domenica 15 novembre 2015

BISOGNA RIMBOCCARSI LE MANICHE



di Giorgio Mariano

Nel II secolo a.C. un sacerdote, di nome Mattatia (in ebraico «dono di Dio»), alla vista dell’apostasia generale del popolo d’Israele, dal Sommo Sacerdote all’ultimo israelita, pianse su Gerusalemme, stracciandosi le vesti per la corruzione, l’idolatria e il tradimento perpetrato da tutto il popolo contro la fede dei padri.

Vennero, dunque, a chiamarlo i messaggeri del re Antioco Epìfane, per convincerlo ad accettare i “nuovi” riti, di sottomettersi, per obbedienza, alla pratica del nuovo culto. “Ma Mattatia rispose a gran voce: «Anche se tutti i popoli nei domini del re lo ascolteranno e ognuno si staccherà dal culto dei suoi padri e vorranno tutti aderire alle sue richieste, io, i miei figli e i miei fratelli cammineremo nell'alleanza dei nostri padri; ci guardi il Signore dall'abbandonare la legge e le tradizioni; non ascolteremo gli ordini del re per deviare dalla nostra religione a destra o a sinistra”. (1Mac 2, 19-22).

A ben vedere, questo brano del primo libro dei Maccabei, riporta delle forti analogie con gli avvenimenti dei nostri tempi.


Quello che è successo ai Frati Francescani dell’Immacolata, per esempio, è semplicemente sconcertante e doloroso, e tuttavia è ancora più sconvolgente la loro risposta a questa ingiusta oppressione: hanno deposto le armi, hanno scelto la non belligeranza. 

L’atteggiamento che hanno sposato è quello di obbedire all’ingiustizia e contemporaneamente affidarsi ciecamente all’Immacolata la quale, a dir loro, li libererà, prima o poi, da questa persecuzione. 

Premesso che la devozione e la fiducia sconfinata nella Santa Madre di Dio è santissima nonché doverosa per ogni battezzato, tuttavia la Madonna non ci priva del nostro intelletto, né la devozione a Lei ci esime dal resistere alle ingiustizie e di rimboccarci le maniche dinanzi all’errore e al sopruso: occorre ispirarsi davvero a  San Massimiliano Kolbe. In parole povere, “bisogna dar battaglia perché Dio conceda vittoria!” (Santa Giovanna d’Arco)

L’immobilismo apparentemente pio ed eroico in cui i Francescani dell’Immacolata si sono rinchiusi sembra essere più un cieco fideismo che mal si concilia con la “Vera” e santa obbedienza cattolica. I frati vorrebbero cioè rimanere fedeli all’autorità, che li ha privati della Santa Messa di sempre, pur riconoscendo la palese ingiustizia di tale comando. 
Ma l’obbedienza, per definizione, non consiste nell’accettare controvoglia, con critiche, con mormorazioni e giudizi un decreto dell’autorità, bensì, per essere vera obbedienza, deve tendere alla conformazione della volontà del sottoposto con quella del suo superiore. Ossia, il religioso deve pensare come il superiore o almeno tendere alla totale identità di volontà (cfr. Summ. Theol.). Ora, posto che i frati perseguitati si considerano appunto “perseguitati”, si deduce che essi non accettano (moralmente) il provvedimento della Suprema autorità contro di essi, riconoscendone la palese ingiustizia, eppure l’accettano sul piano pratico. 

Bè cari frati, se credete così di assolvere al precetto dell’obbedienza, vi sbagliate di grosso. 

Questa non è l’obbedienza cattolica, è falsa obbedienza. Dunque, se volessimo essere veramente puristi e vestire i panni dell’avvocato del Diavolo, dovremmo richiamarvi ad una più piena obbedienza, ad una più piena “comunione”, ad un vero “sentire cum Ecclesia”. 
Ma se i frati chinano il capo dinanzi a tale provvedimento, ne riconoscono la giustezza, dunque perdono ogni diritto di lamentarsi, e di compatirsi, leccandosi le ferite che hanno voluto autoinfliggersi. 


Inoltre, sembra che i nostri frati si dimentichino che fu lo stesso Papa Benedetto XVI a smascherare la totale falsità di questa prospettiva, dichiarando che l’antica Messa non “è mai stata abrogata” e che il suo uso da parte di qualsiasi sacerdote all’interno della Chiesa “è stato sempre permesso”, non potendo, neppure il Papa, in alcun modo eliminarla o abrogarla, né, tantomeno, sostituirla (cfr. CCC n. 1125). 
Infatti è stato proprio a causa di un falso principio di obbedienza all’autorità ecclesiastica che la sovversione della Fede Cattolica è stata così rapida e diffusa. 


Fu proprio lo stesso Papa Benedetto, quando era ancora il Cardinal Ratzinger, a confutare questa erronea teoria: “Il Papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione, e perciò il primo garante dell’obbedienza… Per cui, per quanto concerne la Liturgia, ha il compito di un giardiniere, e non quello di un tecnico che costruisce nuove macchine e butta quelle vecchie[2]Dobbiamo dare atto a S.S. Benedetto XVI del valido e coraggioso tentativo di ritorno sui binari della Tradizione e, contemporaneamente, dobbiamo tenere conto della violenta e tempestiva offensiva che i suoi oppositori hanno riversato su di lui, tanto da costringerlo a una [apparente] rinuncia papale [con la quale li ha giocati tutti].


Ciò che è vero per il Papa – ovvero che il suo potere e la sua autorità sono limitate dall’obbedienza alla Fede – è ancor più vero per tutti i suoi sottoposti. Eppure tra le fila di questi ultimi, in quest’epoca post-conciliare, l’obbedienza alla Fede è stata largamente rimpiazzata dall’obbedienza all’autorità gerarchica, a loro uso e consumo. Il positivismo (la mia volontà è legge) ed il nominalismo (ciò che voglio è giusto perché lo voglio io) hanno invaso la Chiesa, facendo in modo che gli abusi della gerarchia venissero coperti in virtù dell’obbedienza, che ormai sembra essere diventata l’unica e sola virtù su cui insistono le autorità ecclesiastiche”[3]

Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”(5,29), e facilmente si obbietterà che Dio parla per mezzo del Papa, di un Concilio o della gerarchia, eppure bisogna ricordare anche che Dio non può comandare cose contraddittorie, Dio non “evolve”, Egli è Immutabile per essenza. “Lo giuro su me stesso, dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile”(Is  45,23), con buona pace del card. Kasper e del sua fanta-teologia schellinghiana. 

Dio non dice un giorno di credere in una cosa e il giorno dopo di non crederla più: Dio non cambia, rimane stabile per sempre, e con Lui coloro che rimangono fedeli alla dottrina immutabile: “Veritas Domini manet in aeternum”(Esdr 3,12). Non solo, per quanto riguarda la Fede, che è il presupposto della Speranza e della Carità, l’Apostolo dice: “se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele perché non può rinnegare se stesso”(2Tm 2,12-13). Dio cioè non può contraddirsi, non può rinnegare ciò che ha già dichiarato.




Ma riprendiamo per un secondo il passaggio del libro dei Maccabei: “Si avvicinò un Giudeo alla vista di tutti per sacrificare sull'altare in Modin secondo il decreto del re. Ciò vedendo Mattatia arse di zelo; fremettero le sue viscere ed egli ribollì di giusto sdegno. Fattosi avanti di corsa, lo uccise sull'altare; uccise nel medesimo tempo il messaggero del re, che costringeva a sacrificare, e distrusse l'altare. Egli agiva per zelo verso la legge come aveva fatto Pincas con Zambri figlio di Salom. La voce di Mattatia tuonò nella città: «Chiunque ha zelo per la legge e vuol difendere l'alleanza mi segua!». Fuggì con i suoi figli tra i monti, abbandonando in città quanto avevano”(1Mac2,23-28).

Torniamo, per concludere, ai Maccabei.
 In seguito alla persecuzione, “molti che ricercavano la giustizia e il diritto scesero per dimorare nel deserto con i loro figli, le loro mogli e i greggi, perché si erano addensati i mali sopra di essi”(29-30). Ora, i mali addensatisi sopra i Francescani dell’Immacolata perché ricercavano sinceramente la giustizia sono innegabili, e molti di loro sono attualmente “nascosti” e braccati come lepri dal cacciatore. E tuttavia, qui non si lotta contro gli uomini ma contro le potenze infernali, le quali non si fermeranno finché non avranno annientato coloro che gli si oppongono. 

Ma quale fu la reazione dei “fedeli” d’Israele dinanzi alla battaglia? «Non usciremo, né seguiremo gli ordini del re, profanando il giorno del sabato[…]Moriamo tutti nella nostra innocenza. Testimoniano per noi il cielo e la terra che ci fate morire ingiustamente» (34,37). Apparentemente sembrerebbe una morte eroica e santa, giustificata dalla loro “obbedienza” legalistica al giorno di sabato nel quale era proibito combattere ed uccidere. Eppure, all’udire la fine di questi “pii” giudei, Mattatia dichiarò: «Se faremo tutti come hanno fatto i nostri fratelli e non combatteremo contro i pagani per la nostra vita e per le nostre leggi, ci faranno sparire in breve dalla terra». Presero in quel giorno questa decisione: “«Noi combatteremo contro chiunque venga a darci battaglia in giorno di sabato e non moriremo tutti come sono morti i nostri fratelli nei nascondigli» (40-41). Dunque, alla luce di tali riflessioni, voglio concludere con una santa esortazione, con una chiamata alle armi (spirituali).

Frati Francescani dell’Immacolata e voi tutti sacerdoti
 timidi, (comprensibilmente) impauriti: combattete la buona battaglia, difendete con fortezza la Santa Messa, quella tramandataci dalla Sacra Tradizione, quella dei Santi, quella immutabile, quella che è perseguitata, quella che è stata messa al bando, quella che il Maligno non sopporta. 

A tal proposito, è opportuno chiedersi seriamente: se la Messa moderna è “sostanzialmente” uguale all’antica, se la grazia è la stessa, perché il Maligno la tollera? Perché non la perseguita? Perché non gli dà fastidio? Pertanto, sacerdoti e religiosi tutti, amanti della Tradizione e perciò stesso amanti della Chiesa, e ancor più amanti di Cristo: unitevi insieme, alzatevi a difesa dell’unico Vero Innocente, dell’Unica Vera Vittima, dell’Unico Vero Perseguitato, Gesù Cristo Signore Nostro! 


Mi rivolgo qui anche a quei vescovi e cardinali che sotto Ratzinger si dimostrarono coraggiosi e che ora si sono un po’ “contratti”, ora che, invece, ce n’è più bisogno. Non siate quei cani muti, di cui parla Isaia, ma siate, al contrario, pastori che difendono il gregge. “Salire contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera parola in difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del Signore, è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei malvagi. Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle col proprio silenzio?” (San Gregorio Magno, La Regola pastorale).

A tal proposito c’è una nota storiella popolare molto istruttiva, che narra di un uomo molto fervente che stava affogando nel mezzo di un lago. Costui implorava la Divina Provvidenza che lo salvasse e lo liberasse dalla morte: confidava fermamente che Dio lo avrebbe salvato. Passò, dunque, una barca che gli tese un remo, ma lui rispose: “no grazie, aspetto che Dio mi salvi” e, intanto, annaspava e sperava…passò dunque una seconda barchetta che, allo stesso modo, si offrì di portarlo in salvo, ma egli replicò: “no grazie, sono sicuro che verrà Dio a salvarmi” e, intanto, beveva acqua e continuava a confidare…passò infine una terza scialuppa di salvataggio ma egli: “mi salverà Dio, ne sono certo”. Alla fine, l’uomo fidente, morì affogato. Quando si trovò al cospetto di Dio chiese indispettito: “perché non sei venuto a salvarmi?” e l’Onnipotente rispose: “ma come? Sono passato tre volte e mi hai rifiutato!”.
Morale della favola, bisogna rimboccarsi le maniche, e combattere la battaglia del nostro tempo, e non ritirare i remi in barca nascondendoci dietro un’apparente “pia” obbedienza. Prima di tutto, dice San Tommaso: “la Carità è una virtù più grande dell’obbedienza”[1].



Quello appena visto è l’esempio di obbedienza che non pochi santi si sono trovati a dover opporre a decreti ingiusti provenienti, non di rado, anche dalla Suprema Autorità ecclesiastica (Sant’Ambrogio, Sant’Ilario, Sant’Atanasio, San Massimo, Santa Caterina, Santa Brigida ecc…). “Poiché tutta l’autorità proviene da Dio, noi obbediamo agli uomini solo e unicamente perché la loro autorità si basa in ultima analisi su quella del Signore. Questa obbedienza, laddove non vada contro la legge di Dio, è in realtà un atto di giustizia, un dare agli altri, e a Dio in primo luogo, ciò che è dovuto. 
Ma il Signore non dà a nessun uomo l’autorità di impartire un ordine che contravvenga ai comandi e ai precetti da Lui Stesso fornitici, come quelli contenuti nei Dieci Comandamenti o nel Vangelo, che costituisce la “legge positiva” di Cristo Re. 
Ne consegue che nessun uomo abbia il diritto di obbedire ad un ordine simile. Per di più, tutta l’autorità in terra è limitata dalla giustizia.Neanche il Papa dispone di un’autorità illimitata, perché i suoi limiti provengono dalla Rivelazione, dalle Scritture, dalla Tradizione e dagli insegnamenti autentici dal Magistero Ordinario ed Universale, nonché da quello Straordinario con le sue definizioni dogmatiche[4].

(10 ottobre 2014)



[1] Summa Theologiae, II-II, Q. 104, Art. 3
[3] GRUNER N., Il Terzo Segreto e il problema della falsa obbedienza.
[4] Ibidem.

AVE MARIA!


Chiesa e post concilio: don Elia. Credo la Chiesa

: Cristo ha dotato la Chiesa di una struttura che sarebbe rimasta immutabile nella sua essenza, perché inaccessibile alle forze fluttuanti re...






sabato 14 novembre 2015

Ho visto il sole che usciva dal SS.mo Sacramento


26.II.37.!!! Oggi ho visto che i sacri misteri venivano celebrati senza paramenti liturgici e nelle case private, per una tempesta temporanea; ed ho visto il sole che usciva dal SS.mo Sacramento e si sono spente, cioè sono rimaste offuscate, le altre luci e tutti avevano gli occhi rivolti a quella luce. Ma in questo momento non ne comprendo il significato. 

Vado attraverso la vita fra arcobaleni e tempeste ma con la fronte fieramente alta, perché sono figlia del Re, perché sento che il sangue dì Gesù circola nelle mie vene, ed ho posto la mia fiducia nella grande Misericordia del Signore. 

Ho pregato il Signore perché una certa persona venga oggi da me, per poterla incontrare un'altra volta, e questo sarà per me il segno che è chiamata ad entrare nel convento che Gesù mi ordina di fondare. E, cosa singolare, quella persona è venuta ed io ho cercato di plasmarla un po' interiormente. Ho cominciato indicandole la via del rinnegamento di sé e del sacrificio, che ha accettato volentieri. Ma ho messo tutta questa faccenda nelle mani del Signore, affinché egli diriga tutto come Gli piace. 

Oggi quando ho ascoltato per radio il canto: « Buona notte, o Sacro Capo del mio Gesù », tutto ad un tratto il mio spirito si è immerso in Dio e l'amore di Dio ha inondato la mia anima. Per un momento ho trattato intimamente col Padre Celeste.  
AMDG et BVM

"Chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino"


BENEDETTO XVI
   UDIENZA GENERALE  
Aula Paolo VI
Mercoledì, 20 giugno 2007
Sant’Atanasio di Alessandria

Cari fratelli e sorelle,
continuando la nostra rivisitazione dei grandi Maestri della Chiesa antica, vogliamo rivolgere oggi la nostra attenzione a sant’Atanasio di Alessandria. Questo autentico protagonista della tradizione cristiana, già pochi anni dopo la morte, venne celebrato come "la colonna della Chiesa" dal grande teologo e Vescovo di Costantinopoli Gregorio Nazianzeno (Discorsi 21,26), e sempre è stato considerato come un modello di ortodossia, tanto in Oriente quanto in Occidente. Non a caso, dunque, Gian Lorenzo Bernini ne collocò la statua tra quelle dei quattro santi Dottori della Chiesa orientale e occidentale – insieme ad Ambrogio, Giovanni Crisostomo e Agostino –, che nella meravigliosa abside della Basilica vaticana circondano la Cattedra di san Pietro.

Atanasio è stato senza dubbio uno dei Padri della Chiesa antica più importanti e venerati. Ma soprattutto questo grande santo è l’appassionato teologo dell’incarnazione del Logos, il Verbo di Dio, che – come dice il prologo del quarto Vangelo – "si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14). Proprio per questo motivo Atanasio fu anche il più importante e tenace avversario dell’eresia ariana, che allora minacciava la fede in Cristo, ridotto ad una creatura "media" tra Dio e l’uomo, secondo una tendenza ricorrente nella storia e che vediamo in atto in diversi modi anche oggi. Nato probabilmente ad Alessandria, in Egitto, verso l’anno 300, Atanasio ricevette una buona educazione prima di divenire diacono e segretario del Vescovo della metropoli egiziana, Alessandro. Stretto collaboratore del suo Vescovo, il giovane ecclesiastico prese parte con lui al Concilio di Nicea, il primo a carattere ecumenico, convocato dall’imperatore Costantino nel maggio del 325 per assicurare l’unità della Chiesa. I Padri niceni poterono così affrontare varie questioni, e principalmente il grave problema originato qualche anno prima dalla predicazione del presbitero alessandrino Ario.

Questi, con la sua teoria, minacciava l’autentica fede in Cristo, dichiarando che il logos non era vero Dio, ma un Dio creato, un essere "medio" tra Dio e l’uomo e così il vero Dio rimaneva sempre inaccessibile a noi. I Vescovi riuniti a Nicea risposero mettendo a punto e fissando il "Simbolo di fede" che, completato più tardi dal primo Concilio di Costantinopoli, è rimasto nella tradizione delle diverse confessioni cristiane e nella liturgia come il Credo niceno-costantinopolitano. In questo testo fondamentale – che esprime la fede della Chiesa indivisa, e che recitiamo anche oggi, ogni domenica, nella Celebrazione eucaristica – figura il termine greco homooúsios, in latino consubstantialis: esso vuole indicare che il Figlio, il logos, è "della stessa sostanza" del Padre, è Dio da Dio, è la sua sostanza, e così viene messa in luce la piena divinità del Figlio, che era negata dagli ariani.

Morto il Vescovo Alessandro, Atanasio divenne, nel 328, suo successore come Vescovo di Alessandria, e subito si dimostrò deciso a respingere ogni compromesso nei confronti delle teorie ariane condannate dal Concilio niceno. 
La sua intransigenza, tenace e a volte molto dura, anche se necessaria, contro quanti si erano opposti alla sua elezione episcopale e soprattutto contro gli avversari del Simbolo niceno, gli attirò l’implacabile ostilità degli ariani e dei filoariani. Nonostante l’inequivocabile esito del Concilio, che aveva con chiarezza affermato che il Figlio è della stessa sostanza del Padre, poco dopo queste idee sbagliate tornarono a prevalere – in questa situazione persino Ario fu riabilitato –, e vennero sostenute per motivi politici dallo stesso imperatore Costantino e poi da suo figlio Costanzo II. Egli, peraltro, che non si interessava tanto della verità teologica quanto dell’unità dell’Impero e dei suoi problemi politici; voleva politicizzare la fede, rendendola più accessibile – secondo il suo parere – a tutti i suoi sudditi nell’Impero.

La crisi ariana, che si credeva risolta a Nicea, continuò così per decenni, con vicende difficili e divisioni dolorose nella Chiesa. E per ben cinque volte – durante un trentennio, tra il 336 e il 366 – Atanasio fu costretto ad abbandonare la sua città, passando diciassette anni in esilio e soffrendo per la fede. Ma durante le sue forzate assenze da Alessandria, il Vescovo ebbe modo di sostenere e diffondere in Occidente, prima a Treviri e poi a Roma, la fede nicena e anche gli ideali del monachesimo, abbracciati in Egitto dal grande eremita Antonio con una scelta di vita alla quale Atanasio fu sempre vicino. 
Sant’Antonio, con la sua forza spirituale, era la persona più importante nel sostenere la fede di sant’Atanasio. Reinsediato definitivamente nella sua sede, il Vescovo di Alessandria poté dedicarsi alla pacificazione religiosa e alla riorganizzazione delle comunità cristiane. Morì il 2 maggio del 373, giorno in cui celebriamo la sua memoria liturgica.

L’opera dottrinale più famosa del santo Vescovo alessandrino è il trattato Sull’incarnazione del Verbo, il Logos divino che si è fatto carne divenendo come noi per la nostra salvezza. Dice in quest’opera Atanasio, con un’affermazione divenuta giustamente celebre, che il Verbo di Dio "si è fatto uomo perché noi diventassimo Dio; egli si è reso visibile nel corpo perché noi avessimo un’idea del Padre invisibile, ed egli stesso ha sopportato la violenza degli uomini perché noi ereditassimo l’incorruttibilità" (54,3). Con la sua resurrezione, infatti, il Signore ha fatto sparire la morte come se fosse "paglia nel fuoco" (8,4). L’idea fondamentale di tutta la lotta teologica di sant’Atanasio era proprio quella che Dio è accessibile. Non è un Dio secondario, è il Dio vero, e tramite la nostra comunione con Cristo noi possiamo unirci realmente a Dio. Egli è divenuto realmente "Dio con noi".

Tra le altre opere di questo grande Padre della Chiesa – che in gran parte rimangono legate alle vicende della crisi ariana – ricordiamo poi le quattro lettere che egli indirizzò all’amico Serapione, Vescovo di Thmuis, sulla divinità dello Spirito Santo, che viene affermata con nettezza, e una trentina di lettere "festali", indirizzate all’inizio di ogni anno alle Chiese e ai monasteri dell’Egitto per indicare la data della festa di Pasqua, ma soprattutto per assicurare i legami tra i fedeli, rafforzandone la fede e preparandoli a tale grande solennità.

Atanasio è, infine, anche autore di testi meditativi sui Salmi, poi molto diffusi, e soprattutto di un’opera che costituisce il best seller dell’antica letteratura cristiana: la Vita di Antonio, cioè la biografia di sant’Antonio abate, scritta poco dopo la morte di questo santo, proprio mentre il Vescovo di Alessandria, esiliato, viveva con i monaci del deserto egiziano. Atanasio fu amico del grande eremita, al punto da ricevere una delle due pelli di pecora lasciate da Antonio come sua eredità, insieme al mantello che lo stesso Vescovo di Alessandria gli aveva donato. 
Divenuta presto popolarissima, tradotta quasi subito in latino per due volte e poi in diverse lingue orientali, la biografia esemplare di questa figura cara alla tradizione cristiana contribuì molto alla diffusione del monachesimo, in Oriente e in Occidente. 
Non a caso la lettura di questo testo, a Treviri, è al centro di un emozionante racconto della conversione di due funzionari imperiali, che Agostino colloca nelle Confessioni (VIII,6,15) come premessa della sua stessa conversione.

Del resto, lo stesso Atanasio mostra di avere chiara coscienza dell’influsso che poteva avere sul popolo cristiano la figura esemplare di Antonio. 
Scrive infatti nella conclusione di quest’opera: "Che fosse dappertutto conosciuto, da tutti ammirato e desiderato, anche da quelli che non l’avevano visto, è un segno della sua virtù e della sua anima amica di Dio. Infatti non per gli scritti né per una sapienza profana né per qualche capacità è conosciuto Antonio, ma solo per la sua pietà verso Dio. E nessuno potrebbe negare che questo sia un dono di Dio. Come infatti si sarebbe sentito parlare in Spagna e in Gallia, a Roma e in Africa di quest’uomo, che viveva ritirato tra i monti, se non l’avesse fatto conoscere dappertutto Dio stesso, come egli fa con quanti gli appartengono, e come aveva annunciato ad Antonio fin dal principio? E anche se questi agiscono nel segreto e vogliono restare nascosti, il Signore li mostra a tutti come una lucerna, perché quanti sentono parlare di loro sappiano che è possibile seguire i comandamenti e prendano coraggio nel percorrere il cammino della virtù" (Vita di Antonio 93,5-6).

Sì, fratelli e sorelle! Abbiamo tanti motivi di gratitudine verso sant’Atanasio. La sua vita, come quella di Antonio e di innumerevoli altri santi, ci mostra che "chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino" (Deus caritas est, 42).

SALUTI…
Rivolgo ora un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto in particolare i Cappellani del Sovrano Militare Ordine di Malta, i Soci del Motoclub di Castellazzo Bormida e gli alunni della Scuola Elementare di Alberobello. Vi ringrazio tutti, cari amici, per la vostra visita ed invoco su di voi e sulle vostre Comunità copiosi doni celesti per una sempre più solida testimonianza cristiana.
Saluto, inoltre, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Domani celebreremo la memoria liturgica di san Luigi Gonzaga, mirabile esempio di austerità e purezza evangelica. Invocatelo, cari giovani, perché vi aiuti a costruire un’intima amicizia con Gesù che vi renda capaci di affrontare con serietà la vostra vita. Questo giovane santo sia per voi, cari malati, sostegno nel trasformare le sofferenze e le prove quotidiane in privilegiate occasioni per cooperare alla salvezza delle anime e renda voi, cari sposi novelli, testimoni di un amore casto e generoso.
APPELLO
Oggi si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato, promossa dalle Nazioni Unite perché non venga meno nella pubblica opinione l’attenzione verso quanti sono stati costretti a fuggire dai loro Paesi a seguito di reali pericoli di vita.  Accogliere i rifugiati e dar loro ospitalità è per tutti un doveroso gesto di umana solidarietà, affinché essi non si sentano isolati a causa dell’intolleranza e del disinteresse. Per i cristiani è, inoltre, un modo concreto di manifestare l’amore evangelico. Auspico di cuore che a questi nostri fratelli e sorelle duramente provati dalla sofferenza siano garantiti l’asilo e il riconoscimento dei loro diritti, e invito i responsabili delle Nazioni ad offrire protezione a quanti si trovano in così delicate situazioni di bisogno.  

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana

mercoledì 11 novembre 2015

La notte seguente, mentre dormiva, Martino vide il Cristo

Cap. III
Carità di san Martino: presso la porta di Amiens, dà la metà del suo mantello ad un povero. Riceve il battesimo.

1. Un giorno, nel mezzo di un inverno più rigido del solito, al punto che numerose persone morivano a motivo dei rigori del freddo, mentre non aveva addosso niente altro che le armi e il semplice mantello militare, sulla porta della città di Amiens, si imbatté in un povero nudo: l’infelice pregava i passanti di avere pietà di lui, ma tutti passavano oltre. Quell’uomo di Dio, vedendo che gli altri non erano mossi a compassione, comprese che quel povero gli era stato riservato. 

2. Ma che fare? Non aveva nient’altro se non la clamide, di cui era rivestito: infatti, aveva già sacrificato tutto il resto per una buona opera analoga. Allora, afferrata la spada che portava alla cintura, tagliò il mantello a metà, ne diede una parte al povero, e indossò nuovamente la parte rimanente. Intanto alcuni dei presenti, trovandolo brutto a vedersi a motivo di quell’abito tranciato, si misero a ridere. Molti altri, tuttavia, più sensati, cominciarono a dolersi profondamente di non avere fatto niente di simile, mentre, avendo più vestiti di lui, avrebbero potuto vestire il povero senza denudarsi a loro volta. 

3. Dunque la notte seguente, mentre dormiva, Martino vide il Cristo, rivestito della parte della sua clamide con cui aveva coperto il povero. Gli fu ordinato di guardare attentamente il Signore, e di riconoscere la veste che aveva dato. Poi, udì Gesù dire con voce chiara alla moltitudine degli angeli che gli stavano intorno: «Martino, che è ancora un catecumeno, mi ha coperto con questa veste». 

4. Il Signore è veramente memore delle sue parole, egli che un tempo aveva detto: Ogni volta che avete fatto queste cose a una sola di queste umilissime creature, l’avete fatta a me (Cf. Mt 25, 40), dichiarò di essere stato vestito nella persona di quel povero: e, per confermare la testimonianza di un’opera così buona, Egli si degnò di mostrarsi nello stesso abito che aveva ricevuto il povero. 

5. Questa visione non inorgoglì il beato, ma, riconoscendo la bontà di Dio nella sua opera, poiché aveva diciotto anni, si affrettò a ricevere il battesimo. Tuttavia, convinto dalle preghiere del suo tribuno, che era suo compagno di tenda ed amico, non rinunciò subito al servizio militare. Costui, infatti, una volta compiuto il tempo del suo tribunato, prometteva di rinunciare al mondo. 6. Martino fu trattenuto da questa attesa e per circa due anni dopo che ebbe ricevuto il battesimo, rimase soldato, ma soltanto di nome.

Cfr. qui
AVE MARIA!