giovedì 17 novembre 2016

INCENTIVO PER L'ITALIA - E NON SOLTANTO - A RINGRAZIARE IL PADRE CELESTE PER TUTTA L'OPERA DI MARIA VALTORTA, PER MOLTI LA PIÙ GRANDE MISTICA DI TUTTI I TEMPI


2. IL LIBRO DEL SIGNORE.

1
L'Opera Gesù è il libro del Signore annunziato dal profeta Isaia
quando dice: "Cercate nel Libro del Signore e leggete" 13. Questo è il libro vivo e ispirato, il libro della Sapienza del Signore per insegnare
giustizia; è il libro di misteri svelati. È il libro per cercare il Signore,
perciò il profeta comanda di leggerlo

Libro vivo.

Dice Gesù a Maria Valtorta, ma possiamo applicarlo ad ognuno di
noi:
2
«Sì. Io ti ho dato il libro vivo e la conoscenza perfetta di Me e del
tempo mio. Tu non hai che guardare in te per ritrovare sulle pagine della

13 Is 34,16
21

memoria le immutabili verità della mia vita, di quella di mia Madre, e dei primi cristiani. Hai un mondo, il mio mondo di giusti, da contemplare e imitare; hai il roseto di virtù che è mia Madre, da rispecchiare in te; hai
soprattutto la conoscenza, che è vita, del Verbo incarnato, supremo
Dottore la cui dottrina è tutto. Sta' in pace. Né povertà, né persecuzioni,
né cecità fisica potrebbero rapirti il Vangelo che vive indelebile nella tua
memoria».
14

Libro ispirato.

Dice Gesù:
3
«L’opera che viene data agli uomini attraverso il piccolo Giovanni non è un libro canonico. Ma è sempre un libro ispirato, che Io dono per aiutarvi a comprendere certi passi dei canonici e specie a comprendere
ciò che fu il mio tempo di Maestro e a conoscermi: Io, Parola, nelle mie
parole. In verità Io vi dico che è libro ispirato, non essendo lo strumento capace a scrivere pagine che neppure comprende se Io stesso non gliele spiego per levargli il timore.
4 Eppure, poiché nelle ore che è "portavoce" - ossia è da Me preso come da Aquila divina che lo porta nel regno della Luce onde veda e torni fra voi portandovi gemme di soprannaturale valore - il piccolo Giovanni è nella sapiente verità del vedere e comprendere».
15

Libro della Sapienza.

Dice Gesù a Maria Valtorta:
5
«Vedi, Maria. Se Io ti avessi dato soltanto belle pagine, letterariamente parlando, non ti avrei dato nulla. Nulla di utile, nulla di vero valore. Una musica ti avrei dato. E anche una di quelle musiche vuote, leggere, che accarezzano soltanto l'udito ma non stimolano in chi le ascolta pensieri eletti. Perché vi è della musica che è preghiera, che è

14 Cfr. Maria Valtorta - I Quaderni del 1945-1950 - 18 aprile 1947 – ed. CEV.
15 Idem. 28 gennaio 1947.
22
lezione, che è elevazione a contemplazioni nel soprannaturale, musica nelle cui note veramente vibra e traspare non tanto il genio dell'uomo ma la potenza di Dio Creatore dell'uomo.
6 Ma Io parlo delle musiche vuote. A queste paragonerei le mie pagine
se fossero solo armonia di parole e perfezione stilistica. 
Ma in esse è la Sapienza. La mia Sapienza. 
È la Verità, la mia Verità. 
In esse è la Carità, la mia Carità. 
È Dio perciò. 
Ecco perché esse hanno valore. E guai a chi non cerca e non trova in esse questo loro vero valore!
7 Ora se al piccolo Giovanni Io ho voluto dare un aumento di
conoscenza di Me e del mio insegnamento, perché dovrebbe questo farvi increduli e duri? 
Aprite, aprite intelletto e cuore, e beneditemi per quanto vi ho dato»

16


Libro per insegnare Giustizia.

Dice Gesù a Maria Valtorta:
8
«Ricorda, è parola della Sapienza: "Coloro che insegnarono la
giustizia alla moltitudine risplenderanno come stelle per tutta l’eternità" 17.

9 Tu, reclusa e crocifissa, sei un piccolo maestro dal volto nascosto.
Non ti conosce il mondo. Ma ciò che hai imparato da Me per insegnarlo
al mondo ti ascrive alle schiere di coloro che insegnano la giustizia alla
moltitudine, e perciò ti verrà dato ciò che è promesso a Daniele per parola dell'arcangelo Gabriele, il messaggero di Dio» 18


Libro dei misteri svelati.

Dice Gesù:
10
«L'orrenda, cupa figura di Giuda che ho così ampiamente svelata
nell'Opera, non è stata senza scopo. Non mi sono certo dilettato
nell'illustrare quel viluppo di serpi infernali! Ma ve l'ho svelata perché,

16 Cfr. Maria Valtorta - I Quaderni del 1945-1950 - 30settembre 1947 – ed. CEV.
17 Daniele 12,3
18 Idem. 1 novembre 1947.
23
svelando essa, ho anche svelato come i maestri di spirito e anche i cristiani tutti devono agire verso i molti Giuda che popolano la Terra e che non c'è uomo che non incontri nel suo giorno mortale...
11 Ai maestri di spirito e a tutti Io dico: ‘Imitatemi in questo perfetto amore e possederete un amore simile a quello di Gesù, Maestro vostro’»


AMDG et BVM

La beata Vergine Maria. Ce ne parla sant'Antonio


14. La beata Vergine Maria. 

“Il re Salomone si costruì un trono”, ecc. 
La beata Maria è chiamata “il vero trono di Salomone”. Infatti dice l’Ecclesiastico di lei: “Io abito nei cieli altissimi e il mio trono è in una colonna di nubi” (Eccli 24,7). Come dicesse: Io che abito nei cieli altissimi, presso il Padre, ho scelto il mio trono in una madre poverella. 

Osserva che la beata Vergine, trono del Figlio di Dio, è chiamata “colonna di nubi”: colonna, perché sorregge la nostra fragilità; di nubi, perché immune dal peccato. 
E questo trono fu di avorio, perché la beata Maria fu candida per l’innocenza, e fredda perché esente dal fuoco della concupiscenza. 

In Maria ci furono i sei gradini, come è scritto nel vangelo di Luca: L’angelo Gabriele fu mandato... ad una vergine, ecc. (cf. Lc 1,26-38). 

Il primo gradino fu la verecondia (il pudore): “A queste parole ella rimase turbata”. Di qui il detto: All’adolescente viene raccomandata la verecondia, al giovane la giovialità, all’anziano la prudenza. 

Il secondo gradino fu la prudenza: sul momento non disse né sì né no, ma incominciò a riflettere: “Si domandava che senso avesse un tale saluto”. 

Il terzo gradino fu la modestia; infatti domandò all’angelo: “Come è possibile questa cosa?” 

Il quarto gradino fu la costanza nel suo santo proposito: “Io non conosco uomo”. 

Il quinto gradino fu l’umiltà: “Ecco, sono la serva del Signore”. 

Il sesto gradino fu l’obbedienza: “Avvenga di me quello che hai detto”. 

E questo trono fu rivestito dell’oro della povertà. O aurea povertà della Vergine gloriosa, che hai avvolto in misere fasce il Figlio di Dio e l’hai adagiato in una mangiatoia! E giustamente è detto che Salomone rivestì d’oro il trono: infatti la povertà riveste l’anima di virtù, invece la ricchezza la spoglia. 

“E la sommità del trono era rotonda nel suo lato posteriore”. Il culmine della perfezione della beata Vergine Maria fu la carità, per la quale, nel suo lato posteriore, cioè nell’eterna beatitudine, è assisa nel posto più eccelso, è rivestita della gloria più fulgente che non ha né principio né termine. 

“E da una parte e dall’altra due bracci, quasi a sorreggere il seggio”. 
Il seggio, cioè lo sgabello d’oro, fu l’umiltà della Vergine Maria, sorretta come da due braccia, cioè la vita attiva e la vita contemplativa. 
Ella fu ad un tempo Marta e Maria. 
Fu Marta quando andò in Egitto e poi ritornò in Galilea; fu Maria quando serbava tutte queste parole e le meditava nel suo cuore (cf. Lc 2,19). 

“E due leoni”, cioè Gabriele e Giovanni Evangelista, oppure Giuseppe e Giovanni Battista, “stavano in testa ai due bracci”: Giuseppe in riferimento alla vita attiva, Giovanni a quella contemplativa. 
“E dodici leoni più piccoli”, cioè i dodici apostoli, da una parte e dall’altra in atto di ossequio e venerazione davanti a lei. 

In verità, in verità, in nessun altro regno fu mai costruita un’opera simile, perché “come Maria mai ci fu donna al mondo, né mai ci sarà in futuro” (Liturgia). Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti, ma la beata Vergine Maria le ha superate tutte (cf. Pro 31,29). 
E un altro autore dice di lei: “Se anche la Vergine tacerà, nessun’altra voce al mondo potrà risuonare” 21 . 

15. “Quando ebbe finito di parlare, Gesù disse a Simone: “Prendi il largo e calate le reti per la pesca” (Lc 5,4). In latino è detto duc in altum, alla lettera: conduci dove è profondo. Altus significa sia profondo che alto, e quindi può riferirsi tanto a ciò che sta sopra come a ciò che sta sotto. Si può dire sia alto cielo, che alto mare. A Simone, come ad ogni vescovo, viene detto: “Prendi il largo!”, e subito dopo, ai loro suffraganei, ai loro collaboratori: “Calate le reti per la pesca”. 
Infatti, se la barca della chiesa non viene dal presule condotta al largo, cioè alle altezze della santità, i sacerdoti non calano le reti per la pesca, ma fanno cadere le vittime nel profondo. 

Leggiamo in Osea: “Ascoltate questo, o sacerdoti, contro di voi si fa il giudizio, perché siete diventati un laccio, invece di sorvegliare, e come una rete tesa sul Tabor. E avete fatto cadere le vittime nel profondo” (Os 5,1-2). 

Fa’ attenzione alle tre parole: laccio, rete e fatto cadere, perché esse indicano i tre vizi dei sacerdoti: la negligenza, l’avarizia, e la gola unita alla lussuria. 

La negligenza: “Siete diventati un laccio, invece di sorvegliare”. I sacerdoti hanno il compito di sorvegliare, ma, per la loro negligenza, i sudditi che sono loro affidati cadono nel laccio del diavolo (cf. 1Tm 6,9). 

L’avarizia: “E come una rete tesa sul Tabor”. Sul Tabor si trasfigurò il Signore, e il nome s’interpreta “luce che viene”, e sta a indicare l’altare sul quale avviene la trasfigurazione, cioè la transustanziazione delle specie del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo, e per mezzo di questo sacramento entra la luce nelle anime dei fedeli. 
Su questo monte Tabor i sacerdoti, anzi per meglio dire, i mercanti, tendono la rete della loro avarizia per ammassare denaro. Celebrano la messa per denaro, e se non fossero sicuri di ricevere i soldi, certamente non celebrerebbero la messa; e così il sacramento della salvezza lo fanno diventare strumento di cupidigia. [!!!]

La gola e la lussuria: “Avete fatto cadere le vittime nel profondo”. Le vittime sono le offerte dei fedeli, che essi fanno cadere nel profondo, che vuol dire procul a fundo, cioè lontano dal fondo, vale a dire le impiegano per soddisfare la gola e la lussuria. La vittima è così chiamata perché cade percossa da un colpo (lat. victima, ictu percussa cadit). Infatti con le offerte dei fedeli, che spellano, i sacerdoti ingrassano i loro cavalli e puledri, le loro concubine e i loro figli. La Legge comandava che il mamzer, cioè il figlio di una prostituta, non venisse ammesso al servizio della casa del Signore (cf. Dt 23,2). Ed ecco invece che i figli delle prostitute non solo entrano nella casa del Signore, ma perfino ne mangiano i beni. 


16. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: “Chi vuole amare la 21 Non si conosce l’autore di questa sentenza. vita e vedere giorni felici, trattenga la sua lingua dal male e le sue labbra da parole d’inganno...; il volto del Signore è contro coloro che fanno il male” (1Pt 3,10-12). Il beato Pietro prese queste parole dal salmo di Davide (cf. Sal 33,13-15), nel quale sono poste in evidenza tre cose: la gloria eterna dei giusti, la vita dei penitenti, e il castigo di chi fa il male. La gloria eterna: “Chi vuole amare la vita”; la vita dei penitenti: “trattenga la sua lingua”; il castigo di chi fa il male: “Il volto del Signore è contro coloro che fanno il male”. La vera penitenza consiste in queste sei pratiche: trattenere la lingua dal male: “Credo che la prima delle virtù consista nel tenere a freno la lingua; imponendo silenzio si corregge una mala lingua” (Catone). Non dire parole d’inganno. Sta scritto: “Signore, chi abiterà nella tua tenda?” Certamente “chi non ha tramato inganni con la sua lingua” (Sal 14,1.3). Evitare il male. Ma questo non basta, bisogna poi fare il bene. Cerca la pace: cerca la pace dentro, in te stesso; e se la troverai, avrai senza dubbio la pace anche con Dio e con il prossimo; e persèguila (conquistala) con la perseveranza finale. Sopra coloro che fanno tutto questo si posano gli occhi della misericordia del Signore, e gli orecchi della sua benevolenza sono aperti alle loro preghiere. Il castigo degli empi: “Il volto del Signore è contro coloro che fanno il male” (cf. Sal 33,1617). La parola latina vultus si può intendere come vultuositas, volto corrucciato e severo. Queste tre cose, cioè la gloria, la penitenza e il castigo, Gesù Cristo le proclamò alle turbe, dopo essere salito sulla barca, e il suo vicario non cessa di proclamarle ogni giorno a tutti i fedeli. Fratelli carissimi, preghiamo dunque lo stesso Signore Gesù Cristo, che faccia salire anche noi, per mezzo dell’obbedienza, sulla barca di Simone, ci faccia sedere sul trono d’avorio dell’umiltà e della castità, ci faccia condurre la nostra barca in alto mare, cioè alle altezze della contemplazione, ci faccia gettare le nostre reti per la pesca, per poter giungere con la maggior quantità possibile di buone opere a lui che è Dio sommamente buono. Ce lo conceda egli stesso, che vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.  
 Sermoni di sant'Antonio, V  Dom. dopo Pentecoste 

mercoledì 16 novembre 2016

ALLA SCUOLA DEL SANTO


13. L’anima. 

“Il re Salomone si costruì un trono”. 
Da notare che per intraprendere un’opera sono necessarie due cose: intelligenza e impegno; con l’intelligenza si progetta, con l’impegno si realizza. Gesù Cristo, che è sapienza e potenza di Dio (cf. 1Cor 1,24), si costruì un trono sul quale riposare. 

Il trono è l’anima del giusto, che Gesù Cristo con la sua sapienza ha creato, quando non esisteva; con la sua potenza l’ha ricreata, cioè redenta, quando era andata in rovina. 
Si costruì dunque un trono nel quale riposare, perché l’anima del giusto è la sede della sapienza (cf. Sap 7,27), e per bocca di Isaia disse: Su chi volgerò lo sguardo, se non sull’umile, sul pacifico e su chi teme le mie parole? (cf. Is 66,2); e Salomone: “Il re che siede in trono dìssipa ogni male con il suo sguardo” (Pro 20,8). 
Così Gesù Cristo, re dei re, siede in trono, cioè riposa nell’anima: distrugge ogni male della carne, del mondo e del diavolo con il suo sguardo, cioè con lo sguardo della sua grazia. 

“Costruì un grande trono d’avorio”, ecc. Vediamo quale sia il significato dell’avorio, dell’oro lucente, dei sei gradini, della sommità arrotondata, della parte posteriore, dei due bracci e del sedile, dei due leoni e dei dodici leoni più piccoli.

 Avorio, in lat. ebur, viene da barrus (parola indiana), elefante. 
C’è da osservare che tra gli elefanti e i draghi c’è un’eterna lotta, e vengono tesi gli agguati con questo stratagemma. 
I draghi, questi grossi serpenti, si nascondono vicino ai sentieri solitamente battuti dagli elefanti; lasciano passare i primi e assalgono gli ultimi affinché i primi non possano correre in aiuto. Dapprima li allacciano ai piedi perché, legate le zampe, impediscono loro di camminare. Allora gli elefanti si appoggiano ad alberi o a massi per uccidere i draghi schiacciandoli con il loro peso immane. Il motivo principale di questa lotta sta nel fatto che gli elefanti hanno il sangue piuttosto freddo, e quindi i draghi li assaltano con grandissima avidità quando il clima è torrido. E per questo motivo li assaltano soltanto quando gli elefanti sono appesantiti dall’aver bevuto a sazietà: le loro vene sono allora molto turgide e quindi, dopo averli atterrati, possono succhiare a sazietà. 
E si attaccano soprattutto agli occhi, che sono i più vulnerabili, oppure anche all’interno delle orecchie. 
Gli elefanti sono figura dei giusti e i draghi dei demoni, tra i quali ci sarà eterna guerra. 
I demoni tendono agguati ai piedi dei giusti, cioè ai loro sentimenti, e i giusti proprio con i sentimenti uccidono i draghi, e così questi vengono uccisi proprio là dove volevano inoculare il veleno. 
La focosa lussuria dei demoni tende a distruggere la castità dei santi; i demoni li assalgono specialmente se li vedono abbandonarsi ai piaceri della gola, la quale riesce a dar fuoco anche ai rigori della castità. 
E attaccano soprattutto gli occhi, perché sanno che gli occhi sono i primi strali della lussuria. 

Oppure: attaccano prima gli occhi, cioè la ragione e l’intelletto che sono gli occhi dell’anima, per estirparli, e tentano di chiudere gli orecchi, perché non possano sentire la parola di Dio. Giustamente quindi è detto: “Costruì un grande trono di avorio”: di avorio, in riferimento alla castità; grande, in riferimento alla sublimità della contemplazione. 

“Lo rivestì di oro splendente”. 
La veste dell’anima è la fede, che è d’oro se è illuminata dalla luce della carità. Di questa veste leggiamo nel libro della Sapienza: “Nella veste talare di Aronne c’era (disegnato) tutto l’orbe terracqueo” (Sap 18,24). Nella veste della fede, che opera per mezzo della carità, ci devono essere i quattro elementi, di cui tutto il mondo è formato: il fuoco della carità, l’aria della contemplazione, l’acqua della compunzione e la terra dell’umiltà. 

“E il trono aveva sei gradini”, che sono il ripudio del peccato, l’accusa del peccato stesso, il perdono dell’offesa ricevuta, la partecipazione alle sofferenze del prossimo, il disprezzo di sé e del mondo, il conseguimento della perseveranza finale. 

“La sommità del trono, sul lato posteriore, era rotonda”. 
La sommità del trono simboleggia il desiderio, di cui l’anima arde, di vedere Dio; l’anima sarà rotonda (cioè perfetta) nel lato posteriore, vale a dire alla fine della vita, perché passerà dalla speranza alla visione. 

Dice il salmo: “L’estremità del dorso della colomba splende di riflessi d’oro” (Sal 67,14). L’estremità del dorso della colomba, cioè dell’anima, è l’eterna beatitudine: splenderà di riflessi d’oro, splenderà cioè nella contemplazione della maestà divina. 

“E aveva due bracci, uno per parte, come per sostenere il sedile”, cioè lo sgabello che era d’oro. Il sedile è il simbolo dell’obbedienza, sorretta come da due braccia che sono la memoria della passione del Signore, e il ricordo della propria cattiveria. 

Alla fine di questi bracci stanno due leoni, vale a dire la speranza e il timore. La speranza sta presso il braccio della passione del Signore, sul cui esempio volentieri obbedisce, e per mezzo del quale spera di conseguire ciò in cui crede. E presso il braccio del ricordo della propria cattiveria sta il leone del timore, il quale, se manca l’obbedienza, minaccia il pericolo della morte eterna. 

“E da una parte e dall’altra dei sei gradini erano disposti sei piccoli leoni”. 
Essi raffigurano quelle dodici virtù che l’apostolo Paolo enumera nella sua lettera ai Galati: “Il frutto dello Spirito è la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la longanimità, la bontà, la benignità, la mansuetudine, la fede, la modestia, la castità e la continenza” (Gal 5, 22-23). 
Lo spirito del giusto, che è come il primo dei sei piccoli leoni, coltiva in se stesso queste dodici virtù. 
Domenica V dopo Pentecoste - Sermoni di Sant'Antonio di Padova


SCRITTI DEL P. EMMANUEL ANDRÈ


CAPITOLO V
L’UTILITÀ DELLA PAROLA
C’è, dice lo Spirito Santo, un tempo per tacere e un tempo per parlare. L’uomo di Dio deve saper discernere questi tempi, e quando viene il tempo di parlare bisogna ch’egli vigili per dire ciò che Dio vuole ch’egli dica, e ciò che le anime hanno diritto di aspettarsi da un inviato di Dio.
San Pietro, ammaestrando tutti i cristiani disse: «Chi parla, lo faccia come con parole di Dio» (1 Pt. 4,11). Ma s’egli avesse scritto ai soli sacerdoti, avrebbe detto senza dubbio: «Se il sacerdote parla, lo faccia con parole di Dio». Avrebbe cioè soppressa la parola «come».
Sul pulpito il sacerdote deve parlare come Dio stesso; fuori di là, come l’uomo di Dio.
È nota l’espressione di San Bernardo riguardo alle parole buffe: «In ore saecularium nugae nugae sunt; in ore sacerdotum blasphemiae». La parola del sacerdote dev’essere sempre senza affettazione, affabile senza trivialità, dolce senza adulazioni, grave senza durezza, deve richiamare alle anime il ricordo di Nostro Signore del quale si dice: «Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!» (Gv. 7,46).
CAPITOLO VI
LA CARITÀ COMPASSIONEVOLE 
VERSO TUTTI
Il sacerdote è debitore a Dio e al prossimo: a Dio deve la preghiera, al prossimo deve una tenera e compassionevole carità.
Nostro Signore che nell’Evangelo ci ha dato un si grande numero di divini insegnamenti di tenerezza verso i peccatori e ci ha insegnato le parabole si commoventi del figlio prodigo, della pecorella sperduta, la storia della donna adultera, è egli stesso il modello della tenera carità che deve avere il pastore delle anime.
«Che il pastore, scrive San Gregorio, sia avvicinato da tutti i suoi fedeli per la sua compassione: che con le viscere della sua misericordia attiri a sé e prenda su di sé per caricarle, le infermità di tutti. Che il pastore si mostri in modo tale che i fedeli non abbiano alcuna ripugnanza a rivelargli quanto hanno di più segreto, e quando i piccoli sono agitati dai flutti delle tentazioni facciano ricorso a lui, come al seno d’una madre, «quas; ad matris sinum!».
CAPITOLO VII
L’UNIONE A DIO NELLA PREGHIERA
Quando la carità compassionevole, la tenerezza paterna e anche materna deve avvicinare il pastore ai suoi fedeli, altrettanto lo zelo della preghiera deve mantenerlo unito a Dio.
Il pastore è l’uomo di Dio: non può nulla se non con l’aiuto della grazia: deve ricevere da Dio le istruzioni di Dio: da Dio deve sollecitare le grazie necessarie e a sé e al suo gregge. Come farà se prima di tutto egli non sarà uomo di preghiera?
Dice San Paolo: Noi siamo gli ambasciatori di Gesù Cristo: «Pro Christo legatione fungimur» (2 Cor. 5,20). Ora, ogni ambasciatore deve ricevere le istruzioni di colui che lo manda per farne gl’interessi: perciò come il sacerdote potrà adoperarsi per gl’interessi di Dio presso le anime se da Dio non ebbe una parola? E come avrà egli una parola da Dio se non con la preghiera?
E qui ritorna l’affermazione di San Pietro che abbiamo più volte ricordata: «Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola» (At. 6,4). Dove si vede che l’Apostolo pone prima di ogni cosa la preghiera nella quale riceverà le luci di Dio che poi trasmetterà ai fedeli con la predicazione. «Preghiera e ministero della parola». La parola che non è stata «pregata» sarà sempre un vano rumore; impotente e infeconda: invece di essere la parola di Dio sarà la parola dell’uomo. Perciò, prima di tutto e sopra tutto: bisogna pregare.
CAPITOLO VIII
L’UMILTÀ
Il sacerdote ha doppiamente bisogno della grazia di Dio: ne ha bisogno per se stesso, ne ha bisogno per il suo gregge. Siccome poi Iddio, seguendo la più che saggia legge della sua misericordia e della sua giustizia, resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili, ne consegue che il sacerdote ha una duplice necessità, una necessità più viva, di quanto ne hanno i fedeli, di essere veramente umile. Ha bisogno di conoscere le vie di Dio e i suoi segreti; ha bisogno di conciliarsi la grazia di Dio e di conciliarla alle anime delle quali è pastore. Come potrà egli essere mediatore associato a Dio se non è umile? Forse Iddio si rivelerà all’uomo che vuol penetrare nei suoi segreti per rapirgli la sua gloria e attribuirla a sé stesso? Farà Iddio canale della sua grazia l’uomo che col suo orgoglio si fa nemico della grazia? Come potrà trattare con Dio della riconciliazione delle anime colpevoli chi pone sé stesso in rivolta con Dio col suo orgoglio?
Senza umiltà non c’è ministero possibile: Dio certamente ci vuole elargire la sua grazia, ma non vuole che lo rapiniamo della sua gloria: e dal momento che un sacerdote cerca la gloria per sé, cessa di essere il mediatore della grazia: «Dio resiste ai superbi; agli umili invece dà la sua grazia» (Giac. 4,6).
CAPITOLO IX
DELLO ZELO DELLA GIUSTIZIA
Lo zelo della giustizia è perfetta abnegazione agli interessi di Dio e negli interessi di Dio sono necessariamente compresi gl’interessi delle anime: perché Dio vuole la salvezza delle anime; è lo stesso interesse di Dio, dal momento che lì sta la sua maggior gloria.
Gl’interessi di Dio sovente sono compromessi dagli uomini: in questo caso il pastore, che sta tra Dio e gli uomini, si troverà spesse volte in lotta con gli uomini per difendere gl’interessi di Dio. Lotta che non è senza difficoltà: poiché se il pastore deve sé stesso a Dio di cui è l’uomo, deve anche sé stesso alle anime delle quali è pastore, e pastore responsabile. Se egli vede gl’interessi di Dio, per così dire con un occhio solo, si affaticherà in un modo imperfetto e comprometterà le anime: e, per altro, se mira a non compromettere le anime, potrà tuttavia mancare gl’interessi di Dio.
La difficoltà è grande, sovente estrema: vi è un pericolo d’ambo i lati. Da un lato il pastore dovrà temere di venir meno nei riguardi di Dio e dall’altro di mancare verso le anime.
In un tale modo di essere le cose, lo zelo non è un consigliere sufficiente: può, se è solo, far cadere negli eccessi e può compromettere lo stesso bene che cerca. Con lo zelo ci vuole anche la scienza; con la scienza, l’umiltà, la purezza delle vedute e dell’intenzione; cose tutte che il pastore non troverà mai se non è prima di tutto uomo di preghiera: «Orationi… instantes erimus».
CAPITOLO X
IL SACERDOTE DEV’ESSERE 
UOMO INTERIORE
La molteplicità delle cose che fanno parte delle sollecitudini di un pastore è necessariamente grandissima: le persone e le cose, i corpi e le anime, gl’interessi spirituali dei fedeli e quelli temporali della chiesa, tutto pesa insieme sul pastore.
Tutti gli avvenimenti possono avere un influsso sugli interessi delle anime e il pastore deve necessariamente vigilare su tutto. Tutte le età, tutte le condizioni, tutti i buoni e tutti gli altri devono essere per lui oggetto d’incessante sollecitudine. Pero non ci può essere lì il pericolo di lasciarsi assorbire dalle sollecitudine esterne, dalle preoccupazioni delle persone e delle cose?
La carità che il pastore deve al suo gregge non potrebbe essere per lui una causa, un pretesto e un’occasione per lasciarsi assorbire nella cura delle cose esteriori, della salute, degli interessi temporali e di qualsiasi altro interesse?
Un pastore deve pensare un po’ a tutto, tener conto di tutto, estendere la sua carità a tutto, ma questo tutto non
deve punto assorbirlo. Sopra questo tutto che è il gregge, c’è il tutto che è Dio, e il sacerdote deve applicarsi a Dio più che a tutto, e non potrà essere veramente utile a tutto a condizione che sia tutto d’Iddio. Il pastore troverà in Dio la luce, la misura, il vero zelo, la discrezione e le virtù necessarie per transitare in mezzo alle sollecitudini esterne del ministero per esser utile al gregge senza nuocere a sé stesso; per dedicarsi al prossimo senza cessare di stare unito con Dio.
CAPITOLO XI
IL SACERDOTE 
DEV’ESSERE DISINTERESSATO
«Avaro nihil est scelestius», dice lo Spirito Santo (Eccl. X,9). Noi possiamo dire anche che nulla è più contrario allo spirito del ministero quanto l’amore al denaro.
Dio non è né oro, né denaro e l’uomo del denaro non può essere l’uomo di Dio.
Il sacerdote, se fosse possibile, non dovrebbe toccare per terra, «Perché è il messaggero del Signore degli eserciti» (Ml. 2,7).
Messaggero celeste, ambasciatore di Dio, il pastore deve aspirare soltanto al cielo e volere soltanto Dio; l’eredità da lui scelta quando divenne chierico: «Il Signore è mia parte di eredità» (Sal. 16,5).
Il pastore dedito a Dio e alle anime non può essere preso dalle sollecitudini del bene e del mangiare: «Non affannatevi dunque dicendo: che cosa mangeremo? Che cosa berremo?» (Mt. 6,31).
Il pastore che si rimettesse semplicemente per tutte queste cose alle cure della Provvidenza, non mancherebbe di nulla.
Questo esattamente accadde per gli Apostoli. Nostro Signore li aveva inviati a predicare, e li aveva inviati con nulla, e non manco loro alcunché: «Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa? Risposero: nulla» (Lc. 22,35-6).
Il pastore riceverà da Dio il suo pane quotidiano, e non riceverà soltanto per sé stesso, ma anche per i suoi poveri. Riceverà con una mano e darà con l’altra; e avrà tanto più da dare quanto più si rimetterà soltanto a Dio per ciò che gli occorrerà. Testimone San Vincenzo de’ Paoli, l’uomo che in questo mondo ha dato di più.

martedì 15 novembre 2016

14 NOVEMBRE: TUTTI I SANTI CARMELITANI.

TUTTI I SANTI DELL'ORDINE (FESTA)

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Festa: 
 Lunedì, 14 Nov 2016
“Come il profeta Elia, anche tutti i Santi del Carmelo sono stati plasmati a una scuola di fuoco spirituale. L’intima relazione dell’Ordine con Maria, poi, trova la sua espressione più vera nell’esperienza d’amore e tale amore rende la storia dell’Ordine un canto di lode al nostro Dio”.

Riceviamo in dono un’immensa schiera di fratelli e sorelle che hanno consacrato la vita a Dio, accogliendo gli insegnamenti del divino Maestro e imitando la sua vita; fratelli e sorelle che si sono impegnati al servizio della Vergine Maria nella preghiera, nella donazione di se stessi secondo lo stile del vangelo, nell’amore per le anime. A volte, tale amore, ha ricevuto il sigillo del sangue.
Li vediamo davanti ai nostri occhi: gli eremiti abitatori del Monte Carmelo, i Mendicanti delle prime comunità medievali, i maestri e i predicatori, i missionari e i martiri; oppure le monache che hanno contribuito a far crescere il popolo di Dio con la misteriosa fecondità della loro vita contemplativa. O ancora le religiose, che hanno reso visibile il volto di Cristo ai fratelli e alle sorelle nel mondo attraverso il loro apostolato negli ospedali o nelle scuole, soprattutto nelle terre di missione. O infine i secolari che vivendo nel mondo hanno saputo incarnare lo spirito del Carmelo. Tutta la Famiglia Carmelitana che già vive nella Patria, guidata  da Maria sua Madre, costituisce tutta la nostra gioia e la nostra lode al Padre del Cielo.
Possono essere santi grandi, che tutta la Chiesa venera e invoca nella sua Liturgia, oppure santi umili, solo da pochi conosciuti fuori dell’Ordine, ma tutti propongono, attraverso la loro vita, il segreto della santità nel rapporto intimo con Dio, che si prolunga poi nell’impegno di ogni giorno nella comunione di fede e di amore con l’Immacolata Madre di Dio, Patrona del Carmelo. Lei è una formatrice insuperabile degli amici di Cristo; con l’abito dell’Ordine li riveste, affinché possano riflettere le sue virtù sia interiormente che esteriormente.
Tutti i Santi carmelitani si sono lasciati plasmare secondo l’immagine della beata Vergine Maria, hanno vissuto in intimità con Lei e sono stati suoi apostoli. E’ da Lei che hanno appreso a vivere in Cristo, a vivere dell’amore di Cristo; da lei si sono lasciati ispirare per consacrare la loro vita alla Chiesa e alle anime. Insomma, la vita della Vergine ha un’importanza assoluta nell’esperienza di tutti i Santi carmelitani.
Preghiamo affinché l’esempio di questi Santi susciti nuove generazioni di fratelli e sorelle santi; tanti che, come loro, vivendo nell’ossequio di Gesù Cristo e servendo a Lui con cuore puro e buona coscienza, sappiano dedicarsi giorno e notte, insieme a Maria, alla contemplazione della Parola e al servizio generoso dell’umanità. Infine chiediamo che questo esempio davvero ci contagi, comunicandoci un amore immenso e concreto per Cristo, per la Chiesa e per il mondo intero.


La Chiesa è indefettibilmente santa: Cristo l'ha amata come sua sposa e ha dato se stesso per lei, al fine di santificarla; perciò tutti nella Chiesa sono chiamati alla santità. La Chiesa predica il mistero pasquale nei santi che hanno sofferto con Cristo e con lui sono glorificati, propone ai fedeli i loro esempi che attraggono tutti al Padre per mezzo di Cristo e implora per i loro meriti i benefici di Dio. Oggi in un'unica festa si celebrano, insieme ai santi carmelitani canonizzati, tutti i membri giusti della famiglia del Carmelo di ogni lingua, di ogni razza e di ogni nazione, i cui nomi sono scritti nel libro della vita.

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