domenica 24 maggio 2015

Il vero nemico...



“Il vero nemico è l’attaccamento al peccato”: così Benedetto XVI, in visita pastorale alla Parrocchia romana di Santa Felicita e Figli Martiri  

Solo il perdono di Dio e il suo amore ricevuto con cuore sincero liberano l’uomo dal peccato, che è la radice di ogni male: questo, il punto centrale dell’omelia di Benedetto XVI, che stamani si è recato in visita pastorale alla Parrocchia romana di Santa Felicita e Figli Martiri al quartiere Fidene, dove ha presieduto la Santa Messa. Accolto da una folla in festa, il Papa ha salutato i fedeli, dicendo: “Siete le pietre vive della Chiesa”. Il servizio di Roberta Moretti:  

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“Il vero nemico è l’attaccamento al peccato, che può condurci al fallimento della nostra esistenza”: commentando il brano evangelico della donna adultera condannata alla lapidazione, Benedetto XVI spiega che “solo il perdono divino e il suo amore ricevuto con cuore aperto e sincero ci danno la forza di resistere al male e di ‘non peccare più’”. 

“Solo l’amore di Dio può cambiare dal di dentro l’esistenza dell’uomo e conseguentemente di ogni società, perché solo il suo amore infinito lo libera dal peccato, che è la radice di ogni male”.  
Gesù è venuto sulla terra – aggiunge Benedetto XVI – “per dirci che ci vuole tutti in Paradiso e che l’Inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore”.  

“Se è vero che Dio è giustizia, non bisogna dimenticare che Dio è amore: Se Cristo odia il peccato è perché ama infinitamente ogni persona umana. Ama ognuno di noi e la sua fedeltà è così profonda da non lasciarsi scoraggiare nemmeno dal nostro rifiuto”.  

“L’atteggiamento di Gesù – precisa il Papa – diviene in tal modo un modello da seguire per ogni comunità, chiamata a fare dell’amore e del perdono il cuore pulsante della sua vita”. Alla comunità del quartiere Fidene, in particolare, dove “non mancano certo situazioni di disagio sia materiale che morale”, il Papa rivolge l’invito a nutrirsi delle “abbondanti provviste spirituali” donate dal Signore “per attraversare il deserto di questo mondo e trasformarlo in un fertile giardino”: 

“Queste provviste sono l’ascolto docile della sua Parola, i Sacramenti e ogni altra risorsa spirituale della liturgia e della preghiera personale. In definitiva, la vera provvista è il suo amore. L’amore che spinse Gesù ad immolarsi per noi, ci trasforma e ci rende a nostra volta capaci di seguirlo fedelmente”.  

Infine, l’esortazione a “seguire il Vangelo senza esitazioni e senza compromessi”, attraverso l’intercessione della Vergine Maria.

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VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA ROMANA 
DI SANTA FELICITA E FIGLI MARTIRI , 25.03.2007
OMELIA DEL SANTO PADRE
Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle

della Parrocchia di santa Felicita e figli martiri!

Sono venuto volentieri a farvi visita in questa V Domenica di Quaresima. A voi tutti il mio cordiale saluto. Innanzitutto rivolgo il mio pensiero al Cardinale Vicario e al Vescovo Ausiliare Mons. Enzo Dieci. Saluto poi con affetto i Padri Vocazionisti, ai quali è affidata la Parrocchia fin dal suo nascere, nel 1958, ed in modo speciale il vostro parroco, don Eusebio Mosca, che ringrazio per le gentili parole con cui mi ha brevemente presentato la realtà della vostra comunità. Saluto gli altri sacerdoti, i religiosi, le religiose, i catechisti, i laici impegnati e quanti offrono in diverse maniere il proprio contributo alle molteplici attività della Parrocchia - pastorali, educative e di promozione umana - dirette con una attenzione prioritaria ai bambini, ai giovani e alle famiglie. Saluto la comunità filippina, abbastanza numerosa nel vostro territorio, che qui si raccoglie ogni domenica per la santa Messa celebrata nella propria lingua. Estendo il mio saluto a tutti gli abitanti del quartiere Fidene, formato in misura crescente da persone che provengono da altre regioni d’Italia e da diversi Paesi del mondo.

Qui, come altrove, non mancano certo situazioni di disagio sia materiale che morale, situazioni che domandano a voi, cari amici, un impegno costante per testimoniare che l’amore di Dio, manifestatosi appieno in Cristo crocifisso e risorto, abbraccia in modo concreto tutti senza distinzione di razza e cultura. Questa è in fondo la missione di ogni comunità parrocchiale, chiamata ad annunciare il Vangelo e ad essere luogo di accoglienza e di ascolto, di formazione e di condivisione fraterna, di dialogo e di perdono. Come può una comunità cristiana mantenersi fedele a questo suo mandato? Come può diventare sempre più una famiglia di fratelli animati dall’Amore? La parola di Dio che poc’anzi abbiamo ascoltato, e che risuona con singolare eloquenza nel nostro cuore durante questo tempo quaresimale, ci ricorda che il nostro pellegrinaggio terreno è irto di difficoltà e di prove, come il cammino del popolo eletto nel deserto prima di giungere alla terra promessa. Ma l’intervento divino, assicura Isaia nella prima Lettura, può renderlo facile, trasformando la steppa in un paese confortevole e ricco di acque (cfr Is 43,19-20). Al profeta fa eco il Salmo responsoriale: mentre richiama la gioia del ritorno dall’esilio babilonese, invoca il Signore perché intervenga a favore dei "prigionieri" che nell’andare vanno piangendo, ma nel tornare sono pieni di giubilo perché Iddio è presente, e come in passato, compirà anche in futuro "grandi cose per noi".

Questa stessa consapevolezza deve animare ogni comunità cristiana fornita dal suo Signore di abbondanti provviste spirituali per attraversare il deserto di questo mondo e trasformarlo in un fertile giardino. 

Queste provviste sono l’ascolto docile della sua Parola, i Sacramenti e ogni altra risorsa spirituale della liturgia e della preghiera personale. 

In definitiva, la vera provvista è il suo amore. L’amore che spinse Gesù ad immolarsi per noi, ci trasforma e ci rende a nostra volta capaci di seguirlo fedelmente. Sulla scia di quanto la liturgia ci ha proposto la scorsa domenica, l’odierna pagina evangelica ci aiuta a capire che solo l’amore di Dio può cambiare dal di dentro l’esistenza dell’uomo e conseguentemente di ogni società, perché solo il suo amore infinito lo libera dal peccato, che è la radice di ogni male. 
Se è vero che Dio è giustizia, non bisogna dimenticare che Egli è soprattutto amore: se odia il peccato, è perché ama infinitamente ogni persona umana. Ama ognuno di noi e la sua fedeltà è così profonda da non lasciarsi scoraggiare nemmeno dal nostro rifiuto. In particolare oggi Gesù ci provoca alla conversione interiore: ci spiega perché Egli perdona e ci insegna a fare del perdono ricevuto e donato ai fratelli il "pane quotidiano" della nostra esistenza.

Il brano evangelico narra l’episodio della donna adultera in due suggestive scene: nella prima assistiamo a una disputa tra Gesù e gli scribi e i farisei riguardo a una donna sorpresa in flagrante adulterio e, secondo la prescrizione contenuta nel Libro del Levitico (cfr 20,10), condannata alla lapidazione. Nella seconda scena si snoda un breve e commovente dialogo tra Gesù e la peccatrice. 
Gli spietati accusatori della donna, citando la legge di Mosè provocano Gesù – lo chiamano "maestro" (Didáskale) - chiedendogli se sia giusto lapidarla. Conoscono la sua misericordia e il suo amore per i peccatori e sono curiosi di vedere come se la caverà in un caso del genere, che secondo la legge mosaica non presentava dubbi. Ma Gesù si mette subito dalla parte della donna; in primo luogo scrivendo per terra parole misteriose, che l’evangelista non rivela, e poi pronunciando quella frase diventata famosa:"Chi di voi è senza peccato (usa il termine anamártetos,che viene utilizzato nel Nuovo Testamento soltanto qui), scagli per primo la pietra contro di lei" (Gv 8,7). Nota sant’Agostino che "il Signore, rispondendo, rispetta la legge e non abbandona la sua mansuetudine". Ed aggiunge che con queste sue parole obbliga gli accusatori a entrare dentro se stessi e guardando se stessi a scoprirsi peccatori. Per cui,"colpiti da queste parole come da una freccia grossa quanto una trave, uno dopo l’altro se ne andarono" (In Io. Ev. tract 33,5).

Uno dopo l’altro, dunque, gli accusatori che avevano voluto provocare Gesù, se ne vanno "cominciando dai più anziani fino agli ultimi". Quando tutti sono partiti il divino Maestro resta solo con la donna. Conciso ed efficace il commento di sant’Agostino: "relicti sunt duo: misera et misericordia, restano solo loro due, la misera e la misericordia" (Ibid.). Fermiamoci, cari fratelli e sorelle, a contemplare questa scena dove si trovano a confronto la miseria dell’uomo e la misericordia divina, una donna accusata di un grande peccato e Colui, che pur essendo senza peccato, si è addossato i peccati del mondo intero. Egli, che era rimasto chinato a scrivere nella polvere, ora alza gli occhi ed incontra quelli della donna. Non chiede spiegazioni, non esige scuse. Non è ironico quando le domanda: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?" (8,10). Ed è sconvolgente nella sua replica: "Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più" (8,11). Ancora sant’Agostino, nel suo commento, osserva: "Il Signore condanna il peccato, non il peccatore. Infatti, se avesse tollerato il peccato avrebbe detto: Neppure io ti condanno, va’, vivi come vuoi… per quanto grandi siano i tuoi peccati, io ti libererò da ogni pena e da ogni sofferenza. Ma non disse così"(Io. Ev. tract. 33,6)

Cari amici, dalla parola di Dio che abbiamo ascoltato emergono indicazioni concrete per la nostra vita. Gesù non intavola con i suoi interlocutori una discussione teorica: non gli interessa vincere una disputa a proposito di un’interpretazione della legge mosaica, ma il suo obbiettivo è salvare un’anima e rivelare che la salvezza si trova solo nell’amore di Dio. Per questo è venuto sulla terra, per questo morirà in croce ed il Padre lo risusciterà il terzo giorno. E’ venuto Gesù per dirci che ci vuole tutti in Paradiso e che l’inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore. Anche in questo episodio, dunque, comprendiamo che il vero nostro nemico è l’attaccamento al peccato, che può condurci al fallimento della nostra esistenza. 

Gesù congeda la donna adultera con questa consegna: "Va e d’ora in poi non peccare più". Le concede il perdono affinché "d’ora in poi" non pecchi più. In un episodio analogo, quello della peccatrice pentita che troviamo nel Vangelo di Luca (7,36-50) Egli accoglie e rimanda in pace una donna che si è pentita. Qui, invece, l’adultera riceve il perdono in mondo incondizionato. In entrambi i casi – per la peccatrice pentita e per l’adultera – il messaggio é unico. In un caso si sottolinea che non c’è perdono senza pentimento; qui si pone in evidenza che solo il perdono divino e il suo amore ricevuto con cuore aperto e sincero ci danno la forza di resistere al male e di "non peccare più". L’atteggiamento di Gesù diviene in tal modo un modello da seguire per ogni comunità, chiamata a fare dell’amore e del perdono il cuore pulsante della sua vita.

Cari fratelli e sorelle, nel cammino quaresimale che stiamo percorrendo e che si avvia rapidamente al suo termine, ci accompagni la certezza che Iddio non ci abbandona mai e che il suo amore è sorgente di gioia e di pace; è forza che ci spinge potentemente sulla strada della santità, se necessario anche sino al martirio. Così avvenne per i figli e poi per la coraggiosa madre Felicita, patroni della vostra Parrocchia. Per loro intercessione vi conceda il Signore di incontrare sempre più in profondità Cristo e di seguirlo con docile fedeltà perché, come avvenne per l’apostolo Paolo, anche voi possiate con sincerità proclamare: 

"Tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo" (Fil 3,8). L’esempio e l’intercessione di questi santi siano per voi un costante incoraggiamento a seguire il sentiero del Vangelo senza esitazioni e senza compromessi. Vi ottenga questa generosa fedeltà la Vergine Maria, che domani contempleremo nel mistero dell’Annunciazione e alla quale affido tutti voi e l’intera popolazione di questa borgata di Fidene. Amen.

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana

AMDG et BVM

118, 119, 120.


«ASCOLTA, FIGLIO MIO, RIPONILO NEL TUO CUORE. NON TEMERE E NON AFFLIGGERTI. NON SI TURBI IL TUO CUORE E NON PREOCCUPARTI NÉ DI QUESTA NÉ DI QUALSIASI ALTRA INFERMITÀ.

NON STO FORSE QUI IO, CHE SONO TUA MADRE? NON STAI FORSE SOTTO LA MIA PROTEZIONE? NON SONO FORSE IO LA FONTE DELLA TUA GIOIA? NON SEI FORSE NEL CAVO DEL MIO MANTO, NELLA CROCE DELLE MIE BRACCIA? COSA VUOI DI PIÙ?

NIENTE DEVE AFFLIGGERTI E TURBARTI. NON ANGUSTIARTI PER L'INFERMITÀ DI TUO ZIO, PERCHÉ PER ORA NON MORIRÀ. SAPPI ANZI CON CERTEZZA CHE È GIÀ PERFETTAMENTE GUARITO».

Vieni, Spirito Santo, vieni...



640. La discesa dello Spirito Santo. Fine del ciclo messianico. Mc 16, 20; Atti 2, 1-4


Non ci sono voci e rumori nella casa del Cenacolo. Non c’è presenza di discepoli, almeno io non sento nulla che mi autorizzi a dire che in altri ambienti della casa siano raccolte delle persone. Ci sono soltanto la presenza e le voci dei Dodici e di Maria Ss., raccolti nella sala della Cena.

Sembra più ampia la stanza, perché le suppellettili, messe diversamente, lasciano libero tutto il centro della stanza e anche due delle pareti. Contro la terza è spinto il tavolone usato per la Cena, e fra esso e il muro, e anche ai due dei lati più stretti del tavolo, sono messi i sedili-lettucci usati nella Cena e lo sgabello usato da Gesù per la lavanda dei piedi. Però non sono, questi lettucci, messi verticalmente alla tavola, come per la Cena, ma parallelamente, di modo che gli apostoli possono stare seduti senza occuparli tutti, pur lasciando un sedile, l’unico messo verticale rispetto alla tavola, tutto per la Vergine benedetta, che è al centro della tavola, al posto che nella Cena occupava Gesù.

La tavola è nuda di tovaglie e stoviglie, nude le credenze, denudati i muri dei loro ornamenti. Solo il lampadario arde al centro, ma con la sola fiamma centrale accesa; l’altro giro di fiammelle che fanno da
corolla al bizzarro lampadario sono spente.
Le finestre sono chiuse e sbarrate dalla pesante sbarra di ferro che le traversa. Ma un raggio di sole si infiltra baldanzoso da un forellino e scende come un ago lungo e sottile sino al pavimento, dove mette un occhiolino di sole.
La Vergine, seduta sola sul suo sedile, ha ai lati, sui lettucci, Pietro e Giovanni: alla destra Pietro, alla sinistra Giovanni. Mattia, il novello apostolo, è tra Giacomo d’Alfeo e il Taddeo. Davanti a Lei, la Madonna ha un cofano largo e basso di legno scuro, chiuso. Maria è vestita di azzurro cupo. Ha sui capelli il velo bianco e sopra questo il lembo del suo manto. Gli altri sono tutti a capo scoperto.

Maria legge lentamente a voce alta. Ma, per la poca luce che giunge sin là, io credo che più che leggere Ella ripeta a memoria le parole scritte sul rotolo che Ella tiene spiegato. Gli altri la seguono in silenzio, meditando. Ogni tanto rispondono se ne è il caso.
Maria ha il viso trasfigurato da un sorriso estatico. Chissà cosa vede di così capace da accenderle gli occhi, come due stelle chiare, e da arrossarle le guance d’avorio, come se su Lei si riflettesse una fiamma rosata? 

È veramente la mistica Rosa...
Gli apostoli si sporgono in avanti, stando un poco per sbieco, per vederla in viso mentre così dolcemente sorride e legge, e pare la sua voce un canto d’angelo. 
E Pietro se ne commuove tanto che due lucciconi gli cascano dagli occhi e per un sentiero di rughe, incise ai lati del suo naso, scendono a perdersi nel cespuglio della barba brizzolata. Ma Giovanni riflette il sorriso verginale e si accende come Lei di amore, mentre segue col suo sguardo ciò che la Vergine legge sul rotolo e, quando le porge un nuovo rotolo, la guarda e le sorride.

La lettura è finita. Cessa la voce di Maria. Cessa il fruscio delle pergamene svolte e avvolte. Maria si raccoglie in orazione segreta, congiungendo le mani sul petto e appoggiando il capo contro il cofano. Gli apostoli la imitano...

Un rombo fortissimo e armonico, che ha del vento e dell’arpa, che ha del canto umano e della voce di un organo perfetto, risuona improvviso nel silenzio del mattino. Si avvicina, sempre più armonico e più forte, ed empie delle sue vibrazioni la Terra, le propaga e imprime alla casa, alle pareti, alle suppellettili. La fiamma del lampadario, sino allora immobile nella pace della stanza chiusa, palpita come se un vento l’investisse, e le catenelle della lumiera tintinnano vibrando sotto l’onda di suono soprannaturale che le investe.

Gli apostoli alzano il capo sbigottiti e, come quel fragore bellissimo, in cui sono tutte le note più belle che Dio abbia dato ai Cieli e alla Terra, si fa sempre più vicino, alcuni si alzano pronti a fuggire, altri si rannicchiano al suolo coprendosi il capo con le mani e il manto, o battendosi il petto domandando perdono al Signore, altri ancora si stringono a Maria, troppo spaventati per conservare quel ritegno verso la Purissima che hanno sempre.


Solo Giovanni non si spaventa, perché vede la pace luminosa di gioia che si accentua sul volto di Maria, che alza il capo sorridendo ad una cosa nota a Lei sola e che poi scivola in ginocchio aprendo le braccia, e le due ali azzurre del suo manto così aperto si stendono su Pietro e Giovanni, che l’hanno imitata inginocchiandosi.
Ma tutto ciò, che io ho tenuto minuti a descrivere, si è fatto in men di un minuto.

E poi ecco la Luce, il Fuoco, lo Spirito Santo, entrare, con un ultimo fragore melodico, in forma di globo lucentissimo, ardentissimo, nella stanza chiusa, senza che porta o finestra sia mossa, e rimanere librato per un attimo sul capo di Maria, a un tre palmi dalla sua testa, che ora è scoperta, perché Maria, vedendo il Fuoco Paraclito, ha alzato le braccia come per invocarlo e gettato indietro il capo con un grido di gioia, con un sorriso d’amore senza confini. E dopo quell’attimo in cui tutto il Fuoco dello Spirito Santo, tutto l’Amore è raccolto sulla sua Sposa, il Globo Ss. si scinde in tredici fiamme canore e lucentissime, di una luce che nessun paragone terreno può descrivere, e scende a baciare la fronte di ogni apostolo.

Ma la fiamma che scende su Maria non è una lingua di fiamma dritta sulla fronte che bacia, ma è una corona che abbraccia e cinge come un serto il capo verginale, incoronando Regina la Figlia, la Madre, la Sposa di Dio, l’incorruttibile Vergine, la Tutta Bella, l’eterna Amata e l’eterna Fanciulla che nulla cosa può avvilire e in nulla, Colei che il dolore aveva invecchiata ma che è risorta nella gioia della Risurrezione, avendo in comune col Figlio un accentuarsi di bellezza e di freschezza di carni, di sguardi, di vitalità... avendone già un anticipo della bellezza del suo glorioso Corpo assunto al Cielo ad essere il fiore del Paradiso.

Lo Spirito Santo rutila le sue fiamme intorno al capo dell’Amata. Quali parole le dirà? Mistero! Il viso benedetto è trasfigurato di gioia soprannaturale e ride del sorriso dei Serafini, mentre delle lacrime beate sembrano diamanti giù per le gote della Benedetta, percosse come sono dalla luce dello Spirito Santo.
Il Fuoco rimane così per qualche tempo... E poi dilegua... Della sua discesa resta a ricordo una fragranza che nessun terrestre fiore può sprigionare... Il profumo del Paradiso...

Gli apostoli tornano in loro stessi... Maria resta nella sua estasi. Soltanto si raccoglie le braccia sul petto, chiude gli occhi, abbassa il capo... Continua il suo colloquio con Dio... insensibile a tutto... Nessuno osa turbarla.
Giovanni, accennandola, dice: «È l’Altare. E sulla sua gloria si è posata la Gloria del Signore...».
«Sì. Non turbiamo la sua gioia. Ma andiamo a predicare il Signore e siano manifeste le sue opere e le sue parole fra i popoli», dice Pietro con soprannaturale impulsività.
«Andiamo! Andiamo! Lo Spirito di Dio arde in me», dice Giacomo d’Alfeo.
«E ci sprona ad agire. Tutti. Andiamo ad evangelizzare le genti».
Escono, come fossero spinti o attratti da un vento o da una forza gagliarda...

*


Dice Gesù:

«E qui l’Opera che il mio amore per voi ha dettata, e che voi avete ricevuta per l’amore che una creatura ha avuto per Me e per voi, è finita.
È finita oggi, commemorazione di Santa Zita da Lucca (vergine lucchese del 13° secolo, domestica e patrona delle domestiche, molto venerata a Lucca che ne celebra la festa il 27 aprile), umile servente che servì il suo Signore nella carità in questa Chiesa di Lucca, nella quale Io, da luoghi lontani, ho portato il mio piccolo Giovanni perché mi servisse nella carità e con lo stesso amore di S. Zita per tutti gli infelici. Zita dava pane ai poverelli ricordando che in ognuno di essi Io sono e beati saranno, al mio fianco, coloro che avranno dato pane e bevanda a coloro che hanno sete e fame. Maria-Giovanni ha dato le mie parole a coloro che languiscono nell’ignoranza o nella tiepidezza o dubbio sulla Fede, ricordando che è detto dalla Sapienza che coloro che si affaticano per far conoscere Iddio splenderanno come stelle nell’eternità, dando gloria al loro Amore col farlo noto e amato, e a molti. (Sapienza 3, 1-9; Daniele 12, 3-4.)

E ancora è finita oggi, giorno nel quale la Chiesa eleva agli altari il puro giglio dei campi Maria Teresa Goretti (martire della purezza [1890-1902], beatificata il 27 aprile 1947 e canonizzata nel 1950), dallo stelo spezzato mentre ancor la corolla era un boccio. E da chi spezzato se non da Satana, invido di quel candore, splendente più del suo antico aspetto d’angelo? Spezzato perché sacro all’Amatore divino.

Vergine e martire, Maria, di questo secolo d’infamie, nel quale si vilipende anche l’onore della Donna, sputando la bava dei rettili a negare il potere di Dio di dare una dimora inviolata al suo Verbo incarnantesi per opera di Spirito Santo a salvare coloro che credono in Lui. Anche Maria-Giovanni è martire dell’Odio, che non vuole celebrate le mie meraviglie con l’Opera, arma potente a strappargli tante prede. Ma anche Maria-Giovanni sa, come sapeva Maria-Teresa, che il martirio, qualunque nome e aspetto abbia, è chiave per aprire senza indugio il Regno dei Cieli a quelli che lo patiscono per continuare la mia Passione. 

L’Opera è finita. (Ma non sono finite le “visioni” e i “dettati” fuori del ciclo messianico dichiarato concluso
con la discesa dello Spirito Santo. Perciò saranno messi, a completamento dell’Opera, altri scritti, ad essa pertinenti, di vari anni e soprattutto del 1951. Di conseguenza, il Commiato all’Opera, scritto il 28 aprile 1947 e che sui quaderni autografi segue immediatamente il presente “dettato”, sarà riportato al termine del completamento dell’Opera). E con la sua fine, con la discesa dello Spirito Santo, si conclude il ciclo messianico, che la mia Sapienza ha illuminato dal suo albore: il Concepimento immacolato di Maria, al suo tramonto: la discesa dello Spirito Santo. Tutto il ciclo messianico è opera dello Spirito d’Amore, per chi sa ben vedere. Giusto, dunque, iniziarlo col mistero dell’immacolato Concepimento della Sposa dell’Amore e concluderlo con il sigillo di Fuoco Paràclito sulla Chiesa di Cristo.

Le opere manifeste di Dio, dell’Amore di Dio, hanno fine con la Pentecoste. Da allora in poi continua l’intimo, misterioso operare di Dio nei suoi fedeli, uniti nel Nome di Gesù nella Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica, Romana; e la Chiesa, ossia l’adunanza dei fedeli - pastori, pecore e agnelli - può procedere e non errare per la spirituale, continua operazione dell’Amore, Teologo dei teologi, Colui che forma i veri teologi, che sono coloro che sono persi in Dio ed hanno Dio in loro - la vita di Dio in loro per la direzione dello Spirito di Dio che li conduce - che sono coloro che veramente sono “figli di Dio” secondo il concetto di Paolo. (Espresso in: Romani 8, 14-17).

E al termine dell’Opera devo mettere ancora una volta il lamento messo alla fine di ogni anno evangelico (cioè al Vol 2 Cap 140, al Vol 5 Cap 312 e al Vol 8 Cap 540) , e nel mio dolore di veder spregiato il dono mio vi dico: “Non avrete altro, poiché non avete saputo accogliere questo che vi ho dato”. 
E dico anche ciò che vi feci dire per richiamarvi sulla via retta nella passata estate: (precisamente il 21-5-46, data inserita a questo punto da MV e che si riferisce ad un “dettato” riportato nel volume “I quaderni dal 1945 al 1950”“Non mi vedrete finché non venga il giorno nel quale diciate: "Benedetto colui che viene nel Nome del Signore">>.

Finita l’Opera oggi 27 aprile 1947
Viareggio – Via Fratti 113 ?(257) = Maria Valtorta

<<SPIRITO SANTO, ISPIRAMI.
AMORE DI DIO, CONSUMAMI.
NEL VERO CAMMINO, CONDUCIMI.
MARIA MADRE MIA, GUARDAMI.
CON GESU’ BENEDICIMI.
DA OGNI MALE, DA OGNI ILLUSIONE,
DA OGNI PERICOLO, PRESERVAMI.>>

sabato 23 maggio 2015

“Inganniamo la gente parlando di misericordia senza sapere quel che vuol dire la parola. Il Signore perdona i peccati, ma se ci pentiamo”

"L'Occidente è ripiegato sulle sue illusioni. Coraggio è andare controcorrente". Parola di cardinale

                     Il cardinale Robert Sarah è prefetto della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti
“Se si considera l’eucarestia come un pasto da condividere, da cui nessuno può essere escluso, allora si perde il senso del Mistero”. Così ha detto il cardinale Robert Sarah, da pochi mesi prefetto della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, intervenuto al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia in occasione della presentazione della collana “Famiglia, lavori in corso”, una raccolta di saggi editi dalla casa editrice Cantagalli, in vista del prossimo Sinodo ordinario di ottobre.  ..........

“L’Occidente – ha detto Sarah rispondendo a braccio ad alcune domande che gli sono state poste dall'uditorio – si sta adeguando sulle proprie illusioni”. Il problema di tutto, ha rimarcato più volte il porporato di cui Il Foglio ha anticipato per l’Italia lo scorso 13 marzo un lungo estratto del libro “Dieu ou rien” uscito in Francia presso Fayard, è nella fede. “Se si pensa che anche nel rito del Battesimo non si menziona più la parola ‘fede’, quando ai genitori viene domandato cosa si chiede per il bambino alla Chiesa di Dio, si comprende l’entità del problema”, ha aggiunto il cardinale guineano, che ha anche biasimato il senso che viene dato oggi al Catechismo: "I bambini fanno disegni e non imparano nulla, non vanno a messa". 

Quanto al Sinodo prossimo venturo, l’invito è a non farsi illusioni su cambiamenti epocali: “La gente crede che ci sarà una rivoluzione, ma non potrà essere così. Perché la dottrina non appartiene a qualcuno, ma è di Cristo”. Dopo l'appuntamento dello scorso ottobre, ha osservato Sarah presentando i tre volumi, "fu chiaro che il vero fulcro non era e non è solo la questione dei divorziati risposati", bensì "se la dottrina della Chiesa sia da considerare un ideale irraggiungibile, irrealizzabile e necessitante quindi di un adattamento al ribasso  per essere proposta alla società odierna. Se così stanno le cose, si impone necessariamente una chiarificazione se il Vangelo sia una buona notizia per l'uomo o un fardello inutile e non più proponibile". La ricchezza del cattolicesimo – ha aggiunto – "non può essere svelata da considerazioni dettate da un certo pragmatismo e dal sentire comune. La Rivelazione indica all'umanità la via della pienezza e la felicità. Disconoscere questo dato significherebbe affermare la necessità di ripensare i fondamenti stessi dell'azione salvifica della Chiesa che si attua attraverso i sacramenti".

Il problema è anche di quei “sacerdoti e vescovi” che contribuiscono con le loro parole a “contraddire la parola di Cristo”. E questo, ha detto Sarah, “è gravissimo”. Permettere a livello di diocesi particolari quel che ancora non è stato autorizzato dal Sinodo (il riferimento era alla prassi seguita in molte realtà dell’Europa centro-settentrionale) significa “profanare Cristo”. 

Poco vale invocare la misericordia: “Inganniamo la gente parlando di misericordia senza sapere quel che vuol dire la parola. Il Signore perdona i peccati, ma se ci pentiamo”. Le divisioni che si sono viste lo scorso ottobre, “sono tutte occidentali. In Africa siamo fermi, perché in quel continente c’è tanta gente che per la fede ha perso la vita”. Un appello, il cardinale, l’ha anche lanciato contro chi – membro del clero – usa un linguaggio non corretto: “E’ sbagliato per la Chiesa usare il vocabolario delle Nazioni Unite. Noi abbiamo un nostro vocabolario”. 

Una puntualizzazione, poi, l’ha voluta fare su una delle massime che vanno per la maggiore dal 2013, e cioè l’uscita in periferia. Proposito corretto, naturalmente, ma a una condizione: “E’ facile andare nelle periferie, ma dipende se lì portiamo Cristo. Oggi è più coraggioso stare con Cristo sulla croce, il martirio. Il nostro dovere è quello di andare controcorrente” rispetto alle mode del tempo, a “quel che dice il mondo”. E poi, "se la Chiesa smette di dire il Vangelo, essa è finita. Può farlo con i modi d'oggi, ma con fermezza".  Infine, un appunto sul calo delle vocazioni sacerdotali nel mondo: "Il problema non è che ci sono pochi preti, quanto capire se quei preti sono davvero sacerdoti di Cristo".

di Matteo Matzuzzi | 21 Maggio 2015 ore 12:41
AMDG et BVM

"Ancor oggi... i credenti hanno un bisogno particolare dell'esempio di tali vite eroicamente consacrate all'amore di Dio e, per Dio, agli altri uomini»

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Carissimo/a Amico/a,


«La considerazione della vita dei santi – con le loro lotte ed il loro eroismo – ha prodotto in ogni tempo abbondanti frutti nelle anime dei cristiani. Ancor oggi... i credenti hanno un bisogno particolare dell'esempio di tali vite eroicamente consacrate all'amore di Dio e, per Dio, agli altri uomini» (Documento della Congregazione per il Clero sul Prete, 19 marzo 1999). L'esempio dei martiri è particolarmente illuminante, come ricordava papa Pio XI in occasione della canonizzazione di san Tommaso Moro: «Se non tutti siamo chiamati a versare il nostro sangue per la difesa delle leggi divine, tutti dobbiamo, tuttavia, attraverso l'esercizio dell'abnegazione evangelica, la mortificazione cristiana dei sensi e la ricerca laboriosa della virtù «avere il desiderio di essere martiri, per poter partecipare con essi alla celeste ricompensa», secondo le espressive parole di san Basilio» (19 maggio 1935).
Tommaso Moro nasce a Londra, il 6 febbraio 1477. Riceve dai suoi genitori un'educazione severa ed attenta, cui corrisponde docilmente, dimostrandosi ubbidiente e gentile. Viene iscritto molto presto alla scuola Sant'Antonio di Londra. Appena adolescente, è accolto, su richiesta di suo padre, nella casa del Cardinale Morton, arcivescovo di Canterbury e Cancelliere del Regno d'Inghilterra (primo dignitario dello Stato, dopo il Re). Incanta il prelato ed i suoi ospiti, in occasione delle sedute ricreative, grazie ad un dono d'improvvisazione che denota un grande senso dell'osservazione.
A 14 anni, Tommaso va a continuare gli studi ad Oxford. Grazie all'insegnamento di eminenti professori, compie rapidi progressi, in particolare nella conoscenza delle lingue latina e greca, il che gli permetterà di leggere le opere dei Padri della Chiesa nel testo originale. Si applica anche allo studio del francese, della storia, della geometria, della matematica e della musica. In capo a due anni, suo padre, che è avvocato, lo fa tornare a Londra per studiarvi legge. Nel 1501, Tommaso entra lui pure a far parte del foro. Per quattro anni, alloggia presso i Certosini di Londra, conducendo una vita mezzo religiosa, mezzo laica, condividendo abitualmente gli esercizi dei monaci, ed iniziandosi alla spiritualità. Gliene rimarrà per tutta la vita un grande zelo per la preghiera e la penitenza. Nella sua professione di avvocato, insensibile a qualsiasi idea di cupidigia, armonizza i diritti della giustizia più rigorosa con quelli della più affabile carità. Nel 1504, a 27 anni, viene eletto deputato al Parlamento.
Nello stesso anno 1504, sposa Joanna Colt, giovane di costumi dolci e semplici. Dalla loro unione nascono tre figlie: Margherita, Cecilia, Elisabetta, ed un maschio: Giovanni. Tommaso conduce una vita semplice. È affabile e si diverte a stuzzicare la gente senza ferirla. Nell'anno del suo matrimonio, ospita Erasmo da Rotterdam, Monaco agostiniano e forse lo scienziato più universale della sua epoca. I due uomini hanno in comune lo stesso ideale di umanesimo cristiano.



Un marito premuroso

Nel 1511, Tommaso piange la perdita della moglie. Ben presto, risente il bisogno di dare un'altra madre ai suoi figli e sposa Alice Middleton, vedova di un commerciante londinese e madre di una bimba di dieci anni. Alice, di sette anni maggiore di Tommaso, è una buona padrona di casa ed una madre di famiglia sollecita. Stando a quel che dice Erasmo, suo marito «le manifesta tutte quelle attenzioni e tutta quella gentilezza che riserverebbe ad una moglie giovanissima e di una bellezza straordinaria. La dirige con carezze e parole gentili... Che cosa gli rifiuterebbe essa? Si pensi che la donna, già matura, si è messa, senza alcun gusto innato e con la massima assiduità, ad imparare a suonare la cetra, l'arpa, il monocordo e il flauto, facendo tutti i giorni gli esercizi che le indicava il marito». Verso il 1524, i Moro si stabiliscono a Chelsea, vicino a Londra, in una vasta e bella casa provvista di una cappella privata e di una biblioteca. Non mancano mai di pregare in famiglia, almeno la sera. Durante i pasti, viene letto un passo della Bibbia. Tommaso ne spiega il senso celato, poi propone qualche soggetto di conversazione meno severo, e tutti si divertono piacevolmente.
Tommaso guida i propri figli nello studio delle lettere e delle scienze. Ma che beneficio trarrebbero dalla conoscenza del latino e del greco, se tale sapere finisse col riempirli d'orgoglio? Chiede pertanto ai loro insegnanti di guidarli verso l'umiltà; saranno così «avidi di acquisire i tesori della scienza solo per metterli al servizio della difesa della verità e della gloria dell'Onnipotente». Tommaso è pronto a tutto per questo: «Piuttosto che ammettere che i miei figli si lascino andare all'ozio, scrive alla figlia Margherita, non esiterei, anche se il mio benessere dovesse risentirsene, a lasciare la corte ed i pubblici affari, per occuparmi esclusivamente di tutti voi, di te soprattutto, mia cara Margherita, cui voglio tanto bene». Infatti, Tommaso predilige particolarmente Margherita. Ha sempre con sè le lettere, accuratamente scritte in latino, che essa gli manda. La sua tenerezza per tutti i suoi si manifesta anche attraverso i regali che porta loro dai suoi viaggi: dolci, frutta, belle stoffe...

L'accoglienza cordiale dei Moro fa soprannominare la loro casa il «domicilio delle Muse», quello di «tutte le virtù» e di «tutte le forme della carità». La carità di Tommaso è senza limiti, come testimoniano le di lui frequenti e generose elemosine. Ha l'abitudine di percorrere, la sera, i luoghi più isolati, per andare incontro ai poveri che si vergognano della loro miseria e soccorrerli. Riceve spesso a tavola, allegramente e familiarmente, i contadini del vicinato. Fonda un ospizio in cui la figlia adottiva, Margherita Giggs, assume il compito di infermiera. La sua fede nella Provvidenza è profonda. Venuto un giorno a conoscenza dell'incendio dei suoi fienili, dà tre consegne alla moglie: «Riunire tutta la famiglia per ringraziare Dio; vegliare a che nessuno dei vicini abbia a soffrire del sinistro; non licenziare nessun domestico prima di avergli trovato un nuovo datore di lavoro».



Perchè tanti ceri?

Ma Tommaso si distingue soprattutto per la sua permanente intimità con Cristo. A un tale che lo prende in giro per le sue devozioni popolane, dicendo: «Vuol dire che Dio ed i suoi santi non ci vedono, poichè bisogna circondarli sempre di ceri!», risponde: «Cristo non ha forse detto che Maria Maddalena sarebbe stata onorata perchè aveva versato profumo sul suo corpo? Ci si potrebbe domandare allo stesso modo: «Che bene può fare alla testa di Cristo l'olio profumato?» Quel che ci insegnano l'esempio di quella santa donna e le parole del nostro Salvatore è che Dio si compiace di osservare il fervore della devozione del cuore ribollire e spandersi all'esterno; gli piace che lo si serva con tutti i beni che ha concesso all'uomo». Dalla contemplazione di Nostro Signore, Tommaso si eleva all'identificazione con Esso, e mette in risalto l'influenza di Cristo su tutto il genere umano. La presenza dell'Uomo-Dio nel mondo è la base dell'ottimismo fondamentale di Tommaso, del suo amore per la natura, della sua comprensione della debolezza umana, del suo dinamismo apostolico, della sua fiducia incrollabile nel cristianesimo, ed anche del suo senso dell'umorismo. Da nessuna parte, in questo mondo, vede un male definitivo, e si sforza di cogliere il lato positivo di tutti gli eventi.

Grazie alle sue virtù, al suo sapere, ed alle opere in cui difende la fede e la religione contro i novatori protestanti, Tommaso si conquista la stima di tutti, ed in particolare quella del Re Enrico VIII. Si ha così ricorso ai suoi servizi per i pubblici affari. Nel 1515, fa parte di un'ambasciata inviata nelle Fiandre, ed occupa il tempo libero a comporre l'«Utopia». Due anni più tardi, è in Francia, per un'altra missione ufficiale. Nel 1518, diventa membro del Consiglio privato del Re, poi, nel 1525, Cancelliere del Ducato di Lancaster, e infine, nell'ottobre del 1529, viene nominato, con piena soddisfazione di tutto il Regno, Gran Cancelliere d'Inghilterra. Più si trova innalzato dalla dignità, l'autorità o l'onore, e più appare superiore a tutti per la sua modestia, la probità del suo carattere, la pazienza, i sentimenti sempre umani che gli fanno prendere la vita dal lato buono, come testimonia il seguente aneddoto. Essendo evaso un detenuto, dopo aver forzato le porte della prigione, il Cancelliere fa comparire davanti a sè il carceriere, più morto che vivo. Gli ordina severamente di vegliare a che i danni siano prontamente e solidamente riparati, «affinchè, aggiunge con un tono più mite, se il fuggitivo avesse voglia di tornare, gli sia questa volta impossibile forzare le porte della prigione per rientrarvi!»



Tedio pericoloso

Il Re Enrico VIII si comporta da marito fedele durante i primi dieci anni di regno. Ma poi, stanco della moglie, Caterina d'Aragona, che gli ha dato una sola figlia ancora in vita, Maria Tudor, cerca un'altra donna. Nel 1522, arriva alla corte d'Inghilterra una giovane di 15 anni, di nome Anna Bolena. Benchè senza fascino, suscita nel Re una violenta passione. Abilmente, essa si applica ad attizzare la bramosia di Enrico, pur rifiutando di cedere ai suoi desideri finchè non l'avrà sposata. Alle sue spalle, si trova un partito costituito dalla sua famiglia e da nobili animati da interessi diversi.

Enrico VIII aveva sposato Caterina d'Aragona, vedova del suo fratello maggiore, grazie ad una dispensa legittimamente accordata da Papa Giulio II. Cercando il modo di ripudiarla, Enrico VIII s'interroga sulla validità del proprio matrimonio e crede di poter fondare il suo dubbio su un testo della Bibbia (Lev. 18, 16). Interrogato su questo punto dal Re, Tommaso si scusa, allegando la propria incapacità di statuire in una materia che interessa il diritto canonico. Il Re gli ordina allora di esaminare la questione con parecchi teologi; dopo averlo fatto, Tommaso risponde: «Sire, nessuno dei teologi che ho consultato può darvi un consiglio indipendente. Ma conosco consiglieri che parleranno senza timore a Sua Maestà: sono san Girolamo, sant'Agostino e altri Padri della Chiesa. Ecco la conclusione che ho tratto dai loro scritti: «Non è permesso ad un cristiano sposare un'altra donna, mentre la prima è ancora in vita»». Il che significava affermare che il matrimonio con Caterina era valido. La questione è proposta a Roma. Il Papa aspetterà il 1534 per dichiarare valido il matrimonio di Enrico e Caterina. Ma Moro non è più al governo: fin dal 16 maggio 1532, ha dato le dimissioni dalle funzioni di Cancelliere, per non essere costretto ad agire contrariamente alle leggi di Dio e della Chiesa, che i vescovi del Regno (tranne John Fisher) hanno sacrificato al potere regale.



Fedeltà o alto tradimento?

All'inizio del 1533, Enrico sposa segretamente Anna Bolena, che viene incoronata il 1° giugno. Per sancire con maggiore solennità il proprio divorzio, Enrico desidera che la principessa Maria Tudor sia diseredata di tutti i suoi diritti; in compenso, Elisabetta, che Anna ha appena partorito, sarà proclamata unica e legittima erede della corona d'Inghilterra. Il Parlamento si sottomette al Re e vota, il 30 marzo 1534, un «Atto di Successione» in tal senso. Tutti i sudditi del Regno devono impegnarsi sotto giuramento ad osservare la nuova legge nella sua totalità. Il giuramento è preceduto da un preliminare in cui l'autorità del Sovrano Pontefice è formalmente respinta. Vescovi, canonici, parroci, monaci, professori di istituti, personale ospedaliero e quello delle fondazioni caritative si sottomettono e riconoscono il Re quale unico capo spirituale, consacrando in tal modo la separazione da Roma. John Fisher, vescovo di Rochester e Tommaso Moro, come pure alcuni sacerdoti e monaci, rifiutano il giuramento: pagheranno il loro rifiuto con la vita.

Tommaso narrerà la sua comparizione per la prestazione del giuramento in una lettera alla figlia: «Quando arrivai a Lambeth, dove era riunita la commissione reale... chiesi che mi venisse comunicato il testo del giuramento che si esigeva... Dopo averlo letto attentamente e studiato a lungo... dichiarai, in perfetta sincerità di coscienza, che, senza tuttavia rifiutare il giuramento relativamente alla successione, non potevo accettare di prestare il giuramento nei termini in cui era formulato, a meno che volessi esporre la mia anima alla dannazione eterna. Quando ebbi finito di parlare, il gran Cancelliere del regno prese la parola e mi dichiarò che tutti i presenti erano vivamente afflitti di sentirmi esprimermi così; che ero il primo fra tutti i sudditi di Sua Maestà a rifiutare di prestare il giuramento che questi esigeva... Mi si presentò un voluminoso elenco di persone consenzienti... ma dichiarai nuovamente che la mia risoluzione, lungi dall'esser cambiata, era irremovibile».



La responsabilità della mia anima

Per Tommaso, la fedeltà alla testimonianza della coscienza è necessaria per la salvezza eterna. «Certi credono che, se parlano in un modo e pensano in un altro, Dio presterà maggior attenzione al loro cuore che alle loro labbra, scrive alla figlia Margherita. Quanto a me, non posso agire come loro in una materia tanto importante: non rifiuterei di giurare, se la mia coscienza mi dettasse di farlo, anche se gli altri rifiutassero; e, del pari, non presterei giuramento contro la mia coscienza, anche se tutti vi sottoscrivessero». Il carattere inalienabile della coscienza non significa che le sue ingiunzioni s'impongano ciecamente, spiega altresì Tommaso. Ciascuno deve formare la propria coscienza attraverso lo studio ed il consiglio di persone sagge, poichè la coscienza deve essere uniformata alla verità obiettiva (ved. Enciclica Veritatis splendor del 6 agosto 1993). Prima di giungere ad una conclusione che s'impone alla sua coscienza, Tommaso si è imposta una somma di studio considerevole. Riconosce, tuttavia, che l'autorità della Chiesa prevale sulle proprie conclusioni. Ma le autorità umane non hanno più nessun potere su una coscienza retta e sicura: «Solo io porto la responsabilità della mia anima», afferma. Pertanto, contro le false accuse di cui è vittima, i falsi testimoni, contro le prevaricazioni del Re, contro la depravazione del senso morale che fa chiamare «bianco quel che è nero e male quel che è bene», la sua coscienza resiste fino alla morte.


Rinunce dolorose


L'atteggiamento di Tommaso Moro è una luce per la nostra epoca. Il beato Papa Giovanni Paolo II afferma che leggi come quelle che pretendono di rendere legittimo l'aborto o l'eutanasia, «non solo non creano alcun obbligo per la coscienza, ma portano con sé un obbligo grave e preciso di opporvisi attraverso l'obiezione di coscienza. Fin dalle origini della Chiesa, la predicazione apostolica ha insegnato ai cristiani il dovere di ubbidire ai pubblici poteri costituiti legittimamente (ved. Rom. 13, 1-7; 1 P. 2, 13-14), ma ha dato in pari tempo il fermo avvertimento che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Atti 5, 29)... L'introduzione di legislazioni ingiuste pone spesso gli uomini moralmente retti di fronte a difficili problemi di coscienza... Le scelte che si impongono sono talvolta dolorose e possono richiedere il sacrificio di situazioni professionali confermate o la rinuncia a prospettive legittime di avanzamento nella carriera... I cristiani, come tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, in virtù di un grave dovere di coscienza, a non dare la loro collaborazione formale alle pratiche che, benchè ammesse dalla legislazione civile, si oppongono alla Legge di Dio... Per gli atti che ciascuno compie personalmente, esiste, infatti, una responsabilità morale cui nessuno si può mai sottrarre e su cui ciascuno sarà giudicato da Dio stesso» (Enciclica Evangelium vitæ, 25 marzo 1995, nn. 73-74).


Il 17 aprile 1534, Tommaso viene incarcerato nella Torre di Londra. Utilizza il tempo della detenzione a prepararsi alla morte, componendo notevoli opere di devozione. Già in un'opera incompiuta del 1522, I quattro ultimi fini, aveva messo in risalto il beneficio del pensiero della morte: se fosse in vendita un rimedio per tutti i mali, spiega, gli uomini farebbero l'impossibile per procurarselo. Ora, il rimedio esiste e si chiama «il pensiero della morte». Ma, ahimè, ben pochi hanno ricorso ad esso. Soltanto la meditazione dei fini ultimi può rettificare il loro giudizio.



Sovvertimento dei valori

Tale meditazione presuppone la fede. La fede, spiega Tommaso, sovverte il senso dei valori comunemente ammessi dagli uomini; essa ci dice che tutta la Santissima Trinità risiede nell'anima in stato di grazia, anche al momento della prova; che i nostri nemici sono gli amici che ci sono maggiormente vicini; che la riconoscenza deve rivolgersi meno al visitatore da parte del carcerato che all'infelice da parte del benefattore. Al di sopra di tutto, la fede scopre il valore soprannaturale della sofferenza. Insegna a far diventare medicina la malattia medesima. Per Tommaso, tutte le nostre tribolazioni hanno quale ragione principale quella di suscitare in noi il desiderio di essere consolati da Dio. Tuttavia, esse ci aiutano anche a purificarci dalle nostre colpe passate, ci preservano da quelle future, diminuiscono le pene del purgatorio ed accrescono la ricompensa finale del Cielo. «Chiunque medita tali verità e le conserva nel suo spirito... valuterà con pazienza il prezzo della prova, troverà che tale prezzo è elevato e, ben presto, si stimerà privilegiato, ... la sua gioia diminuirà ampiamente la sua pena e gli impedirà di ricercare altrove vane consolazioni» (Dialogo fra Conforto e Tribolazione). Simili parole, scritte nel cuore stesso della prova, non sono un vano linguaggio. La gioia soprannaturale che Dio dà a Tommaso in prigione gli procura la serenità e sviluppa il suo senso innato dell'umorismo. Un giorno in cui il governatore della Torre si scusa gentilmente per la frugalità del pasto, l'ex Cancelliere risponde: «Se qualcuno di noi non è soddisfatto del vitto, non ha che da andare a cercarsi altrove un altro alloggio!»

Il 1° luglio 1535, Tommaso è condannato a morte per alto tradimento. I giudici gli chiedono se desidera aggiungere qualcosa. «Ho poco da dire, tranne questo: il beato Apostolo Paolo era presente e consenziente al martirio di santo Stefano. Ora, sono entrambi santi in Cielo. Benchè abbiate contribuito alla mia condanna, pregherò fervidamente perchè voi ed io ci ritroviamo insieme in Cielo. Allo stesso modo, desidero che Dio Onnipotente preservi e difenda Sua Maestà il Re e gli mandi un buon consiglio». Un ultimo assalto viene a mettere alla prova la costanza del carcerato. Sua moglie lo va a trovare e gli dice: «Vuoi abbandonarci, me e la mia infelice famiglia? Vuoi rinunciare a quella vita nel nido domestico, che, ancora poco fa, ti piaceva tanto? – Per quanti anni, mia cara Alice, credi che possa ancora godere quaggiù di quei piaceri terreni che mi dipingi con un'eloquenza tanto persuasiva? – Vent'anni, almeno, se Dio vuole. – Ma, carissima moglie, non sei una buona negoziante: che è mai una ventina d'anni a confronto di un'eternità beata?»



«Essa non ha tradito!»

Il 6 luglio, viene condotto sul luogo del supplizio. La scala che porta al patibolo è in pessimo stato e Tommaso ha bisogno del sostegno del tenente per salire: «La prego, dice, mi aiuti a salire. Per discendere, me la sbroglierò da solo!» Avendogli il Re chiesto di esser sobrio nella parola all'ultimo momento, dice molto semplicemente: «Muoio da buon suddito del Re, ma prima di tutto di Dio!» Mentre si inginocchia sul patibolo, le sue labbra pregano: «Dio mio, abbi pietà di me!» Abbraccia il boia e gli dice: «Ho il collo molto corto; attento a non colpirmi di traverso. È in gioco il tuo onore!» Si benda gli occhi da sè. Il boia ha già l'ascia in mano: «Un momento, gli dice Tommaso mettendosi a posto la barba; essa non ha tradito!» Il capo cade al primo colpo. Tommaso è in Cielo per sempre.
Come san Tommaso Moro, accettiamo di perdere tutto per guadagnarci Cristo, per diventare conformi a Lui nella morte, e per giungere così con Lui alla risurrezione (ved. Fil. 3, 8-11). È la grazia che domandiamo a san Giuseppe, per Lei e per tutti coloro che Le sono cari.
Dom Antoine Marie osb