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sabato 12 maggio 2018

12 numeri=un discorso, dalla vita di sant'Antonio abate, opera di sant'Atanasio


Risultati immagini per garofalo ascensione di cristo

Ascensione di Gesù 
Opera di Benvenuto Tisi, detto Garofalo (1510-1520)



16. Un giorno, mentre [Antonio] usciva, tutti i monaci gli si fecero incontro e lo pregarono di tenere un discorso. Ed egli così parlò loro in lingua egiziana: 

«Le Scritture sono sufficienti all’insegnamento;
ma è bene che noi a vicenda ci esortiamo nella fede e ci incitiamo con i discorsi. Voi, come figli,
riferite a me, come a un padre, le cose che sapete. E io, essendo più anziano di voi, vi riferirò quello
che so e che ho sperimentato. 
Sia questa la comune aspirazione di tutti: non retrocediamo dopo aver
cominciato, non scoraggiamoci nelle fatiche, non diciamo mai “abbiamo praticato per molto tempo
l’ascesi”. Piuttosto accresciamo lo zelo come se incominciassimo ogni giorno. Di fronte ai secoli
futuri la vita umana è brevissima; tutto il nostro tempo è nulla rispetto alla vita eterna. In questo
modo ogni cosa si vende al giusto prezzo e lo scambio avviene sempre con cose di ugual valore; ma
la promessa della vita eterna si compra a basso prezzo. Infatti sta scritto: “Gli anni della nostra vita
sono settanta, ottanta per i più robusti; ma quasi tutti sono fatica, dolore” (Sal 89,10). Se
perseveriamo per tutti gli ottanta anni oppure per cento nella pratica ascetica, non regneremo 
soltanto per cento anni ma regneremo nei secoli dei secoli. Se lotteremo sulla terra, non avremo
eredità sulla terra ma la promessa nei cieli. Quando deporremo il corpo corruttibile, ne riceveremo
uno incorruttibile» (1Cor 15,42).
17. «Perciò, o figli, non ci scoraggiamo, non crediamo di durare a lungo o di fare qualcosa di
grande: “Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà
essere rivelata in noi” (Rm 8,18). 
Né guardando l’universo dobbiamo credere di aver rinunciato a grandi cose; tutta la terra, paragonata a tutto il cielo, è piccolissima. Se noi fossimo padroni di tutta la terra e rinunciassimo ad essa, nulla di quello a cui abbiamo rinunciato sarebbe degno del regno dei cieli. 

Come uno disprezza una dracma di bronzo per guadagnare cento dracme d’oro, così chi è
padrone di tutta la terra e rinuncia ad essa, perde poco ma fa un guadagno cento volte maggiore. Se
tutta la terra non è degna del regno dei cieli, chi perde poche arure, non perde quasi niente; se poi
lascia la casa e molto oro, non deve vantarsi né scoraggiarsi. Dobbiamo anche tener presente che se
non lasciamo le nostre cose in nome della virtù, le lasceremo in seguito quando moriremo e spesso
a persone alle quali non vorremmo lasciarle, come ricorda l’Ecclesiaste (Qo 4,8). Perché, dunque,
non lasciarle in nome della virtù per ereditare il regno dei cieli? Per questo nessuno di noi si lasci
prendere dalla cupidigia di possedere. 

Che guadagno c’è a possedere cose che non possiamo
portarci con noi? Perché non ci preoccupiamo di acquistare cose che possiamo portar via con noi
come la prudenza, la giustizia, il coraggio, l’intelletto, la carità, l’amore verso i poveri, la fede in
Cristo, la mansuetudine, l’ospitalità? Se acquisteremo queste cose, le troveremo là dove ci
accoglieranno come ospiti nella terra dei miti».

18. «Per queste ragioni ciascuno di voi si convinca di non perdersi d’animo, specialmente se pensa
di essere il servo del Signore e di doverlo servire. Come un servo non osi dire: “Siccome ieri ho
lavorato, oggi non lavoro”, né calcolando il tempo trascorso, si riposerà nei giorni successivi. Ma
ogni giorno, come è scritto nel vangelo (Lc 17,7-10), mostri lo stesso zelo per piacere al Signore e
non essere in pericolo. Così noi, ogni giorno, dobbiamo perseverare nella pratica ascetica sapendo
che se anche per un solo giorno la trascureremo, il Signore non ci perdonerà a causa del tempo
passato ma, per la nostra negligenza, si mostrerà contrariato nei nostri confronti. Così è scritto in
Ezechiele (Ez 18,24-26); così anche Giuda per una sola notte perdette la fatica del tempo trascorso»
(Gv 13,30).

19. «Dedichiamoci, o figli, alla pratica ascetica e non siamo negligenti. Abbiamo in questo il
Signore come aiuto perché “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,28). Per non
essere negligenti, ci conviene meditare sulle parole dell’Apostolo: “Ogni giorno io affronto la morte
(1Cor 15,31). Se vivremo, come se dovessimo morire ogni giorno, non peccheremo. Il che significa
che quando ogni giorno ci alziamo, non dobbiamo credere che vivremo fino alla sera e quando
andiamo a letto non dobbiamo credere di alzarci. La nostra vita, per natura, è incerta e ogni giorno
viene misurata dalla Provvidenza. Se ci disporremo così e se così ogni giorno vivremo, non
peccheremo, né saremo presi dalla cupidigia di qualcosa. Con nessuno ci adireremo, non
accumuleremo tesori sulla terra, ma ogni giorno, aspettando la morte, non possederemo niente e a
tutti perdoneremo qualsiasi cosa. Non avremo concupiscenza di donna, né saremo dominati da
piaceri osceni che anzi avverseremo come cose caduche, sempre lottando e avendo davanti agli
occhi il giorno del giudizio. Infatti il timore grandissimo e il pericolo dei tormenti dissolvono
sempre le lusinghe del piacere e rinsaldano l’anima che vacilla».

20. «Dunque, cominciamo e, presa la strada della virtù, protendiamoci sempre di più per
raggiungere la meta (Fil 3,13). Nessuno si volga indietro, come la moglie di Lot (Gn 19,26), 
soprattutto perché il Signore ha detto: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge
indietro, è adatto per il regno dei cieli” (Lc 9,62). Guardare indietro altro non vuoi dire che
cambiare idea e pensare di nuovo alle cose del mondo. Sentendo parlare della virtù, non abbiate
paura, né dovete temere il nome. Non è infatti lontana da noi, né si trova fuori di noi; l’opera è in
noi stessi ed è facile realizzarla solo se noi vogliamo. I greci viaggiano, attraverso il mare, per
apprendere le lettere; noi non abbiamo bisogno di muoverci per il regno dei cieli, né di attraversare
il mare per la virtù. Il Signore ci ha già detto: “Il regno di Dio è in mezzo a voi!” (Lc 17,21). La
virtù perciò ha bisogno soltanto della nostra volontà, dal momento che è in noi e da noi trae la sua
origine. Infatti quella parte dell’anima che per natura è intelligente, è virtù e conserva la sua natura
quando rimane così come è stata creata, cioè buona e retta. Per questo Giosuè, figlio di Nun,
ammaestrando il popolo diceva: “Rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele” (Gs 24,23) e
Giovanni Battista: “Raddrizzate i suoi sentieri” (Mt 3,3). Quando l’anima è retta, la sua razionalità è
come fu creata; se invece l’anima declina e svia dalla sua natura, allora si dice che l’anima è
corrotta. Non si tratta di cosa difficile: se noi rimaniamo come siamo stati creati, saremo virtuosi, se
invece ci abbandoniamo al male, saremo giudicati come cattivi. Se dovessimo uscire fuori di noi per
conquistare la virtù, le difficoltà non mancherebbero. Ma poiché essa è in noi, guardiamoci dai
cattivi pensieri e custodiamo l’anima che il Signore ci ha dato come in deposito affinché, rimanendo
essa nello stato in cui l’ha foggiata, egli riconosca in noi la sua opera».

21. «Il nostro impegno sia quello di non essere schiavi dell’ira, di non essere posseduti dalla
concupiscenza. Infatti è scritto: “L’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio” (Gc
1,20) e: “La concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand’è consumato,
produce la morte” (Gc 1,15). Scelto questo metodo di vita, dobbiamo vivere molto sobriamente. È
scritto infatti: “Con ogni cura vigila sui cuore” (Pro 4,23).
Abbiamo dei nemici terribili e astuti, i malvagi demoni e noi dobbiamo combattere, come dice
l’Apostolo: “non contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i principati e le potestà,
contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni
celesti” (Ef 6,12). Grande è il loro numero nell’aria che è intorno a noi ed essi non sono lontani da
noi, e inoltre molte sono le loro varietà. Sulle loro proprietà e varietà si potrebbero dire molte cose;
ma è un discorso che riserviamo a persone più grandi di noi. A noi ora interessa conoscere le astuzie
che essi mettono in pratica contro di noi».

22. «Innanzitutto dobbiamo sapere che quelli che noi chiamiamo demoni non furono creati tali: Dio
non ha fatto nulla di male. Anch’essi sono stati creati buoni, ma si staccarono dalla sapienza celeste,
caddero poi sulla terra e ingannarono i pagani con le loro immagini. Sono invidiosi di noi cristiani e
cercano con ogni mezzo di impedire la nostra ascesa verso il cielo da dove essi sono precipitati.
Necessita quindi la continua preghiera, occorre la pratica ascetica perché chi riceve attraverso lo
Spirito Santo la grazia di distinguere gli spiriti possa conoscere le cose che riguardano i demoni:
quali sono meno malvagi, quali più malvagi, quali le loro consuetudini e attività, come possono
essere respinti e cacciati via. Molti sono infatti i loro inganni e molti anche i loro movimenti per
tendere insidie. Perciò il santo Apostolo e quelli che con lui conoscevano i demoni dicevano: “Non
ignoriamo le macchinazioni” (2Cor 2,11). E noi che ne abbiamo fatto esperienza, dobbiamo a
vicenda ammonirci. Io che poi ne ho fatta una certa esperienza, parlo a voi come a dei figli».

23. «Costoro, quando vedono che tutti i cristiani e soprattutto i monaci sono zelanti e
progrediscono, in primo luogo tentano l’aggressione e pongono agguati lungo la strada (Sal 139,6).
Perciò noi non dobbiamo lasciarci spaventare dalle loro suggestioni: con le preghiere, con i digiuni,
con la fede nel Signore, essi subito cadono. Ma anche caduti, essi non si arrendono; subito si
avvicinano nuovamente con astuzia e con inganno. Infatti non potendo apertamente ingannare il 
cuore con il piacere osceno, cercano altri mezzi, tentano di far paura con vane immagini,
assumendo forme di donne, di belve, di rettili, di grandi corpi, di schiere di soldati. Ma neppure
queste immagini si devono temere. Esse sono il nulla e quindi presto si dileguano, soprattutto se noi
ci fortifichiamo con la fede e il segno di croce. I demoni sono audaci e molto impudenti: se sono
sconfitti in un modo, aggrediscono ancora in un altro modo. Simulano di essere esperti di vaticinio
e di predire il futuro, si mostrano molto alti per raggiungere i tetti, si estendono in larghezza per
sedurre con questi aspetti coloro che essi non sono riusciti a ingannare con i pensieri. Se poi trovano
un’anima salda nella fede e nella speranza della conversione, allora fanno venire il loro capo».

24. «Essi appaiono come il Signore rivelò il diavolo a Giobbe dicendo: “I suoi occhi sono come le
palpebre dell’aurora. Dalla sua bocca partono vampate, sprizzano scintille di fuoco. Dalle sue narici
esce fumo come da caldaia, che bolle sul fuoco. Il suo fiato incendia carboni e dalla bocca gli
escono fiamme” (Gb 41,10-13). Il capo dei demoni, mostrandosi in questo modo, atterrisce, come
ho detto prima. Quello scaltro si vanta pronunciando grosse parole, come il Signore dimostrò a
Giobbe: “Stima il ferro come paglia, il bronzo come legno tarlato. Fa ribollire come pentola il
gorgo, fa del mare come un vaso da unguenti. Dietro a sé produce una bianca scia e l’abisso appare
canuto” (Gb 41,19.23-24); e ancora per mezzo del profeta: “Il nemico aveva detto: Inseguirò,
raggiungerò” (Es 15,9) e poi: “La mia mano, come in un nido, ha scovato la ricchezza dei popoli.
Come si raccolgono le uova abbandonate, così ho raccolto tutta la terra” (Is 10,14).
Di simili cose si vantano e promettono di farle con lo scopo di sedurre quanti adorano Dio. Ma
occorre che noi che abbiamo fede non temiamo le apparizioni del diavolo, né prestiamo fede alle
sue voci. Egli infatti mente e non dice alcuna cosa vera. Mentre egli dice tante e tante cose con
audacia, viene trascinato dal Salvatore come un serpente all’amo, come un animale che riceve la
cavezza alle narici; come un fuggiasco ha il naso legato a un anello, ha le labbra trafitte da uno
spiedo (Gb 40,24-26). È legato dal Signore come un passero perché sia schernito da noi (Gb 40,29).
Sia il diavolo che i demoni che sono con lui sono stati posti come scorpioni e serpenti per essere
calpestati da noi cristiani (Lc 10,19). Infatti chi ha minacciato di essiccare il mare e di impadronirsi
del mondo, ecco che ora non può impedire la vostra pratica ascetica, né me che parlo contro di lui.
Non ascoltiamo le cose che dice, egli mente, non temiamo le sue apparizioni perché anch’esse sono
false. Non è luce vera quella che appare in loro; portano soltanto un anticipo e un’immagine del
fuoco preparato per loro. Con le fiamme con le quali bruceranno, essi cercano di intimorire gli
uomini. In realtà appaiono ma subito scompaiono, non danneggiano nessuno dei fedeli, portano essi
stessi un’immagine del fuoco dal quale saranno accolti. Neppure per questo devono essere temuti.
Tutti i loro tentativi per la grazia di Cristo sono resi vani».

25. «Sono astuti e pronti a trasformarsi in tutte le immagini e le forme. Spesso simulano anche di
cantare i salmi e, senza essere visti, recitano le parole delle Scritture. Molte volte, mentre noi
leggiamo, essi ripetono subito come un’eco le cose che noi leggiamo; mentre dormiamo, ci incitano
a pregare e fanno questo di continuo, impedendoci quasi di dormire. Altre volte, dopo aver assunto
le sembianze di monaci, parlano come uomini devoti per ingannarci con un aspetto simile al nostro
e poi trascinano dove vogliono coloro che hanno sedotto. Ma essi non devono essere ascoltati
neppure se spingono a pregare, neppure se esortano a non mangiare, neppure quando fingono di
accusarci e di rimproverarci per dei peccati di cui, come noi, sono a conoscenza. Non si comportano
così in nome della fede o della verità, ma per portare alla disperazione le persone semplici e rendere
inutile la pratica ascetica. Vogliono generare nausea negli uomini per la vita monastica, come se
fosse troppo gravosa e scomoda e cercano di essere di ostacolo a coloro che la praticano».

26. «Perciò il profeta mandato dal Signore compiangeva questi miseri dicendo: “Guai a chi fa bere i
suoi vicini versando veleno per ubriacarli e scoprire le loro nudità” (Ab 2,15). Infatti simili pensieri 
e macchinazioni allontanano dalla strada che porta alla virtù. Il Signore stesso, sebbene i demoni
dicessero la verità (infatti essi dicevano: “Tu sei il Figlio di Dio” [Lc 4,41]), tappava loro la bocca,
li costringeva al silenzio perché essi non seminassero con la verità la loro malizia e perché noi
prendessimo la consuetudine di non prestare loro attenzione anche se quelli davano la parvenza di
dire la verità. Sarebbe infatti vergognoso che noi che abbiamo le Sacre Scritture e che dal Salvatore
abbiamo ricevuto la libertà, ci lasciassimo istruire dal diavolo, da colui che violò l’ordine per lui
stabilito e passò da un pensiero all’altro. Perciò il Signore gli impedì di parlare quando egli si mise
a recitare i brani delle Scritture, con queste parole: “Perché vai ripetendo i miei decreti e hai sempre
in bocca la mia alleanza?” (Sal 49,16). Fanno tutte queste cose, ciarlano, rumoreggiano, simulano,
per ingannare i semplici. Fanno strepito, ridono scioccamente, sibilano; se nessuno presta loro
attenzione, piangono e si lamentano come se fossero sconfitti».

27. «Perciò il Signore, in quanto Dio, chiudeva la bocca ai demoni. E noi, istruiti dai santi,
dobbiamo imitarli, emulare il loro coraggio. Vedendo queste cose, essi dicevano: “Porrò un freno
alla mia bocca mentre l’empio mi sta dinanzi. Sono rimasto quieto in silenzio” (Sal 38,2-3); e
ancora: “Io, come un sordo, non ascolto e come un muto non apro la bocca; sono come un uomo
che non sente” (Sal 37,14-15). Noi non dobbiamo ascoltarli perché ci sono estranei, né dobbiamo
obbedire loro quando ci invitano alla pratica ascetica che ci siamo proposta e non lasciamoci
sedurre da coloro che agiscono con inganno. Non dobbiamo temerli neppure se sembra che ci
aggrediscano, né se ci minacciano di morte. Sono dei deboli e perciò si limitano alle sole minacce».

28. «Fin qui ho parlato brevemente di queste cose, ma ora non esiterò a parlarne più diffusamente.
Così ne avrete un fermo ricordo. All’arrivo del Signore, il nemico cadde e le sue forze si fiaccarono.
Per questo, come tiranno, nulla potendo, pur essendo caduto non sta fermo, ma minaccia sia pure
con le sole parole. Ognuno di voi rifletta su questo e così potrà disprezzare i demoni. Se come noi
avessero avuto dei corpi, avrebbero potuto dire: “Non riusciamo a trovare gli uomini che si sono
nascosti, ma possiamo far del male a quelli che troviamo”. E noi potremmo evitarli nascondendoci e
sbarrando le porte. Ma le cose non stanno così. Infatti anche con le porte chiuse possono entrare
perché sia essi che il loro capo si trovano in tutta l’aria e sono pronti ad arrecare mali e danni, come
dice il Salvatore: “Egli è stato omicida fin da principio” (Gv 8,44). Ma noi continuiamo a vivere e
la nostra condotta di vita è contro di lui ed è evidente che i demoni nulla possono. Infatti né il luogo
vieta loro di operare il male, né scorgono in noi degli amici da risparmiare, né amano il bene per
correggerci. In realtà sono dei malvagi e non si curano di altro che di danneggiare coloro, che
amano Dio e la virtù. Non potendo far nulla, si limitano alle minacce. Se potessero fare qualche
cosa, farebbero subito del male e in questo la loro volontà è disponibile, soprattutto contro di noi.
Ecco perché ci siamo riuniti per parlare contro di loro; essi sanno che sono fiaccati dal nostro
progredire nel bene. Se avessero qualche potere, non permetterebbero di vivere a nessuno di noi
cristiani: “Per il peccatore la pietà è un abominio” (Sir 1,22). Siccome nulla possono, danneggiano
se stessi perché non hanno il potere di realizzare le loro minacce. Inoltre, per non temerli, pensiamo
anche a questo: se avessero potere, non verrebbero in massa, né con visioni, né poi preparerebbero
insidie dopo aver assunto varie sembianze. Inoltre sarebbe sufficiente che uno solo venisse e facesse
ciò che vuole e può. Chi può, infatti, non cerca di uccidere con le visioni, né atterrisce con la
moltitudine, ma si serve della propria forza, subito e a suo piacimento. Ma i demoni, che nulla
possono, giocano come se fossero sulla scena e, cambiando aspetto, spaventano i bambini con
tumulti e fantasmi. Essendo dunque dei deboli, devono essere disprezzati. Il vero angelo inviato dal
Signore contro gli assiri non ebbe bisogno di folle, né di assumere immagini, né di strepiti, né di
suoni. Usò in silenzio la sua forza e uccise subito centottantacinquemila uomini (2Re 19,35). Invece
i demoni, non avendo forza, cercano di far paura con le immagini». 

AMDG et DVM

mercoledì 2 maggio 2018

Sant'ATANASIO: "E' un uomo probo, virtuoso, buon cristiano, un asceta, un vero vescovo".



S. ATANASIO DI ALESSANDRIA 

(295-373)

COMPENDIO della nostrta Fede Cattolica
Quicumque vult (Simbolo di Sant'Atanasio 

(Breviarium Romanum: ad Primam, in Festo Sanctíssimae Trinitátis)  
(Breviario Romano: Ufficio di Prima nella Festa della SS. Trinità)
Quicúmque vult salvus esse,  * 
ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem: Quam nisi quisque íntegram inviolatámque serváverit, *
absque dúbio in aetérnum períbit.

Fides autem cathólica haec est: *
ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem in unitáte venerémur. 

Neque confundéntes persónas, *
neque substántiam seperántes. 

Alia est enim persóna Patris, alia Fílii, *
alia Spíritus Sancti:
 

Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, *
aequális glória, coaetérna maiéstas.  

Qualis Pater, talis Fílius, *
talis Spíritus Sanctus. 

Increátus Pater, increátus Fílius, *
increátus Spíritus Sanctus. 

Immènsus Pater, imménsus Fílius, *
imménsus Spíritus Sanctus.  

Aetérnus Pater, aetérnus Fílius, *
aetérnus Spíritus Sanctus. 

Et tamen non tres aetérni, *
sed unus aetérnus.

Sicut non tres increáti, nec tres imménsi, *
sed unus increátus, et unus imménsus.
 

Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, *
omnípotens Spíritus Sanctus.
 

Et tamen non tres omnipoténtes, *
sed unus omnípotens. 

Ita Deus Pater, Deus Fílius, *
Deus Spíritus Sanctus.

Et tamen non tres dii, *
sed unus est Deus.

Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, *
Dóminus Spíritus Sanctus. 

Et tamen non tres Dómini, *
sed unus est Dóminus. 

Quia, sicut singillátim unamquámque persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: *
ita tres Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur. 

Pater a nullo est factus: *
nec creátus, nec génitus. 


Fílius a Patre solo est:*
non factus, nec creátus, sed génitus. 

Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: *
non factus, nec creátus, nec génitus, sed procédens.
 

Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Fílius, non tres Fílii: *
unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti.

Et in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil maius aut minus: *
sed totae tres persónae coaetèrnae sibi sunt et coaequáles. 

Ita ut per ómnia, sicut iam supra dictum est, *
et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit. 

Qui vult ergo salvus esse, *
ita de Trinitáte séntiat. 

Sed necessárium est ad aetérnam salútem, *
ut incarnatiónem quoque Dómini nostri Iesu Christi fidéliter credat.

Est ergo fides recta ut credámus et confiteámur, *
quia Dóminus noster Iesus Christus, Dei Fílius, Deus et homo est.
 

Deus est ex substántia Patris ante saécula génitus: *
et homo est ex substántia matris in saéculo natus.

 

Perféctus Deus, perféctus homo: *
ex ánima rationáli et humána carne subsístens. 

Aequális Patri secúndum divinitátem: *
minor Patre secúndum humanitátem. 

Qui, licet Deus sit et homo, *
non duo tamen, sed unus est Christus. .

Unus autem non conversióne divinitátis in carnem, *
sed assumptióne humanitátis in Deum.
 

Unus omníno, non confusióne substántiae, *
sed unitáte persónae. 

Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo:
ita Deus et homo unus est Christus.
 

Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad ínferos: *
tértia die resurréxit a mórtuis. 

Ascéndit ad coélos, sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: *
inde ventúrus est iudicáre vivos et mórtuos. 

Ad cuius advéntum omnes hómines resúrgere habent cum corpóribus suis: *
et redditúri sunt de factis própriis ratiónem. 

Et qui bona egérunt, ibunt in vitam aetérnam: *
qui vero mala, in ígnem aetérnum.

 

Haec est fides cathólica, *
quam nisi quisque fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.
Amen.
Chiunque voglia salvarsi, *
deve anzitutto possedere la fede cattolica:
Colui che non la conserva integra ed inviolata *
perirà senza dubbio in eterno.
 

La fede cattolica è questa: *
che veneriamo un unico Dio nella Trinità e la Trinità nell'unità.

Senza confondere le persone, *
e senza separare la sostanza.

Una è infatti la persona del Padre, altra quella del Figlio, *
ed altra quella dello Spirito Santo. 

Ma Padre, Figlio e Spirito Santo sono una sola divinità, *
con uguale gloria e coeterna maestà. 

Quale è il Padre, tale è il Figlio, *
tale lo Spirito Santo. 

Increato il Padre, increato il Figlio, *
increato lo Spirito Santo. 

Immenso il Padre, immenso il Figlio, *
immenso lo Spirito Santo.

Eterno il Padre, eterno il Figlio, *
eterno lo Spirito Santo 

E tuttavia non vi sono tre eterni, *
ma un solo eterno.



Come pure non vi sono tre increati, né tre immensi, *
ma un solo increato e un solo immenso.

Similmente è onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio, *
onnipotente lo Spirito Santo.

E tuttavia non vi sono tre onnipotenti, *
ma un solo onnipotente.

Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, *
lo Spirito Santo è Dio.

E tuttavia non vi sono tre dei, *
ma un solo Dio.

Signore è il Padre, Signore è il Figlio, *
Signore è lo Spirito Santo.

E tuttavia non vi sono tre Signori, *
ma un solo Signore.  

Poiché come la verità cristiana ci obbliga a confessare che ciascuna persona è singolarmente Dio e Signore: *
così la religione cattolica ci proibisce di parlare di tre Dei o Signori. 

Il Padre non è stato fatto da alcuno: *
né creato, né generato.

Il Figlio è dal solo Padre: *
non fatto, né creato, ma generato.

Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio: *
non fatto, né creato, né generato, ma da essi procedente.


Vi è dunque un solo Padre, non tre Padri: un solo Figlio, non tre Figli: *
un solo Spirito Santo, non tre Spiriti Santi.

E in questa Trinità non v'è nulla che sia prima o dopo, nulla di maggiore o minore: *
ma tutte e tre le persone sono l'una all'altra coeterne e coeguali.

Cosicché in tutto, come già detto prima, *
va venerata l'unità nella Trinità e la Trinità nell'unità.
 


Chi dunque vuole salvarsi, *
pensi in tal modo della Trinità.

Ma per l'eterna salvezza è necessario, *
credere fedelmente anche all'Incarnazione del Signore nostro Gesù Cristo.

La retta fede vuole, infatti, che crediamo e confessiamo, *
che il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è Dio e uomo.

È Dio, perché generato dalla sostanza del Padre fin dall'eternità: *
è uomo, perché nato nel tempo dalla sostanza della madre.  



Perfetto Dio, perfetto uomo: *
sussistente dall'anima razionale e dalla carne umana.

Uguale al Padre secondo la divinità:*
inferiore al Padre secondo l'umanità. 

E tuttavia, benché sia Dio e uomo, *
non è duplice ma è un solo Cristo.

Uno solo, non per conversione della divinità in carne, *
ma per assunzione dell'umanità in Dio.  

Totalmente uno, non per confusione di sostanze, *
ma per l'unità della persona.

Come infatti anima razionale e carne sono un solo uomo, *
così Dio e uomo sono un solo Cristo. 


Che patì per la nostra salvezza: discese agli inferi: *
il terzo giorno è risuscitato dai morti.
 

É salito al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente: *
e di nuovo verrà a giudicare i vivi e i morti.

Alla sua venuta tutti gli uomini dovranno risorgere con i loro corpi: *
e dovranno rendere conto delle proprie azioni.

Coloro che avranno fatto il bene andranno alla vita eterna: *
coloro, invece, che avranno fatto il male, nel fuoco eterno.


Questa è la fede cattolica, *
e non potrà essere salvo se non colui che l'abbraccerà fedelmente e fermamente.
Amen.
(su)

Nato ad Alessandria d\’Egitto nel 295 è uno dei Padri della Chiesa. Vescovo di Alessandria d\’Egitto, fu l\’indomito assertore della fede nella divinità di Cristo, negata dagli Ariani e proclamata dal Concilio di Nicea (325). Per questo soffrì persecuzioni ed esili. Durante le numerose involontarie peregrinazioni fu anche in Occidente, a Roma e a Treviri, dove fece conoscere il monachesimo egiziano, presentando il monaco ideale, nella suggestiva figura di S. Antonio abate, di cui scrisse la celebre Vita, che si può considerare una specie di manifesto del monachesimo.
Questo Padre e Dottore della Chiesa è il più celebre dei vescovi alessandrini e il più intrepido difensore della fede nicena contro l\’eresia di Ario. Costui, siccome faceva del Verbo un essere di una sostanza diversa da quella del Padre e un semplice intermediario tra Dio e il mondo, praticamente negava il mistero della SS. Trinità. 

S. Atanasio nacque verso il 295 ad Alessandria d\’Egitto da genitori cristiani i quali gli fecero impartire un\’educazione classica. Discepolo di S. Antonio abate nella gioventù, si consacrò per tempo al servizio della Chiesa, Nel 325 accompagnò come diacono e segretario il suo vescovo Alessandro al Concilio di Nicea radunato dall\’imperatore Costantino, nel quale fu solennemente definita la consostanzialità del Figlio con il Padre. S. Atanasio nel 328 fu acclamato dagli alessandrini loro pastore. Di lui dicevano: "E' un uomo probo, virtuoso, buon cristiano, un asceta, un vero vescovo". 

La chiesa di Alessandria si trovava divisa dallo scisma non solo di Ario, ma anche di Melezio di Licopoli. Durante la persecuzione di Diocleziano (305-306), costui, approfittando dell\’assenza del vescovo Pietro di Alessandria, si era arrogato il diritto di ordinare e scomunicare secondo il suo arbitrio. Nonostante fosse stato deposto da un sinodo, buona parte del clero lo aveva seguito nello scisma. In mezzo a tante divisioni il compito del giovane Atanasio si presentava quanto mai difficile.

Ben presto cominciarono difatti gli intrighi contro di lui dei vescovi di corte ariani, capeggiati da Eusebio di Cesarea, per indurlo a ricevere nella sua comunione i vescovi amici di Ario. Atanasio vi si oppose energicamente. I meleziani a loro volta l\’accusarono presso Costantino di aver imposto agli egiziani un tributo di pezze di lino e di aver fatto rompere il calice di un loro vescovo. Citato al tribunale dell\’imperatore a Nicomedia, non fu difficile al santo discolparsi. Accusato ancora di aver fatto assassinare Arsente, vescovo meleziano di Ipsele, non fu difficile al medesimo accrescere lo scorno dei suoi nemici facendoglielo comparire davanti vivo.

L\’accusato fu di nuovo riabilitato, ma gli ariani non si diedero per vinti. Essi persuasero Ario a sottoscrivere una formula di fede equivoca. Costantino se ne accontentò e intimò a tutti i vescovi di riceverlo nella loro comunione. Essendosi Atanasio ancora una volta rifiutato, fu deposto dal concilio di Tiro (335) e relegato a Treviri, nelle Gallie, dove rimase fino alla morte dell\’imperatore (337). Gli eusebiani non potendo per allora sperare nulla dal potere civile, portarono davanti al papa Giulio I l\’affare di Atanasio. Furono citate le due parti ad un concilio plenario, ma gli ariani, sicuri dell\’appoggio di Costanzo II, imperatore d\’Oriente, invece di presentarsi, posero sulla sede di Alessandria Gregorio di Cappadocia. Il secondo esilio di Atanasio durò sei anni. A Roma (341) e a Sardica (343) fu riconosciuta la sua innocenza. Durante il soggiorno romano egli viaggiò molto, e iniziò la chiesa latina alla vita monastica quale si praticava in Egitto. Nella Pasqua del 345 si recò ad Aquileia presso Costante, imperatore d\’occidente, che gli ottenne dal fratello Costanzo il permesso di tornare alla sua sede dopo la morte del vescovo intruso (345).

Seguirono per il santo dieci anni di pace relativa, di cui approfittò non solo per comporre opere dogmatiche, o di apologia personale, ma per proseguire una politica di vigile controllo e di prudente conciliazione, i cui effetti furono disastrosi per il partito ariano. Difatti, due o tre anni dopo, egli era in comunione con più di 400 vescovi, e seguito dalla massa dei fedeli. In questo periodo egli consacrò vescovo di Etiopia S. Frumenzio, vero fondatore della chiesa cristiana in quel paese. 

Alla morte del suo protettore Costante (350) e del papa Giulio I (352), i nemici di Atanasio tanto brigarono da riuscire a sollevargli contro anche l\’episcopato d\’Occidente nel Concilio di Arles (354) e in quello di Milano (355).

L\’intrepido vescovo, ripieno di amarezza, fuggì allora nel deserto, dove i monaci per otto anni lo sottrassero con cura a tutte le ricerche. Dalla solitudine egli continuò a governare la sua chiesa e scrisse i Discorsi contro gli Ariani e le 4 Lettere a Serapione che formano la sua gloria come dottore della SS. Trinità. Poté ritornare in sede nel 362 dopo la morte di Costanzo, il massacro del vescovo intruso Giorgio dì Cappadocia e la salita al trono di Giuliano, il cui primo atto fu di richiamare i vescovi esiliati dal suo predecessore. 

Fu cura di Atanasio ristabilire l\’ortodossia nicena e combattere l\’arianesimo ufficiale che aveva trionfato nei concili di Seleucia e di Rimini (359). Riunito un concilio, prese decisioni improntate a misericordia verso coloro che si erano dati all\’eresia per ignoranza, e anche sul terreno dogmatico fu largo e tollerante per quello che potevano sembrare quisquiglie o pura terminologia. Tanta attività diretta a consolidare l\’unità cattolica non tornò gradita a Giuliano, intento solo a ristabilire il paganesimo. Nel 363 S. Atanasio per la quarta volta lasciò la sua sede, ma solo per pochi mesi perché, morto l\’imperatore nella spedizione contro i persiani, gli successe il cristiano Gioviano, che lo richiamò. Nel 365 il Santo dovette eclissarsi alla periferia della città per la sesta volta, perseguitato dall\’imperatore d\’Oriente, Valente, amico degli ariani. Dopo soli quattro mesi però fu richiamato perché gli egiziani minacciavano rivolte. Non lasciò più la sua fede fino alla morte avvenuta il 2-5-373 dopo 45 anni di governo forte e alle volte anche duro contro i suoi avversari.

Egli meritò a buon diritto il titolo di "grande" per l\’indomabile fermezza di carattere dimostrata contro gli ariani e la potenza imperiale, sovente ad essi eccessivamente ligia. A ragione fu detto che in lui, "padre dell\’ortodossia", combatteva tutta la Chiesa.

Finché visse sostenne ovunque con un\’attività traboccante i propugnatori della vera fede. Così impedì che i vescovi dell\’Africa latina sostituissero il simbolo compilato a Nicea con quello di Rimini; spinse papa Damaso ad agire contro Ausenzio, vescovo ariano di Milano, e incoraggiò S. Basilio, che cercava un appoggio per la pacificazione religiosa dell\’oriente. 

Della produzione letteraria di Atanasio non esiste ancora un\’edizione critica. Nelle sue opere si nota limpidezza e acutezza di pensiero, ma la materia trattata manca di ordine ed è resa pesante dalle frequenti ripetizioni e dalla prolissità. 
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Sac. Guido Pettinati SSP, 
I Santi canonizzati del giorno, vol. 5, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 30-32. 

AMDG et DVM

mercoledì 17 gennaio 2018

Sant'Antonio, abate


Papa Benedetto XVI
parlò -il 20.6.2007- di san Antonio abate  quando trattò la figura del grande Padre della Chiesa Sant'Atanasio che ne scrisse la vita. Ecco le parole del Papa:

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Atanasio è, infine, anche autore di testi meditativi sui Salmi, poi molto diffusi, e soprattutto di un’opera che costituisce il best seller dell’antica letteratura cristiana: la Vita di Antonio, cioè la biografia di sant’Antonio abate, scritta poco dopo la morte di questo Santo, proprio mentre il Vescovo di Alessandria, esiliato, viveva con i monaci del deserto egiziano. 

Atanasio fu amico del grande eremita, al punto da ricevere una delle due pelli di pecora lasciate da Antonio come sua eredità, insieme al mantello che lo stesso Vescovo di Alessandria gli aveva donato. 

Divenuta presto popolarissima, tradotta quasi subito in latino per due volte e poi in diverse lingue orientali, la biografia esemplare di questa figura cara alla tradizione cristiana contribuì molto alla diffusione del monachesimo, in Oriente e in Occidente. 
Non a caso la lettura di questo testo, a Treviri, è al centro di un emozionante racconto della conversione di due funzionari imperiali, che Agostino colloca nelle Confessioni (VIII,6,15) come premessa della sua stessa conversione.

Del resto, lo stesso Atanasio mostra di avere chiara coscienza dell’influsso che poteva avere sul popolo cristiano la figura esemplare di Antonio. 

Scrive infatti nella conclusione di quest’opera: 

«Che fosse dappertutto conosciuto, da tutti ammirato e desiderato, anche da quelli che non l’avevano visto, è un segno della sua virtù e della sua anima amica di Dio. Infatti non per gli scritti né per una sapienza profana né per qualche capacità è conosciuto Antonio, ma solo per la sua pietà verso Dio. E nessuno potrebbe negare che questo sia un dono di Dio. 

Come infatti si sarebbe sentito parlare in Spagna e in Gallia, a Roma e in Africa di quest’uomo, che viveva ritirato tra i monti, se non l’avesse fatto conoscere dappertutto Dio stesso, come egli fa con quanti gli appartengono, e come aveva annunciato ad Antonio fin dal principio? 

E anche se questi agiscono nel segreto e vogliono restare nascosti, il Signore li mostra a tutti come una lucerna, perché quanti sentono parlare di loro sappiano che è possibile seguire i comandamenti e prendano coraggio nel percorrere il cammino della virtù» (93,5-6).



Sì, fratelli e sorelle! Abbiamo tanti motivi di gratitudine verso sant’Atanasio. La sua vita, come quella di Antonio e di innumerevoli altri Santi, ci mostra che «chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino» (Deus caritas est, 42).>>

AMDG et DVM

martedì 22 agosto 2017

Interessante squarcio storico , di M. Blondet



Cosa saltò in mente a San Gerolamo? 


San Girolamo
Perché il letterato dalmata Sofronius Eusebius Hieronymus, da noi conosciuto come “San Gerolamo” (347-420) dottore della Chiesa, ritenne necessario tradurre di nuovo l’Antico Testamento dall’ebraico? Perché non gli bastava la Bibbia greca dei Settanta?
Per provare a rispondere, sarà bene vedere Gerolamo come figura di “intellettuale”. Con tutti i segni caratteristici dell’intellettuale di ogni tempo: irrequietezza, tendenza a gettarsi in polemiche furenti, ideologicamente militante ed estremista; penna affilata usata come una sciabola; il piacere di farsi dei nemici. Inquieto e insoddisfatto, non però senza un occhio alla carriera: ci fu un momento in cui, chiamato a Roma a fare il segretario di Papa Damaso, stava quasi per esser fatto pontefice, rovinando poi tutto con il suo caratteraccio.
Ma per un intellettuale, “far carriera” significa anzitutto una cosa: il successo editoriale, la fama. In una parola, scrivere un best-seller.
Anche se il successo non gli mancò, fu sempre secondo a quello che aveva riscosso Sant’Atanasio di Alessandria (295-373) con la Vita di Antonio, il copto Antonio del Deserto, il padre di tutti gli eremiti: la sua vita da digiunatore e quasi-fakiro orientale, le sue lotte contro le tentazioni e ed allucinazioni carnali del demonio suscitarono in Roma, tra la classe altolocata, una passione travolgente per la conquista del regno dei cieli ad imitazione del semplice, eroico contadino copto.
Specie fra l’elemento femminile della classi alte. Il best seller di Atanasio non solo portò di moda l’ascetismo, ma contribuì all’esplodere di un fenomeno sociale rilevante – che siamo obbligati a chiamare il primo movimento femminista della storia. Il fenomeno fu agevolato dal diritto romano: per il quale la vedova tornava ad essere padrona del suo patrimonio (la dote) e di quello del caro defunto, dunque conseguiva la completa autonomia economica – purché non si risposasse. Cosa di meglio, in una Roma ormai cristiana, per le ricche vedove fare voto di castità? Lo fece santa Marcella, proprietaria di una magione sull’Aventino, rimasta vedova solo dopo 7 mesi di matrimonio; lo fece santa Melania, con seconda casa nel Monte degli Ulivi, rimasta vedova a 22 anni. Santa Paola, di cui Gerolamo fu segretario, aveva trentun anni quando perse il marito.
Son vedovanze precoci su cui non è lecito gettare sospetti, perché tutte erano sante: santa Rufina e santa Furia, santa Principia e santa Pretestata, tutte con grandi beni che usavano chi per mantenere giovani intellettuali cristiani, chi per leggere in gruppo Origene e Atanasio, chi per visitare gli stiliti e gli anacoreti in Egitto…
L’Egitto, bisogna dire, era da sempre la meta della ricca gioventù romana prima di assumere il cursus honorum: era il gran tour che si concedevano anche le ricche fanciulle diventate autonome. Un pellegrinaggio di istruzione con numerosa servitù al seguito, a vedere il Bue Api che ancora si venerava, le statue di dei che per certi meccanismi, se gettavi una moneta in una fessura, alzavano il braccio a benedire… un parco tematico (ci tratteniamo dal dire: una Disneyworld) a cui s’era aggiunta la più recente e severa meraviglia: la devozione cristiana estrema. Il santo appollaiato sulla colonna, quello che per voto non si tagliava capelli né unghie, lo smagrito eremita che intrecciava cestini ed emanava profonde risposte piene di sapienza, la vita anacoretica così ben narrata nel best seller di Atanasio.
Gerolamo, rodendosi per quel successo, aveva annunciato a tutti i romani-bene nel 373 che anche lui si ritirava nel deserto; e lo fece. Asceta per due anni. Fu, per sua ammissione, un’esperienza orribile. Mentre disciplinava la carne coi digiuni, la sferza e le spine, non riusciva a “dimenticare le danze delle giovani romane”. Ma c’era un motivo per superare quelle sofferenze.
Come nota un suo biografo, il domenicano tedesco Hans Conrad Zender, in realtà “gli intellettuali cercano la solitudine per poter finalmente scrivere indisturbati quel che avrebbero voluto scrivere già da tempo”. È il caso di Gerolamo. Dal deserto di Calcide emerse con un suo libro-inchiesta sul movimento degli eremiti egiziani. Titolo:Vita Sancti Pauli primi eremitae. Aveva fatto quel che oggi si dice uno scoop: aveva scoperto, lui solo, che il primo eremita era stato non Antonio, ma un più antico “Paolo di Tebe”. Era lui che Antonio, ancora inesperto e giovane, era andato ad incontrare per apprendere la via. Paolo era vecchissimo; Antonio gli rese omaggio. Stettero insieme per molti giorni, Paolo insegnando e Antonio ascoltando. Un corvo portava loro un pane ogni giorno.
Questo Paolo proto-eremita è ritenuto, ahimé, un’invenzione di Gerolamo. Che importa? Egli si rituffò a Roma e si gettò con delizia nella battaglia della fede del momento: la lotta per la verginità e la castità. È la forma che aveva preso il movimento proto-femminista cristiano già prima che lui sparisse nel deserto. Non che avessero torto, le pie vedove: gran parte del clero romano conviveva con una vergine che si dedicava a curarlo per obbligo di carità. Era il fenomeno delle agapete. Originariamente sarà anche stato autentico (1), e la castità sarà stata rispettata da entrambi. Ovviamente era diventato presto uno scandalo di lussuria. “Una nuova specie di puttaneggio”, come scrisse furioso san Girolamo ad Eustochio, che era una delle figlie della sua datrice di lavoro, santa Paola.
Santa Paola era una miliardaria d’alto rango senatorio (discendeva dagli Scipioni:gens Cornelia). Adottò come segretario personale, factotum, consigliere spirituale ed intellettuale san Girolamo. Soprattutto, i due si impegnarono nella famosa lotta per la castità, il celibato dei preti e la verginità delle fanciulle, contro i prelati mondani, gaudenti e profumati del loro tempo, che Gerolamo faceva bersaglio dei suoi sarcasmi più che urticanti, per iscritto in splendida prosa ciceroniana…
Sono rimaste anche le centinaia di lettere che Girolamo scrisse alle due figlie dell’imperiosa signora Paola, Blesilla ed Eustochio: tutte istruzioni su come mantenere la castità e la verginità.
Un’altra protagonista di questa santa battaglia, la bella vedova Marcella, aveva dato vita ad una comunità di vergini nella sua gran villa di campagna presso Roma: dove si rinunciava per sempre alla cucina di Apicio, grassa carnea e piena di salse, e ci si nutriva dei prodotti dell’orto, del pane fatto in casa e del latte delle pecore locali, onde non essere annebbiate quando si doveva meditare e leggere.
Una comunità vegana, con alimentazione biologica a chilometro zero per scopi spirituali.
Girolamo divenne un apostolo (militante, secondo il suo solito) del vegetarianesimo, utilissimo ausilio alla castità – insieme ai digiuni. Tanto che quando la discepola Blesilla, figlia di santa Paola, morì ventenne, i numerosissimi nemici che Girolamo s’era fatto nel clero ebbero buon gioco di accusarlo: è stato lui, il guruvegano, ad averla fatta morire a forza di digiuni e di dieta a lattughe.
La realtà era che il movimento capeggiato dalle ricche vedove auto-realizzate era ormai identificato dalla classe dirigente come un pericolo sociale, e san Gerolamo come un sovversivo di sinistra soggiogatore delle vedove. E precisamente per questo: le fanciulle di grandi famiglie non aspettavano nemmeno più di diventare vedove. Si dichiaravano in anticipo votate alla verginità, negandosi al matrimonio – e si tenevano il patrimonio del papà defunto, senza rimetterlo in circolazione nella classe alta, né fare figli a beneficio della medesima classe, da inserire nei ranghi politici. Così, appena morto papa Damaso che lo proteggeva, Gerolamo fu praticamente espulso da Roma. O se ne andò lui, inseguito dalla accusa di aver fatto morire Blesilla come il capo di una setta fanatica.
Era lo sconfitto movimento della verginità e del veganismo, quello che con Gerolamo, e i pochi preti e monaci rimasti al suo fianco, si imbarcò tristemente da Ostia nell’agosto 385 per la Terrasanta. Poco dopo lo raggiunse santa Paola con Eustochio ed alcune delle ascete d’alto rango; continuarono la battaglia da Betlemme, dove Gerolamo fondò (coi soldi di Paola) un monastero maschile dove andò a vivere, ed uno femminile dove visse Paola, ormai non più tanto ricca, anzi povera: aveva profuso tutto nella lotta.
Ormai, in questo esilio, Gerolamo si dedicò completamente alla Bibbia. Sappiamo che già prima anche santa Paola aveva studiato seriamente l’ebraico, e intuiamo il motivo: dalla scelta della nutrizione biologico-integrale alla preferenza per il “testo integrale” non contaminato dalla civiltà ellenica, c’è una relazione che non sfuggirà.
Pane genuino, Torah genuina. Verdure a chilometro zero, testo sacro a chilometro zero: niente più greco, ma aramaico. Lì a Betlemme c’erano ebrei (più o meno convertiti) a cui chiedere lumi quando nascevano dubbi linguistici; ebrei integrali, biologici a chilometro zero. Nelle cui mani si misero.
Il resto – la lotta di Gerolamo ciceroniano nato con il testo semitico – ve la racconto nella prossima puntata. Sempre che v’interessi.
Note
  1. I favorevoli alle “sorelle amate” (questo il significato di ‘agapete’) pretendevano che l’usanza avesse un fondamento dottrinale. Precisamente nella 1ma Corinzi (9, 4-5) dove San Paolo dice: “«Non abbiamo forse noi il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?”
AMDG et BVM