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venerdì 6 luglio 2018

I SANTI ODIERNI


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6 Luglio

Ottava dei santi Apostoli Piétro e Pàolo.
A Gerusalèmme sant'Isaia Profeta, il quale, sotto il Re Manasse, morì segato in due parti, e fu sepolto sotto la quercia di Rogel, vicino alla corrente delle acque.


A Fièsole, in Toscana, san Romolo, Vescovo e Martire, discepolo del beato Piètro Apostolo. Mandato dal medesimo Apostolo a predicare il Vangelo, annunziò Cristo in molti luoghi d'Italia, e infine, tornato a Fièsole, ivi, sotto il Principe Domiziano, fu coronato col martirio insieme con altri Compagni.


A Roma il natale di san Tranquillino Martire, padre dei santi Marco e Marcelliàno, il quale, convertitosi a Cristo per la predicazione di san Sebastiano Martire, dal beato Policarpo Prete fu battezzato, e da san Càio Papa fu ordinato Sacerdote. Nel giorno dell'Ottava degli Apostoli, mentre faceva orazione presso la confessione del beato Pàolo, ivi, sotto l'Imperatore Diocleziàno, fu preso dai pagani, e, da essi lapidato, compì il martirio.


A Londra, in Inghiltèrra, san Tommaso Moro, Cancelliere del Regno, il quale, per la fede cattolica e per il primato del beato Piètro, per ordine del Re Enrico ottavo, fu decapitato.


In Campania santa Doménica, Vergine e Martire, la quale, sotto l'Imperatore Diocleziàno, avendo spezzato gl'idoli, condannata alle fiere, ma per niente da esse offesa, finalmente decapitata passò al Signore. Il suo corpo si conserva con somma venerazione a Tropèa, in Calabria.


Nello stesso giorno santa Lucia Martire, la quale, Campàna di nascita, presa da Riziovàro Vicario e crudelmente tormentata, convertì lui stesso a Cristo. Ad essi si aggiunsero Antonino, Severino, Diodóro, Dióne ed altri diciassette, che furono compagni nella passione e partecipi della corona.


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A Nettuno, nel Làzio, santa Maria Gorètti, piissima fanciulla, crudelissimamente uccisa per la difesa della propria verginità, che il Papa Pio dodicesimo solennemente annoverò nel catalogo delle sante Vergini.
Nel distretto di Tréviri san Góare, Prete e Confessore.

V. Ed altrove molti altri santi Martiri e Confessori, e sante Vergini.
R. Grazie a Dio.

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AMDG et DVM

giovedì 7 dicembre 2017

In questo mondo nulla accade che Dio non voglia


LETTERA DI SAN TOMMASO MORO ALLA FIGLIA
''In questo mondo nulla accade che Dio non voglia, e io sono sicuro che qualunque cosa avvenga, per quanto cattiva appaia, sarà in realtà sempre per il meglio''
Mia cara Margherita, io so che la mia cattiveria, meriterei di essere abbandonato da Dio, tuttavia non posso che confidare nella sua misericordiosa bontà, poiché la sua grazia mi ha fortificato sino ad ora e ha dato tanta serenità e gioia al mio cuore, da rendermi del tutto disposto a perdere i beni, la patria e persino la vita, piuttosto che giurare contro la mia coscienza. Egli ha reso il re favorevole verso di me, tanto che finora si è limitato a togliermi solo la libertà. Dirò di più. La grazia di Dio mi ha fatto cosi gran bene e dato tale forza spirituale, da farmi considerare la carcerazione come principale dei benefici elargitimi.
Non posso, perciò dubitare della grazia di Dio. Se egli lo vorrà, potrà mantenere benevolo il re nei miei riguardi, al fine che non mi faccia alcun male. Ma se decide ch'io soffra per i miei peccati, la sua grazia mi darà certo la forza di accettare tutto pazientemente, e forse anche gioiosamente. La sua infinita bontà, per i meriti della sua amarissima passione, farà sì che le mie sofferenze servano a liberarmi dalle pene del purgatorio e anzi a ottenermi la ricompensa desiderata in cielo.
Dubitare di lui, mia piccola Margherita, io non posso e non voglio, sebbene mi senta tanto debole. E quand'anche io dovessi sentire paura al punto da esser sopraffatto, allora mi ricorderei di san Pietro, che per la sua poca fede cominciò ad affondare nel lago al primo colpo di vento, e farei come fece lui, invocherei cioè Cristo e lo pregherei di aiutarmi. Senza dubbio allora egli mi porgerebbe la sua santa mano per impedirmi di annegare nel mare tempestoso. Se poi egli dovesse permettere che imiti ancora in peggio san Pietro, nel cedere, giurare e spergiurare (me ne scampi e liberi nostro Signore per la sua amorosissima passione, e piuttosto mi faccia perdere, che vincere a prezzo di tanta bassezza), anche in questo caso non cesserei di confidare nella sua bontà, sicuro che egli porrebbe su di me il suo pietosissimo occhio, come fece con san Pietro, e mi aiuterebbe a rialzarmi e confessare nuovamente la verità, che sento nella mia coscienza. Mi farebbe sentire qui in terra la vergogna e il dolore per il mio peccato.
A ogni modo, mia Margherita, io so bene che senza mia colpa egli non permetterà mai che io perisca. Per questo mi rimetto interamente in lui pieno della più forte fiducia. Ma facendo anche l'ipotesi della mia perdizione per i miei peccati, anche allora io servirei a lode della giustizia divina.
Ho però ferma fiducia, Margherita, e nutro certa speranza che la tenerissima pietà di Dio salverà la mia povera anima e mi concederà di lodare la sua misericordia. Perciò, mia buona figlia, non turbare mai il tuo cuore per alcunché mi possa accadere in questo mondo. Nulla accade che Dio non voglia, e io sono sicuro che qualunque cosa avvenga, per quanto cattiva appaia, sarà in realtà sempre per il meglio.

Dalla «Lettera» ad Alice Alington di Margaret Roper, figlia di Tommaso More, sul colloquio avuto in carcere con il padre

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mercoledì 22 giugno 2016

SAN GIOVANNI FISHER e SAN TOMMASO MORO

SAN GIOVANNI FISHER
Lo svegliano in cella: "Sono le 5. Alle 10 sarai decapitato". Risponde: "Bene, posso dormire ancora un paio d’ore". Questo è Giovanni Fisher, vescovo di Rochester, nella Torre di Londra, estate del 1535. 
Un maestro di coraggio elegante (come il suo amico Tommaso Moro, già Gran cancelliere del regno, anche lui nella Torre aspettando la scure). Figlio di un orefice, Giovanni è stato a Cambridge come studente e poi come promotore del suo sviluppo, aiutato da Margherita di Beaufort, nonna di Enrico VIII. 

Sacerdote nel 1491, nel 1514 lascia Cambridge perché nominato vescovo di Rochester, e si dedica solo alla diocesi. Ma la rivoluzione luterana, con i suoi riflessi inglesi, lo porta in prima fila tra i difensori della Chiesa di Roma, con i sermoni dottrinali e con i libri, tra cui il De veritate corporis et sanguinis Christi in Eucharistia, del 1522, ammirato in tutta Europa per la splendida forma latina. 

E fin qui egli si trova accanto a re Enrico, amante della cultura e “difensore della fede”. 


Il conflitto scoppia con il divorzio del re da Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena. E si fa irreparabile con l’Atto di Supremazia del 1534, che impone sottomissione completa del clero alla corona. 

Giovanni Fisher dice no al divorzio e no alla sottomissione, dopo aver visto fallire una sua proposta conciliante: giurare fedeltà al re "fin dove lo consenta la legge di Cristo". 

Poi un’altra legge, l’Atto dei Tradimenti, è approvata da un Parlamento intimidito, che ha tentato invano di attenuarla: così, chi rifiuta i riconoscimenti e le sottomissioni, è traditore del re, e va messo a morte.

Nella primavera 1534 viene portato alla Torre di Londra Tommaso Moro, e poco dopo lo segue Giovanni Fisher. Sanno che cosa li aspetta.
E il papa Paolo III immediatamente 
nomina Fisher cardinale, sperando così di salvarlo: e invece peggiora tutto. Re Enrico infatti dice: "Io farò in modo che non abbia più la testa per metterci sopra quel cappello". 

Come previsto, i processi per entrambi, distinti, finiscono con la condanna a morte. Ma loro due, da cella a cella e senza potersi vedere, vivono sereni l’antica amicizia e si scambiano lettere e doni: un mezzo dolce, dell’insalata verde, del vino francese, un piatto di gelatina... Sono regali di un loro amico italiano, Antonio Bonvini, commerciante in Londra e umanista. 

Alle 10 del 22 giugno 1535, Giovanni Fisher va al patibolo. Per tre volte gli promettono la salvezza se accetta l’Atto di Supremazia. Lui risponde con tre affabili no, e muore sotto la scure. La sua testa viene esposta in pubblico all’ingresso del Ponte sul Tamigi. 

Quindici giorni dopo uno dei carnefici la butterà nel fiume, per fare posto alla testa di Tommaso Moro. Nel 1935, in Roma, papa Pio XI li proclamerà santi insieme. E sempre insieme li ricorda la Chiesa.


Autore: Domenico Agasso

sabato 23 maggio 2015

"Ancor oggi... i credenti hanno un bisogno particolare dell'esempio di tali vite eroicamente consacrate all'amore di Dio e, per Dio, agli altri uomini»

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Carissimo/a Amico/a,


«La considerazione della vita dei santi – con le loro lotte ed il loro eroismo – ha prodotto in ogni tempo abbondanti frutti nelle anime dei cristiani. Ancor oggi... i credenti hanno un bisogno particolare dell'esempio di tali vite eroicamente consacrate all'amore di Dio e, per Dio, agli altri uomini» (Documento della Congregazione per il Clero sul Prete, 19 marzo 1999). L'esempio dei martiri è particolarmente illuminante, come ricordava papa Pio XI in occasione della canonizzazione di san Tommaso Moro: «Se non tutti siamo chiamati a versare il nostro sangue per la difesa delle leggi divine, tutti dobbiamo, tuttavia, attraverso l'esercizio dell'abnegazione evangelica, la mortificazione cristiana dei sensi e la ricerca laboriosa della virtù «avere il desiderio di essere martiri, per poter partecipare con essi alla celeste ricompensa», secondo le espressive parole di san Basilio» (19 maggio 1935).
Tommaso Moro nasce a Londra, il 6 febbraio 1477. Riceve dai suoi genitori un'educazione severa ed attenta, cui corrisponde docilmente, dimostrandosi ubbidiente e gentile. Viene iscritto molto presto alla scuola Sant'Antonio di Londra. Appena adolescente, è accolto, su richiesta di suo padre, nella casa del Cardinale Morton, arcivescovo di Canterbury e Cancelliere del Regno d'Inghilterra (primo dignitario dello Stato, dopo il Re). Incanta il prelato ed i suoi ospiti, in occasione delle sedute ricreative, grazie ad un dono d'improvvisazione che denota un grande senso dell'osservazione.
A 14 anni, Tommaso va a continuare gli studi ad Oxford. Grazie all'insegnamento di eminenti professori, compie rapidi progressi, in particolare nella conoscenza delle lingue latina e greca, il che gli permetterà di leggere le opere dei Padri della Chiesa nel testo originale. Si applica anche allo studio del francese, della storia, della geometria, della matematica e della musica. In capo a due anni, suo padre, che è avvocato, lo fa tornare a Londra per studiarvi legge. Nel 1501, Tommaso entra lui pure a far parte del foro. Per quattro anni, alloggia presso i Certosini di Londra, conducendo una vita mezzo religiosa, mezzo laica, condividendo abitualmente gli esercizi dei monaci, ed iniziandosi alla spiritualità. Gliene rimarrà per tutta la vita un grande zelo per la preghiera e la penitenza. Nella sua professione di avvocato, insensibile a qualsiasi idea di cupidigia, armonizza i diritti della giustizia più rigorosa con quelli della più affabile carità. Nel 1504, a 27 anni, viene eletto deputato al Parlamento.
Nello stesso anno 1504, sposa Joanna Colt, giovane di costumi dolci e semplici. Dalla loro unione nascono tre figlie: Margherita, Cecilia, Elisabetta, ed un maschio: Giovanni. Tommaso conduce una vita semplice. È affabile e si diverte a stuzzicare la gente senza ferirla. Nell'anno del suo matrimonio, ospita Erasmo da Rotterdam, Monaco agostiniano e forse lo scienziato più universale della sua epoca. I due uomini hanno in comune lo stesso ideale di umanesimo cristiano.



Un marito premuroso

Nel 1511, Tommaso piange la perdita della moglie. Ben presto, risente il bisogno di dare un'altra madre ai suoi figli e sposa Alice Middleton, vedova di un commerciante londinese e madre di una bimba di dieci anni. Alice, di sette anni maggiore di Tommaso, è una buona padrona di casa ed una madre di famiglia sollecita. Stando a quel che dice Erasmo, suo marito «le manifesta tutte quelle attenzioni e tutta quella gentilezza che riserverebbe ad una moglie giovanissima e di una bellezza straordinaria. La dirige con carezze e parole gentili... Che cosa gli rifiuterebbe essa? Si pensi che la donna, già matura, si è messa, senza alcun gusto innato e con la massima assiduità, ad imparare a suonare la cetra, l'arpa, il monocordo e il flauto, facendo tutti i giorni gli esercizi che le indicava il marito». Verso il 1524, i Moro si stabiliscono a Chelsea, vicino a Londra, in una vasta e bella casa provvista di una cappella privata e di una biblioteca. Non mancano mai di pregare in famiglia, almeno la sera. Durante i pasti, viene letto un passo della Bibbia. Tommaso ne spiega il senso celato, poi propone qualche soggetto di conversazione meno severo, e tutti si divertono piacevolmente.
Tommaso guida i propri figli nello studio delle lettere e delle scienze. Ma che beneficio trarrebbero dalla conoscenza del latino e del greco, se tale sapere finisse col riempirli d'orgoglio? Chiede pertanto ai loro insegnanti di guidarli verso l'umiltà; saranno così «avidi di acquisire i tesori della scienza solo per metterli al servizio della difesa della verità e della gloria dell'Onnipotente». Tommaso è pronto a tutto per questo: «Piuttosto che ammettere che i miei figli si lascino andare all'ozio, scrive alla figlia Margherita, non esiterei, anche se il mio benessere dovesse risentirsene, a lasciare la corte ed i pubblici affari, per occuparmi esclusivamente di tutti voi, di te soprattutto, mia cara Margherita, cui voglio tanto bene». Infatti, Tommaso predilige particolarmente Margherita. Ha sempre con sè le lettere, accuratamente scritte in latino, che essa gli manda. La sua tenerezza per tutti i suoi si manifesta anche attraverso i regali che porta loro dai suoi viaggi: dolci, frutta, belle stoffe...

L'accoglienza cordiale dei Moro fa soprannominare la loro casa il «domicilio delle Muse», quello di «tutte le virtù» e di «tutte le forme della carità». La carità di Tommaso è senza limiti, come testimoniano le di lui frequenti e generose elemosine. Ha l'abitudine di percorrere, la sera, i luoghi più isolati, per andare incontro ai poveri che si vergognano della loro miseria e soccorrerli. Riceve spesso a tavola, allegramente e familiarmente, i contadini del vicinato. Fonda un ospizio in cui la figlia adottiva, Margherita Giggs, assume il compito di infermiera. La sua fede nella Provvidenza è profonda. Venuto un giorno a conoscenza dell'incendio dei suoi fienili, dà tre consegne alla moglie: «Riunire tutta la famiglia per ringraziare Dio; vegliare a che nessuno dei vicini abbia a soffrire del sinistro; non licenziare nessun domestico prima di avergli trovato un nuovo datore di lavoro».



Perchè tanti ceri?

Ma Tommaso si distingue soprattutto per la sua permanente intimità con Cristo. A un tale che lo prende in giro per le sue devozioni popolane, dicendo: «Vuol dire che Dio ed i suoi santi non ci vedono, poichè bisogna circondarli sempre di ceri!», risponde: «Cristo non ha forse detto che Maria Maddalena sarebbe stata onorata perchè aveva versato profumo sul suo corpo? Ci si potrebbe domandare allo stesso modo: «Che bene può fare alla testa di Cristo l'olio profumato?» Quel che ci insegnano l'esempio di quella santa donna e le parole del nostro Salvatore è che Dio si compiace di osservare il fervore della devozione del cuore ribollire e spandersi all'esterno; gli piace che lo si serva con tutti i beni che ha concesso all'uomo». Dalla contemplazione di Nostro Signore, Tommaso si eleva all'identificazione con Esso, e mette in risalto l'influenza di Cristo su tutto il genere umano. La presenza dell'Uomo-Dio nel mondo è la base dell'ottimismo fondamentale di Tommaso, del suo amore per la natura, della sua comprensione della debolezza umana, del suo dinamismo apostolico, della sua fiducia incrollabile nel cristianesimo, ed anche del suo senso dell'umorismo. Da nessuna parte, in questo mondo, vede un male definitivo, e si sforza di cogliere il lato positivo di tutti gli eventi.

Grazie alle sue virtù, al suo sapere, ed alle opere in cui difende la fede e la religione contro i novatori protestanti, Tommaso si conquista la stima di tutti, ed in particolare quella del Re Enrico VIII. Si ha così ricorso ai suoi servizi per i pubblici affari. Nel 1515, fa parte di un'ambasciata inviata nelle Fiandre, ed occupa il tempo libero a comporre l'«Utopia». Due anni più tardi, è in Francia, per un'altra missione ufficiale. Nel 1518, diventa membro del Consiglio privato del Re, poi, nel 1525, Cancelliere del Ducato di Lancaster, e infine, nell'ottobre del 1529, viene nominato, con piena soddisfazione di tutto il Regno, Gran Cancelliere d'Inghilterra. Più si trova innalzato dalla dignità, l'autorità o l'onore, e più appare superiore a tutti per la sua modestia, la probità del suo carattere, la pazienza, i sentimenti sempre umani che gli fanno prendere la vita dal lato buono, come testimonia il seguente aneddoto. Essendo evaso un detenuto, dopo aver forzato le porte della prigione, il Cancelliere fa comparire davanti a sè il carceriere, più morto che vivo. Gli ordina severamente di vegliare a che i danni siano prontamente e solidamente riparati, «affinchè, aggiunge con un tono più mite, se il fuggitivo avesse voglia di tornare, gli sia questa volta impossibile forzare le porte della prigione per rientrarvi!»



Tedio pericoloso

Il Re Enrico VIII si comporta da marito fedele durante i primi dieci anni di regno. Ma poi, stanco della moglie, Caterina d'Aragona, che gli ha dato una sola figlia ancora in vita, Maria Tudor, cerca un'altra donna. Nel 1522, arriva alla corte d'Inghilterra una giovane di 15 anni, di nome Anna Bolena. Benchè senza fascino, suscita nel Re una violenta passione. Abilmente, essa si applica ad attizzare la bramosia di Enrico, pur rifiutando di cedere ai suoi desideri finchè non l'avrà sposata. Alle sue spalle, si trova un partito costituito dalla sua famiglia e da nobili animati da interessi diversi.

Enrico VIII aveva sposato Caterina d'Aragona, vedova del suo fratello maggiore, grazie ad una dispensa legittimamente accordata da Papa Giulio II. Cercando il modo di ripudiarla, Enrico VIII s'interroga sulla validità del proprio matrimonio e crede di poter fondare il suo dubbio su un testo della Bibbia (Lev. 18, 16). Interrogato su questo punto dal Re, Tommaso si scusa, allegando la propria incapacità di statuire in una materia che interessa il diritto canonico. Il Re gli ordina allora di esaminare la questione con parecchi teologi; dopo averlo fatto, Tommaso risponde: «Sire, nessuno dei teologi che ho consultato può darvi un consiglio indipendente. Ma conosco consiglieri che parleranno senza timore a Sua Maestà: sono san Girolamo, sant'Agostino e altri Padri della Chiesa. Ecco la conclusione che ho tratto dai loro scritti: «Non è permesso ad un cristiano sposare un'altra donna, mentre la prima è ancora in vita»». Il che significava affermare che il matrimonio con Caterina era valido. La questione è proposta a Roma. Il Papa aspetterà il 1534 per dichiarare valido il matrimonio di Enrico e Caterina. Ma Moro non è più al governo: fin dal 16 maggio 1532, ha dato le dimissioni dalle funzioni di Cancelliere, per non essere costretto ad agire contrariamente alle leggi di Dio e della Chiesa, che i vescovi del Regno (tranne John Fisher) hanno sacrificato al potere regale.



Fedeltà o alto tradimento?

All'inizio del 1533, Enrico sposa segretamente Anna Bolena, che viene incoronata il 1° giugno. Per sancire con maggiore solennità il proprio divorzio, Enrico desidera che la principessa Maria Tudor sia diseredata di tutti i suoi diritti; in compenso, Elisabetta, che Anna ha appena partorito, sarà proclamata unica e legittima erede della corona d'Inghilterra. Il Parlamento si sottomette al Re e vota, il 30 marzo 1534, un «Atto di Successione» in tal senso. Tutti i sudditi del Regno devono impegnarsi sotto giuramento ad osservare la nuova legge nella sua totalità. Il giuramento è preceduto da un preliminare in cui l'autorità del Sovrano Pontefice è formalmente respinta. Vescovi, canonici, parroci, monaci, professori di istituti, personale ospedaliero e quello delle fondazioni caritative si sottomettono e riconoscono il Re quale unico capo spirituale, consacrando in tal modo la separazione da Roma. John Fisher, vescovo di Rochester e Tommaso Moro, come pure alcuni sacerdoti e monaci, rifiutano il giuramento: pagheranno il loro rifiuto con la vita.

Tommaso narrerà la sua comparizione per la prestazione del giuramento in una lettera alla figlia: «Quando arrivai a Lambeth, dove era riunita la commissione reale... chiesi che mi venisse comunicato il testo del giuramento che si esigeva... Dopo averlo letto attentamente e studiato a lungo... dichiarai, in perfetta sincerità di coscienza, che, senza tuttavia rifiutare il giuramento relativamente alla successione, non potevo accettare di prestare il giuramento nei termini in cui era formulato, a meno che volessi esporre la mia anima alla dannazione eterna. Quando ebbi finito di parlare, il gran Cancelliere del regno prese la parola e mi dichiarò che tutti i presenti erano vivamente afflitti di sentirmi esprimermi così; che ero il primo fra tutti i sudditi di Sua Maestà a rifiutare di prestare il giuramento che questi esigeva... Mi si presentò un voluminoso elenco di persone consenzienti... ma dichiarai nuovamente che la mia risoluzione, lungi dall'esser cambiata, era irremovibile».



La responsabilità della mia anima

Per Tommaso, la fedeltà alla testimonianza della coscienza è necessaria per la salvezza eterna. «Certi credono che, se parlano in un modo e pensano in un altro, Dio presterà maggior attenzione al loro cuore che alle loro labbra, scrive alla figlia Margherita. Quanto a me, non posso agire come loro in una materia tanto importante: non rifiuterei di giurare, se la mia coscienza mi dettasse di farlo, anche se gli altri rifiutassero; e, del pari, non presterei giuramento contro la mia coscienza, anche se tutti vi sottoscrivessero». Il carattere inalienabile della coscienza non significa che le sue ingiunzioni s'impongano ciecamente, spiega altresì Tommaso. Ciascuno deve formare la propria coscienza attraverso lo studio ed il consiglio di persone sagge, poichè la coscienza deve essere uniformata alla verità obiettiva (ved. Enciclica Veritatis splendor del 6 agosto 1993). Prima di giungere ad una conclusione che s'impone alla sua coscienza, Tommaso si è imposta una somma di studio considerevole. Riconosce, tuttavia, che l'autorità della Chiesa prevale sulle proprie conclusioni. Ma le autorità umane non hanno più nessun potere su una coscienza retta e sicura: «Solo io porto la responsabilità della mia anima», afferma. Pertanto, contro le false accuse di cui è vittima, i falsi testimoni, contro le prevaricazioni del Re, contro la depravazione del senso morale che fa chiamare «bianco quel che è nero e male quel che è bene», la sua coscienza resiste fino alla morte.


Rinunce dolorose


L'atteggiamento di Tommaso Moro è una luce per la nostra epoca. Il beato Papa Giovanni Paolo II afferma che leggi come quelle che pretendono di rendere legittimo l'aborto o l'eutanasia, «non solo non creano alcun obbligo per la coscienza, ma portano con sé un obbligo grave e preciso di opporvisi attraverso l'obiezione di coscienza. Fin dalle origini della Chiesa, la predicazione apostolica ha insegnato ai cristiani il dovere di ubbidire ai pubblici poteri costituiti legittimamente (ved. Rom. 13, 1-7; 1 P. 2, 13-14), ma ha dato in pari tempo il fermo avvertimento che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Atti 5, 29)... L'introduzione di legislazioni ingiuste pone spesso gli uomini moralmente retti di fronte a difficili problemi di coscienza... Le scelte che si impongono sono talvolta dolorose e possono richiedere il sacrificio di situazioni professionali confermate o la rinuncia a prospettive legittime di avanzamento nella carriera... I cristiani, come tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, in virtù di un grave dovere di coscienza, a non dare la loro collaborazione formale alle pratiche che, benchè ammesse dalla legislazione civile, si oppongono alla Legge di Dio... Per gli atti che ciascuno compie personalmente, esiste, infatti, una responsabilità morale cui nessuno si può mai sottrarre e su cui ciascuno sarà giudicato da Dio stesso» (Enciclica Evangelium vitæ, 25 marzo 1995, nn. 73-74).


Il 17 aprile 1534, Tommaso viene incarcerato nella Torre di Londra. Utilizza il tempo della detenzione a prepararsi alla morte, componendo notevoli opere di devozione. Già in un'opera incompiuta del 1522, I quattro ultimi fini, aveva messo in risalto il beneficio del pensiero della morte: se fosse in vendita un rimedio per tutti i mali, spiega, gli uomini farebbero l'impossibile per procurarselo. Ora, il rimedio esiste e si chiama «il pensiero della morte». Ma, ahimè, ben pochi hanno ricorso ad esso. Soltanto la meditazione dei fini ultimi può rettificare il loro giudizio.



Sovvertimento dei valori

Tale meditazione presuppone la fede. La fede, spiega Tommaso, sovverte il senso dei valori comunemente ammessi dagli uomini; essa ci dice che tutta la Santissima Trinità risiede nell'anima in stato di grazia, anche al momento della prova; che i nostri nemici sono gli amici che ci sono maggiormente vicini; che la riconoscenza deve rivolgersi meno al visitatore da parte del carcerato che all'infelice da parte del benefattore. Al di sopra di tutto, la fede scopre il valore soprannaturale della sofferenza. Insegna a far diventare medicina la malattia medesima. Per Tommaso, tutte le nostre tribolazioni hanno quale ragione principale quella di suscitare in noi il desiderio di essere consolati da Dio. Tuttavia, esse ci aiutano anche a purificarci dalle nostre colpe passate, ci preservano da quelle future, diminuiscono le pene del purgatorio ed accrescono la ricompensa finale del Cielo. «Chiunque medita tali verità e le conserva nel suo spirito... valuterà con pazienza il prezzo della prova, troverà che tale prezzo è elevato e, ben presto, si stimerà privilegiato, ... la sua gioia diminuirà ampiamente la sua pena e gli impedirà di ricercare altrove vane consolazioni» (Dialogo fra Conforto e Tribolazione). Simili parole, scritte nel cuore stesso della prova, non sono un vano linguaggio. La gioia soprannaturale che Dio dà a Tommaso in prigione gli procura la serenità e sviluppa il suo senso innato dell'umorismo. Un giorno in cui il governatore della Torre si scusa gentilmente per la frugalità del pasto, l'ex Cancelliere risponde: «Se qualcuno di noi non è soddisfatto del vitto, non ha che da andare a cercarsi altrove un altro alloggio!»

Il 1° luglio 1535, Tommaso è condannato a morte per alto tradimento. I giudici gli chiedono se desidera aggiungere qualcosa. «Ho poco da dire, tranne questo: il beato Apostolo Paolo era presente e consenziente al martirio di santo Stefano. Ora, sono entrambi santi in Cielo. Benchè abbiate contribuito alla mia condanna, pregherò fervidamente perchè voi ed io ci ritroviamo insieme in Cielo. Allo stesso modo, desidero che Dio Onnipotente preservi e difenda Sua Maestà il Re e gli mandi un buon consiglio». Un ultimo assalto viene a mettere alla prova la costanza del carcerato. Sua moglie lo va a trovare e gli dice: «Vuoi abbandonarci, me e la mia infelice famiglia? Vuoi rinunciare a quella vita nel nido domestico, che, ancora poco fa, ti piaceva tanto? – Per quanti anni, mia cara Alice, credi che possa ancora godere quaggiù di quei piaceri terreni che mi dipingi con un'eloquenza tanto persuasiva? – Vent'anni, almeno, se Dio vuole. – Ma, carissima moglie, non sei una buona negoziante: che è mai una ventina d'anni a confronto di un'eternità beata?»



«Essa non ha tradito!»

Il 6 luglio, viene condotto sul luogo del supplizio. La scala che porta al patibolo è in pessimo stato e Tommaso ha bisogno del sostegno del tenente per salire: «La prego, dice, mi aiuti a salire. Per discendere, me la sbroglierò da solo!» Avendogli il Re chiesto di esser sobrio nella parola all'ultimo momento, dice molto semplicemente: «Muoio da buon suddito del Re, ma prima di tutto di Dio!» Mentre si inginocchia sul patibolo, le sue labbra pregano: «Dio mio, abbi pietà di me!» Abbraccia il boia e gli dice: «Ho il collo molto corto; attento a non colpirmi di traverso. È in gioco il tuo onore!» Si benda gli occhi da sè. Il boia ha già l'ascia in mano: «Un momento, gli dice Tommaso mettendosi a posto la barba; essa non ha tradito!» Il capo cade al primo colpo. Tommaso è in Cielo per sempre.
Come san Tommaso Moro, accettiamo di perdere tutto per guadagnarci Cristo, per diventare conformi a Lui nella morte, e per giungere così con Lui alla risurrezione (ved. Fil. 3, 8-11). È la grazia che domandiamo a san Giuseppe, per Lei e per tutti coloro che Le sono cari.
Dom Antoine Marie osb

lunedì 20 maggio 2013

El buen humor



No hay mención, en los Santos Evangelios, de que Cristo haya reído. Sin embargo mucho de sus consejos no pudieron proferirse sin una sonrisa. Y esto no hacía falta de ser mencionado siquiera. Y menos en la sobriedad y en lo escueto de los Evangelios. Está muy bien, por ejemplo, en esa obra de arte que es la película de Mel Gibson, La Pasión de Cristo, cuando, en uno de sus “flash back”, nos muestra a Nuestro Señor en su sermón de la Montaña diciendo: “Porque si amáis solo a los que os aman ¿qué hacéis de más?” remarcando este “¿qué hacéis de más?” con una sonrisa y un gesto amable. “Amable” de, dado con caridad, con amor.

El buen humor es signo de un buen espíritu. Y buen espíritu quiere decir tener en cuenta al prójimo como a quién siempre que hay darle un bien. Sea éste material o espiritual, o aún meramente psicológico, “hacerlo sentir bien”. Antes solía decirse de una persona, a modo de elogio, que era alguien “muy atento”. Significábase con ello que se trataba de alguien preocupado justamente de hacer sentir bien a los demás atendiendo a sus necesidades del momento. Recuerdo a san Pablo cuando decía “me hago todo con todos, para salvarlos a todos”, significando el mayor bien que se le puede ofrecer a alguien: el conocimiento de la Verdad y, con ello, la Salvación eterna.  Y nuestro Señor nos enseñó a ver en el prójimo, a Él mismo: “Cuando disteis un vaso de agua a quien os lo pidió, conmigo lo hiciste”. Sería como carente de “algo” (algo inasible tal vez, pero, sin embargo, sentido) si no se hiciera esta acción  de dar el vaso de agua, con un gesto buen humor, de buena voluntad,  con un gesto amable, con un gesto de caridad y nobleza de corazón.

Hay la anécdota de un santo, Santo Tomás Moro, quien no quiso hacer sentir mal ni siquiera al verdugo que, en instantes, le cortaría la cabeza. Le dijo, entregándole una moneda, (creo que esto de la moneda era uso común en estos casos, en aquellos tiempos) diciéndole: “No temas hacer tu trabajo que, de un solo golpe, me mandas a Dios”. Sus envidiosos y malhumorados (el mal humor suele engendrarse en un mal interior, como dijimos más arriba). Sus malhumorados  enemigos, al escucharle, le espetaron: “¿Cómo estáis tan seguro de que Dios te recibirá?”  Calificando así a Tomás de presuntuoso. A lo cual Tomás respondió, seguramente inspirado por el Espíritu Santo: “Dios no puede rechazar a quien con tanto amor va hacia Él.”  Santo Tomás Moro dijo esto seguramente con la sencillez de su buen humor. Pues éste es, justamente, no solo el santo del buen humor sino quien compuso hasta una oración pidiendo este don a Dios, el don del buen humor.
Cerraremos estas pequeñas reflexiones con la oración de este gran Santo inglés:

"Concédeme, Señor, una buena digestión,
y también algo que digerir.

Concédeme la salud del cuerpo,
con el buen humor necesario para mantenerla.

Dame, Señor, un alma santa que sepa aprovechar
lo que es bueno y puro, para que no se asuste ante
el pecado, sino que encuentre el modo de poner
las cosas de nuevo en orden.

Concédeme un alma que no conozca el aburrimiento,
las murmuraciones, los suspiros y los lamentos y no
permitas que sufra excesivamente por ese ser tan
dominante que se llama: YO.

Dame, Señor, el sentido del humor.
Concédeme la gracia de comprender las bromas,
para que conozca en la vida un poco de alegría y
pueda comunicársela a los demás.
Así sea".

sabato 25 giugno 2011

"Non temete!"

SAN TOMMASO MORE:
San Tommaso More (7 febbraio 1478 - 6 luglio 1535)
con la figlia Margaret


"NULLA ACCADE
CHE  D I O  NON VOGLIA,
ED IO SONO SICURO CHE
QUALUNQUE COSA AVVENGA
-PER QUANTO CATTIVA APPAIA-
SARA’ IN REALTA’ SEMPRE PER IL MEGLIO"

COSI’ DISSE SAN TOMMASO MORE
-MARTIRIZZATO 6.7.1535- 
 ALLA FIGLIA MARGARET

AMDG et BVM