorie traversie del nonconformista, e prima di consumare la definitiva sottomissione o l’abiura liberatrice deve soffrire ogni specie di triboli» (11).

 All’opposto di Silone troviamo Giancarlo Pajetta (1911-1990), che fu partigiano comunista, deputato alla Costituente e al Parlamento, direttore dell’Unità. 
Quando Kruscev rivelò i terrificanti crimini di Stalin, fu intervistato da un giornalista (1.12.1961). Alla domanda: “Lei, Pajetta, riconosce che la verità deve venire prima della rivoluzione?”, rispose da perfetto comunista: “Tra la verità e la rivoluzione, io scelgo la rivoluzione”. 

LA SESSUALITÀ SENZA PRINCIPI MORALI UCCIDE DIO 

Il Sesso al posto di Dio. Il sesso vissuto come fine a se stesso induce a vivere come se Dio non ci fosse; e, quindi, Dio non interessa. Albert Camus (1913-1960), premio Nobel per la letteratura, fu lo scrittore francese le cui opere hanno per tema centrale l’assurdità del vivere

Eppure, nei sui Taccuini pubblicati postumi, fa una osservazione che fa pensare: 
«C’è un momento - egli scrisse - in cui la sessualità sembra una vittoria, quando si libera degli imperativi morali. Ma presto diventa una disfatta, e la sola vittoria è quella che si consegue su di essa: la castità. La sessualità sfrenata conduce a una filosofia della non significazione del mondo. La castità invece restituisce un  significato al mondo» (12). 
La sessualità, senza limiti né razionali né morali, è come un sonnifero, una droga, che rende ottusa la ragione. La forza dell’istinto prende il dominio sulla persona e la rende schiava; l’animale, che nonostante tutto, dorme in fondo alla coscienza dell’uomo si sveglia e non serve la ragione (secondo la logica della creazione), ma si fa servire da essa per inventare sempre più forti esperienze del piacere sessuale: a questo punto Dio non solo non interessa, ma lo si dimentica perché Dio è... un rischio per i propri comodi animaleschi. 
L’influsso spaventoso del disordine sessuale nella perdita della fede o nella sua negazione è una constatazione dolorosa che è davanti agli occhi di tutti: la carne uccide lo spirito. 

François Coppée (1842-1908) era poeta e drammaturgo francese. Nella prefazione a un suo libro, tradotto in italiano col titolo Saper soffrire, confessa: «Ciò che mi staccò dalla fede furono, lo dico schiettamente, le crisi dell’adolescenza e la vergogna di dovermi confessare di certe cose. Molti uomini converranno con me, se sono sinceri, che le regola imposta dalla Religione ai sensi li mosse ad allontanarsi da essa: e più tardi, solo più tardi, domandarono alla ragione e alla scienza gli argomenti che permettessero loro di non darsene pensiero» (13). 

Georges Bernanos (1888-1948) è il famoso scrittore francese il cui capolavoro è il romanzo: Diario di un curato di campagna. In una sua splendida pagina si legge: 
«La castità non ci è prescritta come un castigo, è invece una delle condizioni misteriose ma evidenti - l’esperienza lo attesta - di quella conoscenza soprannaturale di se stessi, di se stessi in Dio, che si chiama fede. L’impurità non distrugge questa conoscenza ma ne annulla il bisogno. Non si crede più, perché non si desidera più credere. Non desiderate più conoscervi. Questa verità profonda non vi interessa più. Questa verità profonda, la vostra, non vi interessa più. E avrete un bel dirvi che i dogmi, i quali ieri ottenevano la vostra adesione, sono sempre presenti al vostro pensiero e che soltanto la ragione li respinge; ciò non conta! Non si possiede veramente che ciò che si desidera; giacché per l’uomo non c’è possesso reale, assoluto. Non vi desiderate più. Non desiderate più la vostra gioia. Non potevate amarvi che in Dio, non vi amerete più. E non vi amerete più, né in questo mondo né nell’altro, eternamente» (14). 

DIO MIO, PERCHÉ NON ESISTI? 

«Dio mio, perché non esisti?/Dove rimani?/Vieni, finalmente, vieni!/Qui è tanto difficile senza di te!». Ho trascritto il grido di un grande scettico, scrittore e filosofo: Aleksandr Zinovev. Egli, nato nel 1922 a Mosca, fu, quando ancora c’era l’Unione Sovietica, un dissidente; e, quindi, perseguitato per i suoi scritti di satira e di critica al regime. 

Nel suo romanzo Cime abissali, pubblicato in russo a Losanna nel 1976 con grande successo internazionale, si legge quella che qualche critico chiamato la Preghiera dell’uomo ateo, che inizia appunto con i versi sopra riportati. Nel contesto della situazione tragica del feroce regime comunista egli, pur essendo agnostico convinto, non si arrende all’assenza di Dio, ma ne invoca accoratamente l’esistenza, anzi la esige. 
   Ma ecco i suoi versi: 
«L’han provato i ciclotroni nei laboratori/lo dàn per sicuro negli auditori:/di cromosomi ed elettroni è pieno il mondo,/non c’è proprio posto per te, o Dio./Ma che m’importa?/ Sopravvivenze e frode del pretume./Eppure ti scongiuro, Dio mio:/sii per me almeno qualcosa!/ Quanto vuoi debole e miserello,/non tutto misericordie e onnisciente,/non tutto amoroso e previdente,/sii pur sordastro e tardo nel reagire./ Signore, mi basta ben poco,/una piccolezza, non me la negare:/per amor di Dio, sii onniveggente!/ Per favore, ti scongiuro, vedi!/Vedi soltanto, semplicemente vedi;/vedi continuamente, a tutt’occhi vedi/quanto nel mondo si fa pro o contro./D’una sola cosa ti devi occupare:/ vedi ciò che faccio io - che fanno gli altri./Sono disposto a farti sconto:/se ti è difficile vedere proprio tutto,/vedi almeno di tutto un centesimo,/sii almeno per questo, Signore!/A viver senza uno che veda/più non ce la faccio. Perciò/grido a squarciagola: Padre!!!/Io non prego, io esigo: sii!/ Sussurro e urlo a perdifiato:/Sii, Padre, sii!/No, non pretendo, ti scongiuro:/ Sii!!!» (15). 

GERLANDO LENTINI 

NOTE 1) Epoca, 20.9.1970, n. 1043; 2) J. Maritain, Umanesimo integrale, ed. Borra, Bologna 1962, pp. 109- 110; 3) Cit. da G. Bevilacqua, in Equivoci: mondo moderno e Cristo, ed. Morcelliana 1953, p. 89 - 4) P. Van Der Meer, La verità vi farà liberi, Ed Apollinee 1973, pp. 67-68; 5) A. Einstein, Come io vedo il mondo, Newton Compton Editori, Roma 1975, pp. 23-24; 6) L. Sciascia, La Sicilia come metafora, ed. Mondadori, Milano 1979, p. 64; 7) G. Granire, in Il Simbolo, Ed. Pro civitate cristiana, Assisi 1953, p.22; 8) ivi, p. 23; 9) ivi, p. 23; 10) V. Mathieu in V. Messori, Inchiesta sul Cristianesimo, ed. Mondatori, Torino 1987, p. 345; 11) I. Silone, Uscita di sicurezza, Longanesi ed., Milano 1976, pp. 108-109; 12) A. Camus, Taccuini 1942-1951, ed. Bompiani; 13) F. Coppée, Saper soffrire, ed. S.A.S. Roma 1944, introduzione; 14) G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, Mondadori 1965, pp. 126-127; 15) A. Zinovev, Cime abissali, Losanna 1976, ed. L’Age d’Omme; trad. it. e cit. in Russia Cristiana 1977, n. 3.

domenica 19 maggio 2019

La mistica citta' di Dio

La mistica citta' di Dio della Venerabile suor Maria d'Agreda

Risultati immagini per Venerabile suor Maria d'Agreda
1° libro

2° libro
http://rosarioonline.altervista.org/libri/la%20mistica%20citta%20di%20Dio/index.php
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In lingua spagnola: MÍSTICA CIUDAD DE DIOS Milagro de Su Omnipotencia y abismo de la Gracia Historia Divina, y vida de la Virgen Madre de Dios, Reina y Señora Nuestra, María Santísima, Restauradora de la culpa de Eva y Medianera de la Gracia:
 https://aparicionesdejesusymaria.files.wordpress.com/2011/06/madre-marc3ada-de-jesc3bas-de-c3a1greda-mc3adstica-ciudad-de-dios-1670.pdf


AGREDA DE JESÚS https://josephmaryam.wordpress.com/

https://josephmaryam.files.wordpress.com/2014/01/parte-1.pdf

AMDG et DVM