giovedì 25 luglio 2013

* E SIATE CATTOLICI!



<<E SIATE CATTOLICI!>>

(Serafico Padre San Francesco) 

GRAZIE DI CUORE al Padre Fr. Budani per la sua esposizione chiara e serena su un tema poco capito oggi, sembra, anche dalla maggior parte dei Pastori.


La possibile caduta di una sacra Ostia o di qualche suo frammento potrebbe essere una profanazione.

di P. Francesco M. Budani





Il 25 marzo 2004 la Congregazione del Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha promulgato l’istruzione Redemptionis Sacramentum, riguardo alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia. Il suo alto valore normativo risulta con una certa evidenza dal tono globale ed è esplicitato dalle parole conclusive:
Questa Istruzione, redatta, per disposizione del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti d’intesa con la Congregazione per la Dottrina della Fede, è stata approvata dallo stesso Pontefice il 19 marzo 2004, nella solennità di san Giuseppe, il quale ne ha disposto la pubblicazione e l’immediata osservanza da parte di tutti coloro a cui spetta.

Premura del beato Giovanni Paolo II che ne dispose la redazione, era evidentemente di correggere prassi non pienamente accettabili e di porre argine a veri e propri abusi circa la Santissima Eucaristia , e ciò spiegando i modi corretti da adottare in relazione ad Essa. È un’istruzione ricca che merita di essere letta e studiata interamente, ma al momento un tale studio esula dalle finalità e dalle capacità di chi scrive. 

Pertanto ci soffermeremo brevemente su due punti in particolare, la prassi della Comunione sulla mano e la purificazione dei vasi sacri.
A riguardo della prassi della Comunione sulla mano afferma:

[92.] "Benché ogni fedele abbia sempre il diritto di ricevere, a sua scelta, la santa Comunione in bocca, se un comunicando, nelle regioni in cui la Conferenza dei Vescovi, con la conferma da parte della Sede Apostolica, lo abbia permesso, vuole ricevere il Sacramento sulla mano, gli sia distribuita la sacra ostia. Si badi, tuttavia, con particolare attenzione che il comunicando assuma subito l’ostia davanti al ministro, di modo che nessuno si allontani portando in mano le specie eucaristiche. Se c’è pericolo di profanazione, non sia distribuita la santa Comunione sulla mano dei fedeli."

E immediatamente dopo, aggiunge:

[93.] "È necessario che si mantenga l’uso del piattino per la Comunione dei fedeli, per evitare che la sacra ostia o qualche suo frammento cada."


Da quanto affermato nei due punti consecutivi (92 e 93) sembra che si possa affermare con una certa sicurezza che:
Vi è un diritto del fedele a ricevere la comunione in bocca.
Vi è un permesso di riceverla in mano. Si tratta quindi di una facoltà concessa, una grazia[è: un indulto = non potremmo ma fatelo. ndr]  che per natura sua è  lontana dal costituire un diritto e che, in quanto tale, può essere limitata o addirittura revocata dall’autorità competente senza detrimento alcuno per la giustizia. Infatti, a comprova di ciò, il documento subito impone delle limitazioni, come ad esempio quella di badare con particolare attenzione che il comunicando assuma subito l’ostia davanti al ministro.

Inoltre, questa licenza data ai fedeli è soggetta al giudizio ultimo del Sacerdote che si trova a distribuire il Sacramento. Infatti, il documento aggiunge che “se c’è pericolo di profanazione, non sia distribuita la santa Comunione sulla mano dei fedeli”.


A questo punto ci si potrebbe domandare cosa voglia dire il documento con l’espressione “pericolo di profanazione”. Andando al senso proprio delle parole, il vocabolario Treccani offre del termine  profanazione due definizioni affini entrambe attinenti al caso:
1. Azione con cui si compromette, si offende o si annulla il carattere sacro di una cosa, un luogo, una persona: la p. del tempio, degli altari, di una sacra immagine; la p. di una Vestale.  2. In senso estens. e fig., mancanza di rispetto verso chi o verso ciò che merita riguardo, venerazione.
Torniamo ora a quanto affermato dall’istruzione: subito dopo aver ammonito di non distribuire la santa Comunione in mano in caso di pericolo di profanazione, essa aggiunge che è necessario l’uso del piattino per evitare che la sacra Ostia o qualche suo frammento cada. 


Ora, forti del senso proprio del termine profanazione sopra esposto, notiamo che la perentorietà dell’avviso di cui al n.93, e il luogo dove è posto, lascia intendere che se non si evita la possibile caduta di una sacra Ostia o di qualche suo frammento possa in certe circostanze essere una profanazione. Infatti, un’incuria o anche un semplice disinteresse della sorte dei suoi piccoli frammenti non sarebbe come offendere il carattere sacro di essi? Di fatto un vecchio detto popolare recita che l’indifferenza è il maggior disprezzo. Ciò non sarebbe una mancanza di rispetto verso Gesù CRISTO realmente presente anche nel più piccolo frammento?

Per fare un esempio pratico, adatto al nostro caso, può succedere che il sacerdote si trovi a dover distribuire particole friabili, ossia ricche di frammenti: in tali casi, secondo la diretta esperienza dello scrivente, è davvero molto elevato il pericolo che un frammento rimanga sulla mano del comunicando senza che questi se ne accorga, oppure che voli via nel breve tragitto che l’Ostia santa percorre dalla pisside alla mano o dalla mano del comunicante alla bocca. Questo non solo perché l’uso del piattino, pur essendo necessario, realisticamente non sempre è possibile [??? ndr.] ma anche perché, quando c’è, resta comunque particolarmente difficoltoso usarlo in modo appropriato con coloro che ricevono la santa Comunione in mano, essendo le mani poste più in basso del mento e ben più ingombranti e rimanendo comunque congiunte a due lunghe braccia protese. Non di rado il piattino viene infatti urtato o il ministrante rinuncia semplicemente di sottoporlo.

Da quanto esposto, (dunque, sembrerebbe che per quanto riguarda il caso suddetto delle ostie poco compatte e ricche di frammenti, ci si possa trovare nel reale pericolo di una profanazione di ciò che di più santo e adorabile abbiamo: la santa Eucaristia, che anche nella più piccola parte contiene Cristo tutto e integro, in corpo, sangue, anima e divinità.) [affermo che comunque  c'è sempre reale pericolo di una profanazione di ciò che di più santo e adorabile abbiamo: la santa Eucaristia.  ndr.]

(Tuttavia) [Allora, ndr.], al di là dei casi specifici che si possano verificare, si deve notare che il giudizio ultimo pratico sulla possibilità di distribuire la comunione sulla mano, secondo quanto si evince dalla istruzione, compete alla coscienza del singolo sacerdote, il quale è tenuto a valutare di volta in volta i singoli casi concreti. Qualsiasi ingerenza o imposizione in merito, (potrebbe dunque sembrare ed essere recepita come) [sarebbe, ndr.] un’illegittima violazione del foro interno. 

D’altronde nessun fedele potrebbe pretendere di ricevere la comunione in mano, in quanto nessuno può reclamare un diritto che di fatto non esiste, e nessun superiore può imporre questa prassi in modo indistinto, chiedendo quasi una sospensione del giudizio, poiché nessuno può violare il sacrario della coscienza di un uomo, che appartiene solo al Signore.

AVE MARIA!

AMDG et B.V.M.

mercoledì 24 luglio 2013

SANT’ALESSIO

LEGGENDA 
[che non è una 'leggenda' ma un "racconto da leggersi"]
LATINA DI SANT’ALESSIO
 
Alessio si dice perché a vuol dire «molto», e lexis vuol dire «parola», e dunque Alessio vuol dire «forte nella parola del Signore»[1].
 


        Alessio era figlio di Eufemiano, un uomo di altissima nobiltà romana e di grande spicco nella corte imperiale. Il suo seguito era costituito da tremila giovani che portavano cinture d’oro e tuniche di seta. Questo grande funzionario, Eufemiano, era di gran bontà, e ogni giorno faceva tener pronte tre tavole nella sua casa per i poveri, per le vedove, per gli orfani e per i forestieri. Lui stesso serviva instancabilmente, e verso mezzogiorno prendeva anche lui il suo pasto con altri uomini pii, nel timore di Dio. Anche sua moglie, di nome Aglae, aveva la stessa devozione e gli stessi principi. 

Non avevano però ancora avuto un figlio, ma il Signore esaudì le loro preghiere e lo donò loro; poi decisero di vivere assieme, come prima, nella castità. 

Il figlio fu avviato agli studi delle arti liberali. Già brillava nelle discipline filosofiche, quando, fattosi ormai un ragazzo, fu scelta una ragazza, anch’essa dell’ambiente di corte, e gli fu data in sposa. Giunta la notte, Alessio si trovò solo con la sua sposa, nell’intimità; Alessio iniziò a istruirla nel timor di Dio e a esortarla al pudore virginale, poi le dette il suo anello d’oro e la linguetta della cintura che portava, e le disse:
        – Prendi tutto questo e conservalo finché a Dio piacerà, e il Signore sia fra di noi.

        Prese parte dei suoi averi e se ne andò sino al mare, e imbarcatosi di nascosto giunse a Laodicea, donde si diresse a Edessa, città della Siria, ove si conserva una immagine di Nostro Signore Gesù Cristo in un lenzuolo, non fatta da mano d’uomo
[2]. Giunto là prese tutte le sostanze che aveva portato con sé, le distribuì ai poveri, prese dei vestiti miseri e si mise con gli altri poveri nell’atrio della chiesa di Maria Madre di Dio. Delle elemosine che riceveva tratteneva per sé quel che poteva bastargli, e distribuiva ai poveri il resto. 

Il padre, profondamente addolorato per la scomparsa del figlio, mandò i giovani del suo seguito per ogni parte del mondo a cercarlo con la massima cura. Alcuni di essi giunsero a Edessa, ove Alessio li riconobbe, senza che essi riconoscessero lui; dettero a lui, come agli altri poveri, un’elemosina, e Alessio la accolse, ringraziando Dio con queste parole:
        – Ti ringrazio, Signore, perché mi hai fatto ricevere l’elemosina dai miei servi.

        I servi ritornarono e annunciarono al padre che non erano riusciti a trovarlo in nessun luogo. La madre invece dal giorno della scomparsa di Alessio si era messa a giacere su di un sacco sul pavimento della sua stanza, dove vegliava piangendo:
        – Qui resterò sempre in lacrime, finché non riuscirò a riavere mio figlio.



Icona della Theotokos
Acheropita
 
        La moglie diceva alla suocera:
        – Finché non avrò notizie del mio carissimo sposo, resterò qui con te, solitaria come una tortora.

        Dopo diciassette anni che Alessio era rimasto al servizio di Dio nell’atrio di quella chiesa, l’immagine della Vergine
[3] che vi si trovava disse al custode della chiesa:
        – Fai entrare l’uomo di Dio, che è degno del regno dei cieli, e lo spirito di Dio è posato su di lui; la sua preghiera sale come incenso fino al cospetto di Dio.
        Ma il custode non sapeva di chi parlasse, e allora l’immagine della Vergine disse:
        – È quello che sta fuori, seduto nell’atrio.
        Allora il custode uscì in fretta e lo fece entrare in chiesa. La fama di questo fatto si diffuse, e tutti cominciarono a venerarlo; Alessio, che voleva sfuggire alla gloria del mondo, partì in segreto per andare a Laodicea, dove si imbarcò con l’intenzione di raggiungere Tarso di Cilicia: ma per volere di Dio la nave fu spinta dai venti sino al porto di Roma. Vedendo questo Alessio disse tra sé e sé: «Andrò nella casa di mio padre senza farmi riconoscere: non sarò di peso ad altri».

        Vide il padre che stava rientrando al palazzo, con uno stuolo di gente che lo attorniava con deferenza. Lo seguì e gli gridò:
        – Servo di Dio, fammi accogliere nella tua casa: sono povero e forestiero. Fammi nutrire con le briciole della tua mensa, e che Dio possa avere nello stesso modo pietà di te, che sei pellegrino come me.
        Sentite queste parole il padre per amore del figlio lo fece ricevere in casa sua, e gli fece assegnare un luogo tutto per lui; gli faceva mandare del cibo dalla sua propria mensa, affidandolo a un servo particolare. Alessio continuava a pregare e macerava il suo corpo con veglie e digiuni. I servi della casa invece si facevano beffe di lui, e spesso gli versavano sul capo l’acqua delle tinozze, facendogli dispetti, ma lui sopportava tutto. Passò altri diciassette anni nella casa del padre senza essere riconosciuto. Si accorse, per rivelazione, che ormai si faceva vicina la fine della vita, e allora chiese carta e inchiostro e scrisse per ordine tutta la sua vita. La domenica dopo la messa si senti nella chiesa una voce dal cielo che diceva:
        – Venite a me, voi tutti che soffrite e siete gravati: io vi rifocillerò
[4].
        Tutti quelli che udirono la voce, atterriti, caddero proni, ed ecco che la voce parlò di nuovo:
        – Cercate l’uomo di Dio, che preghi per Roma. Lo cercarono, ma senza trovarlo, e la voce parlò una terza volta:
        – Cercatelo nella casa di Eufemiano.
       Ma Eufemiano, quando gli fu chiesto, disse di non saperne nulla. Allora gli imperatori Onorio e Arcadio con il papa Innocenzo andarono alla casa di Eufemiano, e il servo che si occupava di Alessio andò dal padrone e disse:
        – Signore, guarda se non è quel povero forestiero che sta in casa nostra: è un uomo di vita elevata e di gran pazienza.

Scene della vita di S. Alessio (Roma, San Clemente inferiore, fine sec. XI)
 
        Eufemiano allora corse da Alessio, ma lo trovò morto, con il volto raggiante come quello di un angelo; volle prendere la carta che stringeva in mano, ma non riuscì. Raccontò allora l’accaduto agli imperatori e al papa, e quando questi entrarono nel luogo ove si trovava Alessio dissero:
        – Benché noi siamo peccatori, reggiamo tuttavia le sorti del regno, e questi ha nelle sue mani la cura dell’intero gregge. Dacci dunque quella carta, perché possiamo sapere cosa vi è scritto.

        Il papa si avvicinò e prese la carta dalla sua mano, e Alessio la lasciò prendere facilmente. La fece leggere alla presenza del popolo, d’una gran folla e del padre di Alessio. Quando Eufemiano ebbe inteso, subito lo colse un grandissimo dolore, tanto che perse i sensi, venne meno e cadde a terra. Appena cominciò a riprendere i sensi, si stracciò le vesti, e si mise a strapparsi i capelli bianchi e la barba, a straziarsi, e gridava sul corpo del figlio:
        – Figlio mio, figlio mio, perché mi hai dato questa tristezza, e perché mi hai inflitto dolore e pianto per cosi tanti anni? Povero me, che vedo te, il bastone della mia vecchiaia, steso sul letto, e non mi parli! Ah, quando potrò riavere da te consolazione?
        La madre, quando seppe cosa era accaduto, come una leonessa che abbia rotto la rete, stracciate le vesti, con i capelli sciolti alzava oli occhi al cielo. La grande ressa non le permise di giungere sino al corpo santo, ma gridò:
        – Uomini, lasciatemi passare, che possa vedere mio figlio, che veda la consolazione dell’anima mia, quello che succhiò al mio petto! E quando giunse al suo corpo, gli si getto sopra gridando:
        – Ah, figlio mio, luce degli occhi miei, perché l’hai fatto? Perché sei stato così crudele con noi? Ci vedevi, tuo padre e me, povera, che piangevamo e non ti rivelavi a noi. I tuoi servi ti insultavano, e tu sopportavi!
        E ancora e ancora si gettava sul suo corpo, ora abbracciandolo, ora accarezzando e baciando il suo volto d’angelo, e gridando:

Dormizione di Sant’Alessio

        – Piangete con me, tutti voi! L’ho avuto per diciassette anni in casa mia, ed era il mio unico figlio! I servi lo insultavano e lo picchiavano! Ahi, chi darà una fonte di lacrime agli occhi miei perché notte e giorno pianga il dolore dell’anima mia?
        La sposa, indossata la veste del lutto, accorse in lacrime e disse:
        – Ahi, da oggi non ho consolazione, da oggi sono veramente vedova! Ormai non ho più il mio specchio, in cui guardare o verso cui alzare gli occhi: lo specchio è rotto e la speranza è morta. Da ora inizia un dolore che non avrà fine.

        La gente, sentite queste parole, piangeva pietosamente. Il papa e gli imperatori posero il corpo in un feretro di gran pregio e lo portarono attraverso tutta la città, e fu annunziato al popolo che era stato trovato l’uomo di Dio che tutta la città stava cercando, e tutti accorrevano incontro al santo. Se qualche malato toccava quel corpo santissimo, subito era guarito, i ciechi riacquistavano la vista, gli indemoniati erano liberati, e tutti i malati, da qualsiasi male fossero affetti, erano sanati al solo contatto con il corpo del santo. Gli imperatori e il papa, vedendo tutti quei prodigi, portarono essi stessi il feretro, per essere santificati dal corpo santo. Gli Operatori dettero disposizione di spargere una gran quantità d’oro e d’argento per le piazze, perché il popolo si gettasse a raccogliere il denaro e lasciasse spazio per portare il corpo di Alessio sino alla chiesa. Ma la folla non badava al denaro, e sempre più si accalcava per toccare il corpo santo: così con gran fatica riuscirono a portare il feretro fino al tempio di San Bonifacio martire, ove per sette giorni lodando Dio senza sosta costruirono un sepolcro in oro e gemme e pietre preziose, ove deposero il corpo con grande venerazione. Dal sepolcro si diffuse un odore soavissimo, tanto che tutti pensavano che fosse pieno di aromi.
        Morì il 17 luglio
[5] del 398.
Dalla Legenda aurea di Iacopo da Varazze, cap. XCIV;

(edd) A. e L. VITALE BOVARONE,
vol II, 2006; 510-514

17 MARZO
Memoria di sant’Alessio, uomo di Dio.

Al VESPRO

Stichirà prosómia.
Ti conosciamo come uomo di Dio * di nome e di fatto: * hai infatti brillato per le virtù, * avendo avuto come possesso in terra * povertà e angustia senza fine * ed avendo confermato i fedeli con prodigi. * Prega dunque perché siano donate alle anime nostre * la pace e la grande misericordia.

Con un amore stillante rugiada, * hai spento ardenti amori carnali, o Alessio, * piamente cambiando un talamo con un altro, * il piacere del corpo * con la divina somiglianza con gli angeli: * insieme a loro supplica * perché siano date alle anime nostre * la pace e la grande misericordia.

Rimani sconosciuto, o sapiente, * maltrattato alle porte dei tuoi nobili genitori, * e per lungo tempo sei schernito dai tuoi propri servi. * Ma, morto, ti manifesti con i miracoli che compi, * sanando le malattie * e cacciando gli spiriti impuri.

Gioisci, strana novella, * o pura; * gioisci santo albero del paradiso * piantato da Dio; * gioisci, distruzione dei malvagi demoni; * gioisci, spada a due tagli * che recidi la testa del nemico, * col tuo parto strano. * O santissima più che immacolata, * facci ritornare, * fa’ ritornare noi divenuti estranei.

Oppure stavrotheotokion
Vedendo, o Cristo, * la tua ingiusta immolazione, * la Vergine piena di dolore a te gridava: * Figlio dolcissimo, * perché muori ingiustamente, * perché sei appeso al legno, * tu che hai sospeso sulle acque * tutta la terra? * Non lasciarmi sola, ti prego, * misericordiosissimo benefattore, * me, tua madre e serva!

All’ORTHROS

Kondàkion.
Celebrando oggi piamente * la sacratissima festa del felicissimo Alessio, * a lui inneggiamo dicendo: * Gioisci, amabile ornamento dei santi.

Ikos.
Chi potrà degnamente esaltare * e sufficientemente celebrare le tue auguste virtù, * o Alessio di mente divina? * La temperanza, la pazienza, * la mitezza, la continenza, * il tuo incessante inneggiare, * il durissimo genere di vita * e la smisurata umiltà? * Divenuto per esse paragonabile agli angeli, * tu sempre intercedi per il mondo intero; * per questo, o santo, * da tutti i fedeli ti senti ora dire: * Gioisci, amabile ornamento dei santi.

Sinassario.
Il 17 di questo stesso mese, memoria del nostro santo padre Alessio, l’uomo di Dio.
Per la sua santa intercessione, o Dio, abbi pietà di noi e salvaci. Amen.

Exapostilàrion.
Oh prodigio! * Tu a lungo dimori * davanti alle porte dei tuoi genitori, * saldo come acciaio, * senza lasciarti piegare dalla forza della natura, * dagli amari gemiti dei genitori, * o Alessio, * e della consorte.

tratto da M. B. ARTIOLI (edd), Antologhion di tutto l’anno, Vol. II, Roma 2000, 1392-1394.

Il ritratto fisico e spirituale teologico di Maria

"Non hanno più vino"




1. Il ritratto fisico di Maria    Le prime immagini della Madonna nelle catacombe raffigurano Maria come una matrona romana. Ben presto, però, in Oriente si e andati alla riscoperta di un vero ritratto: questa e l'origine del ritratto attribuito a san Luca. I tratti somatici di Maria sono anche tramandati dai Padri della Chiesa e contenuti nei manuali di pittura. Il manuale di Dionisio da Furnà, monaco greco del monte Athos, del secolo XVIII, dà il seguente ritratto di Maria: 

«La santissima Madre di Dio era di statura media (alcuni dicono che anche lei era alta tre braccia), del colore del grano, con i capelli biondi e gli occhi chiari e belli, le sopracciglia lunghe, un naso medio, una mano lunga con dita affilate: era semplice, umile, naturale: amava i vestiti dal colore naturale, come testimonia il suo Maphorion che si trova nel tempio a lei dedicato.»

    La descrizione fornisce tre elementi del ritratto fisico di Maria: la statura di Maria descritta come media; i tratti somatici di volto e mani, i soli visibili sulle icone mariane; l'abito che copre il capo, le spalle e il corpo di Maria, che l'autore identifica con il cosiddettoMaphorion che i bizantini possedevano a Costantinopoli e veneravano nel santuario mariano di Blachernes della stessa città. 


Altri testi insistono sulla somiglianza di Madre e Figlio; ne citeremo qui solo uno tratto dalla Vita di Maria, scritta da un certo Epifanio, monaco di Costantinopoli, vissuto nel secolo IX. Parlando di Gesù, Epifanio ne fa il seguente ritratto:

 «Gesù era di circa sei piedi, con capigliatura bionda e un po' ondulata, sopracciglia nere non del tutto arcuate, con una leggera inclinazione del collo in modo che il suo aspetto non era del tutto perpendicolare col viso non rotondo ma alquanto allungato, come quello di sua Madre. alla quale del resto egli rassomigliava in tutto.» 

«Maria era di media statura; alcuni, invece, sostengono che la superasse. Di carnagione color del grano, aveva capelli biondi, begli occhi dal color nocciola dorato. le sopracciglia nere, un naso profilato, mani, dita e faccia allungate; era tutta grazia e bellezza, senza superbia, semplice, laboriosa e sommamente umile; perciò, come lei stessa dice, Iddio la guardò perché lei magnificava il Signore; amava portare vesti non tinte, come testimonia il suo sacro velo dal colore naturale


2. Il ritratto spirituale teologico

    L'icona mariana contiene anche il ritratto spirituale e teologico della Madre di Dio. I Padri parlano spesso della bellezza di Maria. Basti qui citare la descrizione data da Gregorio Palamas, autore greco del secolo XIV:

«Volendo creare un'immagine della bellezza assoluta e manifestare chiaramente agli angeli e agli uomini la potenza della sua arte, Dio ha fatto Maria tutta bella. Egli ha riunito in lei le particolari bellezze distribuite alle altre creature e l'ha costituita comune ornamento di tutti gli esseri visibili e invisibili: o piuttosto, ha fatto di lei come la sintesi di tutte le perfezioni divine, angeliche e umane, una bellezza sublime che nobilita i due mondi, che si eleva dalla terra fino al cielo e che supera anche quest'ultimo... Maria è come la linea di demarcazione tra il creato e l'increato. Ella sola ha ricevuto i doni divini senza misura e Dio ha posto tutto nelle sue mani: ella è il luogo di tutte le grazie, la pienezza della bontà, l'immagine viva di ogni virtù; ella sola è stata ricolmata dei carismi dello Spirito Santo, ed e eccelsa su ogni creatura per la sua unione con Dio».

    Abbiamo in questa descrizione gli elementi della bellezza spirituale soprannaturale della Madre di Dio che il pittore è chiamato a rendere visibile con la sua arte. Il compito è però così arduo e cosi sublime da dover ricorrere a un grande numero di iscrizioni e di simboli che costituiscono ognuno una specie di finestra aperta sull'invisibile, sul soprannaturale, sull'ultraterreno. Questo fa dell'arte bizantina un'arte mistica e simbolica aperta sull'infinito.



    3.3. I simboli e le iscrizioni

    I simboli principali, accompagnati da iscrizioni a cui normalmente ricorre l'artista, sono i seguenti. La posizione frontale delle figure e gli occhi aperti rivolti allo spettatore hanno lo scopo di mettere il fedele che prega in diretto contatto con il modello raffigurato. Il fondo oro esprime la gloria celeste in cui vivono attualmente le figure rappresentate. Il nimbo dorato suggerisce la santità della Panaghia, o «Tuttasanta». Le tre stelle dipinte sul capo e sulle spalle di Maria simboleggiano la Aeiparthenos, o «perpetua verginità di Maria prima, durante e dopo il parto». LeIscrizioni che figurano sulle icone mariane sono di due tipi. Le prime sono obbligatorie, le seconde facoltative. Quelle obbligatorie accompagnano le figure di Maria e del bambino. Quella che accompagna la figura di Maria è costituita dai due digrammi del nome di Maria, scritti in grandi caratteri, spesso ornati, ai due lati del capo della Madonna. Essi sono MP ΘY, abbreviazione perMeter Theou, o Madre di Dio. Questi due digrammi hanno soppiantato ben presto il nome Aghia Maria, o Santa Maria, che si incontrano in alcune rare raffigurazioni antiche. Essi corrispondono inoltre al nome Theotokos divenuto un nome proprio di Maria a partire del concilio di Efeso del 431, nel quale i Padri della Chiesa ravvisano la fonte di tutte le sue grandezze e di tutti i suoi privilegi. San Giovanni Damasceno (+749) cosi lo celebra: «Il solo nome Theotókos contiene tutto il mistero dell'economia della salvezza». Esso comprende anche per i bizantini la fonte nascosta della sublime bellezza della Madre di Dio. 


    Anche il bambino che siede in braccio o nel grembo della Madre è raffigurato in posizione frontale. Veste chiton. o tunica. e imation. o mantello color oro coperto di assist, ossia di una ragnatela di fili d'oro che esprimono la sua divinità. Ha la statura di un bimbo di tre anni, ma le sembianze sono di un adulto, per sottolineare il carattere soprannaturale e divino. Il nimbo è crociato, per indicare il Salvatore, e contiene il trigramma sacro O WN, o Yahweh, il nome rivelato da Dio a Mosè. Ai due lati del capo sono iscritti IC XC, per Gesù Cristo, Figlío di Dio e Dio lui stesso. La mano sinistra regge un rotolo di pergamena, simbolo della sapienza; la mano destra alzata suggerisce un segno di benedizione.


Vero Volto di Maria Santissima


<<SPIRITO SANTO, ISPIRAMI;
AMORE DI DIO, CONSUMAMI;
NEL VERO CAMMINO, CONDUCIMI.
MARIA MADRE MIA, GUARDAMI;
CON GESU’ BENEDICIMI;
DA OGNI MALE, DA OGNI ILLUSIONE,
DA OGNI PERICOLO, PRESERVAMI.>>

Santa Felicita: «Mirate al cielo, o figli, e levate in alto lo sguardo; là vi attende Cristo con i suoi santi. Combattete per le vostre anime e mostratevi fedeli nell’amore di Cristo!»


MARTIRIO DI SANTA FELICITA
E DEI SUOI SETTE CRISTIANISSIMI FIGLI

Disegno ottocentesco di G. Mariani dell’affresco perduto dell’oratorio cristiano del Colle Oppio
 
La prima accusa alla cristiana Felicita, vedova e madre di sette figli (come Sinforosa di Tivoli), è mossa dalle autorità sacerdotali pagane. Può sembrare strano che l’abbia accolta un imperatore come Marco Aurelio, che aderiva alla filosofia stoica, non senza una venatura di scetticismo per tutte le fedi religiose, ma l’accusa dei pontefici toccava un tasto molto delicato: «Contro la vostra salute questa vedova con i suoi figli insulta i nostri dèi!»[1]. Sul culto dell’imperatore si scontravano Roma e il cristianesimo e, fin dai tempi di Plinio e Traiano, l’atto di adorazione al sovrano era la condizione indispensabile perché un cristiano venisse prosciolto da un’accusa. Inoltre l’impero di Marco Aurelio fu turbato da guerre, pestilenze e altre calamità che, per i sacerdoti e la folla pagana, erano causati dalla collera degli dèi: l’ostilità dei cristiani al culto tradizionale doveva quindi essere punita. Felicita e i figli erano di famiglia nobile, tanto che a uno dei giovani il prefetto Publio, il quale dirige il processo, promette di farlo diventare «amico degli Augusti»[2]. La condanna imperiale a morire sotto diversi giudici (e quindi con diversi supplizi) mirava forse a dare un esempio agli abitanti dei vari quartieri di Roma.
Alcuni studiosi hanno messo in dubbio l’autenticità degli atti, considerando il racconto un’imitazione di quello dei sette fratelli Maccabei (II libro dei Maccabei 1,1-41)[3], ma un documento scritto del IV secolo relativo alla loro sepoltura e alcuni ritrovamenti archeologici sembrano confermarne l’autenticità. In una omelia, pronunciata nella basilica di santa Felicita, San Gregorio il Dialogo, papa di Roma, fa riferimento ad un antico documento, le “Gesta emendatoria”, contenente la storia dei nostri martiri, e li ricorda in un suo commento all’Evangelo di Matteo (12, 47).
La Chiesa Ortodossa li onora il 25 gennaio. Nella Chiesa di Roma Antica, nel IV secolo, la loro festa veniva celebrata, con molta solennità e grande partecipazione dei fedeli, il 10 luglio[4], chiamato dalla gente “dies martyrum”. La loro memoria liturgica ora è il 23 novembre per Felicita e il 10 luglio per Felice, Filippo, Vitale, Marziale, Alessandro, Silano e Gennaro.

 
I - Ai tempi dell’imperatore Antonino scoppiò una rivolta dei pontefici e fu arrestata e trattenuta in carcere la nobildonna Felicita con i suoi sette cristianissimi figli[5]. Permanendo nello stato di vedovanza, aveva consacrato a Dio la sua castità e, dedicandosi giorno e notte alla preghiera, offriva alle anime caste uno spettacolo altamente edificante. I pontefici allora, vedendo che, per opera sua, progrediva la divulgazione del nome cristiano, la calunniarono all’imperatore dicendo: «Contro la vostra salute questa vedova con i suoi figli insulta i nostri dèi! Se non venererà gli dèi, sappia la pietà vostra che i nostri dèi si adireranno talmente da non poter essere placati con nessun mezzo».
Allora l’imperatore Antonino ingiunse a Publio[6], prefetto della città, di costringerla, insieme con i suoi figli, a mitigare con i sacrifici le ire dei loro dèi. Pertanto Publio, prefetto della città, fece venire al suo cospetto la donna in udienza privata e, pur invitandola al sacrificio con blande parole, le minacciava la morte tra i supplizi. Felicita gli rispose: «Non potrò né cedere alle tue blandizie né piegarmi alle tue minacce. Ho infatti lo Spirito santo che non permette che io sia vinta dal demonio; pertanto sono sicura che ti vincerò da viva e, se sarò uccisa, meglio ancora ti vincerò da morta».
Replicò Publio: «Disgraziata, se per te è dolce morire, fa vivere almeno i tuoi figli!».
Rispose Felicita: «I miei figli vivranno, se non sacrificheranno agli idoli; se invece commetteranno un delitto così grande, andranno incontro alla morte eterna».



II - Il giorno dopo Publio sedette nel foro di Marte, mandò a chiamare Felicita con i figli e le disse: «Abbi pietà dei tuoi figli, giovani retti e nel fiore dell’età!».
Rispose Felicita: «La tua misericordia è empietà e la tua esortazione crudeltà» e, rivolta ai figli, disse loro: «Mirate al cielo, o figli, e levate in alto lo sguardo; là vi attende Cristo con i suoi santi. Combattete per le vostre anime e mostratevi fedeli nell’amore di Cristo!».
Udendo queste parole, Publio la fece schiaffeggiare, dicendo: «Hai osato, in presenza mia, dare codeste esortazioni, affinché disprezzino i comandi dei nostri sovrani?».

III - Quindi chiamò il primo dei figli di lei, di nome Gennaro, e, promettendogli abbondanza di beni terreni,, parimenti gli minacciava le frustate, se si fosse rifiutato di sacrificare agli idoli. Gennaro rispose: «Cerchi d’indurmi alla stoltezza, ma la sapienza di Dio mi protegge e mi farà superare tutte queste prove».
Subito il giudice lo fece percuotere con le verghe e rinchiudere in carcere. Quindi si fece condurre il secondo figlio, di nome Felice. Mentre Publio lo esortava a immolare agli idoli, il giovane dichiarò con fermezza: «Uno solo è il Dio che adoriamo, a cui offriamo il sacrificio della pia devozione. Guardati dal credere che io o qualcuno dei miei fratelli deviamo dalla strada dell’amore di Cristo. Ci si preparino pure le frustate, pendano sul nostro capo decisioni di sangue. La nostra fede non può essere né vinta né cambiata! ».
Mandato via anche questo, Publio si fece condurre il terzo figlio, di nome Filippo. Quando gli disse: «L’imperatore (Marco Aurelio) Antonino, signore nostro, vi ha comandato d’immolare agli dèi onnipotenti», Filippo rispose: «Codesti non sono né dèi né onnipotenti, ma simulacri vani, miseri e insensibili e quelli che vorranno sacrificare loro correranno eterno pericolo».
Fatto allontanare Filippo, Publio si fece condurre il quarto figlio, di nome Silvano, a cui disse così: «Come vedo, d’accordo con la vostra pessima madre, avete preso la decisione d’incorrere tutti nella condanna, disprezzando gli ordini dei sovrani».
Rispose Silvano: «Se temeremo la morte temporale, incorreremo nel supplizio eterno. Ma poiché sappiamo bene quali premi siano riservati ai giusti e quale pena sia stabilita per i peccatori, tranquillamente disprezziamo la legge umana per rispettare i precetti del Signore. Chi sprezza gli idoli, infatti, e obbedisce al Dio onnipotente, troverà la vita eterna, ma chi adora i demoni andrà con essi alla perdizione e al fuoco eterno».
Fatto allontanare Silvano, si fece venire vicino Alessandro, al quale disse: «Se non sarai ribelle e farai ciò che più desidera il nostro sovrano, si avrà riguardo per la tua età e per la tua esistenza che non è ancora uscita dall’infanzia. Quindi, sacrifica agli dèi, per poter diventare amico degli Augusti e conservare la vita e il loro favore».
Rispose Alessandro: «Io sono servo di Cristo. Lo confesso con le labbra, lo conservo nel cuore, lo adoro incessantemente. L’età tenera che tu vedi in me ha la saggezza degli anziani, quando venera il Dio unico. Invece i tuoi dèi con i loro adoratori saranno condannati alla morte eterna».
Fatto allontanare Alessandro, fece venire a sé il sesto, Vitale, a cui disse: «Forse, almeno tu desideri vivere e non andare incontro alla morte». Rispose Vitale: «Chi desidera vivere meglio? Chi adora il vero Dio o chi desidera avere propizio il demonio?».
Disse Publio: «E chi è il demonio?». Rispose Vitale: «Tutti gli dèi dei gentili sono demoni e tutti coloro che li adorano»[7].
Fatto andar via anche questo, fece entrare il settimo, Marziale, e gli disse: «Crudeli contro voi stessi per vostra volontà, disprezzate le leggi degli Augusti e vi ostinate a rimanere nel vostro danno».
Rispose Marziale: «O se sapessi quali pene sono destinate ai cultori degli dèi! Ma Iddio attende ancora a mostrare la sua collera contro di voi e contro i vostri idoli. Infatti, tutti coloro che non riconoscono Cristo come vero Dio saranno mandati al fuoco eterno».
Allora Publio fece allontanare anche il settimo dei fratelli e spedì all’imperatore una relazione scritta del processo[8].



IV - L’imperatore li inviò a giudici diversi, per farli morire sotto diversi supplizi. Uno dei giudici fece morire il primo dei fratelli con fruste di piombo. Un altro uccise a furia di bastonate il secondo e il terzo, un altro ancora scaraventò il quarto da un precipizio. Un altro dei giudici fece eseguire la pena capitale contro il quinto, il sesto e il settimo, un altro infine fece decapitare la loro madre. Così, morti per diversi supplizi, furono tutti vincitori e martiri di Cristo e, trionfando con la madre, volarono in cielo a ricevere i premi che avevano meritato. Essi che, per amore di Dio, avevano disprezzato le minacce degli uomini, le pene e i tormenti, divennero nel regno dei cieli amici di Cristo, che, con il Padre e lo Spirito santo, vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.


 
[1] Martirio di santa Felicita, c. I.
[2] Martirio di santa Felicita, c. III.
[3] Oltre al contegno eroico dei giovani e della loro madre, un importante elemento di affinità tra il presente racconto e quello biblico è il frequente accenno alla vita che attende l’anima dopo la morte. 
[4] Così la Depositio Martyrum. Il martirologio geronimiano ricorda Felicita il 23 novembre e i figli in date diverse.
[5] Un affresco (V-VI sec) scoperto dal De Rossi al Colle Oppio alla fine del 1800, presso un antico oratorio ritenuto la casa o il carcere dei martiri, riproduceva la santa (Felicitas Cultrix Romanarum) circondata dai figli, mentre il Salvatore le regge la corona sul capo dall’alto; non si sa però se esso derivi dagli atti del martirio o da un documento posteriore.
[6] Publio Salvio Giuliano, successo a Urbico nel 162, giureconsulto che resse la prefettura di Roma a cavallo tra l’impero di Antonino Pio (138-161) nel 161 e quello di M. Aurelio e L. Vero nel 161-162.
[7] Per i cristiani antichi gli dèi pagani sono veri spiriti del male e non immagini imperfette di una verità intravista, sia pure confusamente. Tale motivo viene spesso ripreso negli atti dei martiri.
[8] Esempio di scrupolo professionale non raro tra i funzionari dell’impero, che solo una tradizione edificante, ma superficiale, immagina tutti accaniti nel tormentare i cristiani.

Benedicta Tu super omnes mulieres

I molti figli di un unico padre


Le parabole di Gesù
(035)
I molti figli di un unico padre (425.7 - 425.8)

Un padre di molti figli dette ad ognuno di essi, diventati adulti, due monete di molto valore e disse loro: "Io non intendo più lavorare per ognuno di voi. Ormai siete in età di guadagnarvi la vita. Perciò dò ad ognuno uguale misura di denaro perchè lo impiegate come più vi piace e a vostro utile. Io resterò qui in attesa, pronto a consigliarvi, pronto anche ad aiutarvi se per involontaria sciagura perdeste in tutto o in parte il denaro che ora vi dò. Però ricordatevi bene che sarò inesorabile per chi lo disperde con malizia volontaria e per i fannulloni che lo consumano o lo lasciano quale è con l'ozio e coi vizi. A tutti ho insegnato il Bene e il Male. Non potete perciò dire che andate ignoranti incontro alla vita. A tutti ho dato esempio di operosità saggia e giusta e di vita onesta. Perciò non potete dire che vi ho corrotto lo spirito col mio mal esempio. Io ho fatto il mio dovere. Ora voi fate il vostro chè scemi non siete nè impreparati, nè analfabeti. Andate." e li licenziò rimanendo solo, in attesa, nella sua casa.

I figli si sparsero nel mondo. Avevano tutti le stesse cose: due monete di gran valore di cui potevano liberamente disporre, e un più grande tesoro di salute, energia, cognizioni ed esempi paterni. Perciò avrebbero dovuto riuscire tutti ad un modo. Ma che avvenne?

Che fra i figli, chi bene usò delle monete e si fece presto un grande e onesto tesoro con il lavoro indefesso e onesto e una vita morigerata, regolata sugli insegnamenti paterni; e chi sulle prime fece onestamente fortuna, ma poi la disperse con l'ozio e le crapule; e chi fece denaro con usure e commerci indegni; e chi non fece nulla perchè fu inerte, pigro, incerto, e finì le monete di molto valore senza aver ancora potuto trovare un'occupazione qualsiasi.
Dopo qualche tempo il padre di famiglia mandò servi in ogni dove, là dove sapeva essere i suoi figli, e disse ai servi: "Direte ai miei figli di radunarsi nella mia casa. Voglio mi rendano conto di cosa hanno fatto in questo tempo, e rendermi conto da me stesso delle loro condizioni". E i servi andarono per ogni dove e raggiunsero i figli del loro padrone, fecero l'ambasciata e ognuno tornò indietro col figlio del padrone che aveva raggiunto.
Il padre di famiglia li accolse con molta solennità. Da padre, ma anche da giudice. E tutti i parenti della famiglia erano presenti, e coi parenti gli amici, i conoscenti, i servi, i compaesani, e quelli dei luoghi limitrofi. Una solenne adunanza. Il padre era sul suo scanno di capo famiglia, intorno a semicerchio tutti i parenti, amici, conoscenti, servi, compaesani e limitrofi. Di fronte, schierati, i figli.
Anche senza interrogazioni il loro aspetto diverso dava risposta sulla verità. Coloro che erano stati operosi, onesti, morigerati e avevano fatta santa fortuna, avevano l'aspetto florido, pacifico, e benestante di chi ha larghi mezzi, buona salute e serenità di coscienza. Guardavano il padre con un sorriso buono, riconoscente, umile ma insieme trionfante, splendente della gioia di avere onorato il padre e la famiglia e di essere stati buoni figli, buoni cittadini e buoni fedeli. Quelli che avevano sciupato nell'ignavia o nel vizio i loro averi stavano mortificati, mogi, sparuti nell'aspetto e nelle vesti, coi segni delle crapule e della fame chiaramente impressi su di loro.
Quelli che avevano fatto fortuna con delittuose manovre avevano l'aggressività, la durezza, sul volto, lo sguardo crudele e turbato di belve che temono il domatore e che si preparavano a reagire.

Il padre iniziò l'interrogatorio da questi ultimi: "Come mai, voi che eravate di così sereno aspetto quando partiste, ora parete fiere pronte a sbranare? Da dove vi viene quell'aspetto?"
"La vita ce lo ha dato. E la tua durezza di mandarci fuori di casa. Tu ci hai messo a contatto con il mondo"
"Sta bene. E che avete fatto nel mondo?"
"Ciò che potemmo per ubbidire al tuo comando di guadagnarci la vita col niente che ci hai dato."
"Sta bene. Mettetevi in quell'angolo... E ora a voi, magri, malati e malvestiti. Che faceste per ridurvi così? Eravate pure sani e ben vestiti quando partiste".
"In dieci anni gli abiti si logorano..." obiettarono i fannulloni.
"Non ci sono dunque più telai nel mondo che facciano stoffe per le vesti degli uomini?"
"Sì... Ma ci vogliono denari per comperarle...."
"Li avevate".
"In dieci anni... si sono più che finiti. Tutto ciò che ha principio ha fine".
"Sì, se se ne leva senza mettervene. Ma perchè voi avete soltanto levato? Se aveste lavorato potevate mettere e levare senza che il denaro finisse, ma anzi ottenendo che aumentasse. Siete stati forse malati?"
"No, padre".
"E allora?"
"Ci sentimmo spersi... Non sapevamo che cosa fare, che fosse buono... Temevamo di far male. E per non fare male non facemmo nulla".
"E non c'era il padre vostro a cui rivolgervi per un consiglio? Sono forse stato mai padre intransigente, pauroso?"
"Oh! no! Ma ci vergognavamo di dirti: <Non siamo capaci di prendere iniziative>. Tu sei sempre stato così attivo.... Ci siamo nascosti per vergogna":
Sta bene. Andate nel mezzo della stanza. A voi! E che mi dite voi? Voi che all'aspetto della fame unite quello della malattia? Forse che il troppo lavoro vi ha resi malati? Siate sinceri e non vi sgriderò".

Alcuni degli interpellati si gettarono in ginocchio battendosi il petto e dicendo: " Perdonaci, o padre! Già Dio ci ha castigati e ce lo meritiamo. Ma tu, che sei padre nostro, perdonaci!.... Abbiamo iniziato bene; ma non abbiamo perseverato. Trovandoci facilmente ricchi dicemmo:<Orbene, ora godiamo un po', come ci suggeriscono gli amici, e poi torneremo al lavoro e rifaremo il disperso>. E volevamo fare così, in verità. Tornare alle due monete e poi rifarle fruttare, come per giuoco. E per due volte (dicono due) per tre (dice uno) ci riuscimmo. Ma poi la fortuna ci abbandonò... e consumammo tutto il denaro.
"Ma perchè non vi siete ripresi dopo la prima volta?"
"Perchè il pane speziato del vizio corrompe il palato, e non si può più farne senza...."
"C'era vostro padre..."

"E' vero. E a te sospiravamo con rimpianto e nostalgia. Ma noi ti abbiamo offeso... Supplicavamo il Cielo di ispirarti di chiamarci per ricevere il tuo rimprovero e il tuo perdono; questo chiedavamo e chiediamo, più delle ricchezze che non vogliamo più perchè ci hanno traviato."
"Sta bene. Mettetevi voi pure presso quelli di prima, al centro della stanza. E voi, malati e poveri come questi, ma che tacete e non mostrate dolore, che dite?"
"Ciò che dissero i primi. Che ti odiamo perchè col tuo imprudente agire ci hai rovinato. Tu che ci conoscevi non dovevi lanciarci nelle tentazioni. Ci hai odiato e ti odiamo. Ci hai fatto questo tranello per liberarti di noi. Sii maledetto".
"Sta bene. Andate coi primi in quell'angolo. Ed ora a voi, floridi, sereni, ricchi figli miei. Dite. Come giunti a questo?"
"Mettendo in pratica i tuoi insegnamenti, esempi, consigli, ordini, tutto. Resistendo ai tentatori per amore di te, padre benedetto che ci hai dato la vita e la sapienza."

"Sta bene. Venite alla mia destra e udite tutti il mio giudizio e la mia difesa. Io ho dato a tutti ad un modo di denaro e di esempio e sapienza. I miei figli hanno risposto in maniere diverse. Da un padre lavoratore, onesto, morigerato, sono usciti dei simili a lui, poi degli oziosi, dei deboli facili a cadere in tentazione, e dei crudeli che odiano il padre, i fratelli e il prossimo si cui, anche se non lo dicono lo so, hanno esercitato usura e delitto. E nei deboli e negli oziosi ci sono i pentiti e gli impenitenti. Ora io giudico. I perfetti già sono alla mia destra, pari a me nella gloria come nelle opere; i pentiti staranno di nuovo, come fanciulli ancora da istruirsi, soggetti fino a che non avranno raggiunto il grado di capacità che li faccia di nuovo adulti; gli impenitenti e colpevoli siano gettati fuori dai miei confini e perseguitati dalla maledizione di chi non è più loro padre, perchè il loro odio per me annulla i rapporti della paternità e della figliolanza fra noi. Però ricordo a tutti che ognuno si è fatto la sua sorte, perchè io ho dato a tutti le stesse cose che, nei riceventi, hanno prodotto quattro diverse sorti, e non posso essere accusato di aver voluto il loro male."