lunedì 11 settembre 2017

Gesù IL MAESTRO ci spiega il significato delle nozze di Cana



Le nozze di Cana nelle versioni di Giotto e Jacopo Torriti (particolare)

CARISSIMI AMICI


Penso tutti conoscano l'episodio evangelico delle Nozze di Cana: Giovanni 2, 1 11.
Ritengo utilissimo leggere il commento che fa Gesù a questo episodio fondamentale della nostra Fede Cristiana. Non so voi, ma a me è capitato di sentire pochi commenti ben fatti a questo riguardo e soprattutto con una teologia così alta, come invece ritroviamo qui.
Sono queste lezioni che dovrebbero levare ogni dubbio sul fatto che la povera Maria Valtorta (visto anche il suo stato di inferma paralizzata e soprattutto di inferma spesso in fin di vita) abbia potuto scriverle di testa sua.
Ora siccome Gesù ci insegna che chi sa parlare di Dio in questo modo non può essere né l’uomo più erudito, né tanto meno il “cosaccio” (che allora vorrebbe dire che si è convertito, cosa che non può più succedere in eterno!), ma solo “le voci” che parlano sotto ispirazione dello Spirito Santo, allora vi invito a leggere con molta calma, meditare, contemplare (e magari stamparvi) queste pagine che finalmente chiariscono, in maniera magistrale, il perché ed i veri motivi ed i vari simbolismi nascosti in questo episodio evangelico.

19 ‑ 1 ‑ 47.
Dice Gesù:


«Avrei potuto parlare prima per darti questa gemma, o mio piccolo Giovanni [ossia: Maria Valtorta]. Ma tale è la dignità del S. Sacrificio, troppo poco conosciuto per ciò che è da troppi cristiani cattolici, che ho dato la precedenza alla spiegazione di esso. Ed è questa la prima lezione che do a molti, parlando eccezionalmente in dì festivo e su un brano evangelico che ho già trattato secondo l’insegnamento consueto. Quando un sacerdote o una voce parla in nome di Dio e per ordine di Dio, quando si ubbidisce ad un precetto, Io, che sono il Signore, taccio perché grande è la dignità di un maestro che parla in mio nome e per ordine mio, e grande è la dignità di un rito, grandissima quella della S. Messa, rito dei riti così come l’Eucarestia è il Sacramento dei Sacramenti.


Or dunque ascolta, o mio piccolo Giovanni. Ti ho detto molto tempo fa [1] ‑ eri al luogo di esilio e soffrivi come solo Io so quanto – che ogni brano ed episodio evangelico è una miniera di insegnamenti. Ricordi? Ti avevo mostrato la seconda moltiplicazione dei pani e ti avevo detto che, come  con  pochi  pesci  e  pochi pani avevo potuto sfamare le turbe, altrettanto i vostri spiriti possono essere sfamati all’infinito dai pochi brani che sono riportati dai 4 Vangeli. Infatti sono 20 secoli che di essi si sfama un numero incalcolabile di uomini. Ed Io, ora, attraverso il mio piccolo Giovanni ho dato aumento di episodi e parole perché veramente l’inedia sta per consumare gli spiriti e Io ne ho pietàMa anche da quei pochi episodi dei 4 Vangeli vengono, da 20 secoli, pane e pesci agli uomini perché ne siano saziati e ne avanzino ancora.


Tutto ciò fa lo Spirito Santo, che è il Maestro docente sulla cattedra dell’insegnamento evangelico.“Quando sarà venuto il Paraclito, Egli vi ammaestrerà in ogni vero e vi insegnerà ogni cosa e vi rammenterà tutto quanto ho detto”[2] insegnando lo spirito vero di ogni parola, di ogni lettera dell’episodio. Perché è lo spirito della parola, e non la parola in sé, che dà la vita allo spirito. La parola incompresa è suono vano. È incompresa quando è solo vocabolo, rumore, non “vita, seme di vita, scintilla, sorgente” che mette radici, accende, lava e nutre.


Le nozze di Cana [3]. Ecco che da 20 secoli sono spunto ai maestri di spirito a predicare la santità del matrimonio compiuto con la grazia di Dio, a predicare la potenza delle preghiere di Maria, il suo insegnamento all’ubbidienza: “Fate ciò che Egli vi dirà”, la potenza mia che muta l’acqua in vino, e così via. Nessuno di questi frutti colti dal brano evangelico sono errati. Ma non questi soli sono i frutti che l’episodio porta e che voi potete coglierne.


Mia piccola innamorata, amante di Me, affamata di Me Eucarestia, questo è uno degli episodi della mia vita pubblica in cui è in germe il miracolo ultimo dell’Uomo‑Dio: l’Eucarestia. La Risurrezione è già miracolo di Dio‑Uomo ((G In queste parole c’è la spiegazione sulla differenza che c’è fra “Uomo-Dio” e “Dio-Uomo” tante volte contestata dai detrattori valtortiani. Essi infatti dicevano che dare all’Evangelo il titolo di “Poema dell’Uomo-Dio” era il primo errore fatto dagli editori, mentre invece è esattissimo, come ci confermerà anche Maria SS. stessa in altra parte!)), il primo di tutti i miracoli venuti da quando, dalla Vittima distrutta dal Sacrificio, emerse il glorificato Gesù Dio‑Uomo, il Vittorioso
Prima era ancora nascosto il Dio nell’Uomo. La sua Natura trapelava per bagliori nella parola e nei miracoli, simile alle vampate che incoronano dentro per dentro un monte e fanno dire: “Qui si cela il fuoco e questo monte, in apparenza simile a molti altri, è un vulcano che ha per sua anima l’elemento fuoco in luogo di essere unicamente strati su strati di terre e di rocce”.


Ma l’Umanità del Cristo che doveva patire e morire era in tutto simile a quella di ogni uomo, avendo una carne soggetta alla legge della materia, col bisogno di cibo, di sonno, di bevande, di vesti, e disagio di freddo o di calore, e stanchezze per molto lavoro o lungo cammino, e compattezze di carne, e ‑ miseria per l’Onnipresente ‑ e costrizione in un unico luogo. Tutto meno la colpa e gli appetiti alla stessa. Anzi, tutto, e soprattutto ciò che è il martirio dei giusti: il dover vivere fra i peccatori vedendo le offese fatte all’Eterno da essi, e le discese dell’uomo nella fanghiglia dei bruti. 
L’Uomo ‑ Io te lo dico, Maria ‑ ha sofferto, col suo intelletto e col suo cuore di Giusto, più di questo che di ogni altra cosa. Il fetore del vizio e del peccato! La verminaia di tutte le concupiscenze! Io te lo dico: ho cominciato ad espiarle da quando le ho avute vicine, tanto era il tormento che davano all’anima e all’intelletto mio. Gli angeli hanno numerato i colpi degli immateriali flagelli dei vizi dell’uomo sulla mia Umanità, numerosi quanto e dolorosi più di quelli del flagrum romano.


Dopo il Sacrificio, il mio vero Corpo, pur restando vero Corpo, assunse la libera bellezza e potenza dei corpi glorificati, quella che sarà anche la vostra. Quella in cui la materia somiglierà allo spirito con il quale visse e lottò per farsi regina come esso re. E il Corpo fu glorioso come lo Spirito che in esso era divino, non più soggetto a tutto quello che prima lo mortificava, e lo spazio non fu più ostacolo, né ostacolo il muro, né ostacolo la lontananza, né ostacolo l’essere Io qui nel Cielo voi lì sulla terra, perché Io fossi in Cielo e in terra vero Dio e vero Uomo colla mia Divinità, con la mia Anima, col mio Corpo e col mio Sangue, infinito come alla mia Natura divina si conviene, contenuto in un frammento di Pane come il mio Amore volle, reale, onnipresente, amante, vero Dio, vero Uomo, vero Cibo all’uomo, sino alla consumazione dei secoli, e vero gaudio degli eletti per ciò che non è più secolo ma eternità.


L’Eucarestia è il miracolo ultimo dell’Uomo – Dio. La Risurrezione, il miracolo primo del Dio – Uomo che da Se stesso trasmuta il suo Cadavere in Vivente eterno.  L’Eucarestia, trasformazione delle specie del pane e del vino in Corpo e Sangue di Cristo, è al limite fra le due epoche come una stella, quella del mattino, fra i due tempi che han nome notte e giorno. E quando brilla la stella del mattino il viandante si dice: “Ora è giorno” benché ancora non sia giorno, perché sa che quella luce, ai limiti del cielo, è presagio d’alba. L’Eucarestia è la Stella del mattino del tempo nuovo. La sua luce di miracolo d’amore è presagio d’alba, dell’alba del tempo di Grazia. Per questo sta, raggiante dei suoi fuochi, sospesa fra il tempo che si chiude e quello che s’apre, alla fine della mia predicazione, all’inizio della Redenzione.


Se la stella dell’Epifania brillò per dire ai re che il Re universale era dato al mondo, la stella della mia Eucarestia brillò nella Cena pasquale per dire al mondo che il vero Agnello stava per essere immolato, che già si immolava, dandosi spontaneamente in perpetuo cibo agli uomini perché il Sangue suo non bagnasse soltanto gli stipiti e gli architravi, ma circolasse, tutt’uno con loro, a farli santi, e la Carne immacolata fortificasse la loro debolezza mentre l’Anima del Cristo e la Divinità del Verbo abitano in loro portando seco l’inscindibile Presenza del Padre e dell’Eterno Spirito. E fra l’annuncio della stella epifanica e l’annuncio della stella eucaristica, ecco brillare con i suoi simboli incompresi la luce del miracolo di Cana a dire al mondo ciò che avrebbe fatto, nel  cuore  di  pietra  degli uomini  e  con  la povera acqua del loro pensiero, la Sapienza e Potenza incarnata.


Tre giorni dopo c’era un banchetto”. Tre giorni: tre epoche, prima del convito di gioia. 
La prima, dalla creazione del mondo sino alla punizione del diluvio; 
la seconda, dal diluvio alla morte di Mosè. 
La terza, da Giosuè, mia figura, alla mia venuta. 


E ancora tre epoche, o tre giorni: i tre anni della mia predicazione prima del convito pasquale. E come avviene per un banchetto nuziale, che la preparazione ad esso è sempre più piena più si avvicina il momento del festino, così fu per il mio convito d’amore. Perciò sempre più chiare le voci del concerto profetico e le luci degli attendenti il vero Sposo che veniva a sposare Sé all’Umanità per farla regina.


“E vi era la Madre di Gesù”. La Madre! Può mancare la Madre se deve essere partorito l’uomo nuovo? Può non esservi Eva se deve essere d’ora in avanti la “Vita” dove era la Morte? E può mancare la Donna mentre si avvicina l’ora che il Serpente avrà oppresso il capo e limitata la sua libertà d’azione? Non può. E la Madre dei viventi, l’Eva senza macchia, la Donna dell’ “Ave” e del “Si faccia”, la Donna dal calcagno potente, la Corredentrice, è presente al convito con cui ha inizio lo sponsale dell’Umanità con la Grazia.


Ma “venuto a mancare il vino” i convitati non avrebbero gioito per la presenza di Gesù. Oh! veramente quando venni per il mio convito di Grazia trovai che il vino mancava presto. Era troppo poco, e presto fu consumato, e gli uomini caddero in tristezza perché Io deludevo le loro speranze di inebriarsi di umani succhi di potenza e vendetta.


Che avevo trovato iniziando la mia missione? “Idrie di pietra preparate per le purificazioni dei Giudei”. Ossia per le purificazioni materiali. Ecco. I cuori, dopo secoli e secoli di impura assimilazione della Sapienza, si erano mutati in idrie di pietra. E non già per purificare se stessi, ma per servire a purificare. Il rigorismo, l’esteriorità dei riti. Quel rigorismo che induriva senza servire a detergere neppure se stessi. Il solito peccato di superbia del credersi perfetti e di credere impuri gli altri. La durezza opaca della pietra opposta alla luce e alla duttilità della Sapienza che illumina a comprendere e aiuta ad amare. Cuori chiusi. Anche l’acqua che li empie non li fa morbidi. Serve a ghiacciarli. E nulla più. Gettata l’acqua, essi sono aridi, duri e senza profumo. Questo è l’esteriorità dei riti che colmano senza penetrare, senza trasformare, senza far dolci e profumati. Le idrie, i cuori, erano vuoti. Non contenevano neppure quel minimo di cosa utile che è l’acqua per purificare gli altri. Erano vuoti. Non avevano neppure pensato a colmarsi del minimo.Vuoti, arcigni, scabri, inutili, scuri nell’interno come un antro, bigi all’esterno per polvere e vecchiaia.


“Empite d’acqua le idrie”. Oh! quanta l’acqua viva che Io ho versato nei cuori di pietra degli ebrei perché almeno avessero un minimo per essere utili ad alcunché! Ma essi non si mutarono e nella quasi maggioranza respinsero l’acqua, restando vuoti, duri, oscuri, arcigni.


“E ora attingete”. Ecco. Nei cuori dove l’acqua fu accolta si mutò in vino eletto, tanto che il maestro di tavola disse: “Tutti dànno al principio il vino migliore e poscia il peggiore, mentre tu hai serbato il migliore alla fine”. Ho infatti serbato il migliore alla fine, Io, sposo del gran convito. Nell’Ultima Cena, ultimo atto del Maestro, Io, Sposo, ho mutato non l’acqua in vino, ma il vino in Sangue mio per una nuova trasformazione che vi aiutasse, o uomini, ad essere felici della mia felicità che è santa ed eterna. Avevo per tre anni empito le idrie vuote dell’Acqua veniente dal Cielo. Ma ora l’acqua non bastava più. Veniva il tempo della lotta e del giubilo, e il vino è utile al lottatore e immancabile ai conviti. Ed Io vi ho dato l’Eucarestia, il mio Sangue, perché beveste la mia stessa forza, e forti foste, e la mia ilare volontà di servire Iddio, e diveniste eroi come il Maestro vostro, e la mia gioia fosse in voi.


Né quel miracolo di trasformazione di una specie nell’altra  ha più avuto fine. Le idrie del convito di Cana si vuotarono presto lasciando ebbri gli invitati alle nozze. La mia Eucarestia empie i calici e le pissidi di tutta la terra da secoli. E sino alla fine dei secoli gli affamati, gli esausti, i sitibondi, gli stanchi, gli afflitti, i morenti e quelli che appena cominciano a vivere con ragione, i puri come i penitenti, i malati come i sani, i sacerdoti come i laici, gli uomini d’ogni razza e condizione, sulle vette e nelle pianure, fra le nevi polari e all’equatore, sulle acque e sulle terre, vengono a bere, a mangiare, a nutrirsi, a salvarsi, a vivere del mio Sangue e della mia Carne, di questo Vino dato alla fine del Convito, alle soglie della Redenzione, perché fosse il Convito perpetuo dello Sposo a chi lo ama e la Redenzione continua dei vostri languori e cadute.


Le nozze di Cana. La trasformazione dell’acqua in vino. La Cena di Pasqua: la transustanziazione del pane e vino nel mio Corpo e nel mio Sangue. 
La prima, a segnare l’inizio della mia missione di trasformazione degli ebrei dell’antico tempo in discepoli del Cristo. 
La seconda, a segnare il principio della transustanziazione degli uomini in figli di Dio per la grazia rivivente in loro. L’ultimo miracolo dell’Uomo Dio. Il primo e perpetuo miracolo dell’Amore umanizzato. Questa, mio piccolo Giovanni, una delle applicazioni ‑ ed è la più alta ‑ del miracolo delle nozze di Cana.


Ed in te, e per sempre, il mio Corpo e il mio Sangue siano quelle Cose preziose e incorruttibili per le quali, come dice Simon Pietro4], sei stata riscattata, affinché tu esalti le virtù di Colui che dalle tenebre ti chiamò all’ammirabile sua luce. La mia pace a te, piccola sposa, anelante all’Amore. La pace a te. La pace a te. La pace a te.» 


(da: Maria Valtorta, I Quaderni del 45-50, 19.1.1947 – ed. CEV)


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1 Il 28 maggio 1944, nel dettato di commento all’episodio della Seconda moltiplicazione dei pani della grande opera sul Vangelo. Per il luogo dell’esilio, rimandiamo a pag. 231 nota 6.
2 Giovanni 14, 26.
3 Giovanni 2, 1‑11. L’insegnamento che segue potrebbe essere messo come commento all’episodio delle Nozze di Cana, in una riedizione della grande opera sul Vangelo..
4 1 Pietro 2, 9.
Buona meditazione. 
La Pace sia con voi.

AMDG et BVM

sabato 9 settembre 2017

San Bonaventura e il rischio di un gravissimo fraintendimento di san Francesco

Benedetto XVI: San Bonaventura e il rischio di un gravissimo fraintendimento di san Francesco (YouTube)



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Cari amici, buona domenica.
Gemma ci ha fatto un bellissimo regalo ritrovando la seconda parte della catechesi di Papa Benedetto su San Bonaventura. Il testo (qui la versione integrale) è un grande insegnamento anche per la chiesa di oggi. Ne consiglio la lettura :-) // Novità e continuità del Concilio.
R.

UN'OMELIA SU CELESTINO V

Benedetto XVI: è proprio nel silenzio esteriore, ma soprattutto in quello interiore, che Celestino V riesce a percepire la voce di Dio, capace di orientare la sua vita



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Il 4 luglio 2010 Benedetto XVI si recò in visita a Sulmona dove pronunciò un'omelia incentrata sulla figura di Celestino V. L'urna con la salma del Santo fu collocata proprio a fianco dell'altare. Possiamo quindi osservare il pallio che Benedetto XVI donò al suo predecessore l'anno precedente in occasione della sua visita ai luoghi colpiti dal gravissimo sisma del 6 aprile 2009. Grazie come sempre alla nostra Gemma :-)
Il testo integrale dell'omelia è consultabile qui.

In particolare:

Sono passati ben ottocento anni dalla nascita di san Pietro Celestino V, ma egli rimane nella storia per le note vicende del suo tempo e del suo pontificato e,soprattutto, per la sua santità. 
La santità, infatti, non perde mai la propria forza attrattiva, non cade nell’oblio, non passa mai di moda, anzi, col trascorrere del tempo, risplende con sempre maggiore luminosità, esprimendo la perenne tensione dell’uomo verso Dio. Dalla vita di san Pietro Celestino vorrei allora raccogliere alcuni insegnamenti, validi anche nei nostri giorni.

Pietro Angelerio sin dalla sua giovinezza è stato un “cercatore di Dio”, un uomo desideroso di trovare risposte ai grandi interrogativi della nostra esistenza: chi sono, da dove vengo, perché vivo, per chi vivo? Egli si mette in viaggio alla ricerca della verità e della felicità, si mette alla ricerca di Dio e, per ascoltarne la voce, decide di separarsi dal mondo e di vivere da eremita. Il silenzio diventa così l'elemento che caratterizza il suo vivere quotidiano. 
Ed è proprio nel silenzio esteriore, ma soprattutto in quello interiore, che egli riesce a percepire la voce di Dio, capace di orientare la sua vita. 

C’è qui un primo aspetto importante per noi: viviamo in una società in cui ogni spazio, ogni momento sembra debba essere “riempito” da iniziative, da attività, da suoni; spesso non c’è il tempo neppure per ascoltare e per dialogare. Cari fratelli e sorelle! Non abbiamo paura di fare silenzio fuori e dentro di noi, se vogliamo essere capaci non solo di percepire la voce di Dio, ma anche la voce di chi ci sta accanto, la voce degli altri.

Ma è importante sottolineare anche un secondo elemento: la scoperta del Signore che fa Pietro Angelerio non è il risultato di uno sforzo, ma è resa possibile dalla Grazia stessa di Dio, che lo previene. Ciò che egli aveva, ciò che egli era, non gli veniva da sé: gli era stato donato, era grazia, ed era perciò anche responsabilità davanti a Dio e davanti agli altri. Sebbene la nostra vita sia molto diversa, anche per noi vale la stessa cosa: tutto l’essenziale della nostra esistenza ci è stato donato senza nostro apporto. 

Il fatto che io viva non dipende da me; il fatto che ci siano state persone che mi hanno introdotto nella vita, che mi hanno insegnato cosa sia amare ed essere amati, che mi hanno trasmesso la fede e mi hanno aperto lo sguardo a Dio: tutto ciò è grazia e non è “fatto da me”. Da noi stessi non avremmo potuto fare nulla se non ci fosse stato donato: Dio ci anticipa sempre e in ogni singola vita c’è del bello e del buono che noi possiamo riconoscere facilmente come sua grazia, come raggio di luce della sua bontà. 

Per questo dobbiamo essere attenti, tenere sempre aperti gli “occhi interiori”, quelli del nostro cuore. E se noi impariamo a conoscere Dio nella sua bontà infinita, allora saremo capaci anche di vedere, con stupore, nella nostra vita – come i Santi – i segni di quel Dio, che ci è sempre vicino, che è sempre buono con noi, che ci dice: “Abbi fede in me!”.

Nel silenzio interiore, nella percezione della presenza del Signore, Pietro del Morrone aveva maturato, inoltre, un’esperienza viva della bellezza del creato, opera delle mani di Dio: ne sapeva cogliere il senso profondo, ne rispettava i segni e i ritmi, ne faceva uso per ciò che è essenziale alla vita. So che questa Chiesa locale, come pure le altre dell’Abruzzo e del Molise, sono attivamente impegnate in una campagna di sensibilizzazione per la promozione del bene comune e della salvaguardia del creato: vi incoraggio in questo sforzo, esortando tutti a sentirsi responsabili del proprio futuro, come pure di quello degli altri, anche rispettando e custodendo la creazione, frutto e segno dell’Amore di Dio.
...
Infine, un ultimo elemento: san Pietro Celestino, pur conducendo vita eremitica, non era “chiuso in se stesso”, ma era preso dalla passione di portare la buona notizia del Vangelo ai fratelli. E il segreto della sua fecondità pastorale stava proprio nel “rimanere” con il Signore, nella preghiera, come ci è stato ricordato anche nel brano evangelico odierno: il primo imperativo è sempre quello di pregare il Signore della messe (cfr Lc 10,2).

Un'omelia del cardinale Joseph Ratzinger (1991) l'8 settembre a Loreto


Pubblichiamo l’omelia che il cardinal Joseph Ratzinger – ora Benedetto XVI - ha tenuto a Loreto l’8 settembre 1991, durante il solenne pontificale, in occasione della festività della Natività di Maria, alla presenza di numerosi pellegrini, provenienti anche da Altötting per il gemellaggio della città bavarese con Loreto. Il testo è tratto fedelmente da una bobina registrata, parola per parola (vedi Messaggio della S. Casa, novembre 1991, pp. 266-268).


Il giorno della Natività della Vergine Maria non è un compleanno come tanti altri. Celebrando il compleanno di una grande personalità della storia pensiamo ad una vita passata, pensiamo a cose passate, a fatti compiuti da tale personalità e all’eredità da essa lasciata. 


Pensiamo, in una parola, a cose di questo mondo. Con la Madre di Dio non è così. Maria non parla di se stessa. Dal primo momento della vita lei è totalmente trasparente per Dio, è come un’icona raggiante della bontà divina. Maria, con la totalità della sua persona, è un messaggio vivo di Dio per noi. Perciò Maria non appartiene al passato, Maria è contemporanea a noi tutti, a tutte le generazioni. Con la sua disponibilità alla volontà di Dio ha quasi trasferito, consegnato il tempo umano della sua propria vita nelle mani di Dio e, così, ha unito il tempo umano con il tempo divino. Con il suo presente permanente, perciò, Maria trascende la storia ed è presente sempre nella storia, presente con noi.

Maria impersona il messaggio vivo di Dio. Ma cosa ci dice di più precisamente la vita di Maria oggi, nel giorno della sua nascita? Mi sembra che proprio il santuario di Loreto, costruito attorno alla Casa terrena di Maria, costruito attorno alla Casa di Nazareth, possa aiutarci a capire meglio il messaggio della vita della Madonna. Queste pareti conservano per noi il ricordo del momento nel quale l’angelo venne da Maria con il grande annuncio dell’Incarnazione, il ricordo della sua risposta“Eccomi, sono la serva del Signore”. Questa Casa umile è una testimonianza concreta, palpabile dell’avvenimento più grande della nostra storia che è l’incarnazione del Figlio di Dio.

Il Verbo si è fatto carne. Maria, la serva di Dio, è divenuta la “porta” per la quale Dio è potuto entrare in questo mondo. Anzi, non solo la “porta”, è divenuta “dimora”del Signore, “casa vivente”, dove ha abitato realmente il Creatore del mondo. Maria ha offerto la sua carne perché il Figlio di Dio diventasse come noi. E qui ci viene in mente la parola con la quale secondo la Lettera agli Ebrei, Cristo ha iniziato la sua vita umana dicendo al Padre: “Non hai voluto né sacrifici né offerta, un corpo invece mi hai preparato [...]. Allora io ho detto: ecco, io vengo, o Dio, per fare la tua volontà” (Ebr 10, 5-7).


La serva del Signore dice proprio la stessa cosa: mi hai preparato un corpo, ecco io vengo. In questa coincidenza della parola del Figlio con la parola della Madre si toccano, anzi si uniscono cielo e terra, Dio creatore e la sua creatura. Dio diventa uomo, Maria si fa “casa vivente” del Signore, “tempio” dove abita l’Altissimo. E qui sopraggiunge un’altra considerazione: dove abita Dio, tutti noi siamo “a casa”; dove abita Cristo, i suoi fratelli e le sue sorelle non sono stranieri. Così è anche con la Casa di Maria e con la vita stessa di lei: è aperta per tutti noi. La madre di Cristo è anche la nostra Madre, di tutti quanti sono divenuti corpo di Cristo e costituiscono la famiglia di Cristo Gesù. Essi sono con Cristo e con la Madre, costituiscono la “sacra famiglia” di Dio.

Maria ci ha aperto la sua vita e la sua Casa perché, aprendosi a Dio, si è aperta a tutti noi e ci offre la sua Casa come Casa comune dell’unica famiglia di Dio. Possiamo dire: dove c’è Maria c’è la Casa; dove c’è Dio, siamo tutti “a casa”. La fede ci dà una casa in questo mondo, ci riunisce in una unica famiglia. Qui però nasce una domanda seria: la fede ci dice che siamo tutti fratelli e sorelle di Cristo, quindi un’unica famiglia; noi dobbiamo chiederci se questo è vero, se siamo realmente un’unica famiglia e, se non è vero, perché non è vero, perché le opposizioni, le lotte, l’egoismo lacerante?

La Casa di Nazareth non è una reliquia del passato, essa ci parla nel presente e ci provoca a un esame di coscienza. Dobbiamo domandarci se siamo realmente aperti anche noi al Signore, se vogliamo offrirgli la nostra vita perché sia una dimora per lui; oppure se abbiamo un po’ di paura della presenza del Signore, se abbiamo paura che essa possa limitare la nostra dignità, se vogliamo forse riservarci una parte della nostra vita che vorremmo appartenesse solo a noi e non fosse conosciuta da Dio, che non dovrebbe avvicinarsi ad essa.


Mi sembra che questa Casa di Nazareth conservi, anche sotto questo punto di vista, un simbolismo molto prezioso. Come sapete, questa Casa ha solo tre pareti: è una Casa aperta, dunque, è come un invito, è come un abbraccio aperto. Essa, cosi, ci dice: aprite anche voi le vostre case, le vostre famiglie, la vostra vita alla presenza del Signore.

Questa Casa sia aperta alla famiglia di Dio, a tutti i figli di Dio, ai fratelli e alle sorelle di Cristo! Lasciamoci sfidare, accettiamo la parola della Madre che ci dice: venite, venite nella mia Casa e diventate anche voi, ogni giorno della vostra vita, realmente dimora del Signore.


Questa Casa diventa così come una famiglia aperta, nella quale tutti i figli di Dio, tutte le creature di Dio sono anche fratelli e sorelle nostri. Maria, dunque, è “casa vivente” del Signore; la Casa di Nazareth è casa comune di tutti noi, perché, dove abita Dio tutti siamo “a casa”.


Questa Casa nazaretana nasconde un altro messaggio. Finora abbiamo detto che Dio non è un Dio astratto, puramente spirituale, lontano da noi: Dio si è legato alla terra, Dio ha una storia comune con noi, una storia palpabile, visibile, qui, in questi segni della sua storia e soprattutto nella Santa Chiesa e nei sacramenti.


La fede ci fa “abitare” ma ci fa anche “camminare”. Anche su questo punto la Casa nazaretana conserva un insegnamento importante. Quando i crociati hanno trasferito le pietre della Casa nazaretana dalla Terra Santa qui sulla terra italiana, hanno fissato il nuovo posto della Casa sacra su una strada. È una casa - mi sembra - molto strana, perché casa e strada sembrano escludersi: o casa o strada, vogliamo dire. Ma proprio così si esprime il messaggio vero di questa Casa, che non è una casa privata di una persona, di una famiglia, di una stirpe, ma sta sulla via di noi tutti: è una Casa aperta di noi tutti. La stessa Casa ci fa “abitare” e ci fa “camminare”.

La vita stessa è la casa della famiglia di Dio che è in pellegrinaggio con Dio, verso Dio, verso la casa definitiva e verso la “città nuova”. E qui possiamo essere ancora più concreti.


Tutti i santuari, i grandi santuari del mondo, hanno offerto sempre a persone di nazioni diverse, di razze, di professioni diverse questa esperienza preziosa della casa nuova della famiglia comune di tutti i figli di Dio. Questa esperienza della casa però presuppone l’esperienza di un cammino, l’esperienza del pellegrinaggio. Il pellegrinaggio è una dimensione fondamentale dell’esistenza cristiana.
Solo camminando, pellegrinando possiamo superare le frontiere delle nazioni, delle professioni, delle razze. Possiamo diventare uniti solo andando insieme verso Dio. Il significato di questo gemellaggio tra Loreto e Altötting si inserisce in questa realtà: ci dice lo stesso che dobbiamo andare insieme, dobbiamo divenire pellegrini dell’eterno, dobbiamo alzarci sempre di nuovo verso Dio, verso la pace divina, verso l’unità con Dio e la sua unica famiglia. 


dal sito del Santuario di Loreto


AVE MARIA PURISSIMA!