sabato 15 giugno 2013

Esiste un unico Dio e ... il mondo non è l’arena di potenze oscure, ma la creazione della sua parola.



La simbologia presente nel racconto della creazione: qual è il suo significato?

tratto da Joseph Ratzinger, In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino 2006, Parte II - Il senso dei racconti biblici della creazione, § Il significato permanente degli elementi simbolici del testo, pp. 43-45

Il significato permanente 
degli elementi simbolici del testo

Dopo queste due riflessioni, con cui abbiamo approfondito le nozioni fondamentali della prima meditazione, dobbiamo fare un passo avanti.
Finora abbiamo visto che i racconti biblici della creazione sono un modo di parlare della realtà diverso [43] da quella proprio della fisica e della biologia. Essi non descrivono il processo del divenire e la struttura matematica della materia, ma dicono in molteplici modi che esiste un unico Dio e che il mondo non è l’arena di potenze oscure, ma la creazione della sua parola. Questo però non significa che le singole disposizione del testo biblico perdano ora qualsiasi significato e che rimanga per così dire valido solo questo nucleo.

Anch’esse sono un’espressione di verità, anche se naturalmente in modo diverso dalla fisica e dalla biologia. Esse sono verità nella maniera del simbolo, nella maniera in cui, per esempio, una vetrata gotica ci permette di conoscere qualcosa di molto profondo mediante il gioco delle sue luci e dei suoi segni.

Mi limiterò a illustrare due elementi.
Primo. Il racconto biblico della creazione è contraddistinto da numeri che esprimono non la struttura matematica del mondo bensì, per così dire, il modello intrinseco del suo tessuto, l’idea secondo cui è costruito.

I numeri dominanti sono il 3, il 4, il 7, il 10.
Dieci volte leggiamo nel racconto della creazione: «Dio disse». In tal mondo esso prelude già alle dieci parole, ai dieci comandamenti. Ci fa capire che i [44] dieci comandamenti sono l’eco della creazione, non regole arbitrarie con cui si limita la libertà dell’uomo; sono introduzione allo spirito, al linguaggio e al senso della creazione; sono linguaggio tradotto del mondo, logica tradotta di Dio, che ha costruito il mondo.
Il numero dominante è il 7; con lo schema dei sette giorni dà una caratterizzazione tipica al tutto. Si tratta del numero di una fase lunare; questo racconto ci dice allora che il ritmo dell’astro a noi vicino ci indica anche il ritmo della vita umana. Veniamo così a sapere che noi uomini non siamo prigionieri del nostro piccolo io ma siamo immersi nel ritmo dell’universo; che possiamo apprendere dal cielo anche il ritmo, il movimento della nostra vita e possiamo così inserirci nel movimento razionale dell’universale. Nella Bibbia questo pensiero avrà un ulteriore sviluppo nell’affermazione che il ritmo degli astri è in senso più profondo espressione del ritmo del cuore, del ritmo dell’amore di Dio che ivi si manifesta [nota 1].






[nota 1] Per l’esegesi del racconto della Genesi, oltre al commento fondamentale di Westermann, ricordiamo: G. von Rad, Des erstre Buch Mose (ATD 2-4), Göttingen 19647; J. Scharbert, Genesis 1-11, Würzburg 1983. [60]

«La luna narra il mistero di Cristo»



Una Chiesa che, contro tutta quanta la propria storia e la propria natura, venga considerata soltanto politicamente, non ha alcun senso, e la decisione di rimanere in essa, se è puramente politica, non è leale, anche se si presenta come tale. Però di fronte alla situazione presente come si può giustificare la permanenza nella Chiesa? In altri termini: la scelta in favore della Chiesa per avere senso deve essere spirituale; ma su quali motivi può essa oggi far leva? 
Vorrei dare una prima risposta ricorrendo a un nuovo paragone e a un’osservazione precedente. Abbiamo detto che nei nostri studi ci siamo ormai avvicinati talmente alla chiesa, che non riusciamo più a scorgere le linee generali né a vederla nel suo complesso. Approfondiamo questo pensiero rifacendoci a un esempio, con il quale i Padri nutrirono la loro meditazione sul mondo e sulla chiesa.
Essi spiegarono che nel mondo materiale la luna è l’immagine di ciò che la chiesa rappre[85]senta per la salvezza nel mondo spirituale. Viene qui ripreso un antico simbolismo costantemente presente nella storia delle religioni (i Padri non hanno mai parlato di «teologia delle religioni», ma l’hanno attuata concretamente); in esso la luna, in quanto simbolo della fecondità e della fragilità, della morte e della caducità delle cose, ma anche della speranza nella rinascita e nella risurrezione, era l’immagine, «patetica e insieme consolante»[nota 1], dell’esistenza umana.

Il simbolismo lunare e quello tellurico si fondono spesso insieme. Nella sua fugacità e nella sua rinascita la luna rappresenta il mondo terreno degli uomini, questo mondo che è continuamente condizionato dal bisogno di ricevere e che trae la propria fecondità non da se stesso, ma dal sole; rappresenta lo stesso essere umano, quale si esprime nella figura della donna, che concepisce ed è feconda in forza del seme che riceve.
I Padri hanno applicato il simbolismo della luna alla chiesa soprattutto per due ragioni: per il rapporto luna-donna (madre) e per il fatto che la luna non ha luce propria, ma la riceve dal sole, [86] senza il quale essa sarebbe completamente buia.



La luna risplende, ma la sua luce non è sua, bensì di un altro[nota 2]. È tenebre e nello stesso tempo luce; pur essendo di per sé buia, dona splendore in virtù di un altro di cui riflette la luce. Proprio per questo essa simboleggia la chiesa, la quale pure risplende, anche se di per sé è buia; non è luminosa in virtù della propria luce, ma del vero sole, Gesù Cristo, cosicché, pur essendo soltanto terra (anche la luna non è che un’altra terra), è ugualmente in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio – «la luna narra il mistero di Cristo»[nota 3].

I simboli non vanno forzati; la loro efficacia è tutta in quell’immediatezza plastica che non si può inquadrare in schemi logici. Tuttavia in que[87]sta nostra epoca di viaggi nello spazio viene spontaneo approfondire questo paragone, che, confrontando la concezione fisica con quella simbolica, mette meglio in evidenza la nostra situazione specifica rispetto alla realtà della chiesa.
La sonda lunare e l’astronauta scoprono la luna soltanto come landa rocciosa e desertica, come montagne e come sabbia, non come luce. E in effetti essa è in se stessa soltanto deserto, sabbia e rocce. E tuttavia, per merito di altri ed in funzione di altri ancora, essa è pure luce e tale rimane anche nell’epoca dei voli spaziali. È dunque ciò, che in se stessa non è. Pur appartenendo  ad altri, questa realtà è anche sua. Esiste una verità fisica e una simbolico-poetica, una non elimina l’altra.

Ciò non è forse un’immagine esatta della Chiesa? Chi la esplora e la scava con la sonda spaziale scopre soltanto deserto, sabbia e terra, le debolezze dell’uomo, la polvere, i deserti e le altezze della storia. Tutto ciò è suo, ma non rappresenta ancora la sua realtà specifica.
Il fatto decisivo è che essa, pur essendo soltanto sabbia e sassi, è anche luce in forza di un altro, del Signore: ciò che non è suo, è veramente suo e la qualifica più di qualsiasi altra cosa, anzi la sua caratteristica è proprio quella di non valere per se stessa, ma solo per ciò che in essa non è suo, di esistere in qualcosa che le è al di fuori, [88] di avere una luce, che pur essendo sua, costituisce tutta la sua essenza. Essa è ‘luna’ – misterium lunae – e come tale interessa i credenti perché proprio così esige una costante scelta spirituale.

Siccome il significato contenuto in questa immagine mi sembra di importanza decisiva, prima di tradurlo in affermazioni di principio, preferisco chiarirlo meglio con un’altra osservazione.
Dopo la traduzione della liturgia della Messa, avvenuta in seguito all’ultima riforma, recitando il testo prescritto incontravo ogni volta una difficoltà, che mi sembra chiarire ulteriormente l’argomento di cui ci stiamo occupando. Nella traduzione del Suscipiat si dice: «Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio…per il bene nostro e di tutta la sua santa chiesa». Io ero sempre tentato di dire «e di tutta la nostra santa chiesa».
Ricompare qui tutto il nostro problema e il cambiamento operatori in questo ultimo periodo. Al posto della sua chiesa è subentrata la nostra, e con essa le molte chiese; ognuno ha la sua. Le chiese sono diventate imprese nostre, di cui ci vantiamo oppure ci vergogniamo, piccole e innumerevoli proprietà private disposte una accanto all’altra, chiese soltanto nostre, nostra opera e proprietà, che noi conserviamo o trasformiamo a piacimento. Dietro alla «nostra [89] chiesa» o anche alla «vostra chiesa» è scomparsa la «sua chiesa».
Ma è proprio e soltanto questa che interessa; se essa non esiste più, anche la ‘nostra’ deve abdicare. Se fosse soltanto la nostra, la chiesa sarebbe un superfluo gioco da bambini.

Scritti di Joseph Ratzinger 



[nota 1] M. EliadeDie Religionen und das Heilige, Salzburg, 1954, p. 215 [trad. it., Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1954, p. 192]. Cfr. qui anche l’intero capitolo: Mond und Mondmystik, pp. 180-216 [trad. it cit., pp. 158-192 (La luna e la mistica lunare)].

[nota 2] Cfr. H. RahnerGriechische Mythen in christlicher Deutung, Darmstadt, 1957, pp. 200-224 [trad. It., Miti greci nell’interpretazione cristiana, Il Mulino, Bologna 1971, 189-197]; Id., Symbole der Kirche, Salzburg 1964, pp. 89-173 [trad. it., L’ecclesiologia dei Padri. Simboli della Chiesa, Paoline, Roma 1971, pp. 145-229]. Interessante l’osservazione secondo cui la scienza antica discusse a lungo sulla questione se la luna avesse o no luce propria. I Padri della chiesa sostennero la tesi negativa, diventata nel frattempo comune, e l’interpretazione in senso teologico-simbolico (cfr. specialmente p. 100 [trad. it., L’ecclesiologia dei Padri, cit., 161ss.).



[nota 3] AmbrosiusExameron IV 8, 32, CSEL 32, 1, p. 137. Z 27ss. [trad. It, I sei giorni della creazione, in Opera omnia di Sant’Ambrogio 1, Ambroniana – Città Nuova, Milano-Roma 1979, 231], RahnerGriechische Mythen, cit., p. 201 [trad. it. cit., p. 192]

Gesù mio, credo in Te, spero in Te,
amo Te e mi dono a Te!

"AVE MARIA!"


"Ave Maria" . E’ un saluto che monda le labbra e il cuore perché non si possono dire queste parole, con riflessione e sentimento, senza sentirsi divenire più buoni! E’ come avvicinarsi a una sorgente di luce angelica e a un’oasi fatta di gigli in fiore.

Ave, la parola dell’angelo che c’è concesso di dire per salutare Quella che salutano con amore le Tre Eterne Persone, l’invocazione che salva (…) se detta come moto dello spirito che s’inchina davanti alla regalità di Maria, e si tende verso il suo Cuore di Madre. 


Se voi sapeste dire con vero spirito queste parole, anche solo queste due parole, sareste più buoni, più puri, più caritatevoli, perché gli occhi del vostro spirito sarebbero allora fissi in Maria e la santità di Lei vi entrerebbe nel cuore attraverso questa contemplazione. Ella è la fonte delle grazie e della misericordia. 3.9.43 

MADRE della DIVINA PROVVIDENZA 
prega per noi!

«Il nome di Maria», riprendeva sant'Antonio, «è gioia per il cuore, miele per la bocca, melodia per l'orecchio»


O DOLCE VERGINE MARIA

Quanto è dolce in vita e in morte il nome di Maria

Il nome augusto di Maria dato alla divina Madre non fu trovato sulla terra né inventato dalla mente o dalla fantasia degli uomini, come avviene per tutti gli altri nomi, ma scese dal cielo e fu imposto per ordine divino, come attestano san Girolamo, sant'Epifanio, sant'Antonino e altri. «Il nome di Maria, dice Riccardo di san Lorenzo, è stato tratto dal tesoro della Divinità». «O Maria, tutta la Trinità ti diede tale nome, superiore a ogni nome dopo quello del Figlio tuo» e lo arricchì di tanta maestà e potenza che «al proferirsi del tuo nome volle che tutti prostrati lo venerassero, il cielo, la terra e l'inferno». Tra gli altri pregi che il Signore ha dato al nome di Maria, vediamo ora quanto lo ha reso dolce ai servi di questa santa Regina, così in vita come in morte.

Anzitutto, parlando del tempo della vita, il santo anacoreta Onorio diceva che il nome di Maria è pieno di ogni dolcezza divina. Sant'Antonio da Padova trovava nel nome di Maria le stesse dolcezze che san Bernardo trovava nel nome di Gesù. «Il nome di Gesù», diceva san Bernardo; «Il nome di Maria», riprendeva sant'Antonio, «è gioia per il cuore, miele per la bocca, melodia per l'orecchio» dei suoi devoti. Il venerabile Giovenale Ancina, vescovo di Saluzzo, come è scritto nella sua Vita, nel nominare Maria gustava una dolcezza sensibile così grande, che «si lambiva le labbra». 



Allo stesso modo, leggiamo che una donna di Colonia disse al vescovo Marsilio che ogni volta che pronunziava il nome di Maria sentiva nella bocca un sapore più dolce del miele. Marsilio seguì la stessa pratica e provò anch'egli quella dolcezza. Il Cantico dei Cantici fa pensare che al momento dell'assunzione della Vergine gli angeli chiesero tre volte il suo nome: «Chi è costei che sale dal deserto come colonna di fumo?» (Ct 3,6). «Chi è costei che sorge come l'aurora?» (Ct 6,10). «Chi è costei che sale dal deserto ricolma di delizie?» (Ct 8,5 Vulg.). Riccardo di san Lorenzo domanda: perché gli angeli chiedono tante volte il nome di questa Regina? E risponde che anche per gli angeli era così dolce sentir risuonare il nome di Maria e che perciò fanno tante domande.
Ma io non parlo qui della dolcezza sensibile, che non è concessa comunemente a tutti. Parlo della salutare dolcezza di conforto, di amore, di letizia, di fiducia e di forza che il nome di Maria dà comunemente a quelli che lo pronunziano con devozione. Dice l'abate Francone: «Dopo il nome di Gesù, il nome di Maria è così ricco di beni, che sulla terra e nel cielo non risuona altro nome da cui le anime devote ricevano tanta grazia, tanta speranza, tanta dolcezza. Infatti il nome di Maria racchiude in sé un certo che di ammirabile, di dolce e di divino che quando risuona nei cuori amici, esala in essi un odore di santa soavità. E la meraviglia di questo nome è che, udito mille volte dai devoti di Maria, si ascolta sempre come nuovo», perché essi provano sempre la stessa dolcezza nel sentirlo.

Parlando anch'egli di questa dolcezza, il beato Enrico Suso diceva che nel nominare Maria si sentiva talmente riempito di fiducia e così gioiosamente acceso d'amore, che tra la gioia e le lacrime fra cui pronunziava l'amato nome, desiderava che il cuore gli balzasse dal petto fuori della bocca e affermava che quel dolce nome si liquefaceva come un favo di miele nel fondo della sua anima. Perciò esclamava: «O nome tanto soave! Quale sarai tu stessa, Maria, se il tuo solo nome è così amabile e pieno di grazia?».

Rivolto alla sua buona Madre, san Bernardo con amore e tenerezza le dice: «O grande, o pia, degna di ogni lode, santa Vergine Maria, il tuo nome è così dolce e amabile che non può essere pronunziato da nessuno senza infiammarlo d'amore verso di te e verso Dio. Anzi, basta che si presenti al pensiero di quelli che ti amano per consolarli e accenderli sempre più del tuo amore». Se le ricchezze consolano i poveri alleviando le loro miserie, «molto meglio delle ricchezze il nome di Maria ci solleva dalle angustie della vita presente», dice Riccardo di san Lorenzo.

Insomma «il tuo nome, o Madre di Dio, è tutto pieno di grazie e di benedizioni divine», esclama san Metodio. Di conseguenza, attesta san Bonaventura, «il tuo nome non può essere pronunziato senza che apporti qualche grazia a chi devotamente lo nomina». «O dolce Vergine Maria, dice l'Idiota, la virtù del tuo nome è tale, che se viene pronunziato anche dal cuore più indurito, più disperato, mirabilmente scioglierà la sua durezza. Tu conforti i peccatori con la speranza del perdono e della grazia». «Maria, esclama sant'Ambrogio, il tuo nome è un unguento odoroso che diffonde il profumo della grazia divina. Discenda nell'intimo delle anime nostre questo unguento di salvezza». Signora, vuol dire il santo, fa' che noi ci ricordiamo spesso di pronunziare il tuo nome con amore e fiducia, perché è questo il segno che si possiede già la grazia divina oppure è caparra di poter presto ricuperarla.


Sì, poiché «il ricordarsi del tuo nome, o Maria, consola gli afflitti, rimette sulla via della salvezza gli erranti e conforta i peccatori perché non si abbandonino alla disperazione», dice Landolfo di Sassonia. Il padre Pelbarto aggiunge: «Come Gesù Cristo con le sue cinque piaghe ha apportato al mondo il rimedio dei suoi mali, così Maria con il suo solo nome, che è composto di cinque lettere, concede ogni giorno il perdono ai peccatori». Perciò nel Cantico dei Cantici il nome di Maria è paragonato all'olio: «Olio versato è il tuo nome» (Ct 1,3 Vulg.). Il beato Alano commenta: «Come l'olio guarisce gli infermi, sparge odore e accende la fiamma, così il nome di Maria guarisce i peccatori, ricrea i cuori e li infiamma di amore divino». Riccardo di san Lorenzo esorta quindi i peccatori a ricorrere a questo augusto nome che basterà da solo a guarirli da tutti i loro mali, dicendo che non vi è infermità, per quanto grave, che non ceda subito alla forza del nome di Maria.

Al contrario i demoni, afferma Tommaso da Kempis, temono a tal punto la Regina del cielo, che appena udito il suo nome, fuggono come dal fuoco che brucia. La beata Vergine stessa rivelò a santa Brigida: «Non vi è in questa vita nessun peccatore così freddo nell'amore di Dio, che se invocherà il mio nome con il proposito di convertirsi, il demonio non si allontani subito da lui». E un'altra volta le disse: «Tutti i demoni venerano e temono talmente questo nome, che, appena lo odono, subito liberano l'anima dalle unghie con cui la tenevano prigioniera».

Come gli angeli ribelli si allontanano dai peccatori che invocano il nome di Maria, così gli angeli buoni si avvicinano maggiormente alle anime giuste che lo pronunziano devotamente. È quel che la Vergine rivelò a santa Brigida.
San Germano afferma che come il respiro è segno di vita, così il nominare spesso il nome di Maria è segno o che già si vive nella grazia divina o che presto verrà la vita, poiché questo nome potente ha la virtù di ottenere l'aiuto e la vita a chi devotamente l'invoca. Insomma, aggiunge Riccardo di san Lorenzo, «il nome di Maria è come una torre fortissima. Il peccatore che vi si rifugia sarà liberato dalla morte. Questa torre celeste difende e salva tutti i peccatori, anche i più perduti».

Torre di fortezza che non solo libera i peccatori dal castigo, ma difende anche i giusti dagli assalti dell'inferno. «Dopo il nome di Gesù, continua Riccardo, non vi è altro nome in cui si trovi tanto aiuto, da cui venga concessa tanta salvezza agli uomini, quanto dal nome di Maria». Tutti sanno e i devoti di Maria sperimentano ogni giorno che il suo nome augusto dà la forza specialmente di vincere le tentazioni contro la castità. «Il nome della vergine era Maria» (Lc 1,27). Riflettendo su queste parole di san Luca, Riccardo di san Lorenzo osserva che i due nomi: Maria e Vergine sono accostati dall'evangelista affinché comprendiamo che il nome di questa purissima Vergine non deve mai essere separato dalla castità. Perciò san Pier Crisologo afferma che «il nome di Maria è indizio di castità», volendo dire che chi nel dubbio di aver peccato si ricorda di aver invocato il nome di Maria, ha una prova certa di non aver offeso la castità.


Quindi seguiamo sempre il bel consiglio di san Bernardo: «Nei pericoli, nelle angosce, nei dubbi, pensa a Maria, invoca Maria. Non si allontani dalle tue labbra, non si allontani dal tuo cuore»: in tutti i pericoli di perdere la grazia divina, pensiamo a Maria, invochiamo Maria insieme al nome di Gesù, poiché questi due nomi sono sempre uniti. Che questi due nomi tanto dolci e potenti non si allontanino mai né dal nostro cuore né dalle nostre labbra, poiché ci daranno la forza per non cedere e per vincere sempre tutte le tentazioni. Quanto sono belle le grazie che Gesù Cristo ha promesso ai devoti del nome di Maria! 
Egli stesso lo fece comprendere a santa Brigida parlando con la sua santa Madre: «Chiunque invocherà il tuo nome con fiducia e con il proposito di convertirsi, riceverà tre grazie singolari: un perfetto dolore dei suoi peccati, la loro soddisfazione, la forza per giungere alla perfezione e per di più la gloria del paradiso. Perché le tue parole sono per me così dolci e così care, che non posso negarti quel che tu mi chiedi».


Sant'Efrem arriva a dire che «il nome di Maria è la chiave della porta del cielo» e perciò san Bonaventura ha ragione di chiamare Maria: «Salvezza di tutti quelli che ti invocano», come se invocare il nome di Maria e ottenere la salvezza eterna fosse la stessa cosa. L'Idiota afferma che la devota invocazione di questo santo e dolce nome conduce ad ottenere una grazia sovrabbondante in questa vita e una gloria sublime nella vita futura. Tommaso da Kempis conclude: «Se cercate, fratelli, di essere consolati in ogni tribolazione, ricorrete a Maria, invocate Maria, onorate Maria, raccomandatevi a Maria. Con Maria godete, con Maria piangete, con Maria pregate, con Maria camminate, con Maria cercate Gesù; desiderate di vivere e di morire con Gesù e Maria. Così facendo, fratelli, andrete sempre avanti nella via del Signore. Maria pregherà volentieri per voi e il Figlio certamente esaudirà sua Madre».



Quanto è dolce in vita il santo nome di Maria ai suoi devoti per le grazie mirabili che ottiene loro! Ma più dolce ancora sarà al momento supremo procurando loro una dolce e santa morte. Il padre Sertorio Caputo della Compagnia di Gesù esortava tutti quelli che si trovassero ad assistere un moribondo a ripetergli spesso il nome di Maria, poiché questo nome di vita e di speranza, pronunziato in punto di morte, basta da solo a disperdere i nemici e a confortare i moribondi in tutte le loro angosce. Anche san Camillo de Lellis raccomandava vivamente ai suoi religiosi di ricordare spesso ai moribondi d'invocare il nome di Maria e di Gesù. Egli lo faceva sempre con gli altri e, come leggiamo nella sua Vita, al momento della propria morte ripeteva gli amati nomi di Gesù e di Maria con tanta tenerezza che ne infiammava d'amore anche chi l'ascoltava. Alla fine, con gli occhi fissi sulle loro immagini adorate e con le braccia in croce, il santo spirò con un'espressione di pace paradisiaca, pronunziando come sue ultime parole i dolci nomi di Gesù e di Maria. «Questa breve invocazione: Gesù e Maria! è facile da ricordare, dolce da meditare, potente a proteggere» contro tutti i nemici della nostra salvezza, dice Tommaso da Kempis.

«Beato colui che ama il tuo nome, Maria!» esclama san Bonaventura. «Il tuo nome è così glorioso e mirabile che tutti quelli che lo invocano in punto di morte non temono gli assalti dei nemici».

Felice colui che avesse la sorte di morire come il padre cappuccino Fulgenzio d'Ascoli, il quale spirò cantando: «O Maria, o Maria, la più bella che ci sia, voglio andarmene in tua compagnia». Oppure come morì il beato Alberico cistercense, di cui si narra negli Annali dell'Ordine che spirò pronunziando il dolce nome di Maria.

Preghiamo dunque, mio devoto lettore, preghiamo Dio che ci conceda la grazia che l'ultima parola sulle nostre labbra sia il nome di Maria, come appunto desiderava e pregava san Germano. O dolce morte, morte sicura quella accompagnata e protetta da questo nome di salvezza, che Dio concede d'invocare nel momento supremo soltanto a quelli che vuole salvi!

Mia dolce Signora e Madre, io ti amo tanto e poiché ti amo, amo anche il tuo santo nome. Propongo e spero con il tuo aiuto d'invocarlo sempre in vita e in morte. Concludiamo dunque con la toccante preghiera di san Bonaventura: «Per la gloria del tuo nome, quando l'anima mia uscirà da questo mondo, vienile incontro, Vergine benedetta, e prendila fra le tue braccia. Non disdegnare allora, o Maria, di venire a consolarla con la tua dolce presenza. Sii tu la sua scala e la sua via per il paradiso. Ottienile la grazia del perdono e l'eterno riposo. O Maria, avvocata nostra, tocca a te difendere i tuoi devoti e prendere a tuo conto le loro cause davanti al tribunale di Gesù Cristo».

GESU' MARIA GIUSEPPE!

La parabola del fariseo e del pubblicano


Le parabole di Gesù
(049)
La parabola del fariseo e 
del pubblicano (523.7 - 523.8)

Un giorno due uomini andati a Gerusalemme per affari salirono al Tempio come si conviene ad ogni buon israelita ogni qualvolta pone piede nella Città Santa. Uno era un fariseo. L'altro un pubblicano.

Il primo era venuto a riscuotere il fitto di alcuni empori e per fare i conti con i suoi fattori che abitavano nelle vicinanze della città. L'altro per versare le imposte riscosse e per invocare pietà in nome di una vedova che non poteva pagare la tassazione della barca e delle reti, perchè la pesca, fatta dal figlio maggiore, le era appena sufficiente per dare da mangiare ai molti altri figli.

Il fariseo prima di salire al tempio era passato dai tenutari degli empori, e gettato uno sguardo in essi empori, vistili pieni di merci e di compratori, si era compiaciuto in se stesso e poi aveva chiamato il tenutario del luogo e gli aveva detto: "Vedo che i tuoi commerci vanno bene".
"Sì, per grazia di Dio. Sono contento del mio lavoro. Ho potuto aumentare le merci e spero di farlo ancora di più. Ho migliorato il luogo, e l'anno veniente non avrò le spese dei banchi e scaffali, e perciò avrò più guadagno."
"Bene! Bene! Ne sono felice! Quanto paghi tu per questo luogo?"
"Cento didramme al mese. E' caro ma la posizione è buona..."
"Lo hai detto. La posizione è buona. Perciò io ti raddoppio il fitto":
"Ma signore" esclamò il negoziante "In tal maniera tu mi levi ogni utile!"
"E' giusto. Devo forse io arricchire te? E sul mio? Presto. O tu mi dai duemilaquattrocento didramme, e subito, o ti caccio fuori e mi tengo la merce. Il luogo è mio e ne faccio ciò che voglio":
Così al primo, così al secondo e al terzo dei suoi affittuari, ad ognuno raddoppiando il prezzo, sordo ad ogni preghiera. E perchè il terzo, carico di figli, volle fare resistenza, chiamò le guardie e fece porre i sigilli di sequestro, cacciando fuori l'infelice.

Poi nel suo palazzo, esaminò il registro dei fattori, trovando di che punirli come fannulloni e sequestrando loro la parte che si erano tenuti di diritto. Uno aveva il figlio morente, e per le molte spese aveva venduto una parte del suo olio per pagare le medicine. Non aveva dunque che dare all'esoso padrone.

"Abbi pietà di me, padrone. Il mio povero figlio sta per morire e dopo farò dei lavori straordinari per rifonderti ciò che ti sembra giusto. Ma ora, tu lo comprendi, non posso".
"Non puoi? Io ti farò vedere se puoi o non puoi". E andato col povero fattore nel frantoio lo privò anche di quel resto di olio che l'uomo si era tenuto per il misero cibo e per alimentare la lampada che permetteva di vegliare il figlio nella notte.


Il pubblicano invece, andato dal suo superiore e versate le imposte riscosse, si sentì dire: " Ma qui mancano trecentosettanta assi. Come mai ciò?"
"Ecco, ora ti dico. Nella città è una vedova con sette figli. Il primo solo è in età da lavorare. Ma non può andare lontano da riva con la barca perchè le sue braccia sono deboli ancora per il remo e la vela, e non può pagare un garzone di barca. Stando vicino a riva poco pesca, e il pescato basta appena a sfamare quelle otto infelici persone. Non ho avuto cuore di esigere la tassa".
"Comprendo. Ma la legge è legge. Guai se si sapesse che essa è pietosa! Tutti troverebbro ragioni per non pagare. Il giovinetto cambi mestiere e venda la barca se non possono pagare":
"E' il loro pane futuro.... e è il ricordo del padre":
"Comprendo. Ma non si può transigere":
"Va bene. Ma io non posso pensare otto infelici privati dell'unico bene. Pago io i trecentosettanta assi."


Fatte queste cose, i due salirono al Tempio, e passando presso il gazofilacio il fariseo trasse con ostentazione una voluminosa borsa dal seno e la scosse sino all'ultimo picciolo nel Tesoro. In quella borsa erano le monete prese in più ai negozianti e il ricavato dell'olio levato al fattore, e subito venduto ad un mercante.
Il pubblicano invece gettò un pugnello di piccioli dopo aver levato quanto gli era necessario al ritorno al suo luogo. L'uno e l'altro dettero perciò quanto avevano. Anzi, in apparenza, il più generoso fu il fariseo perchè dette fino all'ultimo dei piccioli che aveva seco.
Però occorre riflettere che nel suo palazzo egli aveva altre monete e aveva crediti aperti presso dei ricchi cambiavalute.


Indi andarono davanti al Signore. Il fariseo proprio avanti, presso il limite dell'Atrio degli Ebrei, verso il Santo; il pubblicano in fondo, quasi sotto la volta che portava nel Cortile delle Donne, e stava curvo, schiacciato dal pensiero della sua miseria rispetto alla Perfezione divina. E pregavano l'uno e l'altro.
Il fariseo, ben ritto, quasi insolente, come fosse il padrone de luogo e fosse lui che si degnasse di ossequiare un visitatore, diceva: "Ecco che sono venuto a venerarti nella Casa che è la nostra gloria. Sono venuto benchè senta che Tu sei in me perchè io sono giusto. So esserlo. Però, per quanto sappia che soltanto per mio merito sono tale, ti ringrazio, come è legge, di ciò che sono.
Io non sono rapace, ingiusto, adultero, peccatore come quel pubblicano che ha gettato contemporaneamente a me un pugnello di piccioli nel Tesoro. Io, lo hai visto, ti ho dato tutto quanto avevo meco. Quell'esoso, invece, ha fatto due parti e a Te ha dato la minore. L'altra, certamente, la terrà per gozzoviglie e le femmine. Ma io sono puro. Non mi contamino io. Io sono puro e giusto, digiuno due volte alla settimana, pago le decime di quanto possiedo. Si. Sono puro, giusto e benedetto, perchè santo. Ricòrdatelo, o Signore."


Il pubblicano, dal suo angolo remoto, senza osare di alzare lo sguardo verso le porte preziose dell'hecol, e battendosi il petto pregava così: "Signore, io non son degno di stare in questo luogo. Ma Tu sei giusto e santo, e me lo concedi ancora perchè sai che l'uomo è peccatore e se non viene da Te diviene un demonio. Oh! mio Signore! Vorrei onorarti notte e giorno e devo per tante ore essere schiavo del mio lavoro. Lavoro rude che mi avvilisce perchè è dolore al mio prossimo più infelice. Ma devo ubbidire ai miei superiori perchè è il mio pane. Fa', o mio Dio, che io sappia temperare il dovere verso i superiori con la carità verso i miei poveri fratelli, perchè nel mio lavoro non trovi la mia condanna.
Ogni lavoro è santo se operato con carità. Tieni la tua carità sempre presente al mio cuore perchè io, miserabile qual sono, sappia compatire i miei soggetti come Tu compatisci me, gran peccatore. Avrei voluto onorarti di più, o Signore. Tu la sai. Ma ho pensato che levare il denaro destinato al Tempio per sollevare otto cuori infelici fosse cosa migliore che versarlo nel gazofilacio e poi far versare lacrime di desolazione a otto innocenti infelici. Però se ho sbagliato fammelo comprendere, o Signore, e io ti darò fino all'ultimo picciolo, e tornerò al paese a piedi mendicando un pane.
Fammi capire la tua giustizia. Abbi pietà di me, o Signore, perchè io sono un gran peccatore".

Chi si umilia sarà esaltato,
chi si esalta sarà umiliato.