sabato 29 giugno 2013

Io sono Maria...




<<Io sono Maria, che ho partorito il vero Dio e vero Uomo, il Figlio di Dio. Io sono la Regina degli Angeli. Il Figlio mio ti ama con tutto il cuore. Tu devi essere adornata di onestissime vesti. Ti mostrerò come e quali devono essere. 

Come dunque vesti prima la camicia, poi la tunica, le scarpe, il mantello e la collana sul petto, così devi vestire spiritualmente. 

La camicia è la contrizione. Come infatti la camicia è più vicina alla carne, così la contrizione e la confessione sono la prima via della conversione a Dio. Con esse è purificata la mente, che prima godeva nel peccato ed è frenata la carne immonda. 

Le due scarpe sono due sentimenti: la volontà cioè di emendare i difetti e la volontà di fare il bene e astenersi dal male. 

La tua tunica è la speranza in Dio, perché, come la tunica ha due maniche, così nella speranza vi sia la giustizia e la misericordia. Sicché, come speri dalla misericordia di Dio, così non dimentichi la sua giustizia. E così ricorda la sua giustizia e il giudizio in modo da non dimenticare la misericordia. Perché nessuna giustizia Egli fa senza misericordia, né misericordia senza giustizia. 

Il mantello è la fede: come infatti il mantello tutto copre e tutto tiene racchiuso, così con la fede l'uomo può tutto comprendere e ottenere. Questo mantello dev'essere immerso nei segni della carità del tuo Sposo; e cioè deve significare come ti ha creata, come ti ha redenta, come ti ha nutrita, come ti ha attratta nel suo spirito e ti ha aperto gli occhi spirituali. 

La collana è la considerazione della sua Passione. Essa sia sempre fissa sul tuo petto. Come fu deriso, flagellato, insanguinato e confitto vivo in croce con tutti i nervi spezzati. Come alla morte, ne tremò tutto il corpo per l'acutissimo dolore. Come nelle mani del Padre raccomandava lo spirito. Questa collana sia sempre sul tuo petto. 

La corona sul tuo capo significa la castità negli affetti, in modo tale da voler essere piuttosto percossa che macchiata. Sii dunque costumata e casta. Non pensare, non desiderar altro che il tuo Dio, avuto il quale tutto avrai. E così adornata, aspetterai il tuo Sposo>>.

Libro I, Capitolo Settimo, Le Rivelazioni di santa Brigida. 


AVE MARIA PURISSIMA!

venerdì 28 giugno 2013

Domani 29 Giugno (Festa di S.Pietro e Paolo) ricorre il 62° anniversario dell'Ordinazione Sacerdotale del nostro amatissimo Santo Padre Benedetto XVI


62° anniversario dell’Ordinazione Sacerdotale di Benedetto XVI


Per favore ricordiamoci che domani 29 Giugno (Festa di S.Pietro e Paolo) ricorre il 62° anniversario dell'Ordinazione Sacerdotale del nostro amatissimo Santo Padre Benedetto XVI (e del caro fratello Monsignor Georg Ratzinger). 

Ricordiamolo nelle nostre preghiere, lo ricordino anche i sacerdoti che qui leggono e ricordatelo nelle vostre parrocchie. 
Rendiamo grazie per il dono inestimabile del Suo sacerdozio ministeriale” 

Ecce sacerdos magnus
qui in diebus suis placuit Deo
et inventus est iustus.


Un’anima autenticamente pia sta diffondendo sul web questo invito alla preghiera.

Dovrei commentare questo bell’invito alla preghiera per l’amatissimo Benedetto XVI ?
Non occorre !
Lasciamo al nostro cuore la preghiera di ringraziamento al Signore per aver donato all’unica Chiesa di Cristo un così grande Pastore.

Siamo riusciti a comprendere una mente così elevata ?
No !
Nessuno è riuscito a comprendere quanto il Signore ha donato, in intelligenza e sensibilità d’animo, al suo servo fedele Joseph Ratzinger !

Ha prevalso il nostro piccolo orgoglio, 
ha prevalso la nostra superbia, 
ha prevalso la nostra pochezza e durezza di cuore !
Anche nel mio mondo tradizionalista abbiamo cercato più di “tirar dalla nostra parte” la bianca talare del Papa piuttosto che cercare di comprenderne, anche parzialmente, il Suo umile e grande messaggio sempre e solo rivolto “ad Crucem” e per la salvezza delle anime !


Per tornare ai nostri grigi giorni ai miseri chierici che stanno frignando sotto la Cupola di San Pietro per far dimenticare le Liturgie Benedettiane ammoniamo con le parole del Beato Giovanni Paolo II : "Convertitevi, verrà il giudizio di Dio" !!!

"Anche il mio ministero, e di conseguenza anche il vostro, consiste tutto nella fede. E’ difficile questo ministero, perché non si allinea al modo di pensare degli uomini – a quella logica naturale che peraltro rimane sempre attiva anche in noi stessi. Ma questo è e rimane sempre il nostro primo servizio, il servizio della fede, che trasforma tutta la vita: credere che Gesù è Dio, che è il Re proprio perché è arrivato fino a quel punto, perché ci ha amati fino all’estremo". 
(Benedetto XVI ai Cardinali, 21/11/2010)


Ci perdoni o Padre Santo e preghi per noi e per la Chiesa !

Questo video documenta l'ordinazione sacerdotale di 40 diaconi il 29 giugno 1951 nella cattedrale di Frisinga da Sua Eminenza il cardinale Michael von Faulhaber. Tra i 44 diaconi c'è Joseph Ratzinger e suo fratello Georg. L'originale è preso dal portale www.gloriatv.net, senza fondo musicale


video

giovedì 27 giugno 2013


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San Francesco di Sales, testimone coraggioso presso i protestanti ginevrini della vera Fede , della Presenza Reale della Santissima Eucaristia e del Primato petrino prega per il Papa e per la Santa Chiesa Cattolica !

Andrea Carradori 




Tranquilli. Non sta succedendo niente... (Rimini, 25/6/2013) 



Tranquilli. Non sta succedendo niente... (Parigi, tempesta del 17/6/2013)


Cattolico dona a una donna che vuole abortire un paio di scarpine: rischia due anni di carcere


Francia. Cattolico dona a una donna che vuole abortire un paio di scarpine: rischia due anni di carcere






giugno 27, 2013 Leone Grotti


Il dottor Xavier Dor, 85 anni, si batte per la vita contro l’aborto. Ieri in tribunale ha dovuto rispondere dell’accusa di recita del rosario in pubblico e senza autorizzazione

francia-xavier-dor-aborto  Xavier Dor, presidente dell’associazione cattolica “SOS Tout Petits”, che da oltre 20 anni si batte in Francia per la vita contro l’aborto, è comparso ieri in tribunale a Parigi per rispondere dell’accusa di «pressioni morali e psicologiche», fatte regalando un paio di scarpine da neonato a una donna entrata negli uffici di un’associazione femminista per richiedere un’interruzione di gravidanza.

TUTTO PER UN PAIO DI SCARPE. Il dottore è stato denunciato dall’associazione femminista Pianificazione familiare, dall’Ancic, Associazione nazionale dei centri di interruzione di gravidanza e contraccezione, e dal Cadac, Coordinamento delle associazione per il diritto all’aborto e alla contraccezione, che si sono costituiti parti civili. L’uomo di 85 anni è stato accusato di essersi introdotto due volte nei locali dell’associazione femminista per donare un paio di scarpine da neonato a due donne che si apprestavano ad entrare per chiedere un’interruzione di gravidanza. Quest’azione, secondo quanto affermato ieri dall’accusa, è di «una violenza inaudita» e ha comportato «pressioni morali e psicologiche».



COLPEVOLE DI RECITA DEL ROSARIO. L’associazione cattolica “SOS Tout Petits” organizza anche la recita pubblica del rosario in strada, come forma di riparazione e intercessione per i medici abortisti. Il dottor Dor ha dovuto rispondere dell’accusa di aver inscenato una manifestazione, cioè un rosario pubblico, il 2 aprile 2011 davanti all’ospedale Saint Vincent de Paul di Parigi senza autorizzazione. L’uomo può rischiare fino a due anni di carcere e 30 mila euro di multa, l’accusa ieri ha però chiesto “solo” un mese di carcere e 8 mila euro di multa. I giudici si pronunceranno non prima del 16 settembre, un ritardo dovuto all’imminente periodo di vacanza.


SANCTUS SANCTUS SANCTUS!

La Liturgia, culmine e fonte della vita e della missione della Chiesa

Il Card. Ranjith : " La Liturgia è più grande di noi e ci porta con sé verso una trasformazione totale"

Da Chiesa e post concilio prendiamo la parte conclusiva della Relazione, di grande respiro, cultura, spessore , da vero Pastore, che Sua Eminenza Rev.ma il Card. Malcolm Ranjith, Arcivescovo di Colombo (Sri Lanka ) ha presentato il 25 giugno scorso al Convegno romano presso la Pontificia Università della Santa Croce " Sacra Liturgia 2013, culmen et fons vitæ et missionis ecclesiæ " organizzato in occasione dell'Anno della Fede per commemorare i 50 anni dall'inizio dei lavori del Concilio Vaticano II ed approfondire le tematiche inerenti la formazione liturgica, la celebrazione e la missione nella Chiesa. 
Ah! Se tutti i sacerdoti leggessero le parole della conclusione di questa Relazione e ne facessero tesoro!  
Ringraziamo di cuore la Redazione di Chiesa e post concilio ! 
A.C.
La Liturgia, culmine e fonte della vita e della missione della Chiesa del Card. Malcolm Ranjith 

"La Liturgia è più grande di noi e ci porta con sé verso una trasformazione totale, che spesso noi non siamo in grado di comprendere pienamente"

Miei cari amici, Papa Benedetto XVI nella sua Esortazione Apostolica Postsinodale 'Sacramentum Caritatis' (22 febbraio 2007) così parla della Liturgia: “Nella Liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione ... modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore” (Sacramentum Caritatis, n.35),mostrandoci la vera natura della vita liturgica cristiana che egli chiama “veritatis splendor” e “l’affacciarsi del Cielo sulla Terra” (Sacramentum Caritatis, n.35). 
 La bellezza della Liturgia, quindi, risiede non primariamente in ciò che facciamo noi o quanto interessante e soddisfacente essa sia per noi, bensì in quanto veniamo attratti intimamente in qualcosa di profondamente divino e liberante.
La Liturgia è allora più grande di noi e ci porta con sé verso una trasformazione totale, che spesso noi non siamo in grado di comprendere pienamente.
È la vittoria pasquale di Cristo celebrata nel cielo e sulla terra.
A questo punto, farei un excursus biblico per mostrare quanto la missione della Chiesa, continuazione di quella di Israele, è intimamente legata alla celebrazione della sua Liturgia.  ...

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 CONCEZIONI ERRONEE 


Un altro aspetto del processo di un rinnovamento davvero profondo della Chiesa, a causa del ruolo decisivo che ha il culto nella sua vita e missione, è la necessità di purificare la Liturgia da alcune concezioni erronee che sono penetrate nell’euforia delle riforme introdotte da alcuni liturgisti dopo il Concilio – cosa che, bisogna riconoscere, non è mai stata nella mente dei padri conciliari quando approvarono la storica Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium

a. Archeologismo 
Apre la lista un genere di falso “archeologismo” che echeggiava lo slogan “torniamo alla Liturgia della Chiesa primitiva”. Si nascondeva qui l’interpretazione che soltanto ciò che si celebrava nella Liturgia del primo millennio della Chiesa fosse valido, si pensava che il ritorno a ciò facesse parte dell’aggiornamento. 
La Mediator Dei insegna che questa interpretazione è sbagliata: “La Liturgia dell’epoca antica è senza dubbio degna di venerazione, ma un antico uso non è, a motivo soltanto della sua antichità, il migliore sia in se stesso sia in relazione ai tempi posteriori ed alle nuove condizioni verificatesi” (Mediator Dei, Enchiridion Encicliche, vol 6, Bologna 1995, n. 487).
Inoltre, poiché le informazioni sulla prassi liturgica nei primi secoli non sono chiaramente attestate nelle fonti scritte del tempo, il pericolo di un arbitrio semplicistico nel definire tali prassi è ancora maggiore e corre il rischio di essere pura congettura.
Inoltre non è rispettoso del processo naturale di crescita delle tradizioni della Chiesa nei secoli successivi.
Né è in consonanza con la fede nell’azione dello Spirito Santo lungo i secoli.
Ed è oltretutto altamente pedante e irrealistico. 

b. Sacerdozio ministeriale 

Un’altra concezione erronea di riformismo in materia di Liturgia è la tendenza a confondere l’altare con la navata.
Si osserva spesso che la distinzione essenziale nella Liturgia tra il ruolo del clero e quello dei laici è confuso a causa di una comprensione sbagliata della differenza tra l’ufficio sacerdotale di tutti i fedeli (sacerdozio comune) e l’ufficio del clero (sacerdozio ministeriale): una differenza ben spiegata nella Lumen Gentium.
Questo documento chiarisce che il sacerdozio comune di tutti i battezzati è stato sempre affermato dalla Chiesa (cfr. Ap. 1,6; 1 Pt. 2,9-10; Mediator Dei, nn. 39-41; eLumen Gentium, n. 10), così come il sacerdozio ministeriale; i quali, a loro modo, partecipano entrambi “dell’unico sacerdozio di Cristo … quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado” (Lumen Gentium, n. 10).
La Costituzione liturgica del Concilio afferma che la Liturgia prevede una distinzione tra le persone “che deriva dall’ufficio liturgico e dall’ordine sacro” (Sacrosanctum Concilium, n. 32). La Mediator Dei era ancor più categorica affermando che: “Ai soli Apostoli ed a coloro che, dopo di essi, hanno ricevuto dai loro successori l’imposizione delle mani, è conferita la potestà sacerdotale” (Mediator Dei, in Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 468).
Il risultato di tale confusione di ruoli nell’epoca moderna è la tendenza a clericalizzare i laici, e a laicizzare il clero.
Indice di tale confusione è la sempre maggiore rimozione delle balaustre d’altare dai nostri presbiteri e il rimanere seduti o accovacciati per terra attorno all’altare; fin troppe persone hanno preso a entrare e a circolare sul presbiterio causando distrazione e disturbo alle nostre funzioni liturgiche.
La Santa Eucaristia, in tale situazione, diventa uno spettacolo, e il sacerdote uno showman.
Il sacerdote non è più come nel passato – come ha scritto K. G. Rey nel suo articolo Coming of age manifestations in the Catholic Church – : “il mediatore anonimo, il primo tra i fedeli davanti a Dio e non al popolo, rappresentante di tutti, che offre con loro il sacrificio recitando prescritte preghiere.
Egli oggi è una persona distinta, con caratteristiche personali, il suo personale stile di vita, con la propria faccia rivolta al popolo.
Per molti sacerdoti questo cambiamento è una tentazione che non sanno gestire … diviene per loro il livello di successo del proprio potere personale e perciò l’indicatore del sentimento di sicurezza personale e di autostima” (K. G. Rey, Pubertätserscheinungeng in der Katolischen Kirche, Kritische Texte, Benzinger, vol. 4, p. 25).
Il prete qui diventa l’attore principale che recita un dramma con altri attori sull’altare, e quanto più sono capaci e sensazionali, tanto più sentono di recitare bene. In uno scenario simile, il ruolo centrale di Cristo svanisce, e anche se in un primo momento tutto ciò può sembrare gradevole, alla lunga diventa estremamente banale e noioso. 

c. Actuosa participatio 

Un altro e diffuso orientamento liturgico male interpretato è l’actuosa participatio, termine ufficializzato dalla Sacrosanctum Concilium quando dichiara che: “È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della Liturgia” (Sacrosanctum Concilium, n.14).
E continua: “A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della Liturgia” (ibidem). Purtroppo ciò ha condotto ancora di più alla distrazione e alla spettacolarità, invece che ad un autentico servizio di devozione e di pietà nella Liturgia.
Nel suo libro Introduzione allo spirito della Liturgia Papa Benedetto definisce actuosa participatio come uno spirito di totale e devota assimilazione nell’azione di Cristo, Sommo Sacerdote, (cfr. Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 169s). Si chiede il Papa: “In che cosa consiste però questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile, il più spesso possibile” (Joseph Ratzinger, cit., p.167).
Ma già nella Mediator Dei Papa Pio XII spiegava quale dovesse essere la partecipazione dei fedeli al sacrificio eucaristico: “Che tutti i fedeli considerino loro principale dovere e somma dignità partecipare al Sacrificio Eucaristico non con un’assistenza passiva, negligente e distratta, ma con tale impegno e fervore da porsi in intimo contatto col Sommo Sacerdote, come dice l’Apostolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù», offrendo con Lui e per Lui, santificandosi con Lui” (Mediator Dei, Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 506-507).
Deve esserci quindi una sorta di sinergia, uno spirito di profonda comunione tra di noi e l’Agnello, il cui divin sacrificio di lode è incessante nella Liturgia celeste.
Sempre in Introduzione allo spirito della Liturgia il Cardinale Ratzinger scriveva: “Il punto è che, alla fine, venga superata la differenza tra l’actio di Cristo e la nostra, che ci sia solamente una azione, che è allo stesso tempo la sua e la nostra – la nostra per il fatto che siamo divenuti «un corpo e uno spirito»”(Introduzione allo spirito della Liturgia, p. 170).
Nell’esortazione postsinodale Sacramentum Caritatis, Papa Benedetto XVI enumera alcune delle disposizioni personali atte a realizzare tale senso di partecipazione con Cristo, quali “lo Spirito di costante conversione”, la “confessione sacramentale e digiuno”, una “maggiore consapevolezza del mistero celebrato e del suo rapporto con la vita”, la “santa comunione” nella quale siamo totalmente assimilati a Lui, ed anche il “raccoglimento e silenzio” (Sacramentum Caritatis, nn. 53-55).
In breve, la participatio riguarda più l’essere che il fare, senza il quale, come scrive il Cardinale Ratzinger, noi non comprendiamo alla radice il “theo-dramma” della Liturgia, che finisce per scivolare in mera parodia (cfr. Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p.171).
E perciò necessario e urgente che la Liturgia sia presa seriamente da tutti i responsabili.
Essa non è qualcosa su cui noi come comunità o come individui possiamo decidere.
Poiché è Cristo che celebra nella Liturgia, essa è un’opera affidata alla Chiesa, promuove e porta a compimento la sua missione. Il Concilio Vaticano II è chiaro quando afferma che: “Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato (cfr. 1 Cor. 5,7), viene celebrato sull’altare, si rinnova l’opera della nostra redenzione".
E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (cfr. 1 Cor. 10,17)” (Lumen Gentium, n. 3).
L’Eucaristia perciò redime l’umanità e costruisce la Chiesa, la quale diventa ciò che afferma Papa Giovanni Paolo II: “«sacramento» per l’umanità, segno e strumento della salvezza operata da Cristo … per la redenzione di tutti” (Ecclesia de Eucharistia, n.22).
Il Papa continua dicendo che: “dalla perpetuazione nell’Eucaristia del sacrificio della Croce e dalla comunione col corpo e con il sangue di Cristo, la Chiesa trae la necessaria forza spirituale per compiere la sua missione. 
Così l’Eucaristia si pone come fonte e insieme come culmine di tutta l’evangelizzazione” (ibidem).
E perciò l’Eucaristia, per la quale la comunità dei fedeli e ogni discepolo di Cristo vengono assorbiti in Lui, poiché Lui ci assume su in Sé, ci fa diventare una comunità, e così siamo chiamati a partecipare alla sua missione redentrice e diveniamo parte della comunità dei redenti essendo stati purificati da Lui.
La Chiesa, perciò, viene formata dalla Liturgia e trae da essa la forza per svolgere la sua missione sulla terra.
Grazie a questo intimo legame con Cristo, Sommo Sacerdote, la Chiesa nella sua esistenza e missione si muove nel regno dell’azione salvifica di Dio.
Perciò Essa non s’impegna nella missione come semplice comunità umana o associazione altruistica, ma è il canale dell’azione salvifica di Dio.
L’assoluta necessità della Chiesa per la redenzione dell’umanità scaturisce da questo rapporto unico.
Se non esiste questa dimensione ulteriore della Liturgia, tutto finisce come in un grande show, senza nessun effetto salvifico. Infatti Gesù e la Chiesa, sua mistica continuazione nella storia, sono intrecciati in un’unione assimilante che col suo potere anima e porta frutto nella missione.
Egli lo ha confermato quando ha promesso agli apostoli di renderli “pescatori di uomini” (Mc. 1, 17).
Ha affermato che la fruttuosità missionaria sarebbe dipesa dalla comunione degli apostoli con lui come la vita e i tralci (cfr. Gv. 15,5).
È con la Liturgia, e specificatamente la celebrazione dell’Eucaristia, che tale comunione si produce in modo efficace.
E più la Chiesa è unita a Cristo, il che avviene in modo potentissimo nell’Eucaristia e nella celebrazione della vita liturgica, più fruttuosa sarà la sua missione poiché è Cristo e il suo eterno sacrificio che redimono il mondo, non quello che facciamo noi.
Ciò rappresenta una grave responsabilità per la Chiesa, dare il dovuto peso alla sua vita liturgica. 
La Chiesa lo ha annunciato a tutti lungo i secoli. Parlando delle forme rituali il Cardinale Ratzinger dice che: “Esse sono sottratte all’intervento del singolo, della singola comunità o anche di una Chiesa particolare. La non arbitrarietà è un elemento costitutivo della loro stessa natura.
Esse sono espressione del fatto che nella Liturgia mi viene incontro qualcosa che non sono io a farmi da me stesso, che io entro in qualche cosa di più grande, che, ultimamente, proviene dalla Rivelazione” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 161).
Perciò la chiara richiesta della Costituzione Sacrosanctum Concilium è normativa: “Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica” (Sacrosanctum Concilium, n. 22). 
Poiché Cristo è il soggetto principale dell’azione liturgica, non spetta a noi cambiare arbitrariamente o manipolare gli orientamenti essenziali o le norme della Liturgia. 
Altrimenti noi non saremmo diversi da coloro che, impazienti nell’attendere Mosè scendere dalla montagna, si costruirono un vitello d’oro da adorare; si erano fatti il loro rituale, il loro pasto, le loro bevande e il “rallegrarsi recitando Dio” e le Sacre Scritture ci dicono quello che accadde loro. 
Anche ai nostri tempi ci sono persone che desiderano rendere la Liturgia più interessante o appetibile; si fanno le proprie regole, correndo così il rischio di svuotare la Liturgia del suo essenziale dinamismo interiore, col risultato finale che le cosiddette forme di culto diventano alla fine insipide e noiose. 
Se tale improvvisazione veramente rendesse la Liturgia più efficace e interessante, allora perché con queste sperimentazioni e creatività il numero dei partecipanti la domenica è oggi caduto drasticamente? 
Questa è una domanda che dobbiamo affrontare con coraggio e umiltà. 
È giusto considerare i requisiti antropologici di una sana Liturgia, soprattutto riguardo ai simboli, alle rubriche e alla partecipazione; ma non si deve ignorare il fatto che questi non avrebbero significato senza una correlazione alla chiamata essenziale di Cristo di unirsi a Lui nella Sua incessante Azione Sacerdotale. 
Cari amici, ci sono molti altri punti che possiamo e dobbiamo considerare in materia di Liturgia e la sua centralità nella vita della Chiesa ma il tempo ci obbliga a limitare tali temi.
Forse li possiamo riprendere dialogando tra noi dopo questa presentazione. 


Vorrei concludere leggendovi una bella riflessione che il Santo Curato d’Ars, umile servitore dell’Eucaristia, scrisse nel suo Piccolo Catechismo sulla Santa Messa: “Tutte le buone opere insieme, non eguagliano il sacrificio della Messa in quanto sono opere di uomini e la Santa Messa è opera di Dio. Il martirio non è nulla in confronto; è il sacrificio che l’uomo fa della propria vita a Dio; la Messa è il sacrificio che Dio fa all’uomo del suo corpo e del suo sangue. 
Oh, quanto grande è il sacerdote! Se egli lo capisse ne morirebbe … Dio gli obbedisce; dice due parole e nostro Signore scende dal cielo a questa voce e si rinchiude in una piccola ostia. Dio guarda sull’altare e dice: «quello è mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto». Nulla egli può rifiutare per i meriti dell’offerta di tale Vittima. 
Se noi avessimo fede, vedremmo Dio nascosto nel sacerdote come una luce dietro a un vetro, come a vino misto ad acqua ".
(The Little Catechism of the Cure’ of Ars, Tan Books and Publishers, Inc. Rockford, Illinois. USA, 1951 p. 37). 


QUI Tutta la Relazione 

( Foto : San Josemaría Escrivá de Balaguer, di cui la Chiesa ha celebrato la festa il 26 giugno scorso, mentre celebrava la Santa Messa )
AMDG et B.V.M.

'LECTIO DIVINA' DEL SANTO PADRE

VISITA AL SEMINARIO ROMANO MAGGIORE IN OCCASIONE DELLA FESTA DELLA MADONNA DELLA FIDUCIA, 08.02.2013

Questo pomeriggio, alle ore 18.15, il Santo Padre Benedetto XVI si è recato in visita al Seminario Romano Maggiore, alla vigilia della Festa della Madonna della Fiducia, che ricorre domani. Al Suo arrivo è stato accolto dal Cardinale Vicario Agostino Vallini e dal Rettore, don Concetto Occhipinti.
Alle 18.30, nella Cappella Maggiore del Seminario, dopo l’indirizzo di omaggio del Rettore, il Santo Padre ha tenuto una lectio divina sul testo della Prima Lettera di San Pietro Apostolo (1 Pt. 1,3-5), per i Seminaristi del Seminario Romano Maggiore, del Seminario Romano Minore, dell’Almo Collegio Capranica, del Collegio diocesano "Redemptoris Mater" e del Seminario della Madonna del Divino Amore.
Pubblichiamo di seguito il testo della lectio divina del Santo Padre:

'LECTIO DIVINA'  DEL SANTO PADRE 

Eminenza,
cari Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
cari amici!

E’ per me ogni anno una grande gioia essere qui con voi, vedere tanti giovani che camminano verso il sacerdozio, che sono attenti alla voce del Signore, vogliono seguire questa voce e cercano la strada per servire il Signore in questo nostro tempo.
Abbiamo ascoltato tre versetti dalla Prima Lettera di San Pietro (cfr 1,3-5). Prima di entrare in questo testo, mi sembra importante proprio essere attenti al fatto che è Pietro che parla. Le prime due parole della Lettera sono “Petrus apostolus” (cfr v. 1): lui parla, e parla alle Chiese in Asia e chiama i fedeli “eletti e stranieri dispersi” (ibidem). Riflettiamo un po’ su questo. Pietro parla, e parla - come si sente alla fine della Lettera - da Roma, che ha chiamato “Babilonia” (cfr 5,13). Pietro parla: quasi una prima enciclica, con la quale il primo apostolo, vicario di Cristo, parla alla Chiesa di tutti i tempi.

Pietro, apostolo. Parla quindi colui che ha trovato in Cristo Gesù il Messia di Dio, che ha parlato come primo in nome della Chiesa futura: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr Mt 16,16). Parla colui che ci ha introdotto in questa fede. Parla colui al quale il Signore ha detto: “Ti trasmetto le chiavi del regno dei cieli” (cfr Mt 16,19), al quale ha affidato il suo gregge dopo la Risurrezione, dicendogli tre volte: “Pascola il mio gregge, le mie pecore” (cfr Gv 21,15-17). 

Parla anche l’uomo che è caduto, che ha negato Gesù e che ha avuto la grazia di vedere lo sguardo di Gesù, di essere toccato nel suo cuore e di avere trovato il perdono e un rinnovamento della sua missione. Ma è soprattutto importante che questo uomo, pieno di passione, di desiderio di Dio, di desiderio del regno di Dio, del Messia, che quest’uomo che ha trovato Gesù, il Signore e il Messia, è anche l’uomo che ha peccato, che è caduto, e tuttavia è rimasto sotto gli occhi del Signore e così rimane responsabile per la Chiesa di Dio, rimane incaricato da Cristo, rimane portatore del suo amore.
Parla Pietro l’apostolo, ma gli esegeti ci dicono: non è possibile che questa Lettera sia di Pietro, perché il greco è talmente buono che non può essere il greco di un pescatore del Lago di Galilea. E non solo il linguaggio, la struttura della lingua è ottima, ma anche il pensiero è già abbastanza maturo, ci sono già formule concrete nelle quali si condensa la fede e la riflessione della Chiesa. Quindi essi dicono: è già uno stato di sviluppo che non può essere quello di Pietro. 
Come rispondere? Vi sono due posizioni importanti: primo, Pietro stesso – cioè la Lettera – ci dà una chiave perché alla fine dello Scritto dice: “Vi scrivo tramite Silvano – dia Silvano”. Questo tramite [dia] può significare diverse cose: può significare che lui [Silvano] trasporta, trasmette; può voler dire che lui ha aiutato nella redazione; può dire che lui realmente era lo scrittore pratico. In ogni caso, possiamo concludere che la Lettera stessa ci indica che Pietro non è stato solo nello scrivere questa Lettera, ma esprime la fede di una Chiesa che è già in cammino di fede, in una fede sempre più matura. Non scrive da solo, individuo isolato, scrive con l’aiuto della Chiesa, delle persone che aiutano ad approfondire la fede, ad entrare nella profondità del suo pensiero, della sua ragionevolezza, della sua profondità. E questo è molto importante: non parla Pietro come individuo, parla ex persona Ecclesiae, parla come uomo della Chiesa, certamente come persona, con la sua responsabilità personale, ma anche come persona che parla in nome della Chiesa: non solo idee private, non come un genio del secolo XIX che voleva esprimere solo idee personali, originali, che nessuno avrebbe potuto dire prima. No. Non parla come genio individualistico, ma parla proprio nella comunione della Chiesa. 

Nell’Apocalisse, nella visione iniziale di Cristo è detto che la voce di Cristo è la voce di molte acque (cfr Ap 1,15). Questo vuol dire: la voce di Cristo riunisce tutte le acque del mondo, porta in sé tutte le acque vive che danno vita al mondo; è Persona, ma proprio questa è la grandezza del Signore, che porta in sé tutto il fiume dell’Antico Testamento, anzi, della saggezza dei popoli. E quanto qui è detto sul Signore vale, in altro modo, anche per l’apostolo, che non vuole dire una parola solo sua, ma porta in sé realmente le acque della fede, le acque di tutta la Chiesa, e proprio così dà fertilità, dà fecondità e proprio così è un testimone personale che si apre al Signore, e così diventa aperto e largo. Quindi, questo è importante.

Poi mi sembra anche importante che in questa conclusione della Lettera vengono nominati Silvano e Marco, due persone che appartengono anche alle amicizie di san Paolo. 
Così, tramite questa conclusione, i mondi di san Pietro e di san Paolo vanno insieme: non è una teologia esclusivamente petrina contro una teologia paolina, ma è una teologia della Chiesa, della fede della Chiesa, nella quale c’è diversità – certamente – di temperamento, di pensiero, di stile nel parlare tra Paolo e Pietro. E’ bene che ci siano queste diversità, anche oggi, di diversi carismi, di diversi temperamenti, ma tuttavia non sono contrastanti e si uniscono nella comune fede.
Vorrei dire ancora una cosa: san Pietro scrive da Roma. E’ importante: qui abbiamo già il Vescovo di Roma, abbiamo l’inizio della successione, abbiamo già l’inizio del primato concreto collocato a Roma, non solo consegnato dal Signore, ma collocato qui, in questa città, in questa capitale del mondo. Come è venuto Pietro a Roma? Questa è una domanda seria. 
Gli Atti degli Apostoli ci raccontano che, dopo la sua fuga dal carcere di Erode, è andato in un altro luogo (cfr 12,17) – eis eteron topon –, non si sa in quale altro luogo; alcuni dicono Antiochia, alcuni dicono Roma. In ogni caso, in questo capitolo, va detto anche che, prima di fuggire, ha affidato la Chiesa giudeo-cristiana, la Chiesa di Gerusalemme, a Giacomo e, affidandola a Giacomo, egli tuttavia rimane Primate della Chiesa universale, della Chiesa dei pagani, ma anche della Chiesa giudeo-cristiana. E qui a Roma ha trovato una grande comunità giudeo-cristiana. I liturgisti ci dicono che nel Canone romano ci sono tracce di un linguaggio tipicamente giudeo-cristiano; così vediamo che in Roma si trovano ambedue le parti della Chiesa: quella giudeo cristiana e quella pagano-cristiana, unite, espressione della Chiesa universale. E per Pietro certamente il passaggio da Gerusalemme a Roma è il passaggio all’universalità della Chiesa, il passaggio alla Chiesa dei pagani e di tutti i tempi, alla Chiesa anche sempre degli ebrei. E penso che, andando a Roma, san Pietro non solo ha pensato a questo passaggio: Gerusalemme/Roma, Chiesa giudeo-cristiana/Chiesa universale. Certamente si è ricordato anche delle ultime parole di Gesù a lui rivolte, riportate da san Giovanni: “Alla fine, tu andrai dove non vuoi andare. Ti cingeranno, estenderanno le tue mani” (cfr Gv 21,18). E’ una profezia della crocifissione. I filologi ci mostrano che è un’espressione precisa, tecnica, questo “estendere le mani”, per la crocifissione. San Pietro sapeva che la sua fine sarebbe stato il martirio, sarebbe stata la croce. E così, sarà nella completa sequela di Cristo. Quindi, andando a Roma certamente è andato anche al martirio: in Babilonia lo aspettava il martirio. Quindi, il primato ha questo contenuto della universalità, ma anche un contenuto martirologico. Dall’inizio, Roma è anche luogo del martirio. 
Andando a Roma, Pietro accetta di nuovo questa parola del Signore: va verso la Croce, e ci invita ad accettare anche noi l’aspetto martirologico del cristianesimo, che può avere forme molto diverse. E la croce può avere forme molto diverse, ma nessuno può essere cristiano senza seguire il Crocifisso, senza accettare anche il momento martirologico.
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Dopo queste parole sul mittente, una breve parola anche sulle persone alle quali è scritto. Ho già detto che san Pietro definisce quelli ai quali scrive con le parole “eklektois parepidemois”, “agli eletti che sono stranieri dispersi” (cfr 1 Pt 1,1). Abbiamo di nuovo questo paradosso di gloria e croce: eletti, ma dispersi e stranieri. Eletti: questo era il titolo di gloria di Israele: noi siamo gli eletti, Dio ha eletto questo piccolo popolo non perché noi siamo grandi - dice il Deuteronomio - ma perché lui ci ama (cfr 7,7-8). Siamo eletti: questo, adesso san Pietro lo trasferisce a tutti i battezzati, e il contenuto proprio dei primi capitoli della sua Prima Lettera è che i battezzati entrano nei privilegi di Israele, sono il nuovo Israele. Eletti: mi sembra valga la pena di riflettere su questa parola. 
Siamo eletti. Dio ci ha conosciuto da sempre, prima della nostra nascita, del nostro concepimento; Dio mi ha voluto come cristiano, come cattolico, mi ha voluto come sacerdote. Dio ha pensato a me, ha cercato me tra milioni, tra tanti, ha visto me e mi ha eletto, non per i miei meriti che non c’erano, ma per la sua bontà; ha voluto che io sia portatore della sua elezione, che è anche sempre missione, soprattutto missione, e responsabilità per gli altri. Eletti: dobbiamo essere grati e gioiosi per questo fatto. Dio ha pensato a me, ha eletto me come cattolico, me come portatore del suo Vangelo, come sacerdote. Mi sembra che valga la pena di riflettere diverse volte su questo, e rientrare di nuovo in questo fatto della sua elezione: mi ha eletto, mi ha voluto; adesso io rispondo.
Forse oggi siamo tentati di dire: non vogliamo essere gioiosi di essere eletti, sarebbe trionfalismo. Trionfalismo sarebbe se noi pensassimo che Dio mi ha eletto perché io sono così grande. Questo sarebbe realmente trionfalismo sbagliato. Ma essere lieti perché Dio mi ha voluto non è trionfalismo, ma è gratitudine, e penso che dobbiamo re-imparare questa gioia: Dio ha voluto che io sia nato così, in una famiglia cattolica, che abbia conosciuto dall’inizio Gesù. Che dono essere voluto da Dio, così che ho potuto conoscere il suo volto, che ho potuto conoscere Gesù Cristo, il volto umano di Dio, la storia umana di Dio in questo mondo! Essere gioiosi perché mi ha eletto per essere cattolico, per essere in questa Chiesa sua, dove subsistit Ecclesia unica; dobbiamo essere gioiosi perché Dio mi ha dato questa grazia, questa bellezza di conoscere la pienezza della verità di Dio, la gioia del suo amore.

Eletti: una parola di privilegio e di umiltà nello stesso momento. Ma “eletti” è – come dicevo – accompagnato da “parapidemois”, dispersi, stranieri. Da cristiani siamo dispersi e siamo stranieri: vediamo che oggi nel mondo i cristiani sono il gruppo più perseguitato perché non conforme, perché è uno stimolo, perché contro le tendenze dell’egoismo, del materialismo, di tutte queste cose.
Certamente i cristiani sono non solo stranieri; siamo anche nazioni cristiane, siamo fieri di aver contribuito alla formazione della cultura; c’è un sano patriottismo, una sana gioia di appartenere ad una nazione che ha una grande storia di cultura, di fede. Ma, tuttavia, come cristiani, siamo sempre anche stranieri - la sorte di Abramo, descritta nella Lettera agli Ebrei. Siamo, come cristiani, proprio oggi, anche sempre stranieri. Nei posti di lavoro i cristiani sono una minoranza, si trovano in una situazione di estraneità; meraviglia che uno oggi possa ancora credere e vivere così. 
Questo appartiene anche alla nostra vita: è la forma di essere con Cristo Crocifisso; questo essere stranieri, non vivendo secondo il modo in cui vivono tutti, ma vivendo – o cercando almeno di vivere – secondo la sua Parola, in una grande diversità rispetto a quanto dicono tutti. E proprio questo per i cristiani è caratteristico. Tutti dicono: “Ma tutti fanno così, perché non io?” No, io no, perché voglio vivere secondo Dio. Sant’Agostino una volta ha detto: “I cristiani sono quelli che non hanno le radici in giù come gli alberi, ma hanno le radici in su, e vivono questa gravitazione non nella gravitazione naturale verso il basso”. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad accettare questa missione di vivere come dispersi, come minoranza, in un certo senso; di vivere come stranieri e tuttavia di essere responsabili per gli altri e, proprio così, dando forza al bene nel nostro mondo.
Arriviamo finalmente ai tre versetti di oggi. Vorrei solo sottolineare, o diciamo un po’ interpretare, per quanto posso, tre parole: la parola rigenerati, la parola eredità e la parola custoditi dalla fede. Rigenerati - anaghennesas, dice il testo greco - vuol dire: essere cristiano non è semplicemente una decisione della mia volontà, un’idea mia; io vedo che è un gruppo che mi piace, mi faccio membro di questo gruppo, condivido i loro obiettivi eccetera. No: essere cristiano non è entrare in un gruppo per fare qualcosa, non è un atto solo della mia volontà, non primariamente della mia volontà, della mia ragione: è un atto di Dio. Rigenerato non concerne solo la sfera della volontà, del pensare, ma la sfera dell’essere. Sono rinato: questo vuol dire che divenire cristiano è innanzitutto passivo; io non posso farmi cristiano, ma vengo fatto rinascere, vengo rifatto dal Signore nella profondità del mio essere. Ed io entro in questo processo del rinascere, mi lascio trasformare, rinnovare, rigenerare. 
Questo mi sembra molto importante: da cristiano non mi faccio solo un’idea mia che condivido con alcuni altri, e se non mi piacciono più posso uscire. No: concerne proprio la profondità dell’essere, cioè il divenire cristiano comincia con un’azione di Dio, soprattutto un’azione sua, ed io mi lascio formare e trasformare.
Mi sembra sia materia di riflessione, proprio in un anno in cui riflettiamo sui Sacramenti dell’Iniziazione cristiana, meditare questo: questo passivo e attivo profondo dell’essere rigenerato, del divenire di tutta una vita cristiana, del lasciarmi trasformare dalla sua Parola, per la comunione della Chiesa, per la vita della Chiesa, per i segni con i quali il Signore lavora in me, lavora con me e per me. E rinascere, essere rigenerati, indica anche che entro così in una nuova famiglia: Dio, il Padre mio, la Chiesa, mia Madre, gli altri cristiani, miei fratelli e sorelle. Essere rigenerati, lasciarsi rigenerare implica, quindi, anche questo lasciarsi volutamente inserire in questa famiglia, vivere per Dio Padre e da Dio Padre, vivere dalla comunione con Cristo suo Figlio, che mi rigenera per la  sua Risurrezione, come dice la Lettera (cfr 1 Pt 1,3), vivere con la Chiesa lasciandomi formare dalla Chiesa in tanti sensi, in tanti cammini, ed essere aperto ai miei fratelli, riconoscere negli altri realmente i miei fratelli, che con me vengono rigenerati, trasformati, rinnovati; uno porta responsabilità per l’altro. Una responsabilità quindi del Battesimo che è un processo di tutta una vita.

Seconda parola: eredità. E’ una parola molto importante nell’Antico Testamento, dove è detto ad Abramo che il suo seme sarà erede della terra, e questa è stata sempre la promessa per i suoi: Voi avrete la terra, sarete eredi della terra. 
Nel Nuovo Testamento, questa parola diventa parola per noi: noi siamo eredi, non di un determinato Paese, ma della terra di Dio, del futuro di Dio. Eredità è una cosa del futuro, e così questa parola dice soprattutto che da cristiani abbiamo il futuro: il futuro è nostro, il futuro è di Dio. E così, essendo cristiani, sappiamo che nostro è il futuro e l’albero della Chiesa non è un albero morente, ma l’albero che cresce sempre di nuovo. Quindi, abbiamo motivo di non lasciarci impressionare - come ha detto Papa Giovanni - dai profeti di sventura, che dicono: la Chiesa, bene, è un albero venuto dal grano di senape, cresciuto in due millenni, adesso ha il tempo dietro di sé, adesso è il tempo in cui muore”. No. La Chiesa si rinnova sempre, rinasce sempre. Il futuro è nostro. Naturalmente, c’è un falso ottimismo e un falso pessimismo. Un falso pessimismo che dice: il tempo del cristianesimo è finito. No: comincia di nuovo! Il falso ottimismo era quello dopo il Concilio, quando i conventi chiudevano, i seminari chiudevano, e dicevano: ma … niente, va tutto bene … No! Non va tutto bene. Ci sono anche cadute gravi, pericolose, e dobbiamo riconoscere con sano realismo che così non va, non va dove si fanno cose sbagliate. Ma anche essere sicuri, allo stesso tempo, che se qua e là la Chiesa muore a causa dei peccati degli uomini, a causa della loro non credenza, nello stesso tempo, nasce di nuovo. Il futuro è realmente di Dio: questa è la grande certezza della nostra vita, il grande, vero ottimismo che sappiamo. La Chiesa è l’albero di Dio che vive in eterno e porta in sé l’eternità e la vera eredità: la vita eterna.
E, infine, custoditi dalla fede. Il testo del Nuovo Testamento, della Lettera di San Pietro, usa qui una parola rara, phrouroumenoi, che vuol dire: ci sono “i vigili”, e la fede è come “il vigile” che custodisce l’integrità del mio essere, della mia fede. Questa parola interpreta soprattutto i “vigili” delle porte di una città, dove essi stanno e custodiscono la città, affinché non sia invasa da poteri di distruzione. 

Così la fede è “vigile” del mio essere, della mia vita, della mia eredità. Dobbiamo essere grati per questa vigilanza della fede che ci protegge, ci aiuta, ci guida, ci da la sicurezza: Dio non mi lascia cadere dalle sue mani. Custoditi dalla fede: così concludo. Parlando della fede devo sempre pensare a quella donna siro-fenicia malata, che, in mezzo alla folla, trova accesso a Gesù, lo tocca per essere guarita, ed è guarita. Il Signore dice: “Chi mi ha toccato?”. Gli dicono: “Ma Signore, tutti ti toccano, come puoi chiedere: chi mi ha toccato?” (cfr Mc 7,24-30). Ma il Signore sa: c’è un modo di toccarlo, superficiale, esteriore, che non ha realmente nulla a che fare con un vero incontro con Lui. E c’è un modo di toccarlo profondamente. E questa donna lo ha toccato veramente: toccato non solo con la mano, ma con il suo cuore e così ha ricevuto la forza sanatrice di Cristo, toccandolo realmente dall’interno, dalla fede. Questa è la fede: toccare con la mano della fede, con il nostro cuore Cristo e così entrare nella forza della sua vita, nella forza risanante del Signore. E preghiamo il Signore che sempre più possiamo toccarlo così da essere risanati. Preghiamo che non ci lasci cadere, che sempre anche essa ci tenga per mano e così ci custodisca per la vera vita. Grazie.


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Al termine il Santo Padre si è fermato al Seminario per la cena. Quindi è rientrato in Vaticano.