lunedì 28 aprile 2014

San Massimiliano Kolbe il 28 aprile 1918 venne ordinato sacerdote.


Nato con il nome di Raimondo Kolbe, in una famiglia dalle condizioni economiche modeste in una zona polacca sotto il controllo della Russia. A tredici anni cominciò a frequentare la scuola media dei francescani a Leopoli. Il 4 settembre1910 vestì come novizio l'abito francescano assumendo il nome di Massimiliano. L'anno successivo venne inviato a Cracovia e quindi a Roma per continuare gli studi in filosofia e teologia.
Casa natale di Kolbe a Zduńska Wola.
Nei primi tre anni trascorsi alla Pontificia Università Gregoriana, si dedicò alle scienze e alla matematica, compresa la trigonometria, la fisica e la chimica, poi allo studio della filosofia e della teologia, grazie alle quali conseguì due lauree, una nella sede dell’università stessa e l’altra al Collegio Serafico Internazionale. Nel 1914 professò i voti perpetui. Lo stesso anno il padre, ufficiale nelle legioni polacche, venne fatto prigioniero dai russi e probabilmente fucilato. La madre invece si ritirò a una vita in convento[1].
Il 28 aprile 1918 venne ordinato sacerdote nella basilica di Sant'Andrea della Valle, a Roma, e il giorno successivo celebrò la sua prima messa nella vicina basilica di Sant'Andrea delle Fratte. Nel 1919, conseguito il dottorato in teologia presso la Facoltà Teologica di san Bonaventura, ritornò subito in patria, a Cracovia[1].
Ritratto ligneo di Kolbe a Wislica.
Durante gli anni della formazione, Massimiliano Kolbe, favorito da un carattere molto socievole, riuscì facilmente a creare rapporti di amicizia con la maggioranza dei suoi compagni di seminario, tra i quali Ladislao Dubaniowski e Bronislao Stryczny. Secondo quest'ultimo - che vivrà come Kolbe l'esperienza dell'internamento nei campi di sterminio nazista, sopravvivendo alla prigionia nel lager di Dachau - Massimiliano si distingueva in collegio per il suo impegno e la capacità di lavoro[2].
Nel ricordo di Ladislao Dubaniowski, Kolbe negli anni di seminario era inoltre animato da un forte ottimismo ("La prossima volta tutto andrà meglio", ripeteva di fronte ai problemi) e da una notevole intensità nella pratica religiosa, in particolare nella recita delrosario e nell'adorazione del Santissimo Sacramento[3].
Durante la permanenza in Italia, Kolbe maturò e approfondì uno dei tratti essenziali della sua esperienza spirituale, legato alla venerazione di Maria, che caratterizzerà poi il suo impegno pastorale. Nel 1917, sulla scia dell'impegno teologico e intellettuale che i francescani avevano speso nei secoli per promuovere il riconoscimento dell'Immacolata Concezione di Maria, fondò assieme ad alcuni confratelli la "Milizia dell'Immacolata". L'obiettivo era dare continuità anche sul fronte esistenziale e pastorale al legame dei Frati Minori Conventuali con Maria, diffondendone nel mondo la devozione anche attraverso i mezzi offerti dalle tecnologie del tempo, quali la stampa e, successivamente, la radio. Kolbe era infatti consapevole di doversi impegnare in un periodo storico difficile, caratterizzato dall'emergere di ideologie totalitarie e dalle sfide sociali poste dall'industrializzazione, dal materialismo e, appunto, dallo sviluppo dei mass-media. Studiò quindi tutto, per vedere gli aspetti positivi di ogni realtà e costruire poi su queste basi.
Negli anni vissuti a Roma, Kolbe contrasse la tubercolosi che, tra alti e bassi, lo accompagnò per il resto della vita. Dall'esperienza di studio in Italia trasse anche una buona conoscenza dell'italiano, lingua nella quale redasse molti suoi scritti[4]. Continua a leggere...

I Sette dormienti di Efeso



I Sette dormienti di Efeso > Jacopo da Varazze, Legenda aurea CI, XIII secolo

Jacopo da Varazze (o da Varagine; 1228?-1298) fu un frate domenicano scrittore in latino di leggende e cronache. Dal 1265 al 1285 fu nominato superiore provinciale per la “Lombardia”, un nome che all’epoca indicava quasi tutta l’Italia settentrionale, e dal 1292 arcivescovo di Genova. Una tradizione gli attribuisce una delle prime traduzioni in volgare della Bibbia, ma non se ne hanno manoscritti. La sua opera più famosa è la Legenda aurea (o Legenda sanctorum), raccolta di vite di santi compilata in latino a partire dalla metà del XIII secolo e che ebbe una grandissima diffusione e influenza sulla seguente letteratura religiosa.
Nel 1816 papa Pio VII ne confermò il culto come beato.


I Sette Dormienti nacquero nella città di Efeso. Quando l’imperatore Decio perseguitava i cristiani andò a Efeso e fece edificare dei templi in mezzo alla città, perché tutti si unissero a lui per sacrificare agli dèi. Fece cercare tutti i cristiani e li fece mettere in catene, obbligandoli a scegliere se sacrificare agli dèi o morire: tale era il terrore che l'amico rinnegava l’amico, il padre il figlio e il figlio il padre. C’erano in quella città sette cristiani, che si chiamavano Massimiano, Malco, Marciano, Dionisio, Giovanni, Serapione e Costantino. Essendo i primi ufficiali del palazzo e disprezzando i sacrifici offerti agli idoli, si rammaricavano molto e stavano nascosti nella loro casa, dedicandosi ai digiuni e alle orazioni.

Accusati e tradotti dinanzi a Decio, fu dimostrato che erano realmente cristiani e si diede loro il tempo di ravvedersi e furono rilasciati fino al ritorno dell’imperatore. Ma essi approfittarono di questo tempo, distribuirono tutti i loro averi ai poveri e presero la decisione di ritirarsi sul monte Celion, dove sarebbero potuti rimanere nascosti. Così rimasero a lungo, mentre uno di loro procurava ciò che era necessario e ogni volta che entrava in città si travestiva da mendicante.

Quando Decio ritornò a Efeso, ordinò di cercare i sette per obbligarli a sacrificare. Malco, che serviva loro, ritornò spaventato dai suoi compagni e riferì la furia dell’imperatore. Essi furono afferrati dalla paura e allora Malco dette loro i pani che aveva portato, affinché, rifocillati, acquistassero più forze per la battaglia. Dopo aver cenato, si sedettero e si misero a parlare tra loro con lamenti e pianti e, per volontà di Dio, si addormentarono. Quando fu la mattina, li cercarono ma non li trovarono, e Decio si dolse di aver perduto tali valorosi giovani. 

Furono poi accusati di essere nascosti fino allora sul monte Celion, di persistere nei loro convincimenti e di aver distribuito i loro beni ai poveri. Decio, dunque, ordinò di far comparire i loro genitori, minacciandoli di morte se non avessero dichiarato tutto ciò che sapevano. Anche i loro genitori li accusarono come gli altri e si lamentarono che le ricchezze erano state tutte date ai poveri. 

Allora Decio rifletté su cosa fare di loro e, per ispirazione di Dio, fece chiudere l’ingresso della caverna con un muro di pietre, affinché i sette, rinchiusi là dentro, morissero di fame e di stenti. Si eseguì l’ordine e due cristiani, Teodoro e Rufino, descrissero il loro martirio e, per precauzione, nascosero lo scritto tra le pietre.

Quando Decio e tutta la sua generazione furono morti, dopo trecentosettantadue anni, nel trentesimo anno d’impero di Teodosio, si diffuse l’eresia di coloro che negavano la resurrezione dei morti. Teodosio, che era un imperatore molto cristiano, fu molto rattristato nel vedere la fede così indignamente attaccata. Egli indossò un cilicio e ogni giorno si ritirava in un luogo appartato del suo palazzo per piangere.

Dio, vedendo tutto ciò, volle consolare questi afflitti e confermare la speranza della resurrezione dei morti; aprì il tesoro della sua pietà e risvegliò i sette martiri nel modo seguente. Mise in mente a un cittadino di Efeso l’idea di far costruire sul monte Celion degli ovili per i pastori. Dopo che i muratori ebbero aperto la grotta, i santi si svegliarono e si salutarono, convinti di aver dormito una sola notte; poi, ricordandosi delle pene del giorno precedente, chiesero a Malco, che li serviva, che cosa aveva deciso Decio sulla loro sorte. Ma egli rispose la stessa cosa che aveva risposto la sera prima: “Ci è stato richiesto di sacrificare agli idoli: ecco cosa vuole da noi l’imperatore”. Massimiano rispose: “Dio sa che non sacrificheremo”.

Dopo avere incoraggiato i suoi compagni, ordinò a Malco di scendere in città a comperare il pane, raccomandandogli di prenderne un po’ di più del giorno precedente, e di tornare a riferire le disposizioni dell’imperatore. Marco prese cinque soldi, uscì dalla spelonca, vide le pietre ammassate, se ne stupì, ma pensando ad altro, non vi dette molto peso.

Quando arrivò, non senza apprensione, alla porta della città, si meravigliò molto di vederla sormontata dal segno della croce; allora andò a un’altra porta e vide lo stesso segno della croce, e si stupì sempre più vedendo la croce sopra tutte le porte e trovando la città cambiata. Si fece il segno di croce e ritornò alla prima porta pensando di aver sognato. Infine si riassicurò, si nascose il viso, entrò in città e sentì i venditori di pane che parlavano tutti di Cristo, e, al colmo dello stupore esclamò: “Com'è che ieri nessuno osava neppur nominare Cristo, e oggi tutti proclamano il suo nome? Forse questa non è la città di Efeso, perché è diversa: ma non conosco altre città fatte così”.

Si informò e gli fu risposto che si trattava veramente di Efeso. Credendosi preso in giro, pensò di tornare dai suoi compagni, ma poi entrò dai venditori di pane. Quando tirò fuori le sue monete d’argento, i venditori stupiti credettero che il ragazzo avesse trovato un antico tesoro. Malco, vedendoli parlare sottovoce tra di loro, pensò che volessero condurlo dall’imperatore, e, in preda alla paura, li implorò di lasciarlo andare e di tenersi i pani e il resto del denaro. Ma quelli lo trattennero e gli dissero: “Di dove sei? Se hai trovato dei tesori degli antichi imperatori, diccelo, e divideremo con te. Ti terremo nascosto, altrimenti tutti lo sapranno”.
Per la paura, Malco non seppe cosa rispondere e allora i commercianti, vedendo che se ne stava zitto, gli misero una fune al collo e lo trascinarono per le strade fino in centro alla città. Intanto si diffuse la voce che un giovane aveva scoperto dei tesori.
Tutti si accalcavano attorno a lui, e Malco voleva convincerli di non aver trovato nulla, guardava attorno ma nessuno lo riconosceva, e lui pure, guardando la folla, cercava di scorgere qualche suo parente – che credeva in buona fede fosse ancora in vita – e non trovando nessuno stava in mezzo alla gente della città come un ebete.
Quando il vescovo san Martino e il proconsole Antipatro, appena giunto in città, seppero l’accaduto, essi dettero disposizione di portare loro, con cautela, quell’uomo e le sue monete. 

Mentre Malco veniva condotto alla chiesa dalle guardie, pensava che lo stessero portando dall’imperatore. Il vescovo e il proconsole, sorpresi dalle monete d’argento, gli chiesero dove avesse trovato quel tesoro sconosciuto, ma lui rispose che quei soldi venivano dalla borsa dei suoi genitori. Gli chiesero allora da quale città venisse ed egli rispose: “Sono di questa città, se questa è Efeso”. “Fai venire i tuoi genitori, - disse allora il proconsole, - in modo che possano giustificarti”. Quando però disse i loro nomi, nessuno li conosceva, e pensarono che stesse mentendo per poi poter scappare. E il procuratore gli disse: “Come facciamo a credere che questi soldi sono dei tuoi genitori, se la scritta che c’è sopra dice che hanno più di trecentosettantasette anni? Risalgono ai primi anni di Decio imperatore e sono del tutto diversi dalle monete d’argento dei nostri giorni. E com’è possibile che i tuoi genitori siano così vecchi e tu così giovane? Vuoi forse prenderti gioco dei sapienti di Efeso? Ti affiderò alla Giustizia, fino a che non confesserai cosa hai trovato”.
Malco allora si gettò ai loro piedi e disse: “Signori, per carità di Dio, ditemi ciò che vi chiedo, e io vi aprirò il mio cuore. L’imperatore Decio, che è stato in questa città, dove è ora?”
“Non c'è più ai giorni nostri – rispose il vescovo – un imperatore di nome Decio; ce ne fu uno molto tempo fa”.
“Mio signore, è questo che mi stupisce, e nessuno mi crede, ma seguitemi e vi farò vedere i miei compagni, che sono nel monte Celion, e a loro crederete. So di certo che siamo scappati dal cospetto di Decio, e io proprio ieri sera l’ho visto entrare in questa città sempre che questa città sia proprio Efeso”.

Il vescovo pensieroso disse al proconsole: “Dio vuol mostrarci una qualche prodigiosa visione attraverso questo ragazzo”.
Dunque lo seguirono, e con loro venne una gran folla di gente dalla città. Entrò per primo Malco dai suoi compagni, poi il vescovo, che vide fra le pietre la lettera con due sigilli d’argento. Chiamata la folla attorno la lesse, e tutti quelli che l’ascoltavano erano pieni di meraviglia. Vedendo i santi di Dio seduti nella grotta freschi come rose, si gettarono a terra a glorificare il Signore. 

Il vescovo e il proconsole mandarono a dire a Teodosio di venire presto a vedere il grande prodigio compiuto da Dio in quei giorni. Subito alzandosi dal sacco su cui giaceva a terra piangendo, venne da Costantinopoli a Efeso rendendo grazie a Dio. E tutti quelli che gli si facevano intorno andarono con lui alla grotta. Appena i santi videro l’imperatore, i loro volti risplendettero, e l’imperatore si gettò ai loro piedi rendendo gloria a Dio; poi si rialzò, li abbracciò e pianse su ciascuno di loro dicendo: “Vi guardo ed è come se vedessi il Signore che resuscita Lazzaro”.
Allora san Massimiano disse: “Credici, è per causa tua che il Signore ci ha resuscitati proprio alla vigilia della festa della Resurrezione, affinché crediate che la resurrezione dei morti è una verità. Noi siamo veramente risorti e viviamo, e, come un bambino sta nel seno della madre senza sentire urti, così anche noi fummo vivi, giacendo addormentati, senza sentire alcuno stimolo”.
Pronunciate queste parole sotto gli occhi di tutti reclinarono nuovamente il capo a terra, addormentandosi e rendendo lo spirito, come Dio volle.
L’imperatore si rialzò e si gettò su di loro piangendo e baciandoli. Avendo l’imperatore deciso di farli riporre in sepolcri d’oro, la notte stessa apparvero all’imperatore dicendo che, come sino a poc’anzi erano giaciuti in terra e dalla terra erano risorti, così li lasciasse, sino a che il Signore non concedesse una seconda resurrezione. L’imperatore allora dispose che quella località fosse adornata di pietre dorate, e che tutti i vescovi che professavano la fede nella resurrezione fossero prosciolti.
Che essi abbiano dormito trecentosettantadue anni, come si è detto, è cosa dubbia, perché essi resuscitarono l’anno del Signore 448. Ma, Decio regnò soltanto un anno e tre mesi, nell’anno 252. Così non dormirono che centonovantasei anni.



Storia
La storia dei Sette Dormienti – presente sia nella religione cristiana che in quella islamica – è considerata dai più una leggenda, non la descrizione di un fatto accaduto. Tuttavia, sia per l’elevato significato contenuto, sia per i numerosi manoscritti pervenutici che testimoniano un culto antico e diffuso dalla Scandinavia ai Paesi islamici, per la Chiesa il racconto «non può essere negato che su chiari elementi di prova e argomenti di completa certezza».

Sette giovani cristiani di Efeso si rifugiarono in una grotta per sfuggire alla persecuzione dell’imperatore romano Decio (III secolo), il quale, scoperto il nascondiglio, li fece murare vivi. I Sette, però, caddero in un sonno miracoloso e si svegliarono quasi due secoli dopo, quando il cristianesimo era diventato la religione dominante. Ignaro del tempo trascorso, uno di loro pagò l’acquisto di un po’ di pane con alcune monete recanti l’effigie di Decio, cosicché il miracolo fu rivelato e i Sette, compiuta la loro testimonianza sulla realtà della resurrezione dei morti, morirono.
Nel tempo le varianti a questo “canovaccio” furono numerosissime, sì da renderlo profondamente differente da un luogo all’altro.

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In Occidente, il racconto è stato tramandato da Gregorio, vescovo di Tours dal 573 al 594, che scrisse la Passio sanctorum septem dormientium, un adattamento in latino di un’omelia metrica di Giacomo di Sarug (Mesopotamia) che fu vescovo della Siria dal 519 al 521. La leggenda era tuttavia già nota da almeno un secolo nel Medio Oriente, come testimoniato da antichi manoscritti in greco, latino, siriaco, aramaico e copto. 

La prima narrazione greca è ascritta a Simeone Metafraste (X secolo) che scrisse una Vita dei Santi e collocò la festa dei Sette nel mese di luglio. In latino, un altro importante riferimento è contenuto nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono, pseudonimo di Paolo di Varnefrido (720-799), un religioso e storico longobardo morto a Montecassino.

In seguito, molte regioni dell’impero romano furono sottomesse dagli Arabi e il racconto si diffuse tra i musulmani e fu raccolta da Maometto, probabilmente in un viaggio in Siria. Esso si trova infatti citato nel Corano, nella sura XVIII intitolata “al Kahf”, la caverna, la cui ambiguità indica chiaramente che il racconto non fu rivelato a Maometto, ma fu questi a trasmettere quanto sapeva, stabilendo «una corrispondenza tra i sette dormienti e gli intercessori degli ultimi tempi (abdàl) per la cui venuta Abramo aveva supplicato Dio a Mamre. Tale venuta precede la venuta di Gesù e il regno dei giusti (mahdi) in una vera e propria “apocalisse”».

In Russia la leggenda fu conosciuta all’inizio del XII secolo, quando l’igumeno Daniil tornò dopo aver veduto le reliquie dei Sette in Terra Santa.

domenica 27 aprile 2014

I Santi sono così!


Il giorno della festa di santa Teresa, suor Maria di Gesù Crocifisso poté seguire tutti gli esercizi della comunità. Domandò di confessarsi prima della Messa, perché aveva bisogno del permesso del confessore su un punto. «II sacerdote, disse a que­sto proposito alla sua Maestra, rappresenta Dio, è Lui che io ascolterò: parola del sacerdote, parola di Dio per me. Se il sacerdote mi dice che posso raccontarglielo, lo farò. Nel sacerdote, io non vedo che Dio; non cerco la scienza del sacerdote, ma la virtù di Dio in lui».


Avendo il confessore permesso alla novizia di riferire tutto alla sua Maestra, andò subito a trovarla e le parlò così: 

«Ho visto che avevo tre montagne da supera­re: la prima, un po' nera, l'ho scalata con fatica. Giunta alla cima ho visto uscire dalla montagna un uccello bianco, che mi ha detto: Io amerò colui che ama mio Pa­dre; sarà il mio prediletto. La seconda montagna era tutta nera; ho potuto scalarla con grandissime difficoltà. Una volta sulla cima, ho visto uscire dalla montagna un grazioso agnellino tutto bianco, dagli occhi molto dolci; avrei messo questo agnel­lino nel mio cuore. Egli mi ha detto: Io domando per colui che ama mio Padre il nome del Suo amatissimo Figlio e il nome della madre dell'Amato Bene. 

La terza montagna, sebbene più scoscesa, non era così nera come le prime due; dietro la cima, vedevo degli alberi in fiore. Raggiungendo la cima, ho sentito il profumo dei fiori, che mi ha dato speranza e gioia. Dal centro della montagna è uscito un uc­cello più bianco e più bello del primo e perfino dell'agnello. Mi ha detto: vado a dire al Padre, dona ciò che l'Agnello Ti ha domandato per colui che Ti ama, il no­me del Tuo amatissimo Figlio e il nome della madre dell'Amato Bene: Maria di Ge­sù Crocifisso. Ho compreso che si trattava di me; ciò mi ha dato buone speranze ma temo che non sia altro che il demonio, per farmi cadere nell'orgoglio. Ed ho detto: Va, Satana, non sono che una povera peccatrice, e tuttavia spero, la misericordia di Dio è grande. Io non sono niente per me stessa, nient'altro che peccato; ma Dio in me può fare contro di te, Satana, grandi cose».

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte prima (a cura di Gemma)


LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte seconda

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte terza

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte quarta

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte quinta

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte sesta

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte settima (a cura di Gemma)

Il Papa ricorda la sua giovinezza: "Nella biografia della mia vita - nella biografia del mio cuore, se così posso dire - la città di Frisinga ha un ruolo molto speciale. In essa ho ricevuto la formazione che da allora caratterizza la mia vita. Così, in qualche modo questa città è sempre presente in me e io in lei" (Commovente discorso in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria di Frisinga, 16 gennaio 2010)

Ratzinger: "Il mio Concilio: ricordi dell'attuale Pontefice" (Reset e Repubblica) 

Joseph Ratzinger presenta se stesso: discorso di Presentazione alla Pontificia Accademia delle Scienze

Joseph Alois Ratzinger nasce in Baviera nella diocesi di Passau, a Marktl an Inn , il 16 aprile 1927 alle 4.15, Sabato Santo, da Joseph e Maria.

Viene battezzato il mattino successivo con l’acqua appena benedetta della “notte pasquale”. Come ricorda nella sua biografia, “La mia vita” , l’essere il primo battezzato della nuova acqua è sempre stato per lui un segno di benedizione, “un importante segnale premonitore di una vita fin dall’inizio immersa nel mistero pasquale”.
Indiscrezione della stampa tedesca, vuole che i genitori si siano conosciuti con l’aiuto di un annuncio pubblicato dal padre Joseph su una rivista cattolica. La madre Maria, ex cuoca, ha origini sud-tirolesi. Il padre viene descritto come uomo severo ma giusto, severità compensata dalla calorosa cordialità della mamma Maria.
Ha due fratelli, Maria e Georg, più grandi rispettivamente di 5 e 3 anni.
Marktl si trova vicinissimo ad Altotting, l'antico santuario mariano risalente all'epoca carolingia, luogo di grandi pellegrinaggi per la Baviera e l'Austria occidentale.
Il padre, gendarme, nei dieci anni successivi, deve spesso trasferirsi e, come dice lui stesso, “non è per nulla facile dire dove io sia di casa”.
Solo due anni dopo, si stabilisce a Tittmoning, piccola città sul Salzach, il cui ponte fa anche da confine con l’Austria (“Tittmoning, dall’architettura così marcatamente salisburghese, è rimasto il paese dei sogni della mia infanzia”).Di quel periodo racconta: “sentivamo che il nostro sereno mondo infantile non era affatto incastonato in un paradiso. Nelle adunanze pubbliche, mio padre doveva intervenire sempre più di frequente contro le violenze dei nazisti. Sentivamo molto chiaramente l’enorme preoccupazione che gravava su di lui e che egli non riusciva a scrollarsi di dosso nemmeno nei piccoli gesti di ogni giorno”. Così alla fine del 1932, dal momento che a Tittmoning si era esposto parecchio, decide di trasferirsi ad Aschau sull’Inn. A Tittmoning il piccolo Joseph riceve la Cresima dalle mani del Cardinale Michael Faulhaber, Arcivescovo di Monaco. Alla vista del porporato il cresimando Ratzinger disse: «Anch’io, un giorno, diventerò cardinale!». Il fratello Georg, pero', smorzo' subito quella frase che si sarebbe rivelata profetica: «Vabbè, due settimane fa volevi fare l’imbianchino!».

Ad Aschau la famiglia Ratzinger abita nel primo piano della villa di un contadino con annesso giardino e stagno dove il piccolo Joseph mentre gioca sta quasi per annegare.
La vita della famiglia procede secondo i ritmi della locale comunità cattolica e sempre presente e vivo è, fin dall’infanzia, l’interesse per la liturgia che accompagnerà Joseph Ratzinger per tutta la vita (”l’inesauribile realtà della liturgia cattolica mi ha accompagnato attraverso tutte le fasi della mia vita”…“ogni nuovo passo che mi faceva entrare più profondamente nella liturgia era per me un grande avvenimento”) .
Nel 1937, in seguito al pensionamento del padre, la famiglia si trasferisce a Traunstein , località a 30 km da Salisburgo, diventato in pratica il suo vero paese d’origine.
Il fratello Georg sviluppa grande passione per la musica e per primo entra in seminario, Maria frequenta la scuola media delle francescane, il piccolo Joseph fa spesso lunghe passeggiate col padre al quale in quel periodo si avvicina di più.
I bambini a casa durante i giochi si immedesimano spesso nella parodia del sacerdote e un aneddoto riportato in una biografia vuole che durante una “processione” prendano accidentalmente fuoco le trecce della sorella.
Nel 1939, su consiglio del parroco, entra anche lui nel seminario di Traunstein. Della fase iniziale di quell’esperienza dice: “ io sono tra quelle persone che non sono fatte per la vita in internato. A casa avevo vissuto e studiato in grande libertà, così come volevo, costruendomi un mio mondo infantile. Trovarmi a contatto in una sala studio con circa sessanta altri ragazzi era per me una tortura”, così come le due ore di sport odierne, essendo poco dotato per le attività sportive , più piccolo d’età e nettamente inferiore per forza fisica di tutti gli altri.
E’ il primo della classe ma non è malvisto dai compagni perché li lascia copiare. Legge "con fervore Goethe, Schiller gli appare un po' troppo moralista", scrive poesie sulla vita quotidiana e la natura e da lezioni di recupero.
Nello stesso anno, a settembre, scoppia la guerra e nel 1943, a 16 anni, insieme agli altri seminaristi della sua classe, viene reclutato nei servizi di contraerea a Monaco (“è quasi superfluo ricordare che il periodo trascorso presso la contraerea causò delle situazioni imbarazzanti, soprattutto per un individuo così poco incline alla vita militare come me”) e alla fine assegnato ai servizi telefonici e dispensato dalle esercitazioni militari. Nel settembre 44 viene congedato ma, a casa, trova la chiamata al servizio lavorativo del Reich. (“Quelle settimane di servizio lavorativo sono rimaste nella mia memoria come un ricordo opprimente”. I superiori sono in gran parte provenienti dalla cosiddetta Legione Austriaca, “persone fanaticamente ideologizzate, che ci tiranneggiavano con violenza”. Racconta di essersi salvato in quel periodo dall’arruolamento volontario dichiarando insieme a qualcun altro, di essere intenzionato a diventare sacerdote cattolico. (“Venimmo coperti di scherni e insulti e ricacciati indietro, ma queste umiliazioni ci erano molto gradite, dal momento che ci liberavano dalla minaccia di questo arruolamento falsamente volontario e da tutte le sue conseguenze”). Sospesi i lavori, viene rimandato a casa ma di lì a poco arriva la chiamata alle armi con destinazione alla caserma di fanteria di Traunstein per il corso di addestramento. Da lì il trasferimento a varie località nei dintorni, anche se viene più volte esonerato dal servizio per malattia.
Durante l'arruolamento forzato, non sparo' mai nemmeno un colpo anche a causa di una ferita al pollice della mano sinistra, la cui cicatrice è tuttora visibile.
Secondo una biografia di un autore tedesco il giovane Ratzinger rischio' di morire di setticemia per quel taglio. Il medico militare consiglio' l'amputazione del dito, ma, grazie soprattutto alle cure della madre, non fu necessario procedere all'operazione.
Alla fine di aprile del 45 diserta e torna a casa ma all’arrivo degli americani, identificato come soldato, viene internato come prigioniero di guerra. Di quei giorni ricorda: “mi infilai in tasca un grosso quaderno e una matita – una scelta apparentemente poco pratica, mentre in realtà, quel quaderno si rivelò per me una meravigliosa compagnia, poiché, giorno dopo giorno, vi potei segnare pensieri e riflessioni di ogni genere; arrivai persino a cimentarmi con la composizione di esametri greci”. A giugno, viene rilasciato in libertà e torna a casa (“la Gerusalemme celeste in quel momento non mi sarebbe potuta apparire più bella”) e col ritorno anche del fratello Georg si ricostituisce l’unità familiare. (“I mesi successivi in cui potemmo gustare la ritrovata libertà , che ora avevamo imparato a stimare nel suo giusto valore, sono tra i più bei ricordi della mia vita”).
In quel periodo, insieme ad altri, partecipa con entusiasmo alla ricostituzione del seminario semidistrutto, adibito ad ospedale militare e comincia ad appassionarsi allo studio della teologia (“di libri, nella Germania distrutta ed economicamente prostrata, non era possibile acquistarne. Ma dal parroco e in seminario potevamo ricevere qualcosa in prestito, cercando così di muovere i primi passi sul terreno sconosciuto della teologia e della filosofia”)

Un'amicizia che ha segnato la storia ... del mondo

Benedetto XVI e Giovanni Paolo II: un'amicizia che ha segnato la storia della Chiesa. Collage video (YouTube)

Buona domenica della Divina Misericordia, carissimi amici!

 Si susseguono in televisione gli speciali sulle canonizzazioni di questa mattina. Noto che si tende a rimuovere o sminuire costantemente il Pontificato di Benedetto XVI. Un tempo questo atteggiamento mi avrebbe fatto molto arrabbiare, ora provo sincera pietà per coloro che si prestano a questi giochetti :-)
Ma parliamo di vicende importanti...

La collaborazione e soprattutto l'amicizia fra Giovanni Paolo II e il suo amico fedele, Joseph Ratzinger, poi diventato Benedetto XVI, ha segnato la storia della Chiesa dell'ultimo secolo. In questo video, un collage di filmati, rivediamo alcuni momenti di questa fondamentale amicizia.
Di seguito segnalo la playlist speciale sui due Papi che è in continuo aggiornamento.


http://paparatzinger6blograffaella.blogspot.it/2014/04/benedetto-xvi-e-giovanni-paolo-ii.html